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CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Roma Papale

Ultimo Aggiornamento: 16/04/2011 19:12
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Lettera Quattordicesima
Lettera quattordicesima

Gesuitismo
Enrico ad Eugenio

Roma, Aprile 1849.


Mio caro Eugenio,

Tu forse ti aspetterai di leggere in questa mia il patetico racconto della mia incarcerazione: ed infatti, stando all'ordine cronologico dei fatti, tale dovrebbe esserne il soggetto; ma io sento l'imperioso bisogno di farti parte delle mie idee sul Gesuitismo: esse non sono più quelle che ne aveva una volta, esse non sono modificate, ma sono interamente cangiate (Nota 1 - Non è disonorevole cambiare convinzione).

Tu sai che io era interamente gesuita di cuore e di animo, sebbene non ne avessi l'abito (Nota 2 - Si può essere Gesuita ed onesto): tu sai che aveva fatto con gran divozione e buonafede gli esercizi di S. Ignazio, ed era pronto a farli di nuovo dopo Pasqua, se non fossi stato incarcerato; ma alcune conversazioni col signor pasquali che io non ti ho mai raccontate, mi avevano messo un poco in sospetto sul riguardo di essi. I miei sospetti erano poi divenuti certezza, quando nel lungo silenzio di due anni di prigionia aveva raccozzate tutte le mie idee, e confrontandole, e riflettendoci sopra, e ragionando, era venuto a scoprire quello che non avrei mai scoperto seguitando a credere tutto bene, secondo la mia buonafede. Tu mi domanderai come sono giunto a tale scoperta; ed io te lo dirò francamente.

Il mio confessore era francese, anzi era il segretario del P. assistente di Francia. Egli non aveva nessun sospetto sopra di me, anzi mi amava molto; e, tenendomi come un affigliato (Nota 3 - Chi sono gli affigliati) sicuro, si serviva spesso di me per farmi copiare le lettere: così mi è accaduto molte volte di restar solo nella sua camera per quella bisogna. Allora, confesso la mia indelicatezza, per una certa curiosità giovanile, guardava nel copialettere, altre lettere che io non aveva copiate; e così venni in cognizione di cose, che, sebbene allora non comprendessi, pure ripensandovi sopra nella prigione, e paragonandole con quello che già sapeva e con gli avvertimenti del Valdese, mi fecero cadere il velo dagli occhi. Però tutto questo non mi avrebbe fatto conoscere il Gesuitismo: esso è un mistero impenetrabile al novantanove per cento de’ Gesuiti stessi (Nota 4 - Organizzazione de' Gesuiti). Dio volle che fosse grande amico del mio ospite un certo Abate P. che per tanti anni era stato Gesuita, e poi, fingendo una malattia incurabile, aveva ottenuto il permesso di uscirne. Questo Abate vecchio, sentendo la mia storia, mi disse: "Povero giovane, voi siete una vittima dei Gesuiti." Il giorno dopo, l'Abate venne nella mia camera, e mi svelò il mistero del Gesuitismo, che ti racconterò in breve.

La massima fondamentale del Gesuitismo è esposta negli Esercizi di S. Ignazio: tutti i mezzi sono buoni, purchè conducano al fine. Essa veramente non è espressa con queste parole, che farebbero orrore a qualunque galantuomo; ma per quanto le parole sieno inargentate, come le pillole di aloè, pure sotto la pillola di argento sta la iniquità: voglio dire, che se quelle parole possono gettare alquanto la polvere sugli occhi, pure il senso è quello che noi gli abbiamo dato (* Vedi lettera I: Esercizi spirituali di S. Ignazio). Ora quale è il fine che dicono voler raggiungere i Gesuiti? Se lo domandi a loro, ti diranno: "La maggior gloria di Dio." È questa la loro divisa, la parola di ordine di tutta la loro società: ad majorem Dei gloriam. E su questo punto l’Abate P. mi fece notare una cosa alla quale io non aveva mai riflettuto: essi non dicono di operare per la gloria, ma per la maggior gloria di Dio: non è la gloria positiva, ma la gloria di Dio comparativa, che essi dicono procurare. In forza di questo gingillo grammaticale, che è la inargentatura della pillola, si apre la strada a tutte le spiegazioni: la pillola è così bene inargentata che ti sembra veramente un globettino di argento; ma il farmacista che la ha fatta sa che è aloè. Portiamo un esempio de’ più spirituali. Sia la salvezza delle anime lo scopo che si propone un Gesuita: egli deve essere indifferente nella scelta dei mezzi, e solo deve badare che conducano al fine: la gloria di Dio esigerebbe la sincerità, la verità; ma se, parlando sinceramente e con verità, si prevede che non si giungerà allo scopo desiderato; allora, i mezzi essendo indifferenti, si può scegliere la finzione, la menzogna, che si chiama non più col suo nome, ma santa industria: nell’agire con verità si darebbe gloria a Dio; ma siccome gli si dà maggior gloria colla conversione di un’anima, così si possono usare le sante industrie per la maggior gloria di Dio. Fa’ tu le applicazioni di questi principii che si presentano sotto aspetto di pietà, ed ingannano i semplici, e vedrai con essi giustificati i regicidii, le menzogne, le calunnie, le cospirazioni.

Vediamo ora come sono applicati questi principii, in generale, da’ Gesuiti, anche i più buoni, senza farsene il più piccolo scrupolo. La maggior gloria di Dio, essi dicono, vuole che tutti gli uomini sien salvati, e che giungano alla conoscenza della verità; ma la verità non è che nella Chiesa cattolica romana, e la salvezza non può ottenersi fuori di essa: dunque dobbiam cercare che tutti gli uomini divengano cattolici, e che niuno di essi ci sfugga. Ma, per ottenere questo fine, di quali mezzi ci dobbiam servire? I mezzi sono indifferenti: la ignoranza, per esempio, è il mezzo sovrano per ritenere gli uomini nel Cattolicismo; quindi essi si fanno un dovere di mantenere e fomentare la ignoranza ne’ popoli; ed un Gesuita di buona fede vede ne’ progressi delle scienze la rovina della religione. Ma è un’ardua impresa mantenere la ignoranza ai nostri tempi e non si può fare svelatamente: quindi essi mantengono l’ignoranza sotto l’aspetto di scienza (Nota 5 - Istruzione che dànno); quindi essi ed i loro affigliati vogliono il monopolio dell’insegnamento, per inviluppare la scienza in metodi inestricabili, ed occupare gl’intelletti in vane questioni, anzichè nella solidità della scienza. Che se qualcuno de’ loro scolari a loro dispetto si solleva sugli altri, per la potenza ch’essi hanno, costui è perseguitato o calunniato o come eretico, o come liberale, secondo i paesi ov’egli dimora; e ciò per la maggior gloria di Dio, acciò non distragga gli altri dalla via di salute.

Per attirare o mantenere i popoli nella religione romana, bisogna ispirare e fomentare la superstizione: la superstizione sarebbe cosa cattiva; ma diviene buona, se è abilmente usata, e se conduce al fine. Ed ecco il perchè tutte le moderne superstizioni hanno origine da’ Gesuiti: ma siccome vi sono degli uomini i quali aborriscono tutto ciò che in religione è moderno; così si ricorre alla pia frode, facendo credere, e predicando, e stampando che quelle devozioni sono antichissime (Nota 6 - Antichità della corona. Scala santa). Che se uomini dotti e sinceri smentiscono evidentemente la impostura, allora i Gesuiti, alla maggior gloria di Dio, li dichiarano eretici, giansenisti, increduli, secondo i luoghi ed i tempi (Nota 7 - Come si carpiscono le ritrattazioni).

