CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Roma Papale

Ultimo Aggiornamento: 16/04/2011 18:58
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Lettera Tredicesima

Lettera tredicesima

Il S. Uffizio

Enrico ad Eugenio

Roma, Aprile 1849.

Grazie, mio caro amico: ho saputo dal nostro Console che tu hai spesso domandate le mie notizie, e mi hai offerto cordialmente tutti i soccorsi. Io non mi aspettava meno dalla tua amicizia; ma nell’inferno ove mi trovava non poteva giungermi alcuna notizia. Ora eccomi di nuovo, dopo due anni di pene, ricondotto a vedere la luce del giorno, ed a godere quella libertà che non pensava mai poter riacquistare. Anche tu temevi forse di aver perduto il tuo amico per sempre; ma ecco lo hai ritrovato, e doppiamente trovato: non solo mi ritrovi come l’amico dell’infanzia; ma come un fratello nel comun nostro Padre e Salvator Gesù Cristo. Io, come Saulo di Tarso, per un male inteso zelo religioso, faceva la guerra a Cristo, credendo onorarlo con dottrine e comandamenti di uomini; ma Egli mi ha atterrato con l’afflizione, ed in essa mi si è manifestato. Quello che non hanno fatto le discussioni del mio buon amico Pasquali, lo ha fatto la grazia del Signore. Due anni di prigionia nell’inquisizione, una lunga e seria meditazione sul Vangelo, la sincera e fervente preghiera della fede, mi hanno condotto alla conoscenza del vero Cristianesimo. Il Signore che io mal conosceva, è venuto Egli stesso a cercarmi nella mia prigione, ed il buon Pastore ha ricondotta la pecorella smarrita.

Molte sono le cose che ho da dirti, e non so da dove incominciare: la mia prigionia, il processo, i patimenti, la conversione, la liberazione; sono tutte cose che vorrei dirti ad un fiato: ma ciò essendomi impossibile, incomincerò dalla mia liberazione, e dal darti una idea di quello che sono le prigioni del S. Uffizio; e ciò ti servirà anche di schiarimento per quello che dovrò dirti intorno al mio processo. Non aspettarti però una descrizione studiata, nè una descrizione poetica: io ti dirò con tutta semplicità, secondo il mio solito, quello che io stesso ho veduto.

Era il 27 Marzo (Nota 1 - Decreto di distruzione del S. Uffizio) vicino al tramontar del sole, quando un tumulto, uno strepito di persone che camminavano a gran passi, e mettevano delle voci delle quali non distingueva i suoni, si fece sentire nel corridoio che metteva alla mia prigione. Sentiva aprire con grande fracasso le porte delle prigioni, e quindi sentiva gridi, minacce, bestemmie rimbombare in quel corridoio. Ignaro di quanto era accaduto in Roma, non sapeva a che attribuire tanto strepito, e credeva essere giunta la mia ultima ora; perciò mi gettai in ginocchio, e mi misi a pregare e raccomandare la mia anima a Dio. Sentii allora aprire con impeto la porta della mia prigione, e vidi entrare in essa per il primo un uomo piccolo di statura, che si getta al mio collo, mi abbraccia, e mi bagna con le sue lacrime che cadevano di sotto ai suoi verdi occhiali. Era il ministro Sterbini autore del decreto di abolizione del S. Uffizio. "Voi siete libero, mi disse, e mi lasciò."

Io era eccessivamente debole, e per la lunga immobilità nell’angusta ed umida prigione, aveva quasi perduta la facoltà di camminare. Due uomini di quelli che avevano seguito lo Sterbini, mi presero nelle loro braccia, e mi portarono come in trionfo a traverso del cortile, in mezzo ad una folla di popolo che gridava: "Accidenti al papa! viva la repubblica!" e fui posto in una camera ove erano gli altri prigionieri liberati (Nota 2 - Prigionieri del S. Uffizio: Caschiur), e quivi quel buon popolo, tanto diverso da’ suoi preti, si dava tutte le premure per ristorarci con brodi, vini e cordiali.

Visitate tutte le prigioni, e liberati tutti i prigionieri, lo Sterbini tornò a noi, e domandò a ciascuno di noi, dove volesse essere condotto. Quando la domanda fu diretta a me, risposi, che essendo straniero non aveva parenti in Roma, e lo pregava mi facesse condurre presso il console della mia nazione. "Andrete dal vostro console, mi disse il ministro, ma non in questo stato: bisogna prima che vi rimettiate un poco in forze." Allora uno di que’ signori presenti, mi pregò di accettare la ospitalità nella sua casa: io accettai con gratitudine, fui posto in carrozza, andai in casa di quel buon Romano, e sono ancora con lui, trattato come se fossi sempre stato il più grande amico della sua famiglia, che io non aveva mai conosciuta. Per le premure del mio ospite e le sollecite cure di un ottimo medico da lui chiamato, in pochi giorni fui ristabilito. Intanto la casa del S. Uffizio era aperta al pubblico: un decreto del 4 Aprile aveva ordinato che in luogo di distruggerla per farvi una piazza con la colonna infame, fosse adattata alla gratuita abitazione di povere famiglie, ed i muratori incominciavano i loro lavori a tale effetto. Il mio ospite mi pregò di accompagnarlo, per servirgli di guida onde visitare e conoscere bene quelle prigioni: io, un poco a malincuore, accondiscesi.

L’edificio della inquisizione romana presenta all’esteriore una architettura semplice e severa. La solitudine nella quale si trova, il gigantesco edificio del Vaticano che gli sta sopra, la porta ferrata che ne apre l’ingresso, il cupo silenzio che regna all’intorno, rendono quell’edifizio di un aspetto spaventevole. Esso è composto di due rettangoli ed un trapezio uniti. La prima parte dell’edifizio che mette sulla via è formata dall’antico palazzo di frate Michele Ghislieri, che, divenuto papa sotto il nome di Pio V, trasformò il suo palazzo in carceri inquisitoriali: fu questo Pio V, poi canonizzato, che eccitò Carlo IX alla famosa strage del S. Bartolomeo (Nota 3 - La strage del S. Bartolommeo). L’inquisizione ricevuto in dono quel palazzo lo adattò all’uso di abitazione del reverendissimo padre Commissario, e de’ suoi due compagni, e di monsignor assessore (Nota 4 - Organizzazione del S. Uffizio). L’altra parte del rettangolo è stata aggiunta pei prigionieri.

Salimmo la vasta scala che conduce ad un magnifico loggiato coperto: a sinistra vedemmo una vasta sala che mette a due diversi magnifici appartamenti, uno per monsignore assessore, l’altro per il padre commissario: gli appartamenti erano quasi intieramente sguarniti; perchè que’ reverendi, prevedendo la burrasca, avevano salvata la mobilia. Seguimmo il loggiato, ed entrammo nella sala delle congregazioni ossia del tribunale. Uno stemma colossale di Pio V era sulla facciata in fondo; un seggiolone per il padre commissario, e dietro ad esso un gran crocifisso; una tavola ellittica coperta di un tappeto verde, con una ventina di seggioloni per i consultori; ecco quanto vi era in quella sala (Nota 5 - Come si fanno le congregazioni).

Di là passammo all’archivio. Una iscrizione a grandi caratteri sopra la porta ne vietava la entrata sotto pena di scomunica; ciononostante tutti entravano, ed entrammo ancor noi. Una grande camera, le cui quattro pareti sono coperte di scaffali ripieni di carte, un certo numero di tavole con l’occorrente per scrivere (Nota 6 - Notai. Spontanee); ecco cosa vi era in quella prima camera, che si chiamava la cancelleria. In essa sono tutti i processi moderni dalla metà del secolo passato fino ad ora. Di là si passa alla biblioteca.

Essa è composta dei seguenti libri. Tutta la giurisprudenza della inquisizione; le bolle de’ papi, gli atti de’ concili, le sentenze delle inquisizioni di Spagna, di Portogallo, e di Goa; tutti i libri che parlano delle leggi e della procedura inquisitoriale; tutte le opere che parlano o in favore o contro la inquisizione, pubblicate in qualunque lingua. Quello però che vi è di più prezioso e di più raro è la collezione completa di tutte le opere pubblicate dai riformatori italiani; opere per la maggior parte incognite ai più eruditi bibliofili, perchè distrutte intieramente. Io restai stupito nel vedere quanto avessero scritto gl’Italiani contro la Chiesa romana. Preziosissima poi oltremodo è la raccolta di tutti i manoscritti evangelici dei quali l’inquisizione con i suoi occhi d’Argo ha saputo impossessarsi, e che tutti conserva in quella biblioteca.

La terza parte dell’archivio contiene i processi antichi, incominciando da Pio V. Là il processo di Galileo, di Carnesecchi, di Aonio Paleario, di Luigi Pascali, e di tutti gli altri che capitarono nelle mani del S. Uffizio.

Dall’archivio passammo in un’altra sala tutta sguarnita: due porte laterali mettevano agli appartamenti dei così detti padri compagni. Volli entrare nell’appartamento del secondo compagno, che ben conosceva, essendovi più volte andato per subire gli esami; ma una guardia che era posta sulla porta c’impedì di entrare, facendoci vedere un trabocchetto aperto. Il sangue mi si gelò nelle vene a quella vista, pensando che io molte volte vi era passato sopra, e che avrebbe potuto essere la mia tomba. Domandai se si poteva scendere a vederlo, e la guardia m’indicò una scala. Scendemmo ed essa ci condusse ad una recente apertura praticata nel muro; passata la quale, eravamo nel trabocchetto, illuminato soltanto dalla cateratta aperta. Era un sotterraneo simile ad un sepolcro: una terra grassa nera e molle ne copriva il fondo: una parte di esso era stata sgombrata dalla terra, ed ossa umane scricciolavano sotto i nostri piedi. Non potemmo reggere a tale spettacolo: il mio ospite sbuffava per lo sdegno; io era compreso di orrore ed uscimmo.

Andammo a vedere l’altra parte dell’edificio ove sono le prigioni. Un cortile umido e pieno di ortiche è nel mezzo; all’intorno di esso delle piccole porte con grossi chiavistelli indicano essere quello il locale delle antiche prigioni: tutte le porte erano aperte, ed entrammo in qualcuna di esse. Sono piccole cellette capaci appena di contenere una persona: una piccola apertura quadrata sopra la porta, custodita da grossa e spessa inferriata, dà un barlume di luce ed un poco dell’aria dell’umidissimo cortile. Il pavimento e le mura di esse sono assai umide. Al disotto di queste cellette vi sono le prigioni sotterranee, che da molto tempo non sono più in uso: esse sono formate dagli avanzi dell’antico circo di Nerone che era colà. Que’ ruderi sembrano essere stati sempre condannati a succiare il sangue e le lacrime dei testimoni di Cristo! In uno di questi sotterranei vi era una scala in pietra che metteva ad un sotterraneo più profondo; esso era destinato a ricevere quegli infelici che erano condannati a morire murati (Nota 7 - I murati). I cadaveri che si trovarono in quel fondo indicavano il modo della barbara esecuzione. Si calavano quegli infelici con mani e piedi legati; si seppellivano fino al petto nella calce asciutta mescolata con terra pozzolana, e si lasciavano colà, chiudendo la cateratta di sopra. Le posizioni di quegli scheletri mostravano la orrenda lotta che avean dovuto sostenere prima di trovare la morte.

