CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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LA SHOA' DEI POPOLI

Ultimo Aggiornamento: 27/01/2021 10:06
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25/01/2013 17:12
 
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SHOA'


PER

NON

DIMENTICARE




 

dr
 




Shoa'  

Una volta un imbianchino di nome Adolf Hitler,
disse, in una birreria: "Se un giorno andro'
al potere, la prima cosa che faro' sara'
distruggere il popolo ebraico"

Alcuni anni dopo, l'imbianchino ando' al
potere, e mise in moto una macchina che
assassino' i nove decimi del popolo ebraico
in Europa.

Questo assassinio di massa si chiama, in ebraico,
Shoa'.
Avvenne durante la Seconda Guerra mondiale,
nello Scorso millennio.

 


Pedro

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25/01/2013 17:25
 
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Il lager di Treblinka

Creazione e organizzazione

Treblinka è un piccolo villaggio posto
lungo l'asse ferroviario Varsavia-Bialystok e situato a circa 50 km a nord-est
di Varsavia. Nel 1941 i tedeschi
vi crearono un campo di lavoro per polacchi ed ebrei destinati a costruire
fossati anticarro e ad estrarre materiali da costruzione. Nel 1942 venne
edificato il campo di sterminio che, insieme a Belzec e Sobibor, era destinato a
far parte della cosiddetta Aktion Reinhard, l'operazione di eliminazione di due
milioni di ebrei concentrati nel Governatorato Generale.

Il campo,
disegnato e progettato da Richard Thomalla, ricalca gli
altri due campi gemelli di Sobibor e Belzec: rettangolare, piccolo (400 metri per
600), unicamente destinato allo sterminio di massa. Una doppia linea di
reticolato elettrificato impediva i tentativi di fuga e diverse torrette di
guardia alte otto metri ospitavano guardie armate.

Il campo era diviso
in tre aree. Un'area era destinata all'accoglienza dei deportati che venivano
fatti scendere dai treni, alla loro svestizione ed al sequestro dei beni di
valore. Una seconda area era destinata allo sterminio vero e proprio. Si
trattava di uno spazio di 200 metri per 250 completamente chiuso dal filo
spinato e separato dal resto del campo nel quale erano state costruite tre
camere a gas di dimensioni piuttosto piccole, circa 4 metri per 4. Collegate a
queste stanze ve ne era una quarta che ospitava un grande motore diesel che
produceva il monossido di carbonio. Il gas veniva pompato nelle stanze per
asfissiarvi le persone attraverso dei tubi che portavano a rubinetti per doccia.
A circa 150 metri dalle camere a gas vi erano delle fosse per il seppellimento.
I prigionieri dall'area di accoglienza raggiungevano l'area di sterminio
attraverso un passaggio assai stretto detto "Il Tubo". Infine una terza area del
campo era destinata agli alloggiamenti delle guardie ucraine e alle SS. Vi erano
diversi baraccamenti destinati ai pochi ebrei da lavoro impiegati nel campo.


Il personale nazista presente nel campo era costituito da circa 30 SS
che avevano, per la maggior parte, maturato una esperienza di morte nel piano di
eutanasia sviluppato in Germania per l'eliminazione dei disabili fisici e
mentali e degli incurabili. A questi si aggiungevano circa 120 guardie ucraine.
Si trattava di prigionieri di guerra ex-sovietici addestrati nel campo scuola di
Trawniki in Polonia per compiti di sorveglianza dei prigionieri.
Pedro

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25/01/2013 17:31
 
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GTR

Quella di Giorgio Perlasca è la straordinaria vicenda di un uomo che, pressoché da solo, nell’inverno del 1944-1945 a Budapest riuscì a salvare dallo sterminio nazista migliaia di ungheresi di religione ebraica inventandosi un ruolo, quello di Console spagnolo, lui che non era né diplomatico né spagnolo. Tornato in Italia dopo la guerra la sua storia non la racconta a nessuno, nemmeno in famiglia, semplicemente perché riteneva d’aver fatto il proprio dovere, nulla di più e nulla di meno. Se non fosse stato per alcune donne ebree ungheresi da lui salvate in quel terribile inverno di Budapest la sua storia sarebbe andata dispersa. Queste donne, a fine degli anni ’80 misero sul giornale della Comunità ebraica di Budapest un avviso di ricerca di un diplomatico spagnolo, Jorge Perlasca, che aveva salvato loro e tanti altri correligionari durante quei mesi terribili della persecuzione nazista a Budapest e alla fine della ricerca ritrovarono un italiano di nome Giorgio Perlasca. Il destino decise che la storia di Giorgio Perlasca venisse conosciuta e ora il suo nome si trova a Gerusalemme, tra i Giusti fra le Nazioni, e un albero a suo ricordo è piantato sulle colline che circondano il Museo dello Yad Vashem. La storia di Giorgio Perlasca dimostra come per ogni individuo è sempre possibile fare delle scelte alternative anche nelle situazioni peggiori, in cui l’assassinio è legge di stato e il genocidio parte di un progetto politico. A chi gli chiedeva perché lo aveva fatto, rispondeva semplicemente: “. . . ma lei, avendo la possibilità di fare qualcosa, cosa avrebbe fatto vedendo uomini, donne e bambini massacrati senza un motivo se non l’odio e la violenza?