Non è possibile che ti sviluppi in una lettera quanto il buon Abate P. mi disse sul Gesuitismo. Io ti dirò quello che fanno pubblicamente e senza mistero i Gesuiti in Roma per la maggior gloria di Dio, acciò tu ne possa avere una idea.

In Roma i Gesuiti agiscono manifestamente e senza timore: sono in casa loro. L’intera società romana di tutte le classi è nelle loro mani. Per quello che riguarda la istruzione, essi hanno il Collegio Romano, ove circa mille giovani ricevono da essi istruzione gratuita (Nota 8 - Come i Gesuiti insegnano gratis): hanno il Collegio Germanico (Nota 9 - Collegio germanico), ove un centinaio di giovani tedeschi, prussiani, ungheresi, bavaresi e svizzeri sono sotto la loro disciplina; e, finita la educazione, sono mandati ai loro paesi missionari, parrochi ed anche Vescovi. Hanno i collegi Irlandese e Scozzese (Nota 10 - Collegi irlandese e scozzese), nei quali si educano giovani per essere poi mandati bene ingesuitizzati ne’ loro paesi. Hanno il Collegio della Propaganda, ove si educano più di trecento giovani di tutti i paesi, per poi rimandarli gesuitizzati ai loro paesi. Hanno il Collegio de’ nobili, ove quasi tutti i figli della nobiltà romana sono educati gesuiticamente. Per la istruzione delle donne vi sono le dame del S. cuore che educano le nobili; le monache del Buon Pastore, per il ceto medio; e le Maestre Pie, per il basso popolo.

Tutti gli scolari de’ Gesuiti sono obbligati di confessarsi dai Rev. Padri: e qui è la gran messe de’ Gesuiti. Quei giovani, educati da loro, che sentono sempre le loro prediche, le loro istruzioni, non possono ricusar nulla a quegli uomini che esercitano una influenza magnetica su di loro. I Gesuiti poi destinati ad ascoltare quelle confessioni, sono scelti con grande abilità dai superiori: sono quegli che hanno il particolare dono d’insinuarsi ed impadronirsi dell’animo de’ giovani: essi non si contentano di ascoltare la confessione de’ peccati di quei giovinetti; ma, fingendo interessarsi sommamente di essi, fanno con sì bella maniera tante e così svariate interrogazioni, che vengono a sapere dal giovane che si confessa tutto lo stato della famiglia, la condotta de’ suoi parenti, l’andamento della casa, le persone che la frequentano, i discorsi che vi si fanno; e così il giovanetto inesperto diviene spesse volte, senza avvedersene, l’accusatore dei propri parenti. È questo uno dei mezzi di cui si servono i Rev. Padri per la loro polizia segreta.

Questo solo mezzo non raggiungerebbe il loro scopo: ad essi non basta conoscere i segreti delle famiglie; essi vogliono tutto dirigere a loro modo, cioè per la maggior gloria di Dio: ed hanno perciò inventate tante congregazioni, per potere sotto l’aspetto di religione dominare tutta la società. L’abate P. mi rammentava le congregazioni spirituali che hanno stabilite solamente in Roma i Gesuiti, oltre la casa di esercizi di S. Eusebio, di cui ho parlato nella mi prima lettera, quando vedeva le cose nel senso dei Rev. Padri; ma l’Abate mi spiegò quegli esercizi nel loro vero senso. Oltre questo mezzo, e quello della confessione degli scolari, i Gesuiti dirigono in Roma le seguenti congregazioni.

Nella chiesa sotterranea del Gesù vi è una congregazione di nobili, alla quale sono aggregati tutti i nobili romani: i Gesuiti sono i loro direttori, confessori e predicatori; ed eccoli con questo mezzo padroni dell’aristocrazia. Hanno in una cappella al piano terreno della casa del Gesù una congregazione di mercanti, alla quale sono aggregati quasi tutti i negozianti di Roma: i Gesuiti ne sono i confessori, i predicatori, i direttori; e così per mezzo di questa congregazione essi non solo sono al giorno di tutti gli affari, ma in gran parte li dirigono. In una cappella interna del Collegio Romano vi è una congregazione chiamata prima primaria, alla quale sono aggregati bottegai ed artigiani romani, diretti sempre da’ Gesuiti. Nella Chiesa di S. Vitale (Nota 11 - I contadini ed i Gesuiti) vi è una congregazione di contadini; e così essi sono al giorno degli affari dell’agricoltura. Nei bagni di Castel S. Angelo, ove sono i condannati, essi hanno e dirigono una congregazione spirituale di galeotti (Nota 12 - I condannati ed i Gesuiti); ed ecco nelle loro mani la polizia delle galere. Nelle carceri de’ malfattori hanno un’altra congregazione spirituale, e tutte le domeniche e feste passano delle ore con que’ prigionieri a segreti colloqui, per salvare la loro anima, bene inteso. I carabinieri sono stati posti sotto la direzione spirituale dei Gesuiti, ed ogni anno debbono fare gli esercizi spirituali sotto la loro direzione.

Ma fino ad ora non abbiamo parlato del sesso devoto per eccellenza: forsechè le donne sono abbandonate da’ Gesuiti? Tutt’altro: anzi sono la loro parte più cara. Nell’oratorio del Caravita (Nota 13 - Il Caravita) vi è una congregazione di dame, alla quale appartengono tutte le dame romane, e sono sotto la direzione dei Gesuiti. Nello stesso oratorio vi è una congregazione di semidame, della quale fanno parte le signore romane appartenenti al ceto medio; vi è la congregazione delle missioni (Nota 14 - Le missioni in Roma), della quale fanno parte i più bigotti fra gli artigiani, i servitori, i cuochi, le serve, e le vecchie bigotte. Sicchè tutte le classi della società sono in mano de’ Gesuiti.

Non tutti però appartengono a queste congregazioni: bisogna dunque, per la maggior gloria di Dio, cercare anche gli altri; e si cercano nelle missioni e ne’ confessionali.

I Gesuiti sono assidui al confessionale: la loro chiesa del Gesù ha una quantità di confessionali, e sono sempre tutti occupati: vi sono i confessori della mattina e quelli del dopopranzo: la sera, al Caravita e nelle cappelle delle congregazioni, vi sono confessori per gli uomini. I confessori dei vari ceti di persone sono destinati da’ superiori, secondo i loro talenti. Coloro che sanno meglio insinuarsi nell’animo dei giovanetti, sono destinati a confessori della scolaresca: i nobili o almeno coloro che sanno i modi aristocratici, sono destinati confessori de’ nobili: coloro che sanno introdursi nelle grazie (sempre però spiritualmente) del bel sesso, sono destinati alle congregazioni di donne, ed ai confessionali in chiesa, ove ordinariamente non vanno che donne. Così ogni classe di persone trova fra’ Gesuiti abilissimi confessori, ed essi alla maggior gloria di Dio sanno bene trarre profitto dal concorso.