Uscimmo da quella dimora infernale, e continuammo la visita delle antiche prigioni. Un piccolo corridoio a sinistra del cortile descritto, mette in un altro cortile più piccolo e peggiore del primo. In esso vi sono sessanta cellette ad uso di prigioni, divise in tre piani, venti per piano. In molte di esse vi era un enorme anello di ferro, in modo da aprirsi chiudersi con lucchetto: questo anello in alcune prigioni era incassato nel muro, in altre sopra una pietra del pavimento. In mezzo ad una di coteste prigioni vi era una pietra rotonda: il governo la aveva fatta alzare: essa cuopriva un pozzo, senz’acqua bene inteso, nel quale vi erano degli scheletri. Non si sa se esso fosse servito per i vivi, o per i morti; ma credo per i morti.

Uno spettacolo tenero, in mezzo a tanto orrore, era il leggere le iscrizioni mezzo cancellate che si leggevano sulle mura interne. In una di esse si leggeva: "Il Signore è il mio Pastore, nulla mi mancherà;" in un’altra: "Il capriccio e la scelleraggine degli uomini non giungerà mai a separarmi dalla tua Chiesa, o Cristo mia sola speranza;" in un’altra: "Beati coloro che soffrono per la giustizia, imperciocchè ad essi appartiene il regno de’ cieli." Queste erano le iscrizioni fatte dai perseguitati; vediamo ora quelle de’ persecutori.

Passammo a visitare le prigioni moderne: esse sono divise in due piani: ognuna di esse ha la forma di una cella monacale, ammenochè la finestra è in alto. Sopra ogni porta vi è un crocifisso, non già nella espressione della commovente preghiera "Padre, perdona loro," ma in espressione feroce e minaccievole da incutere spavento. Al di dentro vi è un passo della Bibbia scritto a grandi caratteri; e questi passi contengono quanto vi è di più terribile nella legge e ne’ profeti: mai un passo di perdono, un passo di consolazione: nel dizionario della inquisizione queste parole non si trovano: la misericordia e la compassione verso gli eretici, è secondo la inquisizione un gran peccato, e stabilisce il sospetto di eresia. Nella mia prigione, per esempio, vi era il versetto 6 del salmo CIX: "Costituisci il maligno sopra lui, e fa’ che Satana gli stia alla destra." In altra prigione vi era il versetto

17 dello stesso salmo: "Poichè egli ha amata la maledizione, vengagli; e poichè non si è compiaciuto della benedizione, allontanisi da lui. " In un'altra il versetto 19 del capo XXVIII del Deuteronomio: "Tu sarai maledetto nel tuo entrare, tu sarai maledetto nel tuo uscire."

Ecco un saggio di quello che gli inquisitori scrivevano della Bibbia.

Ci restava a vedere la camera della tortura: essa è in uno de’ più profondi e nascosti sotterranei: non vi è alcuna finestra: una porta ed un camino stabiliscono la corrente d’aria necessaria alla respirazione; non è mai in essa penetrata altra luce che quella delle fiaccole e del braciere. Si scende ad essa per una piccola scala di pietra. Gli strumenti della tortura non vi erano più, perchè a dire il vero è stata abolita fin dal 1815: ma si vedeva ancora il grande uncino, in mezzo alla volta, ove si attaccava la girella per la tortura della corda; si vedeva, in una pietra incassata al muro, il ferro destinato a sostenere l’asse della ruota (Nota 8 - Torture): un grande camino incontro la porta, indicava il luogo della tortura del fuoco. Ora questa camera è ridotta a cantina per tener fresche le bottiglie de’ santi inquisitori.

Vicino a questa cantina, il governo della repubblica aveva fatto rompere un vecchio muro, a cagione di lavori che si dovevan fare; ma Dio volle che s’incominciasse la demolizione da un muro recentissimo, fatto con calce e fango, e datogli una tinta da farlo sembrare vecchio: abbattuta codesta parete, si trovò un’altra cantina; ma invece di bottiglie, si trovarono in essa due forni fatti a guisa di alveari, ed in questi forni vi erano delle ossa umane calcinate. Non puoi credere l’orrore che cagionò ai Romani una tale scoperta: tutti credevano che il supplizio del fuoco fosse abolito; ma la santa inquisizione non deroga mai alle sue leggi: quando non potè più bruciare gli eretici in Campo di Fiore; quando non potè più bruciarli all’aria aperta, perchè si sarebbe veduto il fumo, li abbruciava ne’ suoi forni (Nota 9 - Forni. - Descrizione del S. Uffizio. Uscimmo da tale inferno, per non tornarvi mai più.

Caro Eugenio! Ecco il luogo ove il tuo povero amico ha gemuto per due lunghissimi anni! Ma tutto ben considerato, sono contento di esservi stato; Dio si è servito della iniquità degli uomini, anzi di quegli uomini di cui io aveva la più grande stima, per convertirmi a Lui: senza questa afflizione, io non so cosa sarebbe divenuto di me.

Intanto io non so cosa sia divenuto de’ miei amici. Domani mi occuperò di loro: andrò dal Console Svizzero, e qualche cosa saprò. Oh potessi trovare ancora il mio caro Pasquali!

Non ho ancora determinato ove dovrò andare; ma fino che sono in Roma ti scriverò spesso, e ti racconterò tutta la storia della mia prigionia e della mia conversione.

Addio, caro amico, amami, e credimi sempre il tuo affezionatissimo
Enrico.
Pedro

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16/04/2011 18:50
 
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Decreto di distruzione del S. Uffizio
Nota 1. alla lettera tredicesima di Roma Papale 1882

Nella tornata della Costituente romana del 27 marzo 1849, il ministro Sterbini proponeva il seguente decreto: "È abolito per sempre il tribunale del S. Uffizio: una colonna verrà eretta nella piazza del sito, ove si riuniva, a memoria per i posteri." Questo decreto fu approvato alla unanimità, e per acclamazione, fra gli applausi e le grida di gioia delle tribune.

Questo decreto fu modificato nella tornata del 4 aprile. Sembrò ad alcuni deputati cosa non conveniente al nostro secolo la erezione di una colonna d'infamia; sembrò che si potesse profittare a vantaggio del popolo, di quell'edificio che era stato costruito contro di lui; e, considerando la penuria di case che vi era per la classe operaia, proposero di modificare quel decreto. Ferma restando la perpetua abolizione del tribunale, si propose che l'edificio si adattasse ad abitazioni pe' poveri: così il ministro de' lavori pubblici, lo stesso Sterbini, pose subito mano a' lavori; ma volle che per alcuni giorni restasse aperto al pubblico quell'edificio, acciò il popolo romano vedesse co' propri suoi occhi le iniquità de' suoi preti.
Pedro

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16/04/2011 18:51
 
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Prigionieri del S. Uffizio: Caschiur

Nota 2. alla lettera tredicesima di Roma Papale 1882

Quando queste lettere furono per la prima volta pubblicate in inglese, alcuni buoni Inglesi mi fecero la osservazione che quando fu aperto il S. Uffizio non vi si trovarono prigionieri, perchè Pio IX col suo liberalismo li aveva tutti liberati. Que' buoni Inglesi avevano così sentito dire in Roma da alcuni loro amici del collegio inglese, o da altri amici del papa; ed essi, facili sempre a credere il bene, lo avevano creduto, ed avevano tacciato me di esagerazione. Io, è vero, non era più in Roma in quella circostanza, per cui non posso dire di essere stato testimonio oculare; ma aveva delle corrispondenze, e leggeva i giornali di Roma che rapportavano i dettagli del fatto; e per essi rimando ai miei lettori all'ultima nota di questa lettera.

In quanto al preteso liberalismo di Pio IX a riguardo del S. Uffizio, ecco cosa posso dire. Papa Gregorio XVI era uomo fierissimo contro i liberali; ma di religione se ne interessava assai poco. S'inquietava se gli si parlava di condanne per causa di religione: quasi tutto finiva con un poco di esercizi spirituali. Per esempio, il dottor Mucchielli da molti anni scandalizzava i malati bigotti co' suoi discorsi irreligiosi: il S. Uffizio lo imprigionò, e secondo il codice inquisitoriale doveva avere una forte condanna: papa Gregorio lo mandò a fare gli esercizi nel convento dei cappuccini e tutto fu finito. Il tribunale del S. Uffizio a' tempi di papa Gregorio era divenuto un ausiliare della polizia per iscuoprire i liberali. Alla morte di Gregorio, nelle prigioni del S. Uffizio non vi era che l'arcivescovo Caschiur. Ma appena salito sul trono Pio IX, il S. Uffizio fu rimesso in vigore, e le prigioni si popolarono di nuovo.

Il novantanove per cento de' nostri lettori non conoscono chi fosse l'arcivescovo Caschiur: è un uomo che merita una piccola biografia.

Caschiur (non ricordo il suo nome di battesimo) era un giovane egiziano allievo del collegio della Propaganda di Roma. Era giovane d'ingegno, ma cupo, ambizioso ed ipocrita. Mentre era studente in quel collegio, finse avere una corrispondenza con Mehemet Alì Vicerè di Egitto, il quale gli faceva sperare che si sarebbe fatto cattolico, e con lui quasi tutto l'Egitto, s'egli (Caschiur) fosse andato in Egitto, con qualche carattere ufficiale; e seppe fare così bene che ingannò tutti i cardinali ed anche il papa infallibile; inguisachè Leone XII nel 1824, passando sopra tutti i canoni ed anche al Concilio di Trento, in un solo giorno lo consacrò con le sue proprie santissime mani suddiacono, diacono prete, ed arcivescovo di Tebe. Caschiur non aveva allora che 21 anni. Il giovanetto arcivescovo era ogni giorno invitato a fare funzioni, e specialmente le monache facevano a gara per averlo nei loro monasteri a dire la messa. Tutti gli facevano regali, sicchè mise a parte un buon peculio.

Giunto il tempo della partenza, un vecchio cardinale propose al papa di farlo accompagnare da un uomo maturo che gli facesse da Mentore; e gli fu scelto a tale scopo il P. Canestrari dell'ordine dei Paolotti (non dei Paolotti attuali, ma de' frati di S. Francesco di Paola), parroco di S. Andrea delle Fratte. Partirono per prender l'imbarco a Genova. In quella città, il giovane arcivescovo fu accolto con entusiasmo da' devoti genovesi; ma per certe scroccherie che commise cadde in sospetto al P. Canestrari, il quale da uomo avveduto scrisse a Roma ed in Alessandria. Intanto bisognò partire; ma egli aveva scritto che la risposta fosse fatta giungere a Malta.

A Malta, trovò la risposta di Alessandria e quella di Roma. La prima diceva che Mehemet Alì era andato in furia nel sentire tal cosa; ed aveva promesso che al primo apparire di Caschiur in Alessandria lo avrebbe fatto impalare; la seconda gli diceva, che esaminando meglio la corrispondenza, vi avevano conosciuto l'inganno, quindi con un pretesto lo riconducesse a Roma.

Il P. Canestrari dissimulò, e finse la impossibilità di seguire il viaggio nello stesso legno, e ne noleggiò un altro che andava a Civitavecchia; ma di accordo col capitano doveva prendere il largo per fingere di andare in Alessandria. Così il Caschiur fu condotto a Civitavecchia, e là legato dai carabinieri pontifici fu condotto al S. Uffizio di Roma. Il P. Canestrari fu fatto vescovo, ed il Caschiur in una congregazione generale del S. Uffizio presieduta da quel papa che lo aveva consacrato, fu condannato alla degradazione ed alla stretta prigionia perpetua nelle carceri della inquisizione. Più il papa in quella stessa congregazione assolvè dall'obbligo del giuramento, per quel caso, tutti gli impiegati del S. Uffizio. Ecco come si è potuto tutto saper di lui.

La degradazione si fece in uno degl'immensi saloni del S. Uffizio alla presenza di tutto il Collegio della Propaganda e del Seminario romano: ed ecco come si fece.

