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CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Roma Papale

Ultimo Aggiornamento: 24/11/2009 17:53
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Lettera Quinta

Lettera quinta

Ancora de' Monumenti

Enrico ad Eugenio

Roma, Gennaio 1847.

Mio caro Eugenio,

Continuo senza preambolo il racconto interrotto.
Il giorno dopo l'accidente accadutomi nella chiesa di S. Pietro, ricevo una lettera del Valdese, che ti trascrivo tale quale, per dimostrarti sempre più la mia sincerità: e sebbene le nostre convinzioni religiose ci dividano, pure ti considero come un fratello, anzi come l'amico del mio cuore; per cui non ti nascondo nulla, neppure quello che sta contro di me.
Ecco dunque cosa mi scrive il Valdese.
"Signor Abate,
"Sono grandemente dispiacente per quello che è accaduto ieri. Confesso che ho un poco troppo ecceduto; che, parlando ad un Cattolico sincero quale voi siete, doveva usare maggiori riguardi, e misurare le mie parole: perciò vi domando perdono se vi ho offeso col mio modo di parlare. Ma, a parte il mio tuono piuttosto cattedratico, io credo avere buone ragioni sul fondo della questione.
"Io diceva avere buone ragioni per credere che quella sedia o cattedra, come voi la chiamate, venerata sopra quell'altare, e della quale si celebra la festa ogni anno il 18 Gennaio (Nota 1 - Cattedra di S. Pietro), invece di essere la sedia dell'Apostolo S. Pietro, sia quella di Solimano Califfo di Babilonia, o di Saladino Califfo di Gerusalemme. Ed affinchè non crediate che io abbia ciò detto per leggerezza, o per insultarvi, eccovi le prove; le quali se non sono convincentissime per provare che quella sedia appartenesse ad un Turco, lo sono però per dimostrare che essa non ha potuto appartenere a S. Pietro.

"In primo luogo, io non posso persuadermi come mai l'umilissimo Pietro avesse per sè una sedia distinta, una cattedra. Non posso supporre che S. Pietro per una sedia avesse voluto trasgredire il comando espresso di Gesù Cristo (Matt. XX, 25-27). Io amo molto S. Pietro; e perciò non posso crederlo nè prevaricatore, nè mentitore: egli stesso dice, nella sua prima epistola, capo V, versetto 1, di non essere che un anziano come tutti gli altri, sumpresbuteroV, intendetelo bene, vi prego: come poter credere, dopo ciò, che egli abbia voluto avere per sè una cattedra, per ismentire col fatto quello che diceva ed insegnava? Ma ditemi, di grazia: dove teneva egli cotesta sedia? Forse nella sua casa? Ma o perchè di tutta la sua mobilia non si è conservata che questa sedia? Voi direte che era la sedia sulla quale ufficiava nella chiesa. Ma io vi ho già dimostrato che chiese non ve ne erano in que' tempi. Gli Atti apostolici e le lettere apostoliche ci dicono che si celebrava il servizio di casa in casa: non credo che vorrete supporre che S. Pietro andava di casa in casa trascinandosi dietro la sua cattedra.

"Ma supponete pure, quello che non è per nulla provato, che S. Pietro sia stato in Roma; e ch'egli avesse avuto anche una sedia distinta per ufficiare: vi domando io, quali sono le prove che dimostrano quella essere veramente la sedia di S. Pietro? Non mi rispondete: Lo dice il Papa infallibile: perchè io vi risponderò che, secondo i vostri principii stessi, in Papa è infallibile nel domma, ma non nei fatti. E poi, chi avrebbe conservata quella sedia? Non i Cristiani certamente; perchè la venerazione delle reliquie non cominciò che alla fine del quarto secolo. E se i Cristiani la avevano conservata; come è che non fu trovata che nel secolo decimosettimo? Queste sono alcune delle ragioni per le quali non posso credere che quella sia la sedia di S. Pietro. A tutto ciò aggiungete la grande ragione tratta dalla Bibbia e dalla storia, che dimostra S. Pietro non essere mai venuto in Roma; e vedrete che i miei motivi per non credere a quella sedia sono giusti e ragionevoli quanto mai si possa dire.

Pedro

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"Non voglio poi ostinatamente sostenere quello che a voi è tanto dispiaciuto sentire, cioè che quella sedia abbia potuto appartenere ad un Maomettano. Io ho detto quella cosa sull'autorità di Lady Morgan, la quale nella sua opera sull'Italia al volume IV dice che la sacrilega curiosità dei Francesi, nel tempo ch'essi occupavano Roma, al principio di questo secolo, vinse tutti gli ostacoli, onde vedere cotesta famosa sedia: essi tolsero la sua fodera di rame, e tratta fuori la sedia ed esaminatala diligentemente, vi trovarono incise con caratteri arabi queste parole: Dio solo è Dio, e Maometto è il suo profeta. Io non so se Lady Morgan dica il vero: ma le risposte che le hanno fatte non sono per nulla concludenti. Voi forse conoscerete la risposta che è sembrata la migliore; che cioè è impossibile che quella sia la sedia di un Musulmano, imperciocchè essi non usano sedie. È vero che negli usi comuni non si servono di sedie come le nostre, ma di cuscini, di sofà, di sgabelli; ma si servono di sedie, anzi di cattedre i loro mufti per predicare, ed anche qualche volta i loro sovrani per trono: potrebbe dunque essere la sedia di un mufti. L'argomento convincente sarebbe trarre fuori quella sedia pubblicamente, e lasciare che tutti potessero esaminarla: ma questo non si farà mai.

"Voi sapete, Signor Abate, che io amo molto il buon Benedettino Tillemont. Esso era un dotto, era monaco, era buon cattolico: spero che non ricuserete la sua testimonianza. Ebbene Tillemont era incredulo come lo sono io a riguardo di quella sedia. Egli nel suo viaggio in Italia dice: "Si pretende che a Roma vi sia la cattedra episcopale di S. Pietro, e Baronio dice che è di legno: ciononostante alcuni che hanno veduta quella che era destinata ad essere posta solennemente sull'altare nel 1666, assicurano che era d'avorio, e che gli ornati non sono più antichi di tre o quattro secoli, e le scolture rappresentano le dodici fatiche di Ercole." Ecco cosa dice Tillemont!