L’Abate P., che per tanti anni era stato gesuita, volle darmi una idea del loro governo: io te ne darò un cenno. Il governo gesuitico è eminentemente monarchico: uno è il loro capo che si chiama Generale: egli può fare quello che vuole; la sua carica è a vita, e non deve rendere ragione a nessuno, purchè cammini secondo lo spirito dell’istituto, cioè diriga tutti gli ordini alla maggior gloria di Dio: se si allontana da questo scopo, può essere deposto dagli assistenti, i quali convocano la congregazione generale per eleggerne un altro; ma questo caso non si è mai verificato. Ecco come il P. Generale ha in mano il governo di tutto il mondo cattolico romano.

Ogni Gesuita è obbligato alla obbedienza cieca verso il suo superiore: inguisachè, secondo le espressioni della loro regola, il Gesuita deve essere nelle mani del superiore quello che è il cadavere nelle mani del chirurgo che lo seziona (Nota 15 - Regole de' Gesuiti). Il Gesuita quando agisce per obbedienza non è mai responsabile delle sue azioni; il Gesuita non ha più coscienza, egli la ha alienata al suo superiore per la maggior gloria di Dio; egli deve ciecamente obbedire e riguardare il superiore come Gesù Cristo stesso, come se la voce del superiore fosse la voce di Dio.

È vero che nella loro regola si dice che se il superiore comandasse cosa che fosse manifestamente peccato, non si deve ubbidire; ma cotale eccezione è illusoria. Primo: perchè, posto che la voce del superiore è la voce di Dio, è impossibile che Dio ordini un peccato; secondo: perchè nella dottrina de’ Gesuiti è difficile trovare un peccato (Nota 16 - Morale de' Gesuiti).

Per i Gesuiti il mondo è il loro regno, e le diverse nazioni non sono che provincie di quel regno del P. generale. Per esempio, l’Inghilterra, la Irlanda e la Scozia, sono una semplice provincia gesuitica: tutta l’Italia non è che una provincia: la Francia è un’altra provincia: la Svizzera intera non ha neppure l’onore di essere considerata come provincia; ma la Svizzera francese è unita alla provincia di Francia, e quella tedesca alla provincia di Germania; e così degli altri regni. Ognuna delle provincie mantiene in Roma presso il generale un rappresentante col titolo di P. assistente; e codesti Padri assistenti assistono e consigliano il P. generale dando semplicemente il loro parere puramente consultivo, quando ne sono da lui richiesti.

Ogni individuo appartenente alla compagnia deve fare ogni giorno la relazione di quanto ha veduto pensato, o sentito, sia da’ suoi compagni sia dagli estranei: e questa relazione deve essere fatta ad un Gesuita a ciò destinato, che si chiama il P. spirituale, ovvero direttamente al superiore. I superiori debbono fare gli estratti di tutte le relazioni, raccogliere quanto in esse vi può essere d’interessante e mandare in ogni settimana la sua relazione al P. Provinciale. I Provinciali, a loro volta, fanno la loro relazione che ogni settimana inviano al P. generale; il quale, a sua volta, fa il sunto ed ogni giovedì nella udienza particolare che ha dal Papa riferisce e consulta con Sua Santità (Nota 17 - Pio VIII e il generale de' Gesuiti).

Tutte queste cose fan sì che il generale de’ Gesuiti è temuto dal Papa e dai sovrani; imperciocchè egli solo, per la via della coscienza di tutti i suoi sudditi, ch’egli solo ha in mano, conosce tutte le fila di tutta intera la società cattolica romana. I Padri assistenti sono gli uomini più avveduti delle loro provincie; uomini mandati a Roma acciò possano bene informare e consigliare il P. generale. Questi prende concerto con i suoi assistenti, secondo le notizie che riceve da’ Provinciali, o dalla società di S. Vincenzo (detta de’ Paolotti) affigliata: se vede, per esempio, che sia per la maggior gloria di Dio organizzare una rivoluzione in un regno, il P. generale prende i concerti col P. assistente di quel paese, il quale, per la ricognizione dei luoghi, delle persone, del carattere nazionale, può suggerire buoni avvertimenti; poi dà l'ordine al Provinciale d quel regno, e questi invia la parola d’ordine ai suoi sudditi ed affigliati, i quali, obbedienti come cadaveri, agiscono per lo più senza saperne lo scopo; agiscono ne’ pulpiti, ne’ confessionali, nelle scuole, nelle conversazioni, e sono come le ruote di una macchina abilmente mossa, che fanno il loro movimento senza sapere quale ne sarà il risultato. In questo modo il P. generale che è in Roma potrebbe, se lo credesse della maggior gloria di Dio, predire o far predire l’avvenimento dei mesi, ed anche degli anni prima che accadesse (Nota 18 - Avvelenamento di Clemente XIV), senza timore di rimanere smentito. Ecco il perchè i Gesuiti sono protetti dai sovrani e dai governi. Un sovrano che non è loro amico o presto o tardi prova la loro vendetta.

Ma tu dirai, che in questo vi è molta esagerazione, che quand’anche la politica de’ Gesuiti fosse quella indicata dall’Abate P., pure i Gesuiti non essendo più ora da per tutto, le loro fila sarebbero rotte, ed il loro generale non avrebbe più quella influenza. Questa difficoltà viene naturalmente alla mente di ognuno; ed io non lasciai di proporla al nostro Abate, il quale mi rispose presso a poco così:

"I Gesuiti, mio caro amico, non sono sempre vestiti col loro abito da Don Basilio, nè sempre vivono ne’ conventi: in que’ paesi ove essi non possono esistere legalmente, vi esistono in altro modo; anzi posso dirvi che in que’ paesi la influenza del P. generale è più grande. I Gesuiti esistono in tutti i paesi protestanti sotto il nome di missionari, con abito da prete, ed anche con abiti laicali: essi vi esistono sotto altro nome. Anzi in que’ paesi il P. generale manda gli uomini i più abili, i quali si fanno tutto a tutti, per guadagnar tutti alla setta: così coloro che in que’ paesi non ardirebbero dichiararsi Gesuiti, ingannati dall’apparenza degli emissari, che all’occasione dicono male dei Gesuiti, divengono Gesuiti senza avvedersene. Prendiamo l’Inghilterra per esempio. Essi legalmente non vi esistono; eppure non hanno mai abbandonato quel paese; ed io vi assicuro che sono in maggior numero in Inghilterra che non lo sieno in Italia: ed ecco il come. Tutti i preti cattolici inglesi, scozzesi, irlandesi sono allievi de’ Gesuiti, e dipendenti da loro, sebbene alcuni di essi non conoscano questa dipendenza. Essi fanno proseliti in tutte le classi della società; inguisachè vi sono Gesuiti nel parlamento, nel clero anglicano, fra i Vescovi anglicani, e forse anche più su. Vi sono Gesuiti fra i Protestanti; e ciò non vi faccia specie: ricordatevi del celebre Marco Antonio de Dominis (Nota 19 - Marco Antonio de Dominis): eppoi essi dicono che tutte le cose sono pure per i puri; che fingersi protestante per ricondurre i Protestanti alla Chiesa è un’opera santa."

"Il Puseismo, mi diceva l’Abate P., è un’opera de’ Gesuiti. Sarebbe stata una follia tentare di richiamare l’Inghilterra al Cattolicismo, presentandosi scopertamente. Era cosa già provata ed era male riuscita. Lo aveva tentato quel grande ingegno di Bossuet, lo avevano tentato i Giansenisti francesi con transazioni, e prima lo avevano tentato i Gesuiti con rivoluzioni (Nota 20 - Cospirazione delle polveri); ma tutti i tentativi diretti furono inutili. Le rivoluzioni non attaccano in Inghilterra, paese libero per eccellenza: i sofismi de’ teologi non fanno effetto sopra un popolo positivo, e sono sventati dal suo clero dotto: bisognava dunque tentare un’altra via, ed i Gesuiti la tentarono, e con gran frutto: ed ecco la via che tentarono.