Monsignor Vicegerente assistito da due altri vescovi erano seduti avanti l'altare. L'arcivescovo Caschiur è introdotto in tutti i suoi abiti episcopali come se fosse dovuto andare a cantare la messa pontificale. Condotto avanti i vescovi degradanti, gli fu da Monsignor Vicegerente strappato dalle mani il pastorale, e gettato in terra, dicendo un formulario terribile che si legge nel Pontificale romano: nello stesso modo gli fu tolta e gettata la mitra, l'anello vescovile, ed ogni altra insegna di vescovo. Poi con un vetro gli fu raschiata fino al sangue la tonsura, per dimostrare che gli era tolta la consecrazione episcopale.

Degradato da vescovo, restò prete: ed allora si procedè alla degradazione dal sacerdozio, strappandogli dalle mani il calice, togliendogli da dosso la pianeta, e raschiando con vetro le mani per togliere la unzione sacerdotale. Poi si procedè alla degradazione del diaconato, quindi del suddiaconato, poi de' quattro ordini minori. Finalmente, spogliato di tutto restò in sottana. Allora si procedè a togliergli i privilegi clericali: finalmente, strappatagli la sottana da dosso, apparve cogli abiti da galeotto. Allora il vescovo degradante, per mostrare che aveva perduto tutti i privilegi, con un solenne rimprovero gli dà uno schiaffo. A quel segno i birri lo afferrano e lo legano. Allora il vescovo degradante, prendendo un'aria ipocrita, lo raccomanda agli sbirri acciò lo trattino bene.

Quella funzione riuscì così terribile, che molti giovani collegiali svennero, altri ne furono malati.

Da quell'ora il Caschiur fu rinchiuso nelle prigioni. Ma ai tempi di Gregorio XVI, essendo vicino a morte per la mancanza di aria e di moto, il papa ordinò che si mettesse in una buona camera, che si lasciasse liberamente passeggiare ne' cortili interni, ed io lo ho in essi più volte veduto; e permise che due volte alla settimana uscisse accompagnato da un frate a prender l'aria libera della campagna. Così il Caschiur si era rimesso in salute. Ma venuto papa il liberalissimo Pio IX, tutte queste concessioni furono ritirate, e quell'infelice fu rinchiuso di nuovo; dimodochè quando fu liberato dalla repubblica era più morto che vivo.
Pedro

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La strage del S. Bartolommeo
Nota 3. alla lettera tredicesima di Roma Papale 1882

Potremo trovare nelle storie antiche ed anche in quelle del medioevo esempi di barbara ferocia; ma nelle storie moderne de' paesi civili, è impossibile trovare una ferocia maggiore di quella che albergava nel cuore del feroce Michele Ghislieri, che la Chiesa romana venera su' suoi altari sotto il nome di S. Pio V. Abbiamo detto nel testo che questo papa eccitò Carlo IX a fare la strage del S. Bartolomeo: dobbiamo provarlo.
L'autore anonimo, ma cattolico, della storia de' papi (*Histoire des Papes depuis S. Pierre jusque à Benoit XIII: à la Haye chez Ilenry Scheurber 1734, Tom. V, pag. 18), nella vita di S. Pio V scrive: "Pio V riuscì meglio ad imbrogliare le cose di Francia. Egli non poteva soffrire che i Protestanti avessero la libertà di pregare Dio alla loro maniera; e, secondato dalla casa di Guisa, non gli fu difficile fare ricominciare la guerra, persuadendo alla regina madre Caterina dei Medici di mancare di parola al partito calvinista, alla qual cosa quella perfida e crudele principessa aveva già naturalmente grandissima propensione…… La regina aveva stimolato il papa di accordare al re il permesso di alienare una porzione dei beni ecclesiastici fino alla concorrenza di cinquantamila scudi di rendita. Ma il papa invece di far spedire il breve puro e semplice, vi aveva fatto inserire alcune condizioni, capaci di nuocere al re molto più che non gli giovassero i denari del clero. Sua Santità voleva che quella somma fosse impiegata a rinnovare la guerra contro i Calvinisti, e che la corte non facesse con loro nè pace nè tregua, finoacchè non fossero interamente distrutti." Questo fatto dimostra la carità eroica di S. Pio V, il quale non solo eccitava il re, già per sè crudele, alla strage degli Ugonotti, ma con la pienezza del suo potere faceva pagare al clero francese le spese di quella guerra.

Ci si dirà forse, che quell'autore, sebbene cattolico, non era affezionato alla corte di Roma. Ebbene lasciamo quell'autore, e citiamo documenti irrecusabili; le lettere stesse di S. Pio V, che sono state pubblicate a Brusselles e a Parigi. In una di esse il S. papa eccita il re Carlo IX "ad esterminare tutti que' scellerati eretici, a massacrare tutti i prigionieri di guerra, senza aver riguardo per alcuno, senza rispetto umano, e senza pietà; imperocchè non vi poteva nè vi doveva mai esser pace fra Satana e i figli della luce." Essi dovevano essere intieramente sterminati, "affinchè la razza degli empi non pullulasse di nuovo, ed anche per piacere a Dio, il quale preferisce ad ogni altra cosa che si perseguitino apertamente e piamente i nemici della religione cattolica." Quindi, abusando della parola di Dio, spaventava il superstizioso Carlo IX, dicendo che Dio aveva severamente punito Saul e lo aveva privato del regno, perchè aveva usata una qualche misericordia verso gli Amalechiti.

In un'altra lettera allo stesso re, S. Pio V si esprime così: "E questo otterrai (cioè di ristabilire la Francia nel suo splendore), se niun riguardo di persone o di cose potrà giammai indurti a perdonare ai nemici di Dio…… imperciocchè in niun altro modo potrai placare Iddio, se non punirai severissimamente, con le pene dovute, le ingiurie che questi uomini scelleratissimi fanno a Dio."

Temendo il santissimo Pio V che il crudelissimo Carlo IX non fosse abbastanza crudele, scriveva così alla regina madre: "Ci è stato detto che costì vi sieno alcuni i quali si adoperano acciò sieno liberati alcuni di quegli eretici prigionieri, e cerchino rimandarli impuniti. Tu adunque devi fare di tutto acciò cotali scelleratissimi uomini sieno puniti co' dovuti supplizi." In un'altra lettera alla stessa, scrive lo stesso santo: "Guardati bene, carissima figlia in Cristo, dal credere che si possa fare qualche cosa più cara e più accetta a Dio, fuori di quella di distruggere i suoi nemici per amore della religione cattolica." Così insegnava la religione un papa che la Chiesa romana venera su' suoi altari!

Ma non solo il re e la regina, bensì tutta la famiglia reale voleva questo papa istruita in codesta infame (ho fallato, santissima) dottrina. Egli scriveva al Duca d'Anjou: "Tu proverai non solamente di fare in tutti i modi che si faccia luogo alla giustizia ed alle leggi, e che non si pecchi giammai per indulgenza; ma ti mostrerai altresì inesorabile verso coloro che ardiranno supplicarti a favore dei scelleratissimi eretici." Così il santissimo Pio V preparò la strage del S. Bartolomeo.

La storia di quell'orribile tradimento è nota a tutti per non doverla ripetere in questa nota. Ma i preti, falsando sempre la storia, dicono che essa fu fatta a loro insaputa, e contro la loro volontà: e che poi fu piccola cosa, e non tale come la hanno esagerata i Protestanti. Noi abbiamo già veduto come essa fosse preparata dal Santo Pio V: vediamo come essa fosse accolta da Roma quando fu eseguita.

Giacomo Augusto de Thou Presidente del parlamento di Parigi, autore cattolico, nel libro 53 della sua Storia Universale, racconta la gioia che fu dimostrata dalla corte di Roma al primo annunzio della strage eseguita. Il cardinal di Lorena che era allora in Roma, fu preso da tanta gioia a quella notizia che regalò mille scudi d'oro (8,640 fr.), somma enorme per que' tempi, al messo che gli portò così consolante notizia. Ma traduciamo le parole di de Thou: "Giunta in Roma la notizia del massacro di Parigi, la gioia che essa vi arrecò fu al di là di quanto possa dirsi. Le lettere del Nunzio furono lette il 6 settembre nel concistoro: e tosto fu risoluto che il papa accompagnato da' Cardinali andrebbe alla Chiesa di S. Marco per ringraziare Dio solennemente della grazia singolare che aveva fatto alla S. sede ed a tutta la cristianità: che il lunedì seguente si canterebbe una messa di ringraziamento alla Minerva colla assistenza del papa e cardinali, e che si pubblicherebbe un giubbileo universale; perchè i nemici della verità e della Chiesa erano stati massacrati in Francia." Poi racconta che, ad istanza del cardinal di Lorena, il papa andò due giorni dopo in processione alla chiesa di S. Luigi de' Francesi "ove era grande concorso di nobili e di popolo: i Vescovi ed i Cardinali camminavano alla testa della processione; dopo loro venivano le guardie svizzere; poi gli ambasciatori de' sovrani: poi il papa sotto un baldacchino, avendo ai lati due cardinali diaconi. L'ambasciatore dell'imperatore reggeva la coda del papa, invece del padrone. La cavalleria leggiera chiudeva il corteggio. Giunti alla chiesa, il Cardinale di Lorena cantò la messa con una pompa superba; la chiesa era magnificamente parata. Sulla porta vi era una iscrizione, la quale diceva che il Cardinal di Lorena, a nome del re cristianissimo Carlo IX, rendeva grazie a Dio e felicitava il papa, il Sacro Collegio, il Senato e popolo romano del successo stupendo ed incredibile che avevano avuto i consigli, i soccorsi, e le preghiere che la S. Sede, e sua Santità aveva fatte per ben dodici anni."

Tanta fu la consolazione del papa per questa strage, che fece immediatamente dipingere i principali episodi di essa dal celebre Vasari, nella sala de' re al Vaticano, e fece coniare una medaglia col busto del papa da un lato, e dall'altro un angelo colla spada nella destra, e una croce nella sinistra, in atto di uccidere gli Ugonotti, col motto UGONOTTORUM STRAGES 1572. Dopo tali fatti, ci vuole una impudenza singolare per negare che il papa non fosse l'autore di quella carnificina!

Nè si dica che il numero degli Ugonotti uccisi in quella circostanza fu piccolo: fosse stato uno solo, pure il papa sarebbe stato reo di omicidio premeditato con tradimento; ma, secondo tutti gli storici, gli uccisi furono più di quarantamila: e tutti pesano sull'anima di S. Pio V, che la Chiesa romana ha posto su' suoi altari.
Pedro

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Organizzazione del S. Uffizio
Nota 4. alla lettera tredicesima di Roma Papale 1882

Ecco come è impiantato il S. Uffizio di Roma. Il papa stesso ne è personalmente il capo: egli è il grande inquisitore, col nome di Prefetto della Sacra ed Universale Inquisizione Romana. Dodici cardinali, forse per parodiare i dodici Apostoli, sono gl'inquisitori subalterni: il decano del S. Collegio è il Segretario della Inquisizione. Vi è poi un prelato che si chiama Assessore, il quale distribuisce le cause da decidersi ai cardinali inquisitori. Vi è un domenicano con tutti i privilegi di un prelato che è chiamato commissario: egli ha la iniziativa delle cause, distribuisce i lavori ai consultori e presiede alle loro congregazioni. Il P. commissario ha due altri Domenicani che lo aiutano e sono chiamati primo e secondo compagno. I Domenicani del S. Uffizio debbono appartenere alla provincia di Lombardia: è un privilegio di quella provincia. Vi è un avvocato fiscale laico, un avvocato de' riti che non può anche essere laico: suo ufficio è di sostenere i riti della Chiesa romana, ed inveire contro coloro che li attaccano: vi è un avvocato relatore delle cause profane: esso è laico, ed il suo ufficio consiste nel riferire alla congregazione sulle cause d'immoralità con abuso di cose sacre, come confessione, sacramenti ecc. Vi è un capo notaio prete, il quale aiutato da un numero indeterminato di preti sostituti assiste agli esami, mette insieme i processi, ed ordina tutti i documenti. Oltre a ciò vi sono una quantità di scrittori laici, i quali copiano tutti i documenti, fanno copie de' processi e de' voti de' consultori e qualificatori per mandarsi a ciascuno di essi acciò li studino. Tutti gl'impiegati del S. Uffizio debbono prestare giuramento di non rivelare nulla nè direttamente, nè indirettamente di quello che riguarda il s. tribunale: e gl'impiegati laici debbono essere celibi, per la ragione che un uomo ammogliato è qualche volta esposto ad accontentare la curiosità della moglie, e così potrebbe venire conosciuta qualche operazione del s. tribunale.