"Voi mi direte che Tillemont è in contraddizione con quello che dice il Baronio. Potrei rispondervi che ambedue gli scrittori sono stati zelantissimi Cattolici, ambedue dotti, ambedue storici abilissimi: la contraddizione dunque che vi è fra loro intorno a quella sedia, è una prova della falsità di essa: tanto più che nel passo citato Tillemont mostra non credere alla autenticità di quella sedia. Ora però ricordo aver letto nella mia gioventù una storia (non rammento in qual libro) la quale spiegherebbe tutto e toglierebbe ogni contraddizione fra i due scrittori. La festa della cattedra di S. Pietro esisteva da quasi un mezzo secolo; ma la sedia non era stata ancora posta in venerazione: fra le reliquie che sono in Roma esisteva una sedia che si diceva avere appartenuto a S. Pietro; ed il papa Clemente VIII pensava metterla in venerazione: ma il cardinal Baronio gli fece osservare, che i bassi rilievi rappresentavano le dodici fatiche di Ercole, ed in conseguenza non poter essere quella la sedia sulla quale S. Pietro ufficiava. Il papa si persuase: ma pure bisognava che una sedia di S. Pietro vi fosse. Allora si cercò nel magazzino delle reliquie, e si sostituì alla prima una seconda sedia antica di legno: e questa è quella di cui parla Baronio, mentre Tillemont parla della prima. Ma sessant'anni dopo la morte di Baronio, quando Alessandro VII fece fare l'altare della cattedra come oggi si vede, non si sapeva quale delle due si dovesse porre in venerazione: non la prima per le scolture mitologiche; non la seconda perchè era di stile gotico, e quello bastava per dimostrare che non poteva avere appartenuto a S. Pietro. Il papa allora sapendo che fra le reliquie vi era una sedia portata come reliquia dai crociati, la fece prendere, ed ordinò che quella si ponesse in venerazione: nessuno però si avvide della iscrizione araba citata da Lady Morgan (Nota 2 - Santi battezzati).

"Del resto non facciamo questioni per una sedia: una sedia finalmente non è che una sedia; e non conviene basare la nostra credenza sopra una sedia. Quando anche fosse chiaro come la luce del giorno che quella fosse la identica sedia di S. Pietro, essa non proverebbe la sua presenza in Roma; perchè vi potrebbe essere stata portata. E quando anche fosse vero che S. Pietro fosse stato in Roma, la presenza dell'Apostolo di diciannove secoli fa, non proverebbe per nulla che la religione romana è la vera.

"Io sono stato docile e mi sono lasciato condurre da voi dove avete voluto: ora vi prego di lasciarvi condurre domani da me; ma fino da ora vi prometto che non farò affatto controversia, e così potrete essere sicuro che non avrete a disputare con eretici, e potrete venire senza il timore di disobbedire nè al vostro confessore nè al vostro maestro.

"A proposito di maestro, debbo dirvi che il Signor Manson ha scacciato il suo servitore; perchè io ho scoperto con prove certe che era una spia de' Gesuiti: voi dovreste saperne qualche cosa, Dio vi apra gli occhi sui vostri cari maestri!
A rivederci a domani.

"Vostro L. Pasquali."

Pedro

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Le ultime parole di questa lettera mi fecero un terribile effetto: allora capii come il mio maestro avesse saputo tutto quello che io faceva o diceva co' miei amici. Un tale procedere mi parve basso e sleale, e m'irritò: sicchè decisi di non lasciarmi più condurre così ciecamente dai Padri Gesuiti.

D'altronde la lettera del Signor Pasquali mi convinceva che io era stato pessimamente guidato dal mio maestro in quella discussione. Perchè difatti impedirmi di discutere francamente e lealmente con la Bibbia alla mano? Perchè costringermi a discutere sui monumenti? E poi perchè indicarmi que' monumenti così incerti? Queste riflessioni mi fecero accettare l'invito del Valdese, e determinai di non parlare più di questa discussione col mio maestro.

Il giorno dopo ci unimmo tutti quattro, ed il Signor Pasquali ci condusse a vedere l'arco di Tito.
Cotesto prezioso monumento della storia e dell'arte è situato al principio della via che i Romani chiamavano Sacra.
È il monumento trionfale innalzato dal Senato e popolo romano a Tito per la celebre definitiva vittoria sopra i Giudei.

"Sono queste, diceva il Valdese, le sacre antichità che io amo, non già quelle che van cercando con tanta avidità i seguaci del Dottor Pusey: sulla veracità di questi monumenti non può cadere il minimo dubbio."

"Perdonate, disse il signor Manson, le antichità ecclesiastiche non debbono essere disprezzate."

"Ed io non le disprezzo, ma le lascio al loro posto, rispose il Valdese: esse sono preziose per la storia ecclesiastica, quando sono autentiche; e bene studiate, sono preziose anche pel Cristiano. Esse dimostrano il principio e la data delle corruzioni e degli abusi introdotti nella religione: ma fare di esse un luogo teologico (Nota 3 - Luoghi teologici), e quasi una regola di fede, mi sembra che sia l'eccesso della umana aberrazione. Se una cosa è vera perchè è antica, dovremo logicamente dire che il Paganesimo deve essere più vero del Cristianesimo, perchè più antico di questo. Noi saremo giudicati sul Vangelo, non sulle antichità. Le antichità che debbono essere tenute in gran pregio dal Cristiano sono quelle che testimoniano della parola di Dio, come fa questo monumento."

Quindi dimostrò che quel monumento era e per gli Ebrei e per gl'increduli una testimonianza della veracità della divina Parola sì del Vecchio che del Nuovo Testamento. "Si faccia leggere a costoro il capo XXIV di S. Matteo, il XIII di S. Marco, il XXI di S. Luca, e poi gli si faccia vedere questo monumento (Nota 4 - Arco di Tito) innalzato da' Gentili, i quali nulla sapevano di tali profezie, e neghino, se lo possono, la veracità e la divinità della Parola di Dio."

Dall'arco di Tito, montammo sulla vicina falda del monte Palatino, per vedere gli avanzi del palazzo de' Cesari (Nota 5 - Palazzo de' Cesari).

"Ecco, disse il Valdese, un bel monumento dell'antichità ecclesiastica. Questi ruderi sono gli avanzi delle due grandi biblioteche palatine, una greca, l'altra latina, ove erano raccolti i preziosi manoscritti de' nostri antichi, e che papa Gregorio I, detto il Grande, fece bruciare" (Nota 6 - Se S. Gregorio M. bruciasse le biblioteche). Poscia c'indicò la parte del palazzo fatto fabbricare da Augusto, quella chiamata di Tiberio, quella di Caligola, quella di Nerone; ed esclamò: "Sta scritto: La casa degli empi sarà distrutta (Prov. XIV, 11): ecco costoro si facevano chiamare dii, si dicevano eterni; ma Colui che abita ne' cieli si fe' beffe di loro (Salm. III); ed avendo date al suo divin Figliuolo le genti in eredità, questi fiaccò e fiaccherà i superbi con verga di ferro; e li tritò e li triterà come un testo di vasellajo. Queste fondamenta che sono sole restate del palazzo di coloro che si dicevano padroni di tutto il mondo, predicano la verità di questa parola che "non vi è sapienza, né prudenza, né consiglio incontro al Signore" (Prov. XXI, 30).