"Finoacchè il clero anglicano fosse stato nelle cose religiose attaccato minutamente alla Bibbia, era cosa impossibile chiamarlo al Cattolicismo: bisognava distrarlo da quello studio, e presentargliene un altro che potesse presentare un addentellato alla Chiesa Romana. I Gesuiti invaghirono gli Anglicani dello studio delle antichità ecclesiastiche; facendogli travedere qual vantaggio ne sarebbe venuto alla loro Chiesa, se co’ monumenti della sacra antichità avessero provato che le loro dottrine ed i loro usi erano precisamente quelli della Chiesa dei primi secoli. I buoni Inglesi caddero nella rete, e si diedero allo studio lungo, laborioso, difficile delle antichità; e così non lasciarono interamente la Bibbia, ma la interpretarono cogl’incerti monumenti dell’antichità ecclesiastica. Il celebre Bingam pubblicò la sua grande opera sulle antichità ecclesiastiche, e fu la involontaria cagione del Puseismo. Il Papa, in Roma, avvertito da’ Gesuiti, non perdè il suo tempo: ed ecco comparire in Roma i libri del famoso P. Mamacchi, di Bosio, di Arrighi, e di tanti altri sullo stesso soggetto. E siccome in Roma vi sono le catacombe, e i monumenti, veri o falsi, abbondano; così i teologi romani si sono trovati avere il vantaggio. Le catacombe sono in mano de’ Gesuiti; e così si è fatto, sempre alla maggior gloria di Dio, un terribile strazio dei monumenti.

"Intanto i Gesuiti inglesi spingevano sempre più il clero anglicano allo studio di quelle antichità, e gli facevan venire la volontà di andare a Roma per vederle co’ loro propri occhi. I Gesuiti di Roma si guardavano bene dal convertire codesti inviati; ma, padroni delle catacombe e di un magnifico museo nel Collegio Romano, li invogliavano sempre più in quello studio, e ne facevano altrettanti apostoli delle antichità. E così i Gesuiti d’Inghilterra e quelli di Roma sono giunti a spingere una gran parte del clero e dell’aristocrazia inglese verso quella setta che si chiama Puseismo, che è il verme roditore della Chiesa anglicana."

Mi diceva inoltre l’Abate P. che il razionalismo che rode il Protestantesimo tedesco, è anch’esso opera de’ Gesuiti, per ricondurre al Cattolicismo la Germania.

Negli Stati Uniti, i Gesuiti hanno stabilito la congrega dei Paolotti, diretta da loro, e dipendente dal loro generale: e la maggior parte de’ Paolotti giurerebbe in tutta buona fede di non aver che far nulla co’ Gesuiti; perchè l’intrigo è noto solo ad alcuni capi principali.

Ne’ paesi protestanti poi essi usano un’altra tattica. Essi predicano e praticano un Cattolicismo che ne’ paesi cattolici sarebbe una eresia. Essi permettono, contro i decreti dei Papi e de’ concili, la lettura della Bibbia in lingua volgare; per far vedere che i Protestanti calunniano la Chiesa romana quando dicono che essa proibisce la lettura della Bibbia (Nota 21 - Lettura della Bibbia proibita). Le superstizioni sono assai meno che nei paesi cattolici; il culto è molto più semplice: e tutto ciò per ingannare i semplici, e far loro credere che la Chiesa romana è calunniata da’ loro controversisti. Essi cercano di acquistarsi una certa popolarità con opere apparenti di carità, che fanno in modo da farle comparire assai più di quello che sono: essi sanno tutte le vie d’insinuarsi presso i grandi, e, secondo le circostanze, cercano di rendersi necessari.

Uno dei mezzi ch’essi usano per rendersi necessari, specialmente ne’ paesi protestanti, è di eccitare nascostamente delle discordie e formare, senza sembrarne gli autori, partiti politici nel paese. Si formano, per esempio, due partiti protestanti in un paese, in un governo, in un parlamento: i Gesuiti con tutti i Cattolici da loro diretti dovrebbero restarsene neutrali; ma essi invece abilmente esaminano i capi de’ due partiti, e si gettano in massa a sostenere quel partito che gli fa più larghe promesse (Nota 22 - Repubblica di Ginevra); e così, immedesimati una volta nel partito vincitore, che ha vinto per cagion loro, cercano distruggere il partito avversario: distrutto quello, cercano distruggere anche il partito al quale si sono attaccati, per restare padroni del campo.

Ma come, mi dirai, si possono spiegare tali iniquità? Non si può essere così scellerati senza un gran fine: quale è dunque questo fine? non si possono fare tante cose senza grandi mezzi: dove e come essi li hanno? Queste interrogazioni feci anch’io all’Abate P., e le rivelazioni ch’egli mi fece in risposta formeranno il soggetto della lettera prossima. Addio, mio buon amico: ama sempre il tuo

Enrico.
Pedro

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16/04/2011 19:00
 
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Non è disonorevole cambiare convinzione
Nota 1. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Sembrerà a taluno strano di vedere il nostro Enrico cambiare così di opinione a riguardo de' gesuiti, che prima tanto difendeva: ma preghiamo i nostri lettori che avessero un tale scrupolo, di riflettere che se il nostro Enrico difendeva i gesuiti, lo faceva in buonafede, e non perchè avesse un interesse a difenderli. Quando un uomo sostiene un partito non per interesse, ma per errore; e che poi passa al partito contrario senza che in esso trovi alcun vantaggio, ma solo per convinzione, nessuno ha il diritto di chiamare quest'uomo apostata, e di accusarlo d'incostanza. Restare in un partito perchè ad esso si appartiene da qualche tempo, quando si è conosciuto che quello non è il migliore, è ostinazione piuttosto che costanza, è malafede piuttosto che galantomismo. È naturale che la setta la quale si abbandona gridi all'apostata; ma è incomprensibile come uomini sensati possano associarsi a quel grido. Certo se la defezione è cagionata dall'interesse, se colui che abbandona un partito lo fa per vendicarsi de' torti che crede avere in esso ricevuti, se è comperato dal partito contrario; allora quell'uomo è l'uomo il più spregevole del mondo, è indegno di stare nella società. Ma se lo fa per convinzione coscienziosa, non vi sono che i settari a qualuque costo e gli uomini corrotti che possano dispregiarlo.
Pedro