Tutti questi impiegati, oltre i carcerieri e gl'inservienti, sono stipendiati: oltre ad essi ve ne sono altri non stipendiati, e sono i consultori ed i qualificatori. I consultori sono per lo più appartenenti ad ordini religiosi, e sono in un numero indefinito, nominati dal papa: essi studiano le cause, e si radunano a congregazione nel palazzo dell'inquisizione ogni lunedì , presieduti dal P. Commissario. I qualificatori sono teologi ai quali si rimettono le cause dottrinali per la qualifica delle proposizioni. Per esempio, un individuo è carcerato per materia religiosa: se egli ha scritto o stampato si dànno gli scritti o i libri ai qualificatori, i quali, dopo averli studiati, ne estraggono le proposizioni e le qualificano di eretiche o prossime all'eresia, o scismatiche, o scandalose, ecc. Se l'inquisito non ha scritto, si comunicano ai qualificatori le proposizioni che sono accusati aver dette, per essere qualificate. Così quando un libro è denunciato al S. Uffizio, è mandato prima ai qualificatori, acciò sia esaminato e qualificato. Il giudizio de' qualificatori è passato ai consultori, e poi ai cardinali inquisitori.
Pedro

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Come si fanno le congregazioni
Nota 5. alla lettera tredicesima di Roma Papale 1882

Ecco come si tengono le congregazioni del S. Uffizio. Ogni lunedì mattina alle 8 le carrozze papali chiamate volgarmente frulloni, vanno a prendere i consultori, e li conducono al palazzo dell'Inquisizione. Là presieduti dal P. Commissario, e seduti intorno alla tavola ellittica, discutono sulle cause, e dànno i loro voti. Il voto de' consultori è soltanto consultivo. Il mercoledì vi è la congregazione de' cardinali inquisitori in una sala del convento della Minerva. Monsignor assessore ha già ne' giorni precedenti distribuito il da fare ai cardinali. Il P. Commissario riferisce sul resultato della congregazione de' consultori. I cardinali giudicano le cause già giudicate dai consultori, e dànno il loro voto parimente consultivo. Il giovedì vi dovrebbe essere congregazione generale davanti al papa; ma essa non vi è quasi mai: invece va monsignor assessore, o in caso d'impedimento il P. Commissario, e riferisce la cosa al papa per la decisione definitiva: allora la causa è finita e passa in cosa giudicata.

Quando poi per qualche grave causa si fa la congregazione avanti al papa, essa si fa così. Il papa è assiso sul suo trono, il cardinal decano è assiso sopra uno scabello di legno avanti un tavolino per scrivere. Monsignor assessore ed il P. Commissario sono in piedi uno alla destra, l'altro alla sinistra del papa: i cardinali inquisitori sono seduti sopra due panche di legno nudo: i consultori sono tutti in piedi al di dietro de' cardinali; il capo notaio ed un sostituto sono da un lato, uno per presentare i documenti se sono domandati, l'altro per redigere il verbale. Monsignor assessore legge la relazione dopo la quale il papa interroga i cardinali, sente la loro opinione, e poi pronuncia la sua sentenza. L'accusato non è giammai sentito nè in questa nè in nessun'altra congregazione.

Pedro

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16/04/2011 18:53
 
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Notai. Spontanee
Nota 6. alla lettera tredicesima di Roma Papale 1882

Nelle tavole poste nella prima sala degli archivi scrivono i notai sostituti, sotto la direzione del capo notaio: essi ricevono le denunzie e le spontanee, e scrivono gl'interrogatori e le risposte degli accusati, e le deposizioni de' testimoni.

Mi si domanderà: "Cosa sono le spontanee?" Esse sono le confessioni di coloro che spontaneamente si accusano di qualche delitto appartenente al S. Uffizio. Se la spontanea è fatta dal reo prima che giunga al S. Uffizio la denunzia, allora il reo è assoluto, mediante una salutare segreta penitenza, e quando viene la denunzia si pone in archivio e per quella volta non si procede. Io so di un frate il quale era stato per sedici volte denunciato di avere sedotte delle giovani al confessionale, e non era stato mai punito, perchè sempre, prima che arrivasse la denuncia, egli aveva fatta la sua spontanea.

Però le replicate spontanee si ammettono per questi delitti, non si ammettono per l'eresia: la prima spontanea si ammette per l'eretico occulto, non mai per il dommatizzante; e quando l'eretico anche occulto facesse una seconda spontanea, si procede contro di lui come relapso (ricaduto).

Per facilitare le denunzie, il S. Uffizio di Roma dà la facoltà a confessori, se sono di suo genio, di riceverle: ma questa facoltà deve essere data volta per volta, e per buone ragioni. Per esempio, se la denunciante è una monaca, ed andando il notaio del S. Uffizio al monastero producesse uno scandolo: se è una donna che non potesse per ragioni di famiglia o per timore panico andare al S. Uffizio; se il denunciante è malato ecc. Allora il S. Uffizio dà al confessore un foglio col formulario delle interrogazioni da farsi, ed il confessore deve riportarlo riempito, e firmato con giuramento dal denunciante e da lui. Io ho ricevuto parecchie di queste denuncie, ed in un caso particolare anche una spontanea.
Pedro

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16/04/2011 18:53
 
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I murati
Nota 7. alla lettera tredicesima di Roma Papale 1882

Quando per la iniquità de' tempi (stile clericale) non si potevano più bruciare vivi in pubblico gli eretici e le streghe, il S. Uffizio di Roma inventò il supplizio della muratura, per farli morire senza spargimento di sangue, perchè la Chiesa abborrisce dal sangue: ecclesia abhorret a sanguine. La muratura si faceva in due maniere, cioè quella propriamente detta muratura, e la muratura impropria. La prima era per gli eretici dommatizzanti ostinati; la seconda, per le streghe e stregoni. Ecco some si faceva la prima. Si praticava in un grosso muro una nicchia come se vi si avesse a mettere una statua: poi si metteva ritto in piè in essa il condannato, e si legava bene al muro con cigne, in guisa che non potesse fare il più piccolo moto: allora si cominciava ad alzare il muro dai piedi fino alle ginocchia, ed ogni giorno se ne alzava un pezzetto, ed intanto si dava a mangiare e bere al condannato. Quando il muro era giunto ad una certa altezza, quell'infelice moriva; ma Dio sa fra quali orribili tormenti. Morto che era, si finiva la muratura al pari del muro, e pareva che non vi fosse mai stato nulla.

Il secondo modo di muratura impropria era il seguente. Il condannato era calato in una fossa, mani e piedi solidamente legati: la fossa era tale, che il paziente potesse starvi dentro fino al petto. Allora si riempiva la fossa di calce viva mescolata con pozzolana. Le urine del condannato accendevano la calce viva, ed egli moriva in orribili convulsioni.

Quando poi i tempi divennero sempre più malvagi, si smesse anche la muratura, e s'inventarono i forni. Si accendeva il forno a gran fuoco; quindi si praticava uno spazio nel mezzo del forno, e vi si gettava dentro il condannato mani e piedi legati, e si chiudeva immediatamente sopra lui la bocca del forno: questo barbaro supplizio era stato sostituito al rogo, e Roma ha veduto que' forni con le ossa umane calcinate!
Pedro

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16/04/2011 18:54
 
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Torture
Nota 8. alla lettera tredicesima di Roma Papale 1882

Quale sia la tortura che si dà attualmente nel S. Uffizio di Roma, si vedrà in un'altra lettera. Le antiche torture sono andate in disuso: chi volesse conoscerne i dettagli non avrebbe che a leggere il libro chiamato "L'arsenale della S. Inquisizione." Ma siccome quel libro è raro, così daremo un breve cenno di alcune di quelle torture.

E prima bisogna osservare che la tortura nel dizionario dell'Inquisizione non si chiama sol suo nome, ma si chiama esame rigoroso. Citiamo le parole di quel libro stampato in Roma nel 1730 e dedicato a S. Pietro Martire. Alla pag. 263 della sesta parte al titolo "Della maniera d'interrogare i rei nella tortura," dice: "Il reo (nel codice dell'Inquisizione non vi sono nè accusati nè prevenuti; una volta che si è nelle loro mani, si è subito reij), negando i delitti, ed essi non essendo provati, se nel tempo assegnato per le difese, non ha dato alcuna ragione convincente a sua discolpa; ovvero se, finite le difese, non si è purgato dagl'indizi che si hanno contro di lui nel processo, per trarre da lui la verità, è necessario venire contro di lui all'esame rigoroso; essendo stata inventata la tortura per supplire al difetto delle testimonianze, quando esse non bastano per fornire la prova intera contro il reo: e questo non è punto contrario nè alla mansuetudine, nè alla dolcezza ecclesiastica: anzi quando gl'indizi sono legittimi, sufficienti, chiari, e concludenti nel loro genere, l'inquisitore può e deve farlo senza alcun biasimo, acciò i rei, confessando i loro delitti, si convertano a Dio, e salvino l'anima loro."

La tortura si dava anche ai testimoni, se essi non dicevano quello che voleva la Inquisizione. Nè si creda che il reo confessando si liberasse dalla tortura. Lo stesso libro alle pag. 267, 268 e 270, parla del modo di dar la tortura sopra l'intenzione solamente, per iscoprire quale fosse la sua intenzione nel fare o dire le cose da lui confessate. E se anche su questo avesse confessato, si dava la tortura per iscoprire i complici. Ed anche se per evitare la tortura avesse accusati tutti quelli i cui nomi gli venivano a memoria, si dava la tortura per iscoprirne degli altri: sicchè nessuno era da essa esente.

Circa il modo ipocrita di dare la tortura, ecco le parole del Direttorio degl'inquisitori di Eymeric al titolo "de tertio modo procedendi in causa fidei per tormenta" pag. 480, 481: "Appena pronunciata la sentenza di tortura, i ministri (birri o carnefici) si dispongono a tormentare il reo: e mentre essi preparano l'occorrente, il Vescovo e l'Inquisitore, o personalmente, o per mezzo di altri uomini pii e zelanti nella fede, inducono il reo a confessare liberamente la verità: che se egli non confessa, ordinano ai ministri di spogliarlo (anche se è donna), ed essi ubbidiscono prontamente, non allegri, ma quasi turbati (non laeti, sed quasi turbati), e lo spogliano sollecitamente, e mentre lo spogliano lo inducono a confessare. Che se ancora è ostinato, sia bello e nudo tratto a parte da uomini probi, e gli si prometta salva la vita se confessa, purchè giuri di non ricadere nello stesso delitto… che se nè per minaccie vorrà confessare, allora sia tormentato ecc."