Il tuono solenne con cui pronunciava queste parole, la profonda convinzione che si leggeva sulla sua fisionomia, aveva un non so che d'imponente che ti affascinava. Il signor Manson era silenzioso, il signor Sweeteman lo seguiva incantato, ed io mi sentiva compreso da rispetto per quell'uomo che il giorno avanti avrei voluto uccidere, se mi fosse stato lecito. Il giorno innanzi era un avversario, un eretico che attaccava la santa Chiesa; il giorno dopo era un uomo che dimostrava le più profonde convinzioni sul Cristianesimo. Eppure un uomo così profondamente religioso dovrà essere eternamente dannato, perchè non appartiene alla nostra santa Chiesa! Tale pensiero risvegliava la mia pietà e la mia compassione per lui, e riaccendeva il mio zelo per procurare con tutte le mie forze la sua conversione.

Andammo poscia all'anfiteatro Flavio, detto volgarmente il Colosseo. Tu hai letto nella storia che Flavio Vespasiano, dopo la distruzione di Gerusalemme, fece edificare quell'anfiteatro, il più vasto, il più magnifico di quanti ne hanno fino ad ora esistito. Questo anfiteatro capace di contenere ben centomila spettatori, serviva pe' giuochi de' gladiatori, per la caccia delle fiere; e poscia per un miraeolo dell'arte la vasta arena si convertiva in pochi istanti in un lago, e serviva immediatamente pe' giuochi navali. Sai ancora che in tempo di persecuzione si esponevano su quell'arena i Cristiani per essere divorati dalle fiere.

Pedro

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Ora questo anfiteatro è stato dalla pietà de' Papi trasformato in luogo santo (Nota 7 - Il Colosseo. Chi lo ha ruinato). Una immensa croce è piantata nel mezzo dell'arena, ed all'intorno vi sono quattordici cappelle, ove sono rappresentati i fatti della passione di nostro Signore, ed avanti di esse si fa il pio esercizio chiamato della Via crucis. Così in quel luogo ove ai tempi di Roma pagana echeggiavano i ruggiti delle belve, le lamentevoli grida delle vittime, gli applausi feroci di una plebe brutale, echeggia invece il patetico canto de' Cristiani divoti, che meditano la morte dell'Agnello immacolato.

Appena entrati in quel vasto edifizio, il sig. Pasquali sembrò assorto in un grande pensiero, e rimase come estatico per alcuni istanti, e noi eravamo fissi a riguardarlo. Quando si riscosse esclamò: "Oh cari amici, come esprimervi la folla d'idee religiose che risveglia in me questo ammirabile monumento? Colui che senza saperlo eseguiva i divini giudizi contro il popolo deicida, e faceva ricadere sul di lui capo il sangue imprecato dell'Uomo-Dio, fa innalzare questo monumento ad eterna memoria della distruzione di quel popolo; e quel popolo, ridotto schiavo, lavora alla catena, ad innalzare questo monumento che perpetua la memoria del suo gastigo. Gaudenzio cristiano ne è l'architetto, e Dio glie ne dà la ispirazione: sì Dio, perchè nè prima nè dopo uscì da mente umana un concetto nè più bello nè più maestoso." Quindi passò a descrivere gli orrori de' giuochi de' gladiatori, la ferocia del popolo romano che applaudiva a quelle stragi, la imperturbabile impassibilità di que' mostri che chiamavansi imperatori nel ricevere l'omaggio da coloro che si uccidevano per dare sollazzo all'augusto padrone (Nota 8 - I gladiatori).

Passò poscia a descrivere i combattimenti de' martiri, ma con colori così vivi che ti traeva dagli occhi le lacrime. Acceso poi di un santo entusiasmo, esclamava: "Oh santa religione di Cristo! qui, qui, tu trionfavi nel sangue de' tuoi figli, qui manifestavi la tua virtù divina al mondo attonito.

Ma quando i Cesari cessarono dal perseguitarti, e ti vollero assisa con loro sul trono, tu fuggisti a nasconderti; e, novello Giuseppe, lasciasti per fuggire il tuo manto, tu ti nascondesti nel deserto; ma quel tuo manto fu indossato da quell'uomo che in tuo nome si assise dapprima nel trono co' Cesari, quindi ne li scacciò e regnò solo in tuo nome; e con quel manto copriva superbia, despotismo e fanatismo, triade infernale che regnò coperta del manto da te lasciato."

Pedro

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24/11/2009 17:50
 
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Noi eravamo atterriti dall'enfasi, dal tuono di voce, ma molto più dai concetti di quell'uomo straordinario. Egli era per continuare, allorchè una monotona cantilena si fece sentire all'ingresso dell'anfiteatro. Un cotal suono lo scosse e lo arrestò.

Una processione di persone vestite di un sacco di tela grigia, con la testa ed il viso coperto da un cappuccio della stessa stoffa, con due soli buchi per lasciare libera la vista, entrava nel Colosseo cantando con voce rauca e monotona le lodi della croce. La processione era preceduta da una gran croce di legno tinta in nero portata da uno de' confrati, e la chiudeva un frate di S. Francesco scalzo e la testa scoperta. Dietro la processione degli uomini veniva una processione di poche vecchie pinzochere, preceduta essa pure da una croce portata da una di esse. Scopo di questa processione era fare l'esercizio della Via crucis, pregando innanzi alle quattordici cappelle (Nota 9 - La via crucis).

Il signor Manson ed il signor Sweeteman si rivolsero a me, per sapere cosa significasse quella processione. Risposi esse una pia confraternita di penitenti che, tutti i venerdì e tutte le domeniche, va a fare il pio esercizio della Via crucis al Colosseo. Ci fermammo un poco: il frate montò sopra una specie di pulpito su que' ruderi, i confratelli fecero semicircolo, le pinzochere si posero dietro a loro, e quel frate incominciò a predicare. Noi restammo a convenevole distanza, ma in modo da poter sentire. Disgraziatamente quel frate, o che fosse ignorante, o che avesse soggezione di noi, non sapeva cosa si dicesse, e disse tante sciocchezze da scandalizzarne perfino il bravo signor Manson. Per fortuna il Valdese era tanto immerso ne' suoi pensieri che non sentì nulla.