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Si può essere Gesuita ed onesto
Nota 2. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Il fatto del nostro Enrico dimostra altresì che si può essere gesuita in buonissima fede, e si può anche essere onesto, essendo gesuita. Io conosco de' gesuiti, ai quali sono lieto di poter render questa testimonianza, che essi sono uomini onesti, profondamente religiosi, sebbene superstiziosi: essi stanno fra' gesuiti perchè sinceramente credono che quello sia il mezzo sicuro di salvezza: essi non conoscono nulla degli intrighi gesuitici, sono ciechi istrumenti in mano del superiore. Tutti i miei coetanei hanno conosciuto in Roma il cardinal Odescalchi: egli era cardinale dell'ordine de' vescovi, vicario del papa, principe romano; la sua condotta era stata sempre illibata; la calunnia stessa non aveva mai potuto attaccarlo; era stimato e rispettato da tutti; eppure una bella notte fugge da Roma, si ritira in Verona, rinunzia al cappello cardinalizio, al vescovato, a tutte le cariche, a tutti gli immensi benefici, al principato, e prende l'abito di novizio gesuita. Chi potrebbe dire che il cardinal Odescalchi avesse fatto quel cambiamento perchè era malvagio? No: il P. Odescalchi continuò da gesuita ad essere quell'onesto uomo che era sempre stato. Non è dunque meraviglia se anche fra i gesuiti vi sono degli onesti: ma non perchè vi sono degli onesti si deve dire che il gesuitismo è cosa buona. Anche fra' Turchi vi sono degli onesti: si dovrà perciò dire che l'Islamismo è buono?
Pedro

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Chi sono gli affigliati
Nota 3. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Chi sono gli affigliati? In ogni ordine religioso, il P. generale fa degli affigliati, a questo modo. Quando un individuo ha mostrato con prove certe, vale a dire con elemosine o protezioni, un certo amore all'ordine; il P. generale gli spedisce un diploma nel quale lo dichiara partecipante di tutte le indulgenze, le buone opere, e le preghiere dell'ordine. Fra i frati mendicanti, l'affigliato ha fra le altre cose il diritto di essere alloggiato ne' conventi dell'ordine, quando egli viaggia, salvo a pagare, a titolo di elemosina, la melopia che riceve, il doppio almeno di quello che pagherebbe in una locanda un buon pasto ed un buono alloggio: a questo diritto è contrapposto l'obbligo d'alloggiare in sua casa tutti i frati dell'ordine che passano per il suo paese, e ricevere da essi per tutto pagamento un "sia per amor di Dio."

Tra i Gesuiti però gli affigliati non si fanno in questa maniera: affigliati sono coloro che hanno ricevuta la educazione ne' collegi de' gesuiti, e ne hanno saputo profittare, restando affezionati a loro, e seguendo a lasciarsi dirigere da loro. Sono affigliati cloro che frequentano le loro congregazioni e stanno sotto la loro direzione. Oltre a ciò, secondo la Bolla di Paolo III, vi sono delle persone che vivono in casa loro, che sono anche coniugate, che godono i privilegi de' gesuiti e sono sotto la ubbidienza del P. generale. Questi sono que' gesuiti incogniti, chiamati gesuiti in abito corto, che sono sparsi per tutto il mondo. Sono affigliate le donne devote che sono sotto la direzione de' gesuiti. Tutti questi affigliati ubbidiscono ai loro direttori, parte in buonafede, parte per interesse, sapendo quale e quanta è la loro potenza. Io ho conosciuto in Roma una signora che potrei nominare, la quale era separata dal marito, e viveva in un magnifico appartamento in un palazzo sul Corso, al piano nobile: teneva servi a livrea e carrozza: ed aveva dalla commissione de' sussidi quaranta scudi al mese, a titolo di sussidio, non per altro se non perchè era raccomandata dal suo confessore gesuita. Di fatti simili ne potrei raccontar molti, e nominare le persone.

I gesuiti si servono di questi affigliati per farli agire nel loro senso: sono tante ruote di quella immensa macchina, la cui mente è il P. generale.
Pedro

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Organizzazione de' Gesuiti
Nota 4. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

"Il gesuitismo è un mistero impenetrabile al novantanove per cento de' gesuiti stessi." Questa proposizione sembra esagerata: essa ha bisogno di schiarimenti.

I gesuiti sono organizzati in questo modo. Tutto il potere risiede nel generale. Egli ha il diritto di fare le costituzioni e le regole: egli conferisce tutte le cariche, regola ed ordina a sua voglia tutta la società; tutta l'autorità de' provinciali ed altri superiori dipende da lui; può dispensare dalle costituzioni e dai voti; comanda in nome di Gesù Cristo; insomma è un vero monarca assoluto.

Oltre gli affigliati, i gesuiti propriamente detti sono di cinque categorie. Primo: i novizi, secondo: i coadiutori formati, terzo: gli studenti, quarto: i professi di tre voti solenni, quinto: i professi di quattro voti. Esaminiamo queste categorie. I novizi restano per due anni rinchiusi nel noviziato sotto una severa disciplina. Nel tempo del noviziato è vietato ogni studio: ed i giovani sono esercitati continuamente a distruggere la loro individualità e la propria coscienza per mettersi come cadaveri nelle mani del superiore: uomini i più sperimentati e più sicuri, sono destinati alla educazione de' novizi, e non ammettono nella compagnia che que' giovani i quali sono meglio riusciti in questa scuola distruggitrice dell'uomo. Chi dà segno di voler rimanere in qualche modo uomo responsabile, è immediatamente rimandato.

I coadiutori formati sono di due specie: quelle che restano laici, sono destinati ai mestieri od ai servizi manuali; e quelli che o preti o laici entrano nella compagnia dopo passata la prima gioventù, e non sono giudicati abili ad abituarsi a rinunciare totalmente alla loro responsabilità. I coadiutori temporali restano sempre nel loro stato, e non passano mai ad occupare alcuna carica nella società.

Gli studenti. Finiti i due anni di noviziato si fanno, da que' che sono stati giudicati atti alla compagnia, i tre voti semplici di povertà, castità, ubbidienza, ed indossano l'abito particolare degli studenti che consiste in una zimarra sopra la sottana: essi sono alternativamente scolari e maestri. Sono mandati ne' collegi ad insegnare la grammatica; poi divengono studenti di filosofia; poi sono mandati ad insegnare la umanità; poi divengono studenti di teologia; finalmente sono ordinati preti quando piace al P. generale. Queste tre categorie di gesuiti si potrebbero chiamare gesuiti passivi: essi non conoscono il gesuitismo: ma sono condotti ad esso assai abilmente dai loro direttori; intanto sono potente istrumento in mano di essi per la maggior gloria di Dio. Essi non conoscono che le regole del loro stato, nelle quali è inculcata la obbedienza passiva, o, come essi la chiamano, cieca, che consiste nella renunzia alla propria individualità.

I professi di tre voti, sono coloro i quali, dopo aver dato prove sufficienti della loro abilità, il P. generale gli permette di fare i tre voti solenni. Allora sono incorporati alla compagnia; ma non però in modo che sieno sicuri di non esserne scacciati. Il P. generale ha il diritto di scacciare anche i professi di tre voti solenni, senza aver l'obbligo di dire il perchè. I professi in questo modo possono giungere ad essere rettori de' collegi, prepositi, e fino provinciali; ma non più su: essi sanno assai più degli altri; ma non sono ancora ammessi ne' segreti del governo della compagnia.

Finalmente i professi di quattro voti: questi sono pochi; ed in essi sta tutta la conoscenza del gesuitismo. I soli professi de' quattro voti possono essere assistenti del generale, ed essi sono quelli che hanno il maneggio di tutti gli affari. Il P. generale non ammette al quarto voto che quelli che hanno dato per lunghi anni prove non dubbie del loro vero gesuitismo. Il quarto voto consiste nel promettere ubbidienza illimitata a tutti gli ordini del papa. Questo voto sembra illusorio, perchè ogni Catttolico deve avere agli ordini del papa una ubbidienza illimitata; ma pure ecco cosa esso significa. I gesuiti sono i pretoriani, i giannizzeri, i mammalucchi del papa: essi sono i suoi sudditi ubbidientissimi, i suoi agenti per tutta la terra.