La tortura durava mezz'ora, e la legge vietava di ripeterla; ma gli inquisitori con una distinzione teologica eludevano la legge. Citiamo le parole dello stesso Direttorio nel luogo citato. "Che se, abbastanza tormentato, non vorrà confessare la verità, gli si facciano vedere tutti gli altri tormenti, e gli si dica che bisogna che li provi tutti fino a che non avrà confessato. Che se neppure in tal modo si spaventerà, allora si assegnerà l'indomani, o il giorno dopo per continuare la tortura, non per replicarla; perchè essa non deve essere ripetuta, ma non è proibito di continuarla." Cosa ve ne pare di questa distinzione?

Non diremo nulla della tortura della corda con la quale si slogavano le braccia; perchè essa è abbastanza conosciuta: ed è la tortura più mite che dava il S. Uffizio. Diremo una parola sulla tortura del fuoco e quella dell'acqua.

La tortura del fuoco si dava a questo modo. Il reo, dopo aver sofferta costantemente la tortura della corda, era condotto avanti un camino pieno di carboni accesi: era legato fortemente ad un cavalletto, in modo che non potesse fare il più piccolo movimento; qui sic suppositus, nudatis pedibus, illisque lardo porcino inunctis et in cippis juxta ignem validum retentis. Comprendete? Co' piedi nudi, unti con lardo, e ritenuti con ceppi per mezz'ora sopra un grandissimo fuoco! ecco il misericordioso tribunale de' preti! Ma gl'inquisitori avevano la ipocrita cautela di protestare che se da quella tortura ne avveniva la morte, o altro danno al paziente, ciò non doveva essere attribuito a loro, ma al paziente stesso, perchè non aveva voluto confessare.

La tortura dell'acqua consisteva in questo. Si stendeva il paziente sopra una specie di cavalletto fatto a guisa di mangiatoia; si legava fortemente ad esso: poi un carnefice con una corda per mezzo di un randello stringeva le due gambe ai malleoli, ritenendo sempre in mano il randello; un altro stringeva nello stesso modo i due polsi. Si portava un gran secchio d'acqua, ed un terzo manigoldo, dopo avere con una specie di piccola tenaglia di legno chiuso bene il naso al paziente, poneva con la sinistra nella bocca del medesimo un imbuto, mentre avendo nella destra una tazza, con essa attingeva l'acqua dal secchio, e la versava nell'imbuto: intanto i due altri manigoldi torcevano il randello; e quell'infelice, soffocato dall'acqua, tormentato dal dolore, impedito dal respirare, non potendosi muovere, preso da assalti di tosse, soffriva tormenti che il più delle volte cagionavano la morte per rottura di vena nel petto. E questo tribunale è da' preti chiamato santo!
Pedro

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16/04/2011 18:55
 
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parte 1

Forni. – Descrizione del S. Uffizio
Nota 9. alla lettera tredicesima di Roma Papale 1882

Nella nota VII abbiamo già parlato di questi forni. Noi siamo certi di non aver nulla esagerato; ma siccome le cose di quell'empio tribunale sono al di sopra della umana malizia, così crediamo nostro dovere corroborare quello che abbiamo detto con tre testimonianze uniformi venute da Roma da testimoni oculari.

La prima sia la testimonianza del Contemporaneo, giornale che si pubblicava in Roma nel tempo della distruzione del S. uffizio, e che parla in que' giorni in cui il S. Uffizio era aperto a tutti, e tutti correvano a verificare co' propri occhi. Il Contemporaneo dunque del 7 aprile 1849 dice così:

"Ci mancherebbe il tempo e lo spazio nelle colonne del giornale, se si volessero da noi riunire e pubblicare tutte le prove che abbiamo in mano per dimostrare la religione di Cristo, la più pura e la più umile fra le religioni, esser stata tenuta dai nostri sacerdoti dominatori dello Stato romano come mezzo per acquistare ricchezze e possanza, come pretesto per opprimere i popoli e spegnere in essi ogni germe di libertà. Pure non lasceremo di tempo in tempo di mettere in luce alcuni fatti che sono argomenti irresistibili di quanto dicemmo, e molti di questi fatti ci sono somministrati oggi dalle carte trovate nel locale là dove dimorava la S. Inquisizione, abbenchè siano esse ridotte a poca cosa, avendo avuto tempo i reverendi padri di bruciare o di nascondere i documenti più importanti; della qual cosa non ci mancano prove.

"Si era detto che la S. Inquisizione non era oggi più quel tribunale a cui un tempo sembrava lecito e santo ogni mezzo che fosse buono a scoprire i secreti degli individui e delle famiglie, per aver motivi di togliere e libertà e sostanze e vita senza forme legali, e col più infame despotismo, a coloro che credeva suoi nemici. Erano voci sparse ad arte per far credere che il S. Uffizio dormiva e che stava là come una memoria di una potenza caduta; quel tribunale esisteva ancora in tutta la sua forza, aveva i suoi delatori, i suoi famigliari; si serviva senza scrupolo di tutti i mezzi e perfino delle confessioni per arrivare al suo scopo, andava di accordo col governo come ai tempi antichi, lo serviva fedelmente, e queste due potenze si cambiavano vicendevolmente i complimenti e i favori. Vi era solo una qualche variazione nel genere delle pretese colpe che si cercavano e che si punivano. Nei secoli scorsi i perseguitati erano gli eretici e gli Ebrei; oggi tutte le cure dei reverendi padri erano rivolte a scuoprire i così detti settari, ossia gli uomini che congiuravano per ottenere la libertà e l'indipendenza della loro patria.

"I cardinali non erano così stolti da non associarsi il possente aiuto dell'Inquisizione nelle attive ricerche che facevano contro i liberali, e questa li serviva a meraviglia col pagare i delatori, coll'intimorire le coscienze, col forzare a parlare i moribondi, con tutte quella arti insomma di cui si serviva l'antica Inquisizione per iscoprire gli eretici onde gustare il barbaro piacere di bruciarli. La Inquisizione oggi non torturava, non bruciava, è vero; ma rimetteva la punizione ai tribunali straordinari, e se le condanne di quei giudici infami erano degne della S. Inquisizione ce lo dicano le pene del carcere sofferte da tanti liberali, e gli esilii, e le morti crudeli, e quei tormenti morali che sono superiori assai ai tormenti fisici.

"In data del 15 luglio 1828 il Cardinal Bernetti scriveva al reverendiss. P. Commissario del S. Uffizio una lettera in cui dopo averlo avvertito che certe relazioni ricevute per via diplomatica gli facevano credere all'esistenza di alcuni settari, aggiungeva le seguenti parole:

"Dovendosi preferire in questa natura d'indagini la via di codesto S. Tribunale a quella della Polizia generale, il Cardinale sottoscritto si permette pregare V. S. Rma. a volersene occupare, ed a partecipargli in seguito il risultato delle scoperte ch'ella sarà per fare, onde procederà di concerto alla scelta degli opportuni ripari."

Dopo questo grazioso invito del cardinal Segretario di Stato, la S. Inquisizione raddoppiava il suo zelo, e metteva in opera ogni mezzo di corruzione per appagare le devote brame di S. Eminenza. Molti ed importanti servigi aveva reso quel tribunale al governo fin da quando fu condotto il papa in Roma dalle potenze alleate; lo provano molti documenti che attestano lo zelo dei Domenicani e le scoperte fatte da essi, ma dopo quella lettera i beneficii resi dall' Inquisizione alla Segreteria di Stato crebbero in modo che può asserirsi la maggior parte dei liberali in Roma e nelle province esser stati accusati dai padri inquisitori prima che la polizia ne avesse alcun sentore.

"I due mezzi di cui si servivano erano le delazioni e le confessioni. È vergognosa cosa il dirlo, ma grande fu il numero dei vili che correvano ad accusare i loro compagni. Restino sepolti i loro nomi, e se a costoro arriva il nostro giornale li punisca il rimorso, sola pena che la generosa indole dei liberali vorrà dare ad essi.

"Il mezzo però che si usava a preferenza era lo spavento di una pena eterna, portato nelle anime timorose quando andavano ad accusarsi delle loro colpe, se non rivelavano i nomi dei loro compagni.

"Di quest'arme si faceva grande uso dai confessori in quelli estremi momenti della vita umana in cui lo spirito affievolito e vacillante torna ad essere bambino e cede ad ogn'insinuazione; e in quelle ultime ore di vita, in cui la legge domanda tante e tante cautele perchè sia tenuto per valido un testamento, bastava l'assertiva di un confessore, interessato a farsi onore coi suoi superiori, per render valida l'accusa di un moribondo, accusa che sarà stata bastevole moltissime volte per ruinare tanti onesti cittadini e tante famiglie.

"Fra i nomi rivelati in questi modi si trovano quasi tutti i liberali che hanno sofferto il carcere e l'esilio. Spesso il confessore che rivela le accuse fatte dai moribondi dimentica di porre la solita formula che dice esser stato egli autorizzato a rivelare la confessione dal moribondo.

"Così un certo cappuccino, confessore in uno degli ultimi anni dei detenuti politici nel forte di Civita Castellana, riferisce al vescovo una denunzia contro nove individui fattagli da un condannato moribondo, e il vescovo la rimette al S. Uffizio che secondo il solito la passava alla Segreteria di Stato.

"La smania degl'inquisitori nelle province d'inviare le denunzie ai capi del S. Uffizio in Roma per farsi un merito era così grande che un certo inquisitore di Pesaro inviò in tutta fretta nel 1845 a Roma una copia di alcuni statuti rimessi a lui da un patentato del S. Tribunale, vantandosi di aver fatta la scoperta di una nuova società liberale, la quale aveva per iscopo di far soci in tutto l'orbe ed allettarli con diplomi di onore.

"Quegli statuti erano scritti in francese, e quella bestia d'inquisitore, che non conosceva quella lingua, aveva preso per una secreta società liberale una società di beneficenza istituita in Francia dai nazionali di tutti i paesi per soccorrere i poveri sventurati stranieri che si trovavano in quel regno.

"A quelli statuti era annessa una lunga lista di molte centinaia di soci, fra i quali gli ambasciatori e i consoli di tutte le nazioni.

"È facile il figurarsi la santa gioia del P. Inquisitore nel vedere tanti nomi che egli poteva accusare come ascritti ad una società segreta degna di forca e di galera.

"Vengano ora e la Spagna che ha tanto sofferto per la crudeltà della sua inquisizione e che spinta da un giusto furore bruciò e devastò tutti i conventi dei Domenicani, e la Francia che fu la prima ad alzare la voce contro l'abuso infame che a nome di un Dio di pace si faceva dai crudeli di una religione data agli uomini per la loro felicità, vengono a ricondurre in Roma il dominio temporale dei papi da cui non possono andar disgiunti e i cardinali e i prelati e gl'Inquisitori e tutti coloro infine che han fatto un mercato nel tempio. Se la loro pietà non è ipocrisia, se il loro amore per il pontefice non è menzogna, tolgano ogni speranza ai preti romani di dominare e di arricchirsi, e la religione allora tornerà a fiorire, e il Vangelo tornerà ad essere lo scudo degli oppressi e lo spavento degli oppressori."