http://www.giorgioperlasca.it/default.aspx

Pedro

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25/01/2013 17:39
 
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I Giusti
 
KIU

Sul viale alberato che nel Memoriale dello Yad Vashem a Gerusalemme conduce verso la Tenda della Rimembranza, ove arde la fiamma perenne in ricordo dei milioni di ebrei caduti vittime della Shoah, ci si accorge che ai piedi dei tronchi numerose piccole lapidi portano il nome di persone di tantissime e diverse nazionalità. Quei nomi corrispondono a persone che hanno saputo proteggere il valore e la dignità dell’uomo in un periodo tanto buio della storia europea e mondiale e che hanno dato lustro alla loro nazione. Sono i Giusti. I Giusti sono semplicemente delle persone normali che posti di fronte all’ingiustizia reagiscono sapendo opporsi anche a rischio della propria vita. Sono i non ebrei che durante la Shoah salvarono la vita di almeno un ebreo senza trarne alcun vantaggio personale. La loro esistenza stessa dimostra che anche nelle situazioni peggiori, in cui l’assassinio era diventato legge di stato e il genocidio parte di un progetto politico, è comunque sempre possibile per tutti gli esseri umani fare delle scelte alternative. Il termine Giusto ha come riferimento una storia biblica, quando Dio minacciò di distruzione le città di Sodoma e Gomorra, perché considerate luogo di peccato e di corruzione. Abramo cercò di convincere Dio a fare un passo indietro e ad avere pietà degli abitanti. In un dialogo concitato gli domandò se di fronte alla presenza di 50 Giusti in quelle città avrebbe portato a termine la distruzione delle stesse. Dio gli rispose che se li avesse trovati si sarebbe astenuto dalla punizione. Abramo timoroso che un tale numero di Giusti fosse troppo alto, cercò di mercanteggiare il loro numero. Da 50 a 45, da 40 a 30 e così via. Dio accettò il numero di 10 Giusti per salvare la città ma ne venne trovato uno solo di nome Lot e Sodoma e Gomorra vennero distrutte.    Esiste poi un racconto della tradizione ebraica che da un vestito a queste persone, che ne fotografa l’immagine e il modo di pensare: “ . . . esistono sempre al mondo 36 Giusti, nessuno sa chi sono e nemmeno loro sanno d’esserlo ma quando il male sembra prevalere escono allo scoperto e si prendono i destini del mondo sulle loro spalle e questo è uno dei motivi perché Dio non distrugge il mondo”.  Finito questo periodo hanno la capacità e l’umiltà di tornare tranquillamente alla vita normale di tutti i giorni, non raccontando nulla di quanto fatto, per un semplice motivo: ritengono d’aver fatto solo il proprio dovere di uomini, nulla di più e nulla di meno. E chi compie il proprio dovere non deve avere una ricompensa. Questa è uno dei motivi per cui molte storie di Giusti sono uscite con estremo ritardo e per caso in quanto mai raccontarono le loro avventure. In Israele Yad Vashem è l’Istituto che dal 1953 concede il titolo di “Giusto fra le Nazioni”; una sorta di tribunale del bene in quanto non commina una pena ma concede dopo una lunga ed approfondita istruttoria questo titolo, puramente onorifico, ma di estrema importanza morale.
Due sono i requisiti per avere questo riconoscimento: il primo aver salvato la vita di un ebreo durante gli anni terribili della Shoah, il secondo che la storia, la vicenda non può essere raccontata da loro ma solo da persone terze, essenzialmente i salvati. Se la raccontassero loro non sarebbero dei Giusti ma semplicemente degli eroi. Importante è questa sottile differenza: il Giusto è un eroe con un piccolo grande valore aggiunto dato dalla capacità di “dimenticare” quanto fatto, mentre un eroe di quanto ha fatto ci vive tutta la vita, se ne vanta, ne trae profitto. Il Giusto non è la persona che si volta dall’altra parte quando vede il dolore, indifferente a quanto succede perché non lo riguarda. E’ la persona che si fa  carico della sofferenza altrui cercando con tutti mezzi di aiutare gli indifesi e i perseguitati. Una sorta di “banalità del bene” intendendo questa espressione come la capacità di riconoscere e di opporsi al male al di la e al di sopra d’ogni ideologia. Una sorta di dicotomia con “la banalità del male”, titolo di un importante libro di Anna Arendt, studiosa tedesca che ricostruì la vita e la psicologia di Adolf Eichmann, il tristemente famoso organizzatore delle deportazioni verso i campi di sterminio. Catturato dopo la guerra nel 1960 in Argentina ove si era rifugiato, portato a Gerusalemme venne giudicato e condannato a morte. La sua difesa consistette nell’affermare  che aveva solo obbedito agli ordini. Gli ordini erano di organizzare al meglio le deportazioni degli ebrei e lui li aveva tranquillamente eseguiti. Appunto, la banalità del male. Raccontare ai ragazzi la Shoah, lo sterminio premeditato di 6 milioni di cittadini europei di religione ebraica è fondamentale ma se accanto a ciò trasmettiamo le storie di persone normali che seppero dire no, seppero opporsi anche a rischio della propria vita, trasmettiamo un importante valore positivo e cioè che ognuno di noi qualcosa può e deve fare per impedire odio e violenza. Nonostante lo straordinario messaggio morale universale rappresentato dalla foresta di Gerusalemme, l’idea di rendere omaggio ai Giusti è rimasta per troppo tempo limitata esclusivamente alla memoria della Shoah.  
E’ importante, invece, immaginare una grande foresta mondiale a ricordo di tutte gli uomini che nel nostro secolo hanno cercato di reagire nei confronti dei crimini contro l’umanità. Il Novecento è stato il secolo di un genocidio infinito, cominciato con l’annientamento di un milione e mezzo di armeni nel deserto della Mesopotamia, proseguito con la morte di milioni di uomini nei gulag staliniani e nelle campagne cinesi, marchiato dall’immagine della Shoah, di quasi 6 milioni di ebrei scomparsi nelle camere a gas, e poi da nuovi genocidi in Cambogia e Randa e terminato con le macerie della pulizia etnica nei territori dell’ex Jugoslavia. E il 9 dicembre del 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò all’unanimità la “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” considerato il più grave crimine contro l’umanità. A Milano, agli inizi del 2000, da un'idea di Gabriele Nissim e di Pietro Kuciukian, è nato un gruppo di ricerca e di riflessione sul tema dei Giusti con un’idea di fondo: nella storia dell'umanità e nel comportamento degli uomini, accanto al Male, indagato e visibile, è presente anche il Bene. Ed è stato costituito il Comitato promotore della Foresta dei Giusti per mantenere vivo il ricordo dei Giusti attraverso la creazione di luoghi della memoria ove vengono piantati alberi simbolicamente riferiti agli atti di bene compiuti da coloro che, di fronte al male, in particolari situazioni storiche, non hanno voluto rinunciare alla propria dignità e umanità.