I soli gesuiti di quattro voti sono coloro che conoscono bene il gesuitismo; noi, tanto nella lettera, come nelle note, non ne possiamo dare che una idea tratta dai fatti che si veggono, ma non ci lusinghiamo di conoscere bene cotal mistero d'iniquità.
Pedro

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Istruzione che dànno
Nota 5. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Abbiamo già detto nella nota I, alla lettera duodecima, perchè il clero voglia la ignoranza del popolo. Finchè essi han potuto, han predicato e predicano che la scienza è la rovina della religione e della società. Ma quando la corrente del progresso ha talmente ingrossato; essi non hanno potuto più impedire il suo libero corso, e si sono messi a correre con lei per guidarla, e giungere così a dominarla ed arrestarla.

Un fatto poco avvertito nella storia è il seguente. Fino al secolo XVI, il clero non aveva mai pensato alla istruzione del popolo; ma quando il principio della riforma religiosa, proclamò la necessità di leggere la Bibbia; quando si aprirono le scuole popolari, rese possibile per la invenzione della stampa; quando i riformatori per i primi si servirono della stampa per pubblicare operette ad uso del popolo; allora il clero, non potendo più reggere contro la corrente, finse secondarla, per prendere egli il monopolio dell'insegnamento. Si videro allora sorgere nuovi istituti religiosi che avevano per iscopo l'istruzione: allora vennero i gesuiti, il cui scopo primitivo era insegnare il catechismo ai bambini ed ai contadini, per tenerli fermi nella ignoranza. Non poterono arrestare la corrente, e cangiarono scopo; s'introdussero nelle università, aprirono collegi, e tentarono impadronirsi della pubblica istruzione. Non bastando soli a tanta bisogna, sursero gli Scolopi, poi i Somaschi, poi i Dottrinari; poi finalmente gl'Ignorantelli, e le monache Orsoline, e quelle del S. Cuore, e quelle del Buon Pastore; per impadronirsi quanto più potevano della istruzione, per dirigerla al loro scopo.

Ma quale è lo scopo della istruzione che dà il clero? Eccolo. Fino al secolo XVI, il clero si era servito del poco sapere che era esclusivamente a lui riservato, per stabilire le dottrine della Chiesa romana: quelle dottrine sono condannate ad un inevitabile naufragio per i progressi del sapere. Scopo del clero fu salvarle da quel naufragio; e, per giungere a tale scopo, si servì di due mezzi: il primo di fare di tutto per sostenere quelle dottrine: ma ciò era impossibile alla scienza; quindi si usò la forza della coscienza ingannata. Si disse che la scienza se non è guidata dalla religione (e per religione si deve intendere il papismo) è eccessivamente dannosa: a tale effetto se si sollevava sopra il clero uno scenziato, era condannato; esempio il nostro Galileo. Si fece l'indice de' libri proibiti, e si fulminò scomunica contro chiunque leggesse o ritenesse semplicemente un libro notato in quell'indice; il quale conteneva e contiene quanto di buono, quanto d'istruttivo è stato pubblicato, non conforme agl'insegnamenti di Roma. Allora s'inventò la condanna delle proposizioni estratte da' libri; allora si fecero gl'indici espurgatori, ne' quali si guastarono tutte le opere degli antichi, compresi i santi Padri, togliendo tutto quello che era contrario a Roma, e falsificando, ed aggiungendo.

L'altro mezzo di cui servì e si serve il clero insegnante per giungere al suo scopo è l'insegnamento intralciato ch'egli dà. Chi conosce le scuole del clero sa che per l'insegnamento ricevuto in esse non esce mai un vero scenziato. Osserviamo i Gesuiti: vi è fra loro un qualche uomo celebre nelle matematiche, vi sono de' celebri teologi: ma dove è fra essi un filosofo, un geologo, un uomo profondo nelle scienze naturali? Inoltre il loro insegnamento non è diretto a sviluppare le facoltà intellettuali, ma ad avvilupparle ne' metodi del medio evo, ed a disgustare i giovani della conoscenza vera, facendoli contenti di una conoscenza falsa, ma inorpellata di vero.

Esaminiamo brevemente il metodo d'insegnamento che usano in Roma i Gesuiti nel celebre loro Collegio Romano, cioè nella Università Gregoriana.

Sono ammessi in quella scuola i fanciulli della età di sette anni, appena sanno un poco leggere e scrivere, e sono subito messi allo studio del latino. Si pone loro in mano la grammatica del P. Emanuele Alvaro, con la quale s'insegna il latino per mezzo del latino. Il povero ragazzo è obbligato a studiare alla guisa de' pappagalli senza comprendere una parola. Se il ragazzo lavora molto, dopo un anno passato nella prima scuola che si chiama infima, passa alla seconda che si chiama infima superiore. Seguendo lo stesso metodo, può, facendo grandi sforzi, cosa che riesce a pochissimi, dopo un altro anno, passare alla media. Il quarto anno, se ha molto faticato, passa alla suprema, ove bisogna che vi passi ordinariamente due anni. Ed ecco cinque lunghi anni perduti per un poco di grammatica latina! ed è a notarsi ancor questo, che dalle scuole del Collegio Romano non è ancora uscito un buon latinista. I latinisti che sono in Roma, non sono gli allievi de' Gesuiti.

Il sesto anno si passa in umanità, ove si sta due anni, studiando, cioè traducendo in italiano ed imparando a memoria, le elegie di Ovidio, alcuni libri dell'Eneide, e qualche altro classico. Il secondo anno di umanità, si ripete quello che si è fatto nel primo. L'ottavo anno di studi si passa in rettorica, ove si spiegano le istituzioni del P. Decolonia, le orazioni di Cicerone, e qualche ode di Orazio. In rettorica parimente si resta ordinariamente due anni: così si passano nove lunghissimi anni nello studio della lingua latina. Non mai in tutto quel tempo s'insegna nè la lingua italiana, nè la geografia, nè la storia, nè i principii di geometria, nè i principii di storia naturale; nè altro: basta avere appreso un po' di latino.

Così si passa in filosofia. Cosa deve apprendere in filosofia un povero giovane, il quale crede saper molto perchè sa recitare degli squarci di Cicerone e di Virgilio; ma che in sostanza non sa nulla perchè mancante di que' principii elementari che guidano alla scienza, perchè il suo intelletto è stato mutilato da quegli stupidi studii preparatorii? Egli si trova in una confusione, e non può orizzontarsi un poco, che dopo alcuni mesi, se ha buone disposizioni.

La filosofia s'insegna da' Gesuiti in questo modo. Il professore detta in latino per mezz'ora la lezione di quel giorno, per un'altra mezz'ora ne fa, sempre in latino, la spiegazione. Ogni settimana, si fa un giorno di esercizio accademico in latino; ed ogni mese, un esercizio più solenne al quale intervengono i professori. L'esercizio consiste più in giuochi di parole che in sostanza; perchè deve essere fatto nella rancida forma sillogistica del medio evo. Le scuole di filosofia durano due anni, dopo de' quali si riceve la laurea, e que' poveri giovani credono di essere filosofi. Cosa s'insegna in que' due anni? Molto, ed appunto per ciò nulla: è una illusione per mutilare la scienza, acciò non porti danno alla religione. Ecco quali sono le cose che s'insegnano in que' due anni. La logica, o a meglio dire la dialettica; perchè non s'insegna l'arte di ragionare, ma l'arte d'inviluppare il raziocinio nelle forme sillogistiche del medio evo: la metafisica, che consiste nella psicologia, e teologia naturale. La psicologia si occupa a provare la spiritualità, la libertà, e la immortalità dell'anima; la teologia naturale, la esistenza di Dio, la provvidenza, e la necessità della religione: e questa è la metafisica.