Sia il nostro secondo testimone il corrispondente romano del giornale francese Les Archives Evangéliques, il quale come testimone oculare dice:

"J'étais present lorsqu'on commença la visite des cachots du St. Office: j'ai été frappé d'horreur en voyant ce que j'ai vu, en touchant du doigt ce que j'ai touché… Une rangée de cachots fermés de grosses barres de fer formaient le rez-de-chaussée d'une cour carrée… A l'aide d'un passage pratiqué à gauche, on atteint une petite cour intérieure, sur laquelle donnait un triple étage de petits cachots… qui étaient désignés pour servir de logement à 60 prisonniers. Il parait que ces cachots ne suffisaient pas toujours, car derrière la cour il y en avait une rangée supplémentaire… On remaquait dans chacune de ces cellules un énorme anneau de fer, tantôt scellé dans le mur, et tantôt dans une grande pierre enchâssée dans le sol. Une foule d'inscriptions à demi-effacées, se lisent encore sur les murailles de ces cachots: l'une d'entr'elles est ainsi conçue: Le caprice et la mechanceté de l'homme ne parviendont pas à me sépàrer de ton Eglise, o Christ, ma seule espérance! L'officier de garde me conduisit dans un passage inférieur ou les ouvriers foullaient des cachots souterrains. Ils venaient de dégager un escalier encombré de ruines, et ils étaient parvenus à des cellules voutées plus profondes encore… Nous aperçumes dans les enfoncements de la muraille cinq squellettes qui y avaient été placés il y a au moins un siècle et demi. Dans une autre salle, dont le sol était jonché d'ossements et de crânes humains, on voyait un pieu d'environ quatre pieds carrés qui s'élevait perpendiculairment jusqu'au premier étage de l'édifice et se terminait à un corridor conduisant de la salle du tribunal à une rangée d'appartements destinés à l'un des membres du St. Office. Sous ce passage, se trouvait une trappe dont on comprend facilement l'usage. Le sol du cachot inférieur était composé d'une poussière humaine, dans laquelle je trouvai une longue méche soyeuse de cheveux. Nous vîmes, encore deux grands fours, de la forme de deux immenses ruches: ils étaint remplis d'ossements calcinés… Je ne sais si vous accorderez quelqu'intérêt à cette page;… quat à moi, si je n'avais pas vu ces choses de mes propres yeux, je ne me serais jamais douté de rencontrer un tel spectacle dans les bâtiments du Saint Office, dont les descriptions exagerées par l'esprit de parti, me paraissaient sujettes à caution."
Pedro

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parte 2

Non abbiamo tradotta questa testimonianza, perchè non perdesse nulla della sua forza.

Nostro terzo testimonio sia il corrispondente romano della Presse. Ecco le due lettere che egli scrisse nella circostanza della distruzione del S. Uffizio, che furono poi tradotte e pubblicate in italiano.

I. Vicino alla piazza del Vaticano, frammezzo la basilica di San Pietro e'l castello Sant'Angelo, frammezzo l'altare del Cristo ed un mausoleo convertito in carcere dai preti del Cristo, una contrada esiste, che porta un nome funesto, LA CONTRADA DELL'INQUISIZIONE. Ivi è che risiedeva il famoso tribunale che l'altare usò a sgabello del patibolo.

Li quattro aprile 1849 fu dal governo della Repubblica decretato, che sarebbero le fabbriche del Santo Uffizio converse in abituri per famiglie povere la cui stanza attuale troppo ristretta fosse od insalubre.

Le porte che, per tre secoli, aperte non si erano che alle vittime del sospetto, che ai martiri della coscienza, all'onda popolaresca allora cedettero.

Fu l'edificio della Santa Inquisizione romana costrutto in parte circa la metà del secolo decimosesto; è il rimanente un frammento d'architettura semplice e severa quanto lo concedeva l'epoca in cui venne costrutto, epoca che, serbando ancora un vestigio della morente popolare grandezza, andava splendidamente declinando verso la barbarie dell'arte.

Nè dal complesso, nè dai dettagli della costruzione apparente ed esterna, nè punto nè poco rilevasi la destinazione di esso. Altre volte lo chiamava il popolo la prigione dei Luterani e pretendono gli archeologi, le fondamenta di quel tristo edificio posare sulle sepolte rovine dell'antico circo di Nerone, là dove furono tanti Cristiani da belve feroci sbranati.

Può la fabbrica maestra dividersi in tre parti, le quali nell'esterna loro forma presentano due rettangoli ad un trapezio insieme accoppiati; è intieramente separata dagli edifici che l'attorniano, allo scopo per certo di togliere ad ogni profano osservatore la facoltà di penetrare i segreti del tribunale.

La prima parte rettangolare, che mette sulla contrada, apparteneva ad un cardinale, ma la erogò Pio V all'Inquisizione con l'aggiunta di parecchie cellule. Si compone questa parte di due piani di colonne d'ordine toscano, e non offre sulla sua facciata veruna altra ornatura.

La seconda parte, costrutta dopo la prima e nello stesso stile, non ne differisce che per le sue proporzioni che sono minori, e per una maggior semplicità. Era originalmente composta di due piani a colonne; ma circa la metà del secolo decimosettimo fu il piano interno murato esteriormente, allo scopo di costruirne nuove prigioni, probabilmente per essere stata a questa medesima epoca abbandonata una parte delle sotterranee segrete.

Era il resto particolarmente erogato ai famigli del Santo Uffizio, e non vi penetrava nissuno. Alla medesima destinazione, con tutta probabilità, era fatata la terza parte dell'edificio, che mai non fu terminata. Manca affatto l'ala sinistra, ma interseca una grossa ed alta muraglia trasversalmente quelle costruzioni, per togliere ad ogni sguardo umano il penetrare in quel sepolcro de' viventi, dove nel decorso di tre secoli succeduti si sono nel silenzio orribili misteri.

Un dì videsi il governo della repubblica nella necessità di fare, per mancanza d'un acconcio locale, apprestare scuderie per la artiglieria della guardia nazionale in una delle case del Santo Uffizio, cioè sotto la colonnata rinchiusa del secondo cortile di cui abbiamo fatto cenno più sopra.

Il padre Inquisitore domenicano vi dimorava ancora; chè il popolo romano, a dispetto dell'inveterato suo odio per i frati, mai non avea il pensiero avuto di molestarlo. Non oppose l'inquisitore al decreto del Governo che una vana protesta: se lo lasciò protestare, e presi vennero i debiti concerti.

Essendo il foramento d'un muro interiore indispensabile per collocare i cavalli, non tardarono i muratori che procedeano a quella operazione ad incontrare un vano nell'interno del muro che subito si riconobbe per essere un trabocchetto.

Il mistero che sino allora velato aveva tutto ciò che riflettea il Santo Uffizio, era naturale la curiosità stimolasse degli astanti. Si spinse più oltre; subito rimosso l'ingombro, calaronsi in un sotterraneo poco vasto, umido, casso di luce, senza uscita, e che altro selciato non aveva se non una terra grassa, nericcia, al par di quella dei cimiteri.

Erano frammenti d'antiche vesti a metà distrutte dal tempo qua e là sparpagliati, i rimasugli erano quelli delle vestimenta degli sventurati i quali, precipitati dall'alto, morti erano di ferite, d'angoscie, di terrore e di fame. Sembrerebbe un baiocco del tempo di Pio VII, infra quei muffati frammenti rinvenuto, chiaramente accennare all'epoca in cui non era per anco quella stanza delle tenebre e della disperazione murata.

Nel rimestare quella terra grassa ed umida, lunga pezza non si stette d'imbattersi in umane ossa ed in rimasugli di lunghe capigliere, che aveano a donne appartenuto.

Le persone che assisteano a quelle scoperte si portarono un poco di quella terra e dei capelli quale reliquia della clericale tirannide.

Dubitare non puossi che quel trabocchetto inghiottisse le vittime di cui premeva al Santo Ufficio di far scomparire in eterno le traccie. Il condotto per il quale venivano le vittime precipitate nel sotterraneo corrisponde al secondo piano del primo corpo della fabbrica, e precisamente al vestibolo della stanza del secondo padre custode, che di fuga conduceva al salone del tribunale.

Mettono gli altri moderni carceri nel terzo cortile, trasformato oggidì in giardino.

Consta ogni prigione di una piccola cella che poco più capir può d'una sola persona, sì al primo che al secondo piano; divide un lungo ed angusto àndito quelle cellule le une dalle altre, come in un chiostro, e portano le immagini sopra i muri dipinti, e le iscrizioni, che ne sono il commento, l'impronta della terribilità di quella istituzione. È dispietata la corte di Roma; essa ha rilegato il perdono nel cielo.

Ad ogni passo che fassi in quei corridoi, sul sommo di ogni uscio una grande immagine vedete del Cristo, ritratta non già a norma delle evangeliche tradizioni coll'espressione del dolore e della bontà, ma giusta il sistema dell'Inquisizione, minaccevole dall'alto della croce.

È in quelle cellule, ove avea già Napoleone collocato la polizia correzionale, che il Santo Uffizio i monaci e le nonne specialmente custodiva. Erano ancora parecchie di quelle cellule provvedute di letti, ma dappertutto disordine e sudiciume: origlieri, coltri a metà stracciate, sedie fracassate, tavole rovesciate qua e là giaceano frammischiati a vestimenta di prigionieri.

Offrivano altre celle significativi indizi di misteri più schifi: nell'una una gorgiera di donna, in un'altra un piccol cappello che pareva appartenuto avesse ad una giovine ragazza di dieci o dodici anni.

Nelle altre cellule zoccoli e parecchi cordoni da nonne, una conocchia, piccioli panieri contenenti medaglie rosarii, calze non terminate ed ai loro ferri ancora tenendo; infine, un giocattolo e vestimenta da bimbo in culla.


Pedro

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parte 3

Quali moderne vestali avevano dunque espiato col frutto dei loro amori, il delitto del loro cuore?

Quanto a vestimenta ed a vestigia di più antichi inquilini, se ne trovavano in ogni prigione, ed essendo tutto avvolto in un cupo e doloroso mistero, ricomponea la popolaresca fantasia su quelle funebri tracce tragiche storie, e sopra infortunii e creature piangea di cui mai non avea sentito parlare.

Sono coperti i muri di ogni cellula d'iscrizioni fatte dai prigionieri. Sono alcune di esse evidentemente dal dolore e dalla disperazione dettate; ma in generale, portano esse l'impronta della rassegnazione.

Volontà non havvi, per salda che sia, che regga a quel soggiorno, a quei patimenti, a quegli artifici, a quei carcerieri sì provetti nell'arte di ottenebrare l'intelletto più lucido, e di spaurire con lunghi terrori l'animo più risoluto.

Abbondano i sotterranei sotto i due primi cortili e comunicano l'uno coll'altro. Infra quelli che intieramente isolati si trovano, hanno la maggior parte trabocchetti simili a quello che descritto abbiamo, e per cui erano le vittime inghiottite vive. Alcuni di questi sotterranei, dopo aver fatto ufficio di segrete, state sono trasformati in cantine al servizio de' monaci inquisitori, e, crudele derisione! tuttora pendenti si vedono alla volta gli enormi anelli di ferro che prima servirono a porre alla tortura, poscia a sostenere nell'aria fresca della cantina le provviste de' carnefici domenicani.

In una cellula, sul pianterreno del secondo corpo di fabbrica, notossi, incastrata nel pavimento, una lastra quadrata al coperchio d'una tomba somiglievole, venne rimossa, e disvelossi una apertura sboccante in un sotterraneo vuoto, ed è ciò che chiamavasi un VADE IN PACE.

Là pure, una volta la lastra saldamente assettata sul capo del paziente, non penetrava più nè luce, nè frastuono del mondo; e la vittima viva sepolta si moriva di fame tra quattro pareti eternamente fredde e mute - VADE IN PACE!

È stata turata una parte dei sotterranei nel secolo scorso, come all'ispezione dei muri si può riconoscerlo. Nell'uno, vecchi soffitti, ornati di chiesa, tele dipinte per le decorazioni delle grandi feste, ammucchiati erano confusamente in un cantone; essendo stati rimossi, misero in chiaro gli indizi di una scala di pietra, nello spessore del muro praticata e per la quale si volle discendere. In capo ad una trentina di gradini, quella scala dava accesso ad una piccola stanza che di vestibolo serviva ad altre camere di simil conio, ma più grandi. Le vere prigioni di Pio V! Eravi la terra mista con calce, e nei muri avea fatto l'ingegnosa crudeltà di quell'uomo praticare specie di nicchie che ricordavano i loculi degli antichi colombari.