Uscimmo dall'anfiteatro.

Nel tornare a casa, il signor Pasquali ci domandò se eravamo stati contenti della passeggiata: si rispose che sì; ma io soggiunsi che quel modo di discutere per mezzo di monumenti era troppo lungo, e non ci avrebbe mai condotti a conclusioni pratiche: d'altronde io amava convincere il signor Manson del suo errore; per cui desiderava che mi lasciassero discutere con lui.

"Spero, rispose il Valdese, che il sig. Abate non crederà che l'anima del sig. Manson sia più preziosa delle nostre: si discuta pure; ma non credo che vorrà escludere noi dalla discussione. Discutiamo in buona fede, e senza avere altro partito preso che quello di cercare la verità: che ciascuno di noi metta da banda le sue particolari dottrine per cercare la verità nella sola Parola di Dio. Noi quattro differiamo sopra molti punti: il sig. Abate è cattolico romano; il sig. Manson appartiene a quella che chiamasi alta Chiesa d'Inghilterra, o come altri la chiamano, alla scuola teologica di Oxford; il sig. Sweeteman appartiene alla Chiesa anglicana, ed io alla Chiesa cristiana primitiva: che nessuno di noi dunque si ostini a sostenere la sua Chiesa; ma di comune accordo cerchiamo la verità; tanto più che tutti sappiamo che non è la Chiesa che ci salva, ma Gesù Cristo; cosa ne dicono loro signori?"

Tutti acconsentimmo, e si convenne d'incominciare la discussione.
Ti confesso, caro Eugenio, che questo Valdese mi ha incantato. Io che aveva sentito dir tanto male di loro; che aveva letto in tanti libri le cose le più orribili sulla loro ignoranza, sulla loro malafede, ed anche sul loro mal costume, mi trovava confuso in faccia a quest'uomo che era dotto, ma non faceva pompa alcuna della sua dottrina; era uomo di profonda pietà, di austera virtù, ma senza alcuna affettazione. Il solo male che si trova in lui è l'errore; ma spero col divino aiuto disingannarlo.
Nella prossima lettera ti renderò conto della prima discussione. Addio.

Enrico.

Pedro

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Cattedra di S. Pietro

Nota 1. alla lettera quinta di Roma Papale 1882

La festa della cattedra di S. Pietro fu istituita da Paolo IV nel 1557. Per quindici secoli non si era pensato a quella festa; ma una volta istituita, bisognò trovare la sedia, e si trovò: però dalla istituzione della festa al collocamento della sedia pretesa di S. Pietro in quell'altare passò più di un secolo; imperciocchè quella sedia non fu posta colà che nel 1666.
Pedro

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Santi battezzati

Nota 2. alla lettera quinta di Roma Papale 1882

A questo proposito non sarà discaro ai nostri lettori se parleremo loro un poco del come in Roma si fabbricano le reliquie che si spandono in così grande abbondanza per tutto il mondo cattolico.

Vi è in Roma una sacra congregazione chiamata delle indulgenze e sacre reliquie, composta di cardinali, e teologi chiamati consultori. Cotesta congregazione giudica della veracità delle reliquie ne' rari casi che la questione è trattata giuridicamente. Ma in Roma ove è la miniera delle reliquie, ed il magazzino generale chiamato custodia, giudica della verità di esse, apparentemente e per la forma, il cardinal vicario; realmente poi, un padre Gesuita preposto alle catacombe.

Nelle catacombe romane, ossia antichi cemeteri sotterranei, sotto la direzione di un padre Gesuita, lavorano alcuni contadini, praticando degli scavi per trovare corpi di santi. Costoro sono chiamati dai Romani corpisantari. Quando trovano delle ossa, chiamano il rev. Padre, il quale dichiara se quelle ossa hanno appartenuto ad un santo o ad un martire. Se le giudica ossa di santo, sono poste in una cassa apposita e portate dai corpisantari al magazzino, ossia custodia delle reliquie, e come reliquie di santo o santa si distribuiscono alla occasione. Se vi è una lapide col nome, si chiamano santi di nome proprio; se non vi è, allora il cardinal vicario gl'impone un nome a suo piacere, e questi si chiamano santi battezzati.

Il P. Mabillon, Benedettino e zelante Cattolico, ha scritto un pregevolissimo libretto intitolato - Lettera di Eusebio romano a Teofilo francese sopra il culto dei santi non conosciuti - e questo per provare che molte di quelle reliquie sono tutt'altro che reliquie di santi. Egli incomincia col dire, che "se qualcuno sentirà dispiacere di ciò ch'egli dirà, lo prega a ricordarsi ch'egli non parla per far dispute, nè per far dispiacere a chicchessia, ma solo per lo zelo della religione, la quale è egualmente disonorata per i due eccessi o di credere troppo, o di credere poco."

Parlando de' santi che si estraggono dalle catacombe, il dotto Benedettino dice che la più parte di essi sono tutt'altro che corpi di santi; non solo non presentano prove della loro santità e del loro martirio; ma anzi alcuni di essi ne presentano tali da escludere l'uno e l'altra. In quanto ai santi battezzati dice il Mabillon: "Il cardinal vicario, o Monsignor sacrista, gl'impongono quel nome che vogliono:" e così il cadavere di un uomo prende spesso il nome gentile di una giovanetta, e come tale è vestito, ed ha la sua maschera di cera.

Ma su quali indizi il rev. Padre gesuita decide che quelle ossa hanno appartenuto ad un santo e ad martire? Sentiamo Mabillon.

"I segni sui quali si decide la santità ed il martirio sono una croce, il monogramma di Gesù Cristo, un A ed un Omega, la immagine del buon pastore o di un agnello, o alcuni simboli dell'Antico e Nuovo Testamento. Ma se cotali segni indicano tutto al più il sepolcro di un cristiano, non sono per ciò una prova che esso sia il sepolcro di un santo." Passa poi a parlare di un altro segno che è tenuto per decisivo del martirio, cioè le palme."Coteste palme, egli dice, sono un segno assai equivoco: spesse volte quelle che si prendono per figure di palme non sono che figure di cipresso, che indicano il lutto, e non il trionfo. Ma quando anche fossero vere palme, non indicherebbero perciò necessariamente il martirio." E cita l'esempio del sepolcro di Flavia Giovinia, figlia di Flavio Giovinio console nell'anno 367.Sul suo sepolcro vi erano il monogramma di Cristo, circondato da una corona di alloro, vi erano due bellissime palme; e la iscrizione diceva che essa era solamente neofita, ed era morta in pace (deposita neophita in pace IX Kal. octobr.).