S'insegna oltre a ciò l'etica, ossia la filosofia morale, la fisica, la fisico-chimica, la fisico-matematica, la chimica, la geometria, la trigonometria, la meccanica, l'algebra, la matematica, l'astronomia, il calcolo differenziale, il calcolo integrale: tutte queste cose s'insegnano in latino, e nello spazio di due anni se ne diviene dottori. Chi conosce la scienza giudichi se non è questo il modo d'insegnare allo scopo di propagare la ignoranza, fingendo insegnare la scienza!
Pedro

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16/04/2011 19:03
 
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Antichità della corona . – Scala santa
Nota 6. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Citeremo un solo esempio a sciarimento del testo, per non dilunguarsi di troppo. La divozione del rosario è, religiosamente parlando, contraria al Vangelo, e vietata espressamente da Gesù Cristo (Matt. VI, 7); e, storicamente parlando, è moderna. Ebbene, si è avuto l'ardire di stampare in un libro cattolico con licenza de' superiori e privilegio, che le prime corone per la recita del rosario furono fatte dall'Apostolo S. Bartolommeo, e così da lui fu stabilito il rosario: che gli Apostoli, i Cristiani apostolici, e la stessa Vergine Maria lo recitavano: anzi in Roma nella Chiesa di S. Maria in Campitelli, fra le insigni reliquie, si conserva, con autorità apostolica, la corona con la quale la Vergine recitava il rosario (Vedi Proprinomio evangelico, ovvero evangeliche resoluzioni, nelle quali con il fondamento delle divine Scritture, Santi Padri ec. chiaramente si mostra ec., opera del R. P. Donato Calvi. Venezia 1717 resoluzione 46, pag. 140, 141, 142).

A proposito di finta antichità per sostenere le superstizioni, diremo ora una parola sulla scala santa.

Al lato destro del palazzo Laterano, esiste un'antica cappella chiamata il sancta sanctorum. Un magnifico portico con cinque scale mette a quella cappella, nella quale nessuno può entrare. La scala di mezzo formata di 28 gradini di marmo bianco comune, si chiama la scala santa; perchè si dice essere la scala del palazzo di Pilato in Gerusalemme, per la quale ascese e discese il Signore nella sua passione. Questa scala è coperta da un'altra scala di noce, e di tanto in tanto in mezzo ai gradini di noce è praticato un foro in forma di croce; quello si pretende essere il luoghi dove il Signore, nello scendere, lasciasse cadere una qualche gocciola di sangue. Quella scala non si può salire che con le ginocchia, ed i devoti vi accorrono per l'acquisto di moltissime indulgenze: i bastoni, le ombrelle, non si possono tenere in mano salendo; e si lasciano all'eremita che è abbasso, e poi scendendo per un'altra scala (la scala santa si monta, ma non si scende), si riprendono, lasciando (s'intende) la elemosina all'eremita.

Quello che vi è d'indecente e d'infame è che le donne, salendo con le ginocchia ed inchinandosi spesso per baciare i fori, non possono mantenere la modestia necessaria: i ragazzacci ne profittano, e fingendo di salire la scala santa si mettono dietro le donne……

Giunti alla cima della scala santa, vi è una finestra chiusa da vetri, ed assicurata con grossa inferriata dorata.

Quella finestra guarda nella cappella chiamata sancta sanctorum: tutti si fermano a pregare avanti quella inferriata; perchè nella santa cappella non è permesso di entrare. In essa sono rinchiuse, senza che nessuno le abbia mai viste, reliquie insigni, ed una immnagine di Gesù Cristo, che è la cosa più brutta che possa vedersi: ma essa non è fatta da mano d'uomini; bensì è stata dipinta dagli angeli: essa è chiusa con due chiavi, una delle quali la ha il Capitolo, l'altra il priore dell'Ospitale di S. Giovanni, e quando una volta all'anno si scuopre, va un canonico ed il priore in pluviale, accompagnati da' chierici con torcie, ad aprire ciascuno con la sua chiave la S. Immagine.

La porta della cappella è chiusa con una porta di bronzo, fermata con grossi chiavistelli, i quali sono tutti lucidi; perchè i devoti, e specialmente le donne, vanno a baciarli, e stropicciarvi sopra la fronte.

Non vi è bisogno di essere un dotto critico, basta avere il senso comune, per conoscere che queste non sono che imposture.
Pedro

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Come si carpiscono le ritrattazioni
Nota 7. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Chi conosce un poco la storia ecclesiastica sa che tutti coloro che hanno smascherato Roma, se lo hanno fatto col Vangelo alla mano, sono stati dichiarati eretici; se lo hanno fatto cal raziocinio, sono stati dichiarati increduli. Ognuno sa a quante persecuzioni fosse fatto bersaglio il buon vescovo di Pistoia Ricci, per carpirgli una ritrattazione. Ma il fatto che non è generalmente conosciuto, è il fatto della ritrattazione dell'abate D. Vincenzo Palmieri.

Costui era uno de' teologi del sinodo di Pistoia, ed era uomo assai dotto specialmente nelle antichità ecclesiastiche; aveva scritto molti libri, ed in tutti aveva attaccato la corte di Roma come corrompitrice del Vangelo; ma lo aveva fatto con sì buone ragioni, con tale appoggio di documenti, e con tale potenza di logica, che Roma non ha mai osato rispondere, se non con la proibizione di que' libri, e con la persecuzione contro il loro autore. Palmieri viveva tranquillo e ritirato in Genova sua patria con la sua famiglia; quando fu vicino a morire, gli furono negati i sagramenti se non ritrattava le sue dottrine. Egli, certo di avere scritto secondo verità e secondo coscienza, non volle fare la ritrattazione richiesta. Era allora arcivescovo di Genova il furbissimo Lambruschini che fu poi cardinale; andò egli stesso al letto del Palmieri, e tanto fece che il Palmieri scrisse una dichiarazione nella quale si professava cattolico, e che metteva tutti i suoi scritti, come sempre li aveva messi, sotto il giudizio della Chiesa.