In alcune di quelle sotterranee prigioni, erano i prigionieri seppelliti vivi, tuffati insino alle spalle nella terra mischiata con calce. Risulta ciò chiaramente dalla posizione dei cadaveri che quell'orrida dimora popolavano, e sui quali leggere ancora si potevano i convulsivi moti degli ultimi istanti della vita, per isgabellarsi dalla tenacità della calce che sempre più le loro membra ristringea. Insomma erano stati altri cadaveri posti in lungo, orizzontalmente gli uni allato agli altri, e le teste che a parecchi mancavano di quegli scheletri, ritrovate furono in un cantuccio ammonticchiate.

Il resto dell'edificio è poco notevole. La sala delle sedute del crudel tribunale, la cui presidenza devoluta era al Domenicano commissario della Santa Inquisizione (giacchè sedette sempre il grande inquisitore alla Minerva), trovasi nell'interiore della prima fabbrica. È quella sala semplicissima, ed altri ornamenti non ha se non una colossle statua di Pio V. Al di sopra della sede del padre inquisitore, vedesi un crocifisso che sormonta l'immagine della Chiesa calpestante l'eresia, e presso il terribile Domenico Guzman, col di lui cane che porta una torcia tra i denti. Dai due lati della sede, s'aprono due usci: conduceva quella a dritta alla stanza del primo padre compagno, e quello a manca alla stanza del secondo padre compagno, ossia aggiunto. Erano quei due magistrati già destinati ad assistere il procuratore supremo dell'Inquisizione nello scoprire i delitti, ma principalmente a convertire i rei condannati, funzione alla quale adempivano nel modo seguente:

Terminato il processo, quando al santo tribunale premea il disfarsi d'un reo senza esporre i di lui patimenti agli occhi del pubblico, se lo conduceva dal primo padre compagno, che a pentirsi lo esortava e ad abbandonarsi intieramente alla misericordia divina, che sulla terra lo castigava per glorificarlo nel cielo; lo assediava con insidiose domande per viemeglio conoscere il di lui delitto, o piuttosto per iscoprire le traccie di nuovi rei da tormentare; poscia, benedicendolo se confessato si era e pentito, lo mandava dal secondo padre compagno. Il valletto dell'Inquisizione, che in sull'uscio aspettava e gli usi del luogo conosceva, conduceva allora il paziente verso la stanza dall'altro lato; l'uscio ne apriva e la vittima vi sospingeva; ma, varcata una volta quella soglia fatale, mancava il suolo sotto i piedi dell'infelice, che per sempre nella sua tomba spariva. Leggesi ancora sopra quell'uscio: stanza del secondo padre compagno.

Al disotto di quell'iscrizione sarebbesi dovuto scrivere il verso di Dante:
"Lasciate ogni speranza."
II.È l'edificio dell'Inquisizione quasi intieramente l'opera del pontefice Ghislieri, cui ha la corte di Roma sotto il nome di Pio V canonizzato, e cui l'Italia, da lui coperta di roghi e di prigioni, chiamò frate Michele dell'Inquisizione; è quel soprannome così fatalmente popolare a Roma come nelle Calabrie, nella Toscana, in Venezia, nella Spagna e le Fiandre.

È quel santo l'autore della famosa bolla supra gregem dominicum, che vieta ad ogni medico di visitare per la terza volta un ammalato non munito d'un certificato di confessione generale e di assoluzione.

Abbiamo esaminato sin quì quella metropoli de' tormenti, col seguire l'onda popolaresca stupefatta ed impaurita; ma ad esaminar ci resta un'altra parte di un meno terribile aspetto, quantunque troppo più formidabile a parer nostro; vogliamo parlar DEGLI ARCHIVI.

Gli archivi del Santo Uffizio sono il martirologio dell'umanità, la rivelazione della barbara giurisprudenza dell'Inquisizione la quale, fondata nell'anno 1204 da Innocenzo III per esterminare gli Albigesi, devastare una delle più belle provincie d'Europa ed immolare oltre ad un mezzo milione d'uomini, altra cosa non è se non una vasta congiura in sistema eretta contro lo sviluppo morale ed intellettuale dell'umanità.

Mediante una simile istituzione, tanto hanno e così bene i papi operato, che il Cristo e Maometto porta sonosi la mano in mezzo alle carneficine. Come i califfi, così pure i papi convertire vollero il mondo colla medesima logica: il ferro o il fuoco. Diceva il Mussulmano: "Credi, o ti tronco la testa." Faceva eco la corte di Roma: "Credi, o ti abbrucio." Si vede, non corre il divario che in una semplice variante nel genere dei supplizi.

La processura, lo scartario cioè dell'Inquisizione, solo nel Santo Uffizio esisteva, perchè il tribunale supremo, composto di cardinali e presieduto dal papa, sedeva e ancor siede nella Minerva, ove una volta per settimana si adunava per giudicare senza appello i più gravi processi dal padre inquisitore nel Santo Uffizio ordinati.

Appartiene l'aggiunto di quel padre all'alta prelatura; aveano i delatori, gli agenti superiori, preti, monaci e laici indistintamente il titolo di assistenti, ed ancora esistono.
Pedro

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parte 4

Tenghiamo nelle note che raccolte abbiamo sul luogo, i nomi di parecchi di quegli assistenti, che potremo, allorchè ci parrà, esporre alla giusta animavversione del mondo. Sono parecchi di quei funzionari ad honorem, riscuotono altri un salario; e sì per essere assistente onorario, che per venir salariato era il concorso numeroso eziandio in questi ultimi anni; chè, come ciò accadeva anni sono nella Spagna, godono gli assistenti del Santo Uffizio di parecchi privilegi.

Nel novero degli assistenti onorari si registrano alcuni principi romani e parecchi legittimisti francesi, uffiziali del santo esercito dell'Inquisizione. Quanto ai famigliari, altro non sono se non gli esecutori e, per così dire, i gendarmi del S. Uffizio.

Giudica l'Inquisizione l'eresia, il sospetto d'eresia, la protezione all'eresia conferta, la fattucchieria e gl'incantesimi, la bestemmia eretica, le ingiurie fatte all'Inquisizione, sia col resistere ai suoi ordini, sia coll'offendere i suoi membri ed i suoi ufficiali; e ciò, come nella loro persona, così pure nella loro riputazione e loro beni, anche in fuori dell'esercizio delle loro funzioni.

Si estende la giurisdizione del S. Uffizio sugli Israeliti, sui Maomettani, e su tutti gli infedeli in genere. Inutile è il soggiungere che sono in quel numero compresi tutti quelli che insegnano qualsiasi cosa (poco monta) ai sentimenti contraria della corte di Roma, sull'autorità sovrana ed illimitata de' papi, sulla loro superiorità riguardo ai Concili, anche ecumenici, e sul divino arbitrato che hanno il diritto di far valere sugli atti dei governi e de' principi di tutti i paesi.

D'altronde per cascar fra le ugna del Santo Uffizio, basta, eziandio adesso, il lasciar trascorrere un anno senza confessarsi, di mangiar grasso nei di magri, ed il trasgredire un precetto qualunque della Chiesa. Sono le voci colpevole ed accusato sinonime nel dizionario dell'Inquisizione; che non può la Chiesa ingannarsi; e, non solo lecito non è il salvare un individuo che cada sotto la giurisdizione del S. Uffizio, ma si è altresì nell'impegno di accusarlo, quando anche fosse suo padre o suo fratello.

Esercita l'Inquisizione di Roma un potere supremo su tutte le Inquisizioni particolari, ed essendo gli inquisitori delle diverse provincie cattoliche indipendenti gli uni dagli altri, pronunzia il S. Uffizio di Roma in ultima istanza sulle differenze che tra loro insorgere possano; regola le processure, e le forme de' giudizi prescrive. Insomma è coll'Inquisizione romana che si concatenano i più gravi affar religiosi e politici che la corte di Roma e 'l papato concernano.

Abbenchè sia stata l'Inquisizione abolita in Francia, nella Spagna, nella Germania, a Milano, a Venezia, non è rotta perciò la pristina organizzazione di essa; vi si supplisce con inquisitori segreti, con periodiche informazioni, con agenti, Gesuiti, sanfedisti, monaci, preti di ogni colore, vescovi e nunzi e apostolici. È l'Inquisizione per la corte di Roma lo specchio del mondo, il vero consiglio, il solo sostegno e la polizia universale.

Nello Stato romano, ha l'Inquisizione la censura de' libri, e misura il pane dell'intelligenza al mondo cattolico, mediante l'indice.

Al par del papato, è l'Inquisizione immutabile; dura tuttavia la figlia, meno degenerata che non si crede, di San Domenico; non ha mutato scopo, nè sistema, altro non ha mutato se non i mezzi. Da un secolo le manca l'onnipotenza materiale; ma essa perdura a condannare. Vero è che più non potendo accendere roghi, che altro non sono per lei se non atti di fede, essa dissimula e serba il segreto sul giudicio. Più non può condurre il Cattolicismo a buon fine - a modo suo - se non che nello Stato romano, mercè le baionette austriache, francesi ed iberiche. E se più immolare non osa umane vittime a maggior gloria di Dio, appagasi, per ora almeno, del bando, della prigione, dei ceppi, e del cavalletto: sì, del CAVALLETTO! (*sorta di panca di legno, sul quale stendesi il paziente che ricevere deve le staffilate, rilegato nel magazzeno dei tormentatori del tempo di Leone XII, è pubblicamente stato ristabilito a Roma dopo la ristorazione di Pio IX e per così dire sotto gli occhi dell'esercito francese.)

Creduto abbiamo necessario di dare quei preliminari schiarimenti che conferir possano, per incompleti che siano, a far comprendere l'importanza degli archivi del S. Uffizio.

Sono detti archivi i registri di tutte le angoscie dell'intelligenza per affrancarsi dalla tirannia, sia dessa a nome d'Iddio o degli uomini stabilita; contengono, in somma, la storia della lotta che dura da tre secoli in qua.

Sono gli archivi in discorso immensi, e non una pagina contengono che una imprecazione al pensiero non sia, che patimenti e torture non ritragga, che inaffiata non sia di lagrime e di sangue.

Sono quegli archivi divisi in tre grandi sezioni. Si compone la prima di una biblioteca preziosa ed unica nel suo genere. Racchiude prima le opere che concernono l'Inquisizione, nel senso cattolico; la giurisprudenza e le apologie del S. Uffizio pubblicate in qualsiasi parte d'Europa. Ma ciò che v'imprime maggior singolarità, una raccolta completa si è delle opere perseguitate e messe all'Indice, i documenti cioè di tutti gli attentati commessi dall'intolleranza clericale contro le manifestazioni più sublimi dello spirito umano. Una raccolta vi si nota delle edizioni Princeps di tutto ciò che scrissero i riformatori italiani, la maggior parte estinti nell'esilio o nelle prigioni, nelle torture o nelle fiamme. Sono parecchie di quelle opere ignote eziandio ai bibliofili più diligenti, le più ricche di rarità letterarie, ed è talvolta il solo esemplare che esista. Infatti, non si ha che ad aprire gli annali del decimosesto e decimosettimo secolo per vedere con quale accanimento l'instancabile Inquisizione rintracciava e torturava gli autori; nel distruggere sforzavasi le opere di detti, col comperare altre volte le edizioni intiere per gettarle nel fuoco, e col dirigere sempre una ammonizione a chiunque un esemplare possedesse, di consegnarlo immediatamente.