La sacra congregazione delle indulgenze e sacre reliquie col suo decreto 10 aprile 1668 ha dichiarato che per poter giudicare con certezza che il cadavere trovato nelle catacombe abbia appartenuto ad un martire, non bastano le palme, ma bisogna che vi sia un vaso col sangue. Il P. Mabillon su questo dice: "Il decreto della s. congregazione è savissimo, supponendo però che si possa essere certi che quel vaso avesse contenuto il sangue; e non piuttosto profumi, o cose simiglianti." Chi non sa difatti che gli antichi solevano porre ne' sepolcri un piccolo vaso di vetro che conteneva le lacrime de' parenti e degli amici del defunto?

Le iscrizioni che si trovano sui sepolcri nelle catacombe sono spesso fallaci. La iscrizione della celebre S. Filomena trovata nel 1805 dice queste sole precise parole - LUMENA PAX TECUM FI - come si rileva da essa iscrizione che la proprietaria di quelle ossa si chiamasse Filomena, fosse santa, fosse stata martire? Il dotto Benedettino cita i fatti in prova che si venerano santi la cui iscrizione dice di loro tutt'altro. Egli dice che nelle Spagne vi è un S. Viar in gran voga; la di lui santità è autenticata da un pezzo di lapide trovata vicino al suo corpo nel quale è scritto S. Viar: gli archeologi che hanno esaminata quella iscrizione han dimostrato che essa è un frammento di una lapide innalzata ad un prefetto delle strade: PRAEFECTUS VIARUM; e della quale non è restato che la S. di praefectus, e il VIAR di viarum.

"Nella cappella interna dell'abazia di S. Martino Pontoise, si venera un corpo santo portato da Roma con la seguente iscrizione:

URSINUS. CUM. COJUGE. LEONTIA.
VIXIT. ANNIS. XX. M. VI. ET. FUIT.
IN. SECULO. ANNIS.
XLVIII. M. IIII. D. III. KAL. IUN.
vale a dire:
"Ursino visse con la sua moglie Leonzia 20 anni e sei mesi, e nel secolo 48 anni, 4 mesi e tre giorni. Morì il primo di Giugno.
"Coloro che leggeranno questa iscrizione non vi troveranno alcun segno nè della santità di Ursino, nè di quella della sua moglie." È il P. Mabillon che lo dice.
Ma havvi ancora di peggio.
"Gli Agostiniani di Tolosa, dice lo stesso autore, hanno pubblicamente dato il titolo di martire a Giulia Evodia, senza altra prova che la seguente iscrizione che è stata trovata in Roma nel cemeterio di Calisto sopra quel corpo che è in venerazione:

D. M.
IULIA. EVODIA. FILIA. FECIT.
CASTAE. MATRI. ET. BENE. MERENTI.
QUAE. VIXIT. ANNIS. LXX.
cioè: Ai dei infernali. Giulia Evodia figlia, ha fatto questo monumento di gratitudine alla sua casta madre, che visse 70 anni.

"Due errori han commessi gli Agostiniani di Tolosa: il primo di servirsi di questa iscrizione per autorizzare il titolo di martire che dànno a Giulia Evodia, mentre è impossibile trovare in essa un tal titolo (Le due lettere D. M. che come sa ognuno che conosce i primi elementi delle antichità romane significano Diis Manibus, sono state interpretate non so se per ignoranza o per mala fede Diva Martyr); il secondo errore è di dare cotal titolo a Giulia Evodia (che fece il monumento), in luogo di darlo alla casta madre della quale erano le ossa."
Per non trasformare questa nota in un trattato, ci limiteremo a dire che la impostura delle reliquie è cosa così evidente, che un poco di senso comune basta per esserne convinto.

Il legno della croce del Signore da molti secoli si distribuisce in Roma e nell'Oriente. Nella basilica di S. Croce in Roma ce ne è un grosso pezzo, un altro pezzo è nell'obelisco vaticano, una porzione in Costantinopoli; e la custodia delle reliquie in Roma ne dà ogni giorno a tutti. Tutti i vescovi ne hanno un pezzo nella loro croce pettorale: non vi è chiesa che non ne abbia il suo pezzo; inguisachè se si raunassero tutti i pezzi esistenti, senza calcolare quelli che in tanti secoli sono andati perduti, vi sarebbe tanto legno della croce da caricarne più bastimenti.

Del latte della Vergine Maria ve ne sono tante bottiglie da empirne una dispensa. Il corpo di S. Andrea Apostolo è in cinque differenti luoghi, la sua testa, che doveva pure essere una, è in sei luoghi, e si contano di lui 17 braccia. Il corpo di S. Clemente è in tre diversi luoghi, e la sua testa in cinque. S. Ignazio martire, che fu mangiato dalle fiere nell'anfiteatro, ha tre corpi, sei teste, e sette braccia in diversi luoghi. S. Giacomo il minore ha quattro corpi, dieci teste, e dodici braccia. La testa di S. Giovanni Battista sta in dieci luoghi, e si venera il suo dito indice in undici chiese. Potremmo tirare assai a lungo questo catalogo; ma basti questo piccolo saggio per far vedere qual fede debba prestarsi alla indentità delle reliquie, e con quanta ragione il signor Pasquali contestava l'autenticità della sedia di S. Pietro.

Quando Maometto II prese Costantinopoli, raccolse con gran cura tutte le reliquie, e le serbò nel suo tesoro, per farne commercio. Era ancora il tempo nel quale si correva dietro a cotali cose; e molti principi offrivano al sultano buone somme per avere da lui una reliquia, e più essa era rara, più era pagata. Ognuno vede quale autenticità potevano avere le reliquie vendute da Maometto e suoi successori. Saladino sultano di Gerusalemme faceva lo stesso commercio; e così l'Europa fu riempiuta di quelle reliquie che non reggono neppure alla critica la più superficiale: intanto la Chiesa romana le adora, e ne celebra la festa con uffizio e messa.