Pedro

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25/01/2013 17:41
 
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Genocidio Armeno
 

Durante la prima guerra mondiale (1914-1918) si compie, nell’area dell’ex impero ottomano, in Turchia, il genocidio del popolo armeno (1915 – 1923), il primo del XX secolo. Il governo dei Giovani Turchi, preso il potere nel 1908, attua l’eliminazione dell’etnia armena, presente nell’area anatolica fin dal 7° secolo a.C. Dalla memoria del popolo armeno, ma anche nella stima degli storici, perirono i due terzi degli armeni dell'Impero Ottomano, circa 1.500.000 di persone. Molti furono i bambini islamizzati e le donne inviate negli harem. La deportazione e lo sterminio del 1915 vennero preceduti dai pogrom del 1894-96 voluti dal Sultano Abdul Hamid II e da quelli del 1909 attuati dal governo dei Giovani Turchi. Le responsabilità dell’ideazione e dell’attuazione del progetto genocidario vanno individuate all’interno del partito dei Giovani Turchi, “Ittihad ve Terraki” (Unione e Progresso). L’ala più intransigente del Comitato Centrale del Partito pianificò il genocidio, realizzato attraverso una struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), diretta da due medici, Nazim e Chakir. L’O.S. dipendeva dal Ministero della Guerra e attuò il genocidio con la supervisione del Ministero dell’Interno e la collaborazione del Ministero della Giustizia. I politici responsabili dell’esecuzione del genocidio furono: Talaat, Enver, Djemal. Mustafa Kemal, detto Ataturk, ha completato e avallato l’opera dei Giovani Turchi, sia con nuovi massacri, sia con la negazione delle responsabilità dei crimini commessi. Il genocidio degli armeni può essere considerato il prototipo dei genocidi del XX secolo. L’obiettivo era di risolvere alla radice la questione degli armeni, popolazione cristiana che guardava all’occidente. Il movente principale è da ricercarsi all’interno dell’ideologia panturchista, che ispira l’azione di governo dei Giovani Turchi, determinati a riformare lo Stato su una base nazionalista, e quindi sull’omogeneità etnica e religiosa. La popolazione armena, di religione cristiana, che aveva assorbito gli ideali dello stato di diritto di stampo occidentale, con le sue richieste di autonomia poteva costituire un ostacolo ed opporsi al progetto governativo. L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. Non secondaria fu la rapina dei beni e delle terre degli armeni. Il governo e la maggior parte degli storici turchi ancora oggi rifiutano di ammettere che nel 1915 è stato commesso un genocidio ai danni del popolo armeno. Il 24 aprile del 1915 tutti i notabili armeni di Costantinopoli vennero arrestati, deportati e massacrati. A partire dal gennaio del 1915 i turchi intrapresero un’opera di sistematica deportazione della popolazione armena verso il deserto di Der-Es-Zor.           

FTR

Il decreto provvisorio di deportazione è del maggio 1915, seguito dal decreto di confisca dei beni, decreti mai ratificati dal parlamento. Dapprima i maschi adulti furono chiamati a prestare servizio militare e poi passati per le armi; poi ci fu la fase dei massacri e delle violenze indiscriminate sulla popolazione civile; infine i superstiti furono costretti ad una terribile marcia verso il deserto, nel corso della quale gli armeni furono depredati di tutti i loro averi e moltissimi persero la vita. Quelli che giunsero al deserto non ebbero alcuna possibilità di sopravvivere, molti furono gettati in caverne e bruciati vivi, altri annegati nel fiume Eufrate e nel Mar Nero. Anche qui la presenza di alcuni Giusti permise al mondo di sapere quello che stava succedendo. Ne ricordiamo due Armin T. Wegner  Giacomo Gorrini

Pedro

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25/01/2013 17:43
 
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Gulag
 

i lager sovietici

GULag è l’acronimo, introdotto nel 1930, di Gosudarstvennyj Upravlenje Lagerej, Direzione centrale dei lager. Nel 1918, con l’inizio della guerra civile, fu creata una vasta rete di campi di concentramento per gli oppositori politici. Nel 1919 venne creata la sezione lavori forzati. Il lavoro coatto era previsto come mezzo di redenzione sociale dalla stessa costituzione sovietica. Oltre alla funzione economica e punitiva, alcuni lager ebbero anche la funzione di eliminazione fisica dei deportati. Comunque, le condizioni generali entro le quali i deportati erano costretti ad operare rendevano naturale la morte per stenti. Disseminati nei luoghi più inospitali dell’URSS, dalle isole Solovki alla Kolyma, una zona mineraria siberiana, i lager sovietici furono 384.