Soggiacque l'arte della tipografia, sì fiorente in Italia circa la prima metà del secolo decimosesto, alle bolle di Paolo IV, di Pio V e del Concilio Tridentino; quindi sparire vediamo nella seconda metà di quel medesimo secolo tutte le grandi officine di stamperia: sono ridotti i Giunti di Firenze a stampare de' breviari. Non sopravvisse l'arte tipografica, meno splendore però serbando, che a Venezia ove, al marcio dispetto di Monsignor Della Casa che il primo Indice vi pubblicò, e quantunque abbiasi il canal Orfano ad un cenno del padre inquisitore ingoiato un bastevole numero di vittime (giacchè i signori di Venezia l'acqua anteponevano al fuoco - semplice affare di gusto!), vi si serbò nondimeno il germe di quello spirito italiano che spesso gli artigli della corte di Roma ritrarsi fece davanti le zanne del leone di San Marco.

Abbonda soprattutto quella biblioteca in manoscritti ed in codici raccolti con quello spirito di giustizia che l'anima è della pontificale censura. Quando presenta un autore un'opera per ottenere il permesso di pubblicarla, invalso è nell'uso se crede la S. Congregazione dell'Indice dovere rifiutare la autorizzazione, di serbarsi il manoscritto acciò non possa venire stampato altrove. Ci sovvenghiamo di avere veduto fra altre uno Studio geografico sugli Stati romani da un cavaliere Fontana: opera che certo per nulla intaccava la religione: ma siccome rilevava egli certi dati statistici che precisamente la bontà e l'infallibilità del governo pontificio non provavano, amò meglio la santa congregazione darle un posto nei suoi armarii.

È quella la biblioteca dell'eresia la più interessante per conseguenza, giacchè ella racchiude tutte le arditezze dell'intelligenza, le difese più calde della verità, le aspirazioni più sante: e siccome esservi non può uno spirto che pensi a modo suo senza incorrere nel rimprovero d'eresia, dire si può altresì che è la biblioteca della libertà, ma sotto l'anatema sepolta e macolata di sangue. Secoli ci vollero di lotta perchè l'uomo penetrarvi potesse a levarne i suggelli: i suggelli dello spirito umano! - Oggidì sonsi le porte ancora rinserrate, ma non è cessata la lotta, e più lecito non è a qualunque potenza umana di ripristinare essi suggelli.

Contiene la prima sezione le manifestazioni più sublimi dell'intelletto nei conati suoi per infrangere le pastoie che incagliano la perfettibilità della natura umana: pone la seconda a registro le pene che applicate vennero a quei tentativi: il martorio raccontasi dei moderni Prometei. Posti in bel sesto vedonvisi i processi ordinati e terminati dal Ghislieri come inquisitore e come pontefice, come frate Michele e come Pio V, il quale apertamente diceva la clemenza consistere nel severamente punire gli eretici, nel tempo stesso in cui l'uso introducevasi delle medaglie benedette, coll'inzupparle nel sangue degli sfortunati Fiamminghi.

Allievo inesorabile di Pio IV, giovossi dei decreti dommatici del sinodo tridentino per attivare l'Inquisizione, e dei decreti disciplinari per attaccare ed obliterare la giurisdizione di ogni governo laicale. Gli sembrava il terrore dei supplizi il miglior dei ripieghi. Rinveniva la corte romana la tortura nell'Evangelo, a vece di trovarvi la parola di Cristo.

E gareggiavano i principi nell'assecondare la ferrea volontà del Ghislieri, gli uni per religiosa ipocrisia, per timore degli ecclesiastici intrighi, gli altri, od intimoriti dagli avvenimenti di Francia o di Germania.

È pure vero che veniva frate Michele accolto in Como a sassate, e che lo cacciavano i Veneziani da Bergamo; ma seppe egli nondimeno sostituire in Venezia il canale Orfano al rogo per annegarvi Giulio Ghirlanda, Antonio Ricetto, Francesco Sega, il prete Spinola e tanti altri! Gli riuscì pur anche, coll'aiuto dei piccoli cantoni Svizzeri, a dar lo sfratto ai protestanti di Locarno, borgate del lago Maggiore già florida e che a questa misura la perdita dovette del suo commercio e della sua industria.

Distrusse inoltre papa Ghislieri la Chiesa Riformata di Lucca; attivamente cooperò allo sterminio degli infortunati Valdesi, nelle Calabrie: arder fece Giulio Zanetti, Paleario e Carnesecchi, quel pensatore che la fronte mai non volle piegare innanzi al S. Ufffizio e grave e calmo avviossi al supplizio, sotto il san-benito portando i pannilini suoi più belli e guanti nuovi.

Spaventata fu l'intera penisola da siffatta tragedia; a Faenza, essendo uno imputato di eresia soggiaciuto alla tortura, insorgono gli abitanti, prendono a viva forza la casa dell'Inquisizione, ed i preti che incontrano tutti quanti trucidano.

Accadono parimente popolareschi tumulti a Mantova, in Toscana, a Napoli. Essendo stato l'Indice in quel reame rimesso in vigore, proibironsi tutti i libri indistintamente che da certe stamperie uscissero, quale si fosse l'argomento ed il tenore di essi; avventavansi furibondi gli inquisitori od i loro agenti sulle stamperie ed i magazzini de' librai, ne strappavano i libri senza indennità, domandavano conto di ogni pubblicazione, ed insomma ad un tratto uccidevano l'arte ed il commercio. Stupidi assassini! essi credevano di uccidere il pensiero!


Pedro

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parte 5 ultima

Fuggivano da Siena, da Lucca, da Pisa, da Firenze, da tutti i canti; cogl'Italiani rifluivano l'industria e le ricchezze nella Francia, nella Germania e nella Svizzera. Non era più Roma che una vasta solitudine; e era l'università di Pisa deserta. Sendo stati alcuni studenti imprigionati come sospetti di eresia, abbandonarono i loro condiscepoli quella terra maledetta, ed alcuni ve ne furono che il cervello perdettero.

Ad indicar ci facciamo sommariamente quei fatti, acciochè la terribile importanza si comprenda degli archivi di Pio V, che racchiudono altresì parecchi documenti del regno di Paolo IV sulla guerra delle Fiandre e la carnificina degli Ugonotti.

Non permise la morte a papa Ghislieri di benedire pubblicamente la festa del 24 agosto 1572, giorno della San Bartolommeo.

Abbraccia la seconda sezione di quegli archivi sunti di tutti i processi ordinati in quella cinta e terminati dal tribunale supremo della Minerva, tutte le risoluzioni del Santo Uffizio relativamente ai casi di coscienza, e tutti gli oggetti ai prigionieri ed ai delinquenti rapiti, come lettere, libri, manoscritti, pitture, ornamenti, amuleti ecc.; inaudita raccolta, e decisamente la più curiosa come la più strana che sia al mondo.

Infine è la terza parte formata da ciò che chiamasi la cancelleria inferiore, la più importante per l'epoca nostra, giacchè rivelaci essa la vasta organizzazione dell'Inquisizione e la vitalità che ancor serba oggidì. È lì specialmente che dànnosi politica e religione la mano, s'inviscerano e si confondono; lì specialmente scorgesi l'immediata utilità della confessione e di quell'unità che fatta ha la Chiesa ciò che fu e ciò che è. Vi è la religiosa eresia alla politica sottoposta, e trapelano le assidue cure del prete, che rimanere vuol principe, da quegli archivi ad ogni istante, in ogni pagina. Lì trovansi in somma tutti i processi, tutte le rivelazioni, tutta l'organizzazione, tutto il sotterraneo meccanismo di questi ultimi anni.

A quella parte degli archivi del Santo Uffizio corrisponde il Sommario delle sollecitazioni, registro che contiene le rivelazioni di donne a peccare istigate dal proprio confessore nello Stato pontificio, e breve non è il sommario. Ancorchè siano state sgombrate parecchie scansìe di quella sezione, ne restano ancora bastantemente per darvi un saggio della segreta organizzazione del moderno Santo Uffizio, e per iscoprire i nomi degli ufficiali famigliari di quel pio tribunale, esistono quei nomi classificati per provincie, consegnati in un distinto registro.

In generale, sono corrispondenti ossia membri attivi del Santo Uffizio tutti i prelati in missione, tutti i padri provinciali o generali del clero regolare, tutti i vescovi, arcivescovi, cardinali non solo dello Stato ecclesiastico, ma pure di tutta la Cristianità; tutti i sanfedisti ed i Cattolici esagerati, cospicui per il loro rango e la loro ambizione, per il loro talento, per la loro ricchezza o la loro influenza sulla pubblica opinione e sopra i governi. Ne consèguita che sono i repertori della corrispondenza lunghissimi ed in grandissimo numero; havvene uno per il carteggio de' vescovi, dei cardinali e dei prelati dello Stato pontificio, ove attingono gl'Inquisitori le loro informazioni, sì in materia religiosa che in politica; il reportorio havvi dei vescovi, dei cardinali, dei prelati, preti e monaci di tutta la cattolicità, ed evvi uno speciale registro per i nunzii apostolici. Sul tenore di quelle corrispondenze redigonsi e classificansi accuratamente le note che formano il Catalogus indicationum, ove trovansi inscritti i nomi di tutti gli eretici politici e religiosi dall'anno 1815 sino all'anno1847; presenta il Catalogus il loro ritratto morale, registra i loro scritti e le loro azioni, indica la loro setta, oppure la loro società, colla sua organizzazione, le sue ramificazioni, i suoi fautori ed amici.

Stendendosi l'immensa famiglia dell'Inquisizione in tutti i luoghi, fissi avendo gli occhi sopra ogni cosa, dal confessionario della pinzochera sino al palazzo del re, essa tutto esamina, tutto studia, di tutto prende nota. È non solamente la libertà una eresia in sè stessa, essa è l'argomento di ogni eresia. Ora, sendo l'universo divenuto eretico oggidì , crede l'Inquisizione di dovere abbracciare nella segreta sua giurisdizione le azioni ed i pensieri di tutti gli uomini, e scaglia segretamente l'anatema eziandio sui governi che testè gli prestarono l'appoggio dei loro fucili.

Nulla rispetta essa; nè la santità del focolare domestico, nè la religione dei giuramenti nè 'l segreto del confessionario. Tutto è tradimento e scandalo nei di lei carteggi. Lettere vi trovansi di vescovi piemontesi, parlando di ribellarsi contro il loro governo e contro Carlo Alberto, perchè non s'attenevano essi alle sante massime del conte Solaro della Margherita. Più oltre s'affissano i vostri occhi nei rapporti d'un confessore, in fronte avente le parole sacramentali sotto segreto, che corrispondono al confidenziale dei diplomatici. Vi sono parecchi di quei rapporti dall'estero e trasmessi sono dai nunzi.

È dunque la cancelleria del Santo Uffizio la vera succursale e come l'anima dell'universale polizia; è quivi che si rivolge il cardinale segretario di Stato per ottenere ragguagli sui libri da proibire, sulle persone, sulle cose e su tutto ciò che l'estranea politica riflette; è lì il repertorio della di lui corrispondenza per provarlo.

Il governo della repubblica romana, troppo occupato sin dal suo principio nel difendere l'onor nazionale ed il vessillo della democrazia, compatir non potè una grande attenzione alla cerna di quelle carte, di cui essa non affidò l'esame che ad un piccolo numero di persone.

Ritrovò dunque l'Inquisizione i suoi archivi quasi che intatti; ma, profanazione delle profanazioni! sono stati veduti: se ne vendica oggidì.
Pedro

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