Fatta questa dichiarazione, monsignor arcivescovo uscì processionalmente dal duomo, e portò egli stesso il viatico al Palmieri. Tutta la città disse che il Palmieri si era ritrattato, ed i preti e l'arcivescovo confermavano la notizia. Il Palmieri che conosceva i preti, chiamò il suo nipote, ed in presenza di due testimoni gli consegnò il doppio originale della dichiarazione data all'arcivescovo, ordinandogli di pubblicarla dopo la sua morte, nel caso che l'arcivescovo ne avesse pubblicata un'altra diversa da quella. Non appena Palmieri fu morto, l'arcivescovo pubblicò una ritrattazione di Palmieri fatta da lui, tutta opposta alla vera. Il nipote pubblicò la vera dichiarazione dello zio, e l'arcivescovo fu sbugiardato: e Palmieri è presso i preti un eretico giansenista.
Pedro

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Come i Gesuiti insegnano gratis
Nota 8. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Nel tempo della soppressione de' gesuiti, il Collegio Romano era tenuto da preti, ed essi ne occupavano tutte le cattedre. I preti però non facevano la scuola gratis come i gesuiti. Il fatto però è che il Collegio Romano servito dai preti pagati costava al governo seimila scudi all'anno; quando Leone XII lo rimise ai gesuiti, essi per fare la scuola gratis han voluto dal governo dodicimila scudi all'anno.
Pedro

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Collegio germanico
Nota 9. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Dopo il Collegio della Propaganda, il Collegio Germanico-ungarico è il più interessante, per la grande influenza che esso esercita sui paesi protestanti. Esso era stabilito nella chiesa e palazzo annesso di S. Apollinare, ed era sotto la direzione de' gesuiti. Quando Leone XII restituì ai gesuiti il Collegio Romano, bisognò trovare un locale per gli alunni del pontificio seminario romano: ed essi furono trasportati in S. Apollinare. Allora i gesuiti per non perdere il Collegio Germanico, lo trasportarono nella loro casa del Gesù; e que' collegiali vivono e sono educati con la crema del gesuitismo.

Ecco como si reclutano i giovani per quel collegio. I gesuiti che sono nella Germania, Prussia, Ungheria, Baviera, e Svizzera, scelgono que' giovani che mostrano avere ottime disposizioni per la maggior gloria di Dio, e li mandano a Roma in quel collegio. Dopo parecchi anni di educazione gesuitica, sono ordinati preti, e rimandati con qualche incarico ai loro paesi; ed ecco come si spiega la influenza de' gesuiti in que' paesi.

Pedro

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Collegi irlandese e scozzese
Nota 10. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Il Collegio Irlandese in Roma è assai numeroso; esso è nella chiesa e vasta casa annessa di S. Agata a Monte Magnanapoli; ha un rettore ed un vice-rettore irlandesi; monsignor Cullen oggi primate d'Irlanda è stato per molti anni rettore di quel collegio. Vanno alla scuola al Collegio Romano, ed hanno gesuiti per predicatori e confessori.

Il Collegio Scozzese ha pochi alunni, perchè pochi sono i cattolici scozzesi. Esso è in S. Andrea vicino alla piazza Barberini; ha un rettore ed un vice-rettore scozzesi; ricevono tutta la istruzione da' gesuiti. Quando gli alunni di codesti collegi, dopo di aver data buona prova, sono ordinati preti, sono dalla Propaganda mandati a' loro paesi, ove per la maggior gloria di Dio propagano il gesuitismo. Con mezzi cosi potenti, è egli cosa possibile abbattere il gesuitismo?
Pedro

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I contadini ed i Gesuiti
Nota 11. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Per comprendere la importanza di questa congregazione, bisogna conoscere il sistema di Roma riguardo a' contadini. Il Romano non si crede avvilito se domanda la elemosina, o ruba; ma si tiene avvilito se dovesse andare a zappare. Perciò per i lavori della campagna, vanno a Roma dai piccoli paesi, specialmente dalla Marca di Urbino i contadini per occuparsi a que' lavori. Essi da' Romani sono chiamati, non so perchè, burrini. Nell'estate, il loro alloggio è sui gradini delle chiese; nell'inverno si accomodano nelle rimesse, ed ecco in che modo. Si mettono in una rimessa quanti ve ne possono capire: il loro letto è il terreno, e poggiano la testa sopra una corda tesa da un muro all'altro. Essi sono presi al lavoro giorno per giorno. Vi sono quattro piazze ove i padroni vanno ogni mattina prima di giorno a cercare i loro burrini: la piazza della Madonna de' Monti, la piazza Montanara, Campo di Fiore e S. Giacomo Scossacavalli. Prima di giorno, vanno tutti alla messa nella quale si dice il rosario. Quando escono dalla messa, i padroni scelgono, pattuiscono, e conducono alla loro campagna i burrini.

Essi hanno uno strano privilegio, ed è questo. Quando sono tre giorni continui di pioggia, ne' quali non han potuto lavorare, saccheggiano i forni e ne portano via il pane, e non possono essere puniti. Bisogna però spiegare quest'uso. Un signore lasciò un vistoso legato al governo coll'obbligo di dare gratuitamente il pane ai contadini quando accadesse (ed in Roma accade sovente) una simile circostanza. Il governo accettò il legato, assunse l'obbligo; ma spesso si scorda di adempierlo. Il luogo della distribuzione del pane è il Colosseo. I burrini al terzo giorno di pioggia vanno al Colosseo, e se non trovano il pane, saccheggiano i forni.

Fra questi contadini, i gesuiti possono fare una gran messe per la maggior gloria di Dio, ed essere istruiti di quello che si fa, si dice, si pensa nelle vigne, negli orti, nelle campagne. Inoltre, tornando essi ai loro villaggi, ove non sono i gesuiti, que' poveri burrini fanno il loro interesse: perciò hanno stabilita per essi una congregazione nella chiesa di S. Vitale che è una chiesa tenuta da' gesuiti, ed è posta in un luogo in mezzo agli orti, e solitaria.
Pedro

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I condannati ed i Gesuiti
Nota 12. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Nelle fondamenta del maschio di Castel S. Angelo, nel luogo il più sudicio e più fetente di Roma dopo il ghetto, sono accatastati due o trecento galeotti rei di delitti comuni. Questi galeotti hanno un prete cappellano, e sono obbligati ogni giorno ad andare alla cappella per sentire la messa. Ogni anno sono obbligati a fare gli esercizi spirituali, confessarsi e comunicarsi; ma i predicatori ed i confessori sono quasi sempre derubati o dell'oriuolo o della barsa, o, se prevedendo il furto non portano queste cose, sono derubati se non altro del fazzoletto.

I gesuiti hanno stabilita una congregazione fra questi malfattori; e la domenica raunano nella cappella i congregati, ai quali fanno una predica, poi si trattengono con loro in conversazioni familiari. Non vi è obbligo di ascriversi a quella congregazione; ma chi non vi è ascritto, non può aspettarsi nessun favore, nè ricevere alcuna grazia; anzi è segnato come incredulo. All'opposto, chi si mostra zelante ottiene quello che vuole, e facilmente ottiene anche l'assoluzione della pena; ed ecco la ipocrisia anche obbligatoria.
Pedro

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Il Caravita
Nota 13. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Vicino alla piazza di Sciarra, sul Corso, vi è una chiesa chiamata l'oratorio del P. Caravita. Per mezzo di un arco che traversa la via, i gesuiti hanno unita la chiesa del Caravita al collegio romano. È in questa chiesa che si raunano le congregazioni di donne; la congregazione delle dame, quella delle semidame; e la congregazione delle missioni. È in questa chiesa che si fa la celebre esposizione del sacramento nel carnevale, le più eclatanti tre ore di agonia nel venerdì santo, che si dànno gli esercizi alle dame, alle semidame, ai carabinieri. Sono i sagrestani laici di questa chiesa che vanno continuamente nelle case delle bigotte sotto pretesto di portar soccorsi dalla parte de' padri; ma in realtà per sapere quello che accade nel vicinato.

Ma la sera è la gran messe in quell'oratorio: esso è quasi interamente al buio, ha una porticina nascosta in un