KIU

Oltre ai lager veri e propri vennero istituite le “zone di popolamento speciale”, per la colonizzazione e lo sfruttamento delle regioni più inabitabili dell’URSS. Il sistema GULag caratterizzò tutto il periodo leniniano e staliniano e cominciò ad essere riformato soltanto dopo la morte di Stalin, avvenuta nel 1953. Nel 1956 ne rimanevano 37. La chiusura dell’intero Arcipelago si avrà nel 1987, con Gorbaciov. Si deve allo scrittore Aleksandr Solzenicyn l’espressione “Arcipelago GULag”, titolo di un’opera monumentale e fondamentale, pubblicata nel 1971. Andrej Sacharove Andrej Sinjavskij furono altri scrittori del dissenso che fecero conoscere all’estero l’universo dei Gulag. Le cifre dello sterminio sono ancora molto incerte. Si calcola che all’interno del sistema GULag siano passate tra i 15 e i 20 milioni di persone, ma che contemporaneamente non ne siano state presenti più di 3 milioni. Il tasso di mortalità mensile in certi lager superava il 10%; a Kolyma, con temperature di 50-60° sottozero, raggiungeva il 30%.

JUY

Il sistema GULag si inserì, poi, nel contesto generale del Grande Terrore scatenato da Stalin negli anni 30 e rappresentò solo uno dei metodi di eliminazione degli avversari, “dei traditori” e soprattutto dei nemici di classe. Uno per tutti, l’Holodomor («fame di massa») utilizzato in Ucraina all’inizio degli anni ’30 per piegare la resistenza dei contadini alla collettivizzazione della terra e che portò a oltre 7 milioni di morti, la gran parte bambini, per fame programmata. Alla fine furono varie decine di milioni le vittime del comunismo sovietico all’epoca di Stalin anche se una cifra esatta non è possibile averla. Solzenycin e altri dissidenti hanno ipotizzato la cifra di 60 milioni. La responsabilità di questo sistema concentrazionario, che ha fatto uso del terrore ed ha imprigionato persone che appartenevano a tutte le classi sociali, è tanto di Lenin, che ne è stato l’iniziatore, quanto di Stalin, che, con l’avvio dei piani quinquennali, ha ampliato e potenziato il sistema di lavoro coatto. Con loro ne portano la responsabilità anche la potente polizia segreta, l'NKVD, tutto il sistema giudiziario sovietico e i dirigenti ai quali il sistema fu dato in gestione. Tra questi, Lavrentji Beria, uno dei più feroci collaboratori di Stalin, che alla fine degli anni Trenta organizzò anche un laboratorio segreto per sperimentare sui detenuti gli effetti dei veleni chimici. Lenin in una lettera del 1922 scriveva: ” I tribunali non devono eliminare il terrore (…) Il principio del terrore va radicato e legalizzato senza ambiguità o abbellimenti”. La stessa linea verrà seguita da Stalin. I tribunali rivoluzionari prima, e poi le cosiddette “trojke”, triumvirati di estrazione politica, ebbero il compito di condannare alla deportazione nei lager sia i criminali comuni sia i controrivoluzionari. Per questi ultimi esisteva un articolo apposito del Codice penale, l’art.58. Il regime sovietico considerava i criminali comuni “socialmente vicini”, compagni che hanno sbagliato e possono essere redenti. Al contrario i condannati secondo l’art.58 erano considerati “socialmente estranei”, dei nemici irrecuperabili, per i quali il lager era la destinazione finale. L’ideologia alla quale si ispira il potere sovietico è il marxismo–leninismo, che si proponeva di creare una società nuova, eliminando innanzitutto quei gruppi sociali che erano considerati nemici di classe. Il regime instaurato in URSS presenta le caratteristiche di un vero e proprio sistema totalitario, col potere nelle mani di un partito che si identifica con lo Stato e agisce in base ad un’ideologia dominante, che definisce gli obiettivi da raggiungere. La società di massa era completamente controllata dai mezzi di comunicazione e dall’onnipresente polizia segreta. Il mezzo più economico ed efficace usato per mantenere il controllo sulla popolazione ed eliminare il dissenso fu il terrore, che investì ad ondate successive tutte le componenti della società sovietica e in modo assolutamente arbitrario. E’ il fenomeno del nemico oggettivo ovvero di un nemico che non si definisce in base alla sua ostilità verso i detentori del potere, ma in base ad una scelta arbitraria, finalizzata al mantenimento del potere sull’intera società. Dapprima entrarono nei GULag i nemici naturali dello stato sovietico, i nemici di classe: la nobiltà russa, gli imprenditori, i proprietari terrieri, il clero ortodosso e, in generale, tutti i gruppi considerati privilegiati. In seguito le purghe riguardarono tutti i settori della società sovietica, compresi i prigionieri di guerra scampati ai lager nazisti e gli specialisti di vari settori, necessari all’attività produttiva dei lager. Una menzione particolare va fatta per gli ostaggi, scelti tra persone di livello sociale elevato, con lo scopo di ricattare parenti ed amici. All’interno dei campi uomini e donne lavoravano a ritmi disumani, controllati da una gerarchia interna di capisquadra scelti tra i criminali comuni. La costruzione di dighe, canali, strade, nuovi insediamenti urbani, l’estrazione mineraria e la produzione di legname furono tra le attività più frequentemente demandate al lavoro coatto. Le condizioni climatiche spesso estreme, la fame perenne, le fucilazioni arbitrarie, i ritmi di lavoro massacranti e finalizzati al raggiungimento di obiettivi produttivi impossibili, la costante violenza psicologica tesa all’annientamento della volontà individuale furono le caratteristiche costanti dei GULag sovietici. Quando nell'agosto 1946 il premier britannico Winston Churchill pronunciò all'Università di Fulton, Missouri, il famoso discorso della "cortina di ferro", nessuno in Occidente poteva anche lontanamente immaginare che, al di là di quella metaforica divisione che si ergeva "da Stettino a Trieste", la soppressione della libertà avesse raggiunto, già da decenni, una scientifica applicazione di morte.