Pedro

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Luoghi teologici

Nota 3. alla lettera quinta di Roma Papale 1882

I luoghi teologici sono le fonti dalle quali si traggono gli argomenti per provare i dommi e le dottrine della Chiesa romana. Essi sono la parte la più essenziale della teologia cattolica e nella università romana vi è un professore apposta per insegnarli. Essi sono dieci, cioè:
primo l'autorità della Sacra Scrittura interpretata secondo le regole della Chiesa Romana;
secondo l'autorità della tradizione, la quale è parola di Dio come la Bibbia;
terzo l'autorità dei concilii;
quarto l'autorità infallibile del papa;
quinto il consenso della Chiesa insegnante, ossia de' vescovi;
sesto l'autorità dei Padri;
settimo le sacre antichità;
ottavo la testimonianza della storia ecclesiastica scritta ad uso della Chiesa romana;
nono l'autorità dei teologi;
decimo la ragione.
Pedro

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Arco di Tito

Nota 4. alla lettera quinta di Roma Papale 1882

L'arco di Tito, che ancora si vede in Roma, è uno di que' monumenti parlanti che dimostra all'incredulo la veracità delle Sante Scritture, ed al Giudeo ricorda i gastighi di Dio predetti da Mosè contro la sua nazione. Quel monumento fu innalzato da' Romani, i quali non conoscevano le profezie di Mosè che essi suggellavano con quel monumento.

Ecco alcuni brani della profezia di Mosè come si legge nel capo XXVIII del Deuteronomio, secondo la versione di Martini: "Ti farà il Signore cader per terra a' piedi de' tuoi nemici; per una strada andrai tu incontro di essi, e per sette fuggirai, e sarai disperso per tutti i regni della terra; e il tuo cadavere sarà pasto di tutti gli uccelli dell'aria, e delle bestie della terra, e niuno le discaccerà...... i tuoi figliuoli saran dati in potere di un popolo straniero; tu lo vedrai co' tuoi occhi, i quali si consumeranno a mirarli continuamente; e nulla potrà fare per essi il tuo braccio; tutti i frutti della tua terra, e tutte le tue fatiche se le divorerà un popolo a te ignoto; tu sarai sempre perseguitato ed oppresso in ogni tempo...... Il Signore condurrà te e il tuo re cui ti sarai eletto nel paese di una nazione non conosciuta da te, nè da' padri tuoi; e ivi servirai agli dèi stranieri, alla pietra e al legno: e diverrai lo stupore e l'esempio e la favola di tutti i popoli, tra' quali il Signore ti dispergerà...... Tu servirai al tuo nemico mandato contro a te dal Signore, nella fame, nella sete, nella nudità, nella miseria; e sopra il tuo collo porrà egli un giogo di ferro, onde tu ne resti schiacciato. Da paese rimoto, dagli ultimi confini del mondo, farà piombare il Signore sopra di te, come aquila che vola impetuosamente, una nazione di cui tu non potrai capire il linguaggio; nazione al sommo arrogante, che non ha riguardo alla vecchia età, nè compassione de' fanciullini... E resterete in piccol numero voi, che eravate pella moltitudine come le stelle del cielo; perchè tu non ascoltasti la voce del Signore Iddio tuo. E siccome per lo passato il Signore prendea piacere a farvi del bene e ad ingrandirvi; così prenderà piacere a spendervi e sterminarvi da quella terra, della quale entrerete ora al possesso. Ti dispergerà il Signore tra tutte le genti da un'estremità della terra insino all'altra; e ivi servirai agli dèi stranieri non conosciuti da te, nè da' padri tuoi, ai legni e ai sassi. Ma neppure tra quelle genti avrai posa, nè vi starai con piè fermo; perocchè il Signore darà a te un cuor pauroso, e occhi smarriti, e anima consumata dalla tristezza" (Deut. XXVIII, 23, 26, 32, 33, 36, 37, 48, 49, 50, 62-65).

Le profezie di Gesù Cristo ne' luoghi citati dal sig. Pasquali sono quelle che fanno allusione alla prossima rovina del tempio, del quale non sarebbe restata pietra sopra pietra. La storia scritta da Giuseppe Ebreo, che fu testimone di vista di quegli avvenimenti, ci dà tutti i dettagli i più minuti dell'adempimento di queste profezie: ed ecco la testimonianza degli Ebrei sul compimento di esse. I Gentili, edificando quell'arco di trionfo, resero anch'essi testimonianza, non sapendolo, della veracità della Parola di Dio.

Per coloro che non sono mai stati in Roma, daremo una brevissima descrizione di cotesto arco.
Esso fu eretto dal senato e popolo romano per eternare la memoria della vittoria di Tito sopra la nazione giudaica; vittoria talmente decisiva, che dopo diciannove secoli la nazione giudaica continua ancora a vivere nella dispersione, senza essersi mai potuta riunire, per quanti sforzi essa abbia fatti. L'arco è di marmo pentelico, ed è il più bel monumento che siasi conservato in questo genere. Nelle facciate interne si veggono due bassorilievi, i quali, sebbene mutilati, pure debbono porsi fra i più belli che si conoscano. In uno di essi si vede Tito trionfante sul carro, tirato da quattro cavalli di fronte, e guidati pe' morsi da una donna rappresentante Roma. La Vittoria corona l'imperatore, ed una folla di senatori, littori, soldati, e cittadini lo accompagnano. L'altro bassorilievo rappresenta i capi degli Ebrei incatenati e portati in trionfo con l'altare d'oro, il candelabro, le trombe di argento del tempio, ed altre spoglie del tempio di Gerusalemme. Tito è l'uomo che eseguisce senza saperlo i decreti di Dio contro un popolo ribelle, pronunciati per la bocca di Mosè quindici secoli prima.
Pedro

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Palazzo de' Cesari

Nota 5. alla lettera quinta di Roma Papale 1882

Il palazzo de' Cesari, abitazione degli imperatori romani, è stata la più grande delle maraviglie del mondo in genere di palazzi. Esso era fabbricato sul colle chiamato Palatino, il più celebre fra i sette colli. Romolo fondò Roma su quel colle. Esso ha un perimetro di 6400 piedi antichi romani, equivalenti ad un miglio ed un quarto. Fondatore di cotesto palazzo fu Augusto; ma Tiberio lo ingrandì, Caligola vi aggiunse ancora per avvicinarlo al Campidoglio, e fece fare un ponte per potere dal suo palazzo andare al senato senza uscire per istrada. Nell'incendio di Roma sotto Nerone, il palazzo de' Cesari fu consumato dalle fiamme. Nerone lo rifabbricò, e non contento di occupare con esso tutto il vasto colle Palatino, prese ancora tutta la valle fra il Palatinato, il Celio e l'Esquilino, ed una gran parte ancora di quest'ultimo colle. Tale era la magnificenza e la ricchezza di quel palazzo che fu chiamato domus aurea, casa d'oro.