Pedro

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25/01/2013 17:47
 
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FOIBE
 
 

Le Foibe e l’Esodo

Parliamo dell’Istria, penisola tra i golfi di Trieste e del Quarnaro, della Dalmazia, la fascia costiera  che dal golfo del Quarnaro scende sino all’Albania, e della Venezia Giulia (Trieste, Gorizia). 
La loro storia è italiana, prima romana poi dopo varie vicissitudini veneziana: l’Istria nel 177 a.c entrò nell’orbita romana e nel 27 a.c. Augusto le concesse la cittadinanza romana (ricordiamo l’Arena di Pola). Anche la Dalmazia entrò nell’orbita romana, nel 117 a.c. e fu la terra di quattro imperatori, il più rilevante Diocleziano. Ambedue, dopo le complesse vicende delle invasioni barbariche, impero bizantino, Sacro Romano Impero evidenziarono un rapporto sempre più stretto con Venezia finché dopo il 1400 le città costiere si unificarono sotto l’insegna del leone di S. Marco. E le città delle coste istriane e dalmate sotto l’ala del leone di San Marco si svilupparono sul piano commerciale e fiorirono  sul piano artistico e culturale. Si parlava il dialetto veneto. Nel 1797 con il trattato di Campoformio Napoleone cedette la Serenissima all’Austria. Durante i 121 anni della dominazione austriaca le città della costa orientale erano popolate in prevalenza dall’etnia italiana, le campagne dagli slavi. Il governo asburgico, timoroso delle spinte irredentistiche e risorgimentali, favorì lo spostamento degli slavi, sudditi fedeli, verso la costa, chiudendo anche scuole italiane. Il clero, in maggioranza di etnia slava, fomentava l’avversione verso l’Italia, ritenuta laica e miscredente, in quanto colpevole di aver strappato Roma al papato. E le tre etnie balcaniche, sloveni, croati e serbi, divise tra di loro erano accomunate dal disegno di impadronirsi delle terre italiane. Durante la prima guerra mondiale molti irredentisti furono alla testa della campagna per l’intervento dell’Italia nel conflitto contro l’Austria. Basta ricordare Cesare Battisti e Fabio Filzi, impiccati a Trento, Nazario Sauro a Pola e Guglielmo Oberdan a Trieste. Dopo la prima guerra mondiale il trattato di Rapallo nel 1920 assegnò all’Italia, l’Istria, Zara (unica enclave in Dalmazia), le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa e dichiarò Fiume Città libera. Nel 1924 Fiume tornò definitivamente all’Italia con la parentesi dell’impresa di Fiume di Gabriele D’Annunzio. Nel periodo fascista gli scontri tra nazionalismo italiano e slavo si acuirono. Indubbiamente sin dall’inizio abbiamo varie leggi tese alla italianizzazione forzata: nel 1923 la legge Gentile stabilisce che nelle scuole non vi sia spazio per le lingue minoritarie, nel 1925 si proibisce l’uso delle lingue diverse dall’italiano nell’amministrazione pubblica, nel 1927 vengono soppresse le organizzazioni culturali, ricreative e culturali slovene e croate. Con Regio decreto del 1927 venne imposta l’italianizzazione dei cognomi anche se non trovò mai piena applicazione. Provvedimenti illiberali certo ma inseriti in un contesto di un mondo che non rispettava le minoranze (dalla Francia, alla Germania, alla Romania, Ungheria e alla stessa Jugoslavia), a parte la parentesi felice dell’impero austro-ungarico. E venne il dramma delle Foibe: cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo. È in quelle voragini dell’Istria che fra il 1943 e il 1947 sono gettati, vivi e morti, quasi diecimila italiani. La prima ondata di violenza esplode subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone. Li considerano “nemici del popolo”. La vicenda di Norma Cossetto è emblematica e diventerà un simbolo di quel periodo terribile. La seconda nel novembre del 1944 a Zara. Dopo l’8 di settembre del 1943 la città venne occupata dai tedeschi. Tito chiese agli anglo americani di bombardarla per una presunta rilevanza militare del piccolo porto commerciale, che in effetti non aveva, e in un anno fu sottoposta a 54 bombardamenti con oltre 4000 morti. Il 1 novembre 1944 quando già i tedeschi abbandonarono la città, i partigiani di Tito entrarono in una città distrutta ed inerme. Subito iniziarono le esecuzioni degli italiani, fucilati o affogati, perché lì foibe non ce ne sono… ma vi è il mare. Ma la violenza aumenta nella primavera del 1945, quando le truppe di Tito occupano Trieste, Gorizia e l’Istria e si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le Foibe e ad andare nei campi di concentramento ci sono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. È una carneficina che testimonia l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti e gli italiani. Anche 39 sacerdoti vennero uccisi. E si leva la forte voce del Vescovo di Trieste e  Capodistria, Monsignor Antonio Santin. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, viene fissato il confine fra l’Italia e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce. Il 10 febbraio del 1947 l’Italia ratifica il trattato di pace e la fascia costiera dell’Istria (Capodistria, Pirano, Umago e Cittanova ) passa sotto amministrazione jugoslava (zona B); il resto dell’Istria, Fiume e Zara passano in maniera definitiva sotto sovranità jugoslava. La fascia costiera da Monfalcone a Muggia va sotto amministrazione alleata (zona A) mentre Gorizia e il resto della Venezia Giulia tornano sotto la sovranità italiana. Trecentocinquantamila persone si trasformano in esuli. Scappano dal terrore, non hanno nulla, sono bocche da sfamare che non trovano in Italia una grande accoglienza. La sinistra italiana li ignora: non suscita solidarietà chi sta fuggendo dalla Jugoslavia, da un paese comunista alleato dell’URSS, in cui si è realizzato il sogno del socialismo reale. La stessa classe dirigente democristiana considera i profughi  “cittadini di serie B” e non approfondisce la tragedia delle foibe.

RTE

Il 5 ottobre 1954  con il "Memorandum d'intesa" la parte amministrata dagli Alleati (la cosiddetta zona A) viene restituita all'amministrazione dell'Italia. E’ l'atto che permetterà, il 26 ottobre dello stesso anno, il ritorno definitivo di Trieste alla madrepatria. Il 10 novembre 1975 con il trattato di Osimo, nelle Marche, il’allora Ministro degli Esteri Rumor firmò la cessione in via definitiva della zona B alla Jugoslavia. Per quasi cinquant’anni il silenzio della storiografia e della classe politica avvolge la vicenda degli italiani uccisi nelle foibe istriane. È una ferita ancora aperta perché ignorata per molto, troppo tempo. Solo dopo sessant’anni l’Italia con la legge 30 marzo 2004 n° 92 ha riconosciuto ufficialmente questa tragedia istituendo il 10 febbraio come “Giorno del Ricordo”.
http://www.giorgioperlasca.it/Pernondimenticare/FOIBE.aspx

[Modificato da pedrodiaz 25/01/2013 17:48]
Pedro

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26/01/2013 16:57
 
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Pulizia etnica nell’ex-Jugoslavia
 
 

La Iugoslavia federale era costituita da sei repubbliche (Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Macedonia) e due regioni autonome unite alla Serbia (Kosovo e Vojvodina).
Con la morte di Tito, nel 1980, scoppiano le tensioni politiche che sono all'origine della guerra civile tra le varie repubbliche che componevano lo Stato federale. Dal 1990 al 1999, con un precedente nel 1989, quando la Serbia si oppone all'autonomia del Kosovo, le parti in guerra utilizzano a più riprese l’arma della pulizia etnica per prevalere e per eliminare definitivamente l’avversario. I dati sull'entità dello sterminio sono ancora provvisori: la continua scoperta di fosse comuni ne rende incerta la valutazione. In Bosnia, secondo un censimento compiuto dalle Nazioni Unite, fino al 1994 si registrano: 187 fosse comuni, contenenti, ciascuna, dai 3000 ai 5000 cadaveri; 962 campi di prigionia, per un totale di circa mezzo milione di detenuti; 50.000 casi di tortura; 3000 stupri. Alla fine della guerra interetnica, nel 1995, si contarono 250.000 civili uccisi, tra i quali 16.000 bambini, e oltre 3.000.000 di profughi. La responsabilità primaria è da attribuirsi ai serbi, che hanno dato inizio al conflitto, preparato da lungo tempo; ma responsabili sono anche i croati e i musulmani, che a loro volta hanno praticato l'epurazione etnica nei confronti degli altri gruppi. Il Tribunale per i crimini di guerra nell’ex-Iugoslavia, con sede all'Aja, istituito nel 1993, ha sino ad oggi incriminato 91 persone, tra le quali Radovan Karadzic, presidente della repubblica serbo-bosniaca dal 1992, Ratko Mladic, suo generale e Slobodan Milosevic, presidente della repubblica serba dal 1992. A partire dal 1990-1991, con la dichiarazione di indipendenza da parte delle repubbliche di Slovenia e Croazia, si spezza la fragile convivenza ed equilibrio di popolazioni appartenenti a diversi ceppi etnici (serbo, albanese, croato, ungherese, rom), con storie e religioni diverse (cristiani, cattolici e ortodossi;  musulmani; ebrei). L'occasione storica è propizia per la realizzazione della grande Serbia. Già nel 1937 gli estremisti nazionalisti serbi avevano preparato un programma genocidario per il Kosovo, con l'obiettivo di ripulire la Serbia degli elementi stranieri, deportando la popolazione kosovara verso l'Albania e la Turchia. Nel corso della seconda guerra mondiale, peraltro, gli Ustascia ("insorti", movimento fascista fondato nel 1928 da Ante Pavelic, con lo scopo di combattere per l'indipendenza della Croazia) usano in Croazia il metodo della pulizia etnica nei confronti dei Serbi, compiendo un vero e proprio massacro genocidario (300.000 vittime serbe). Su queste vicende storiche si costituisce la certezza serba di rappresentare il "bene", mentre i croati vengono giudicati
"il popolo che ha il genocidio nel sangue". Il movente principale va ricercato nel nazionalismo esasperato, coltivato non solo dai serbi, ma da tutte le parti in causa, che si configura qui come una contrapposizione di tipo etnico- religioso. A questo va aggiunta una rivolta delle campagne contro le città e dei sobborghi periferici contro il centro, secondo un’ideologia che vedeva le città come luoghi di perdizione e la campagna come autentica e originaria fonte della nazione. L'architetto serbo Bogdanovic parla di "urbicidio", inteso come "opposizione manifesta e violenta ai più alti valori della civiltà".