Alla entrata principale del palazzo era stato posto il celebre colosso di quell'imperatore, alto 160 palmi. In esso erano giardini, terme e boschi ripieni di selvaggine per la caccia imperiale. Vi era un vastissimo lago navigabile, circondato da maestosi edificii. Più di tremila colonne sostenevano gli archi de' vastissimi portici. Le ricchezze del mondo erano riunite in cotesto palazzo: innumerevoli erano le sale di cotesto palazzo, e tutte ornate di preziose colonne, di statue e di pitture. L'oro e le pietre preziose vi erano gettate a profusione. Le tegole stesse erano tutte coperte di lamine d'oro; le pareti erano coperte di oro e di madreperla, che in que' tempi era in gran pregio; le volte delle sale principali erano ornate di eccellenti lavori in oro ed in avorio; ed in una sala da pranzo, la volta rappresentava il cielo con le costellazioni, che per un ammirabile meccanismo si muoveva rappresentando esattamente il moto celeste; e di tanto in tanto, da quella volta, pioveva, su' convitati e sulla mensa, un'acqua di varii soavissimi odori. Quando il palazzo fu compiuto, e Nerone andò ad abitarlo, disse: "Ora sono alloggiato quasi come si conviene ad un uomo."

Una cotale magnificenza non parve sufficiente ai suoi successori. L'imperatore Ottone vi spese ancora cinquanta milioni di sesterzi (cioè 6,750,000 fr.), per maggiormente arricchirlo. Domiziano vi spese ancora molti altri milioni. Ed ora di tante ricchezze, di tante magnificenze non restano che pochi informi ruderi ricoperti di edera. L'umile Paolo che viveva in que' tempi poteva dire, e con lui può dirlo ogni Cristiano: "Noi sappiamo che se il nostro terrestre albergo di questo tabernacolo è disfatto, noi abbiamo da Dio un edificio, che è una casa fatta senz'opera di mano, eterna ne' cieli" (2 Cor. V, 1).

Pedro

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Se S. Gregorio M. bruciasse le biblioteche

Nota 6. alla lettera quinta di Roma Papale 1882

Giovanni di Salisbury nel libro secondo De Nugis curialium al capo 26 sostiene che realmente S. Gregorio M. facesse bruciare la famosa biblioteca palatina, divisa in due, cioè una contenente i libri greci, l'altra i latini; ma Scipione Ammirato nega questo fatto. Altri autori più imparziali han detto che questo fatto non è abbastanza provato per poterlo asserire con tutta certezza.

Due fatti però sono talmente accertati che non può ragionevolmente dubitarsi di essi: il primo che S. Gregorio odiava eccessivamente tutti i libri scritti da' Pagani, e quindi tutta la scienza e tutta la letteratura degli antichi. S. Antonino arcivescovo di Firenze, e Vossio, sostengono che S. Gregorio facesse bruciare le opere di Tito Livio, di cui non ci restano che pochi frammenti fuggiti al vandalismo del Magno Gregorio. Cardano dice che Gregorio fece anche bruciare gli scritti di Afranio, Nevio, Ennio ed altri poeti latini.

L'altro fatto indubitato è la grande avversione che papa Gregorio I aveva per i buoni studi. In una lettera di cotesto papa (che è la 48 del lib. 9), scritta a Desiderio vescovo di Vienna, S. Gregorio dice: "Non possiamo ricordarci senza rossore quello che è giunto alle nostre orecchie, che cioè voi insegnate la grammatica a qualcuno. Questa notizia mi ha fatto tale dispiacere, ed ha in me talmente eccitato il dispregio, che tutto il bene che prima mi era stato detto di voi, mi è divenuto per questo fatto cagione di tristezza e di pianto. Le lodi di Gesù Cristo e quelle di Giove non possono essere nella stessa bocca. Giudicate voi stesso qual cosa nefanda sia per un vescovo declamare quei versi che non dovrebbero essere declamati neppure da un laico, se fosse veramente religioso!...... Se dopo ciò, le cose che ci sono state dette appariranno evidentemente false, e consterà che voi non avete studiate cotali bagattelle di letteratura, allora ne renderò grazie a Dio, il quale non permise che il vostro cuore fosse macchiato da quelle bestemmie."

Lo stesso S. Gregorio, nella sua prefazione ai suoi libri morali, si fa un vanto di disprezzare ogni letteratura. Ecco le sue parole: "Io ho disprezzato la stessa arte del parlare che è insegnata da' maestri nelle scuole; imperciocchè, come voi potete vederlo da questa stessa mia lettera, io non evito la collisione de' metacismi, nè la confusione de' barbarismi; io dispregio la cura di mettere al loro posto le preposizioni ed i casi; perchè stimo essere una indegnità restringere le parole degli oracoli celesti sotto le regole grammaticali."

L'autore cattolico romano della storia de' Papi (Histoire des Papes depuis S. Pierre jusque à Benoit XIII. A' la Haye, 1732 tom. 1, pag. 397.), dopo citati cotali fatti, dice: "Dalle quali cose si può giudicare la falsità di una opinione sparsa generalmente che le guerre e le devastazioni, avvenute per le invasioni de' barbari in Italia, abbiano introdotta quella profonda ignoranza che inondò per tanti secoli tutte le provincie dell'impero. Attribuendola unicamente a questa causa, non si rende giustizia alla abilità del clero, il quale, conoscendo benissimo i propri interessi, ha secondato così bene gli sforzi de' barbari. Il sapere è stato in ogni tempo l'obbietto dell'odio degli ecclesiastici. Niuna cosa sembrò agli antichi ecclesiastici più nocevole ai loro disegni, che i filosofi, gli storici, ed il buon senso contenuto nei loro scritti. Le belle lettere e le scienze sono lo scoglio della furberia de' preti. La verità di questa massima portò i prelati, subito che fu in loro potere, ad attaccare con rabbia tutto quello che riguardava le scienze, le lettere, e le belle arti. Bruciarono molti libri eccellenti dell'antichità; distrussero quadri che non avevan prezzo; mutilarono e guastarono i più belli pezzi della scultura; in una parola, rovinarono e seppellirono i più nobili resti dell'antichità."

Se tutto quello che abbiamo detto in questa nota, non giustifica pienamente il fatto asserito dal signor Pasquali, giustifica però l'altro fatto certissimo che i preti sono i più grandi nemici del sapere.