iop

La pulizia etnica, ovvero il tentativo di rendere una data area etnicamente omogenea, usando la forza e l'intimidazione per allontanare da essa persone di un altro gruppo etnico o religioso, caratterizza il decennio 1990-1999, nel corso del quale sia i serbi sia i croati tentano di istituire territori etnicamente omogenei attraverso una guerra totale che coinvolge i civili, rinchiudendoli in lager, e che usa, oltre all'eliminazione fisica e all'espulsione dei membri di altre etnie, anche lo stupro etnico. Il periodo può essere diviso in tre fasi: 1 dal giugno al dicembre del 1991 con gli scontri che accompagnano le dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia 2 dal febbraio del 1992 al dicembre dal 1995, fase legata alla dichiarazione di indipendenza della Bosnia-Erzegovina, che si conclude con gli accordi di Dayton, che definiscono i territori delle tre etnie: musulmana, serba, croata 3 dal 1998 al 1999, in cui si vede il tentativo da parte del Kososvo di ottenere l'indipendenza e quindi la nazione serba fermata dall'intervento Nato.

opu Il ponte di Mostar

E anche in questo contesto di tutti contro tutti, di odio radicato e profondo, di voglia di pulizia etnica si segnalano alcune figure che seppero opporsi e dire di no, rischiando in prima persona la vita e l’emarginazione sociale ed economica. Due nomi fra tutti:Lazar Manojlovic e Jovan Divjak

Pedro

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26/01/2013 17:00
 
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Genocidio in Rwanda
 

Genocidio in Rwanda dei tutsi e degli hutu moderati

dal 6 aprile al 16 luglio 1994 si compie in Rwanda, piccolo stato dell’Africa centrale, nella regione dei Grandi Laghi, il genocidio dei tutsi e degli hutu moderati per mano degli ultrà dell’Hutu Power e dei membri dell’Akazu. La regione Rwanda-Burundi, esplorata a fine ‘800 dai tedeschi, viene affidata con mandato ONU, nel 1924, al Belgio. I belgi si appoggiano nello sfruttamento coloniale all’etnia tutsi, che si era conquistata la corona intorno al 1500, unificando il paese e instaurando un regime monarchico di tipo feudale, sottomettendo gli hutu e i twa. Nel 1933 i belgi inseriranno l’etnia di appartenenza (hutu e tutsi) sui documenti di identità ruandesi. L’appoggio belga ai tutsi termina negli anni ’50, a seguito del malcontento provocato dallo sfruttamento coloniale, che porta gli hutu a ribellarsi ai tutsi e i tutsi a progettare l’indipendenza del paese dal Belgio. I colonizzatori sceglieranno allora di appoggiare la rivolta degli hutu.