Pedro

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Il Colosseo. Chi lo ha ruinato

Nota 7. alla lettera quinta di Roma Papale 1882

È opinione comune in Roma che il Colosseo sia stato rovinato da' barbari; ma nulla vi ha di più falso. Le storie dicono che fino al quinto secolo si continuarono in quell'anfiteatro a dare gli spettacoli delle bestie feroci. Danneggiato dai terremoti negli anni 439 e 480, fu subito con somma cura ristorato. Nè Alarico, nè Genserico, nè Odoacre lo danneggiarono punto. Nel 523, quando vi furono dati gli ultimi spettacoli di bestie feroci di cui ci resta memoria, era ancora intatto; il ven. Beda ci dice che era intatto al suo tempo, cioè nel secolo ottavo. Non furono dunque i barbari, ma i papi, che devastarono quella meraviglia del mondo, fatta per sfidare i secoli. E sebbene, come dice l'abate, i papi in questi ultimi anni abbiano cercato d'impedire la sua totale rovina, ciò non toglie che non sieno i papi i devastatori di quel monumento.

Nel secolo XI, il Colosseo era divenuto fortezza, che fu posseduta alternativamente dalle diverse fazioni dei Frangipani e degli Annibaldi. Questi ultimi lo ritenevano ancora nel 1312, nel quale anno ritornò ad essere proprietà del pubblico. Nel 1332 si diede in esso uno splendido torneamento; ma poi, abbandonato, serviva di cava di pietre. Nel 1381, fu ridotto ad ospitale; ma già ne era distrutta una parte, quella che guarda il monte Celio. Nel secolo seguente, fu di nuovo abbandonato, e papa Paolo II trasse da esso i materiali per fabbricare il palazzo di Venezia, posseduto oggi dall'Austria. Il cardinal Riario pochi anni dopo vi prese i materiali per fabbricare il palazzo della Cancelleria. Paolo III, circa il 1540, trasse dal Colosseo le pietre per fabbricare il magnifico palazzo Farnese, proprietà attuale dei Borboni di Napoli. Clemente XI, nel 1703, vi prese le pietre per fabbricare con esse il porto di Ripetta. E lo stesso papa ridusse il Colosseo a ricettacolo delle immondezze per estrarre da esse il salnistro. Ecco quanto è vero che la pietà de' papi ha trasformato in luogo sacro il Colosseo!

È ben vero che al principiar di questo secolo Pio VII, o meglio il cardinal Consalvi, fe' togliere tutte le immondezze e la fabbrica di salnitro, e fece alcune riparazioni per impedire la rovina totale di quell'edificio; ma ciò si deve più alla forza de' tempi e della pubblica opinione, che al buon volere de' papi.

Pedro

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I gladiatori

Nota 8. alla lettera quinta di Roma Papale 1882

Gli antichi Romani amavano moltissimo i barbari giuochi de' gladiatori, i quali prima d'incominciare ad uccidersi si presentavano avanti la loggia dell'imperatore e facevano il loro saluto con queste parole: Morituri te salutant, cioè: Coloro che vanno a morire ti salutano.

I gladiatori ebbero origine dagli antichi Etruschi, ed erano schiavi che dovevano scambievolmente uccidersi ne' funerali del loro padrone, per placare in favor suo la divinità. Furono introdotti in Roma l'anno 490 (di Roma) dai fratelli Bruti, per celebrare i funerali del loro padre. E si continuò il combattimento de' gladiatori solo ne' funerali de' grandi uomini. In seguito s'introdusse il barbaro uso anche ne' funerali de' privati. Finalmente se ne fece un divertimento per il popolo.

I gladiatori erano o schiavi condannati, o uomini comperati per quell'infame mestiere, o condannati a tale pena da' magistrati; vi erano anche uomini liberi che volontariamente si davano a quella feroce professione. Vi erano i procuratori o curatori de' gladiatori, i quali avevano cura della loro salute, e gli facevano acquistare robustezza di forze con buoni e succolenti cibi, e con esercizi continui. Vi erano i lanisti, i quali erano i maestri de' gladiatori, ed i loro insegnamenti messi per iscritto si chiamavano commentari. I lanisti prendevano anche i fanciulli esposti e li educavano per essere gladiatori.

Vari erano i modi di combattere, e perciò vi erano più specie di gladiatori; ma, prima d'incominciare la pugna, erano dal magistrato esaminate le armi per constatare che fossero atte a ferire facilmente; e così in ogni spettacolo che si dava al popolo centinaia di gladiatori dovevano restare sul terreno; e più erano i morti, più si reputava lo spettacolo divertente.

Vi era una specie di gladiatori che dovevano nell'anfiteatro pugnare con le fiere, e cotesti si chiamavano bestiarii. Fra costoro vi erano i condannati ad bestias; ai gladiatori si permetteva avere un'arma, ma ai condannati era rarissime volte permessa. Molti Cristiani morirono in tal modo; ed il popolo rideva e si divertiva in tali spettacoli.

Nell'anfiteatro Flavio alcune centinaia di Cristiani morirono esposti alle fiere; ma quel medesimo anfiteatro fu bagnato del sangue di molte migliaia di gladiatori che erano tutt'altro che santi, e di molte centinaia di rei di delitti comuni. Quindi è esagerazione il dire, come dicono i preti di Roma, che la terra del Colosseo è una reliquia, perchè bagnata dal sangue di tanti martiri.

Pedro

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La via crucis

Nota 9. alla lettera quinta di Roma Papale 1882

Ecco cosa è la via crucis. Essa è una devozione inventata dai frati Francescani, ed essi ne hanno la privativa. Non si può erigere in nessuna chiesa o cappella una via crucis se non è messa dai frati Francescani, i quali, bene inteso, non lavorano gratis. Essa consiste in quattordici quadri o cappellette, in ciascuna delle quali è rappresentato un fatto della passione del Signore, dal giudicio di Pilato fino alla sepoltura; ma la maggior parte di que' fatti non sono presi dal Vangelo, bensì dalle tradizioni apocrife: per esempio, vi sono tre quadri rappresentanti le tre cadute di Gesù sotto la croce, un altro rappresentante l'incontro di Gesù con la madre, un altro rappresentante la Veronica, i quali fatti sono tutti apocrifi. Per acquistare le indulgenze bisogna pregare avanti i quattordici quadri.

Le indulgenze annesse alla via crucis sono le stesse che si acquisterebbero visitando i luoghi santi di Gerusalemme. Chi avesse volontà di vederle in dettaglio, non ha che a consultare il P. Lucio Ferraris nella sua bibliotheca canonica juridica moralis theologica, alla parola Indulgentia art. V. Noi le daremo sommate da questo autore. Si acquistano ventuna indulgenze plenarie, la indulgenza della liberazione di un'anima dalla pena e dalla colpa: oltre a ciò, sommate le indulgenze parziali citate dallo stesso autore giungono alla somma di 1202 anni, e 1227 quarantene: ed il P. Ferraris sopra citato riporta le bolle di molti papi che accordano cotali indulgenze. Questo si chiama dare il paradiso a buon mercato!

Pedro

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