 ghj

Mappa del Rwanda

Su una popolazione di 7.300.000, di cui l’84 % hutu, il 15 % tutsi e l’1 % twa, le cifre ufficiali diffuse dal governo ruandese parlano di 1.174.000 persone uccise in soli 100 giorni (10.000 morti al giorno, 400 ogni ora, 7 al minuto). Altre fonti parlano di 800.000 vittime. Tra loro il 20% circa è di etnia hutu. I sopravvissuti tutsi al genocidio sono stimati in 300.000. Migliaia le vedove, molte stuprate e oggi sieropositive. 400.000 i bambini rimasti orfani, 85.000 dei quali sono diventati capifamiglia. Autore del progetto di genocidio è l’Akazu, la “casetta”, il clan familiare del presidente Habyarimana, che ha mobilitato gli estremisti hutu del nord. Questi hanno affiancato all’esercito regolare dei gruppi d’attacco, gli interahamwe, “quelli che lavorano insieme”, presi dalla popolazione civile, li hanno armati ed incitati al genocidio. Tutti gli hutu sono stati chiamati al genocidio: chi non partecipava al “lavoro” era considerato un nemico, e quindi andava eliminato. Questa particolarità del genocidio ruandese è visibile anche dalle cifre: 20.000 circa sono considerati i pianificatori (militari, ministri, sindaci, giornalisti, prefetti, ecc, ); 250.000 circa i carnefici, gli autori diretti dei crimini; 250.000 circa le persone implicate negli atti di genocidio.
Nel novembre del ’94 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha creato il Tpir, il Tribunale penale internazionale per il Rwanda, con sede ad Arusha, in Tanzania. Il Tpir in dieci anni ha giudicato e condannato soltanto una ventina di persone. Per rilanciarne i lavori nel 2003 l’ONU ha designato come procuratore capo, con competenza esclusiva per il Rwanda, Hassan Bubacar Jallow.
Attualmente sono quasi 90.000 i prigionieri detenuti nelle carceri ruandesi.
Di fronte all’impossibilità, per il sistema penale locale, di sottoporre a processo tutti i carcerati, nel 2000 sono state istituite le gacaca, tribunali popolari, che invitano i colpevoli ad ammettere le proprie colpe in cambio di importanti sconti di pena. La pianificazione del genocidio inizia già negli anni ’80, ma ha le sue radici nella formazione, nel 1957, del Parmehutu, il partito per l’affermazione degli hutu, che pubblica il “ Manifesto degli Bahutu”, in cui viene denunciato il monopolio razzista del potere attuato dai tutsi. Negli anni ’60 l’affermazione del Parmehutu porta all’abolizione della monarchia e alla proclamazione della repubblica con Gregoire Kayibanda, che instaura un regime razzista contro i tutsi. Iniziano le persecuzioni razziste contro i tutsi, costretti a cercare rifugio nei paesi confinanti; e continueranno anche col regime di Juvénal Habyarimana, che sale al potere nel ’73 con un colpo di stato, promettendo progresso e riconciliazione. Nel 1987 la diaspora tutsi dà vita all’Fpr, il Fronte patriottico ruandese, con a capo Fred Rwigyema e Paul Kagame, con l’obiettivo di favorire il ritorno dei profughi in patria, anche attraverso la conquista militare del potere. La fine degli anni ’80 vede il Rwanda in piena crisi economica: a fronte di un forte aumento demografico, le risorse agricole del paese restano le uniche e invariate. Le pressioni interne, unite alla richiesta occidentale di democratizzazione, inducono il presidente Habyarimana a varare nel ’91 una nuova Costituzione, che promette il multipartitismo. Mentre continua la guerriglia dell’Fpr, con massacri da ambo le parti, il presidente firma, il 4 agosto 1993, gli accordi di Arusha, che prevedono il rientro di tutti i profughi tutsi e una sostanziale spartizione del potere con l’Fpr. In questo momento comincia la pianificazione vera e propria del genocidio: l’Akazu, il gruppo di potere formatosi attorno al presidente e al suo clan familiare non accetta limitazioni di potere e comincia ad organizzarsi: vengono creati e armati gli interahamwe, milizie hutu irregolari; vengono acquistati dalla Cina, attraverso la ditta Chillington di Kigali, i machete; vengono redatte liste di esponenti tutsi da uccidere; viene lanciata “Radio Machete”, la Radio Televisione Libera delle Mille Colline, per coordinare e incitare gli hutu a “completare il lavoro” di sterminio degli “scarafaggi tutsi”. Il tutto con il sostegno finanziario e militare della Francia. Il movente ideologico fondamentale è il razzismo, importato agli inizi del ‘900 dai colonizzatori belgi, che hanno esaltato l’etnia tutsi al potere. I tre gruppi, tutsi, hutu e twa, vivono insieme da almeno 5 secoli e hanno la stessa lingua, religione e cultura. Per la loro conformazione fisica, più vicina agli standard occidentali, i tutsi, alti, magri e dalla carnagione chiara, vengono ritenuti più intelligenti e adatti a gestire il potere; mentre gli hutu, più tozzi e scuri, vengono descritti come rozzi e adatti al lavoro dei campi; i twa, pigmei, sono visti come esseri vicini alle scimmie. Il 6 aprile ’94 l’aereo presidenziale viene abbattuto da un missile mentre è in fase di atterraggio a Kigali. Habyarimana è di ritorno da Dar es Salaam,  dove ha concordato una nuova formazione ministeriale. E’ l’inizio del genocidio. Gli ultrà dell’Hutu Power, con a capo il colonnello Théoneste Bagosora, capo di gabinetto del ministro della difesa, cominciano diffondendo una lista di 1.500 persone da uccidere per prime. Entrano in azione gli interahamwe, che istituiscono delle barriere stradali: al controllo dei documenti le persone che hanno sulla carta d’identità l’appartenenza all’etnia tutsi vengono massacrate a colpi di machete. La radio coordina le operazioni, dà notizie ed esulta per le azioni più spettacolari, ma anche invita i tutsi a presentarsi alle barriere per essere uccisi. Molti adulti si sacrificano, nel tentativo di proteggere e salvare i bambini. Per cancellare i tutsi dal Rwanda i miliziani interahamwe uccidono coi machete, le asce, le lance, le mazze chiodate, le armi da fuoco.
Per i tutsi non esistono luoghi sicuri: anche le chiese vengono violate. Sulle colline di Bisesero decine di migliaia di persone organizzano la resistenza. In aprile gli europei vengono evacuati da Kigali e anche l’ONU decide di ritirare il contingente di pace, mentre discute se si tratti o meno di genocidio. Il 22 giugno i francesi intervengono con un’azione militare umanitaria, l’”Operazione Turquoise”, successivamente riconosciuta dall’ONU: l’intervento viene però utilizzato dai genocidari per proteggere la propria fuga dal paese. Il 4 luglio Paul Kagame, a capo dell’esercito Fpr entra a Kigali. Il 16 luglio 1994 la guerra viene dichiarata ufficialmente finita. Anche in questo immane massacro, di pulizia etnica assoluta  e senza nessuna regola, si distinsero alcune persone, alcuni Giusti che mettendo a rischio la propria vita, le proprie sostanze si opposero e salvarono migliaia di perseguitati. Ne ricordiamo tre: Pierantonio Costa, Jacqueline Mukansonera e Paul Rusesabagina

Pedro

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27/01/2021 10:06
 
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La giornata della memoria a scuola - Evenu Shalom Alehem 
canzone ebraica di pace per bambini



[Modificato da @New 27/01/2021 10:06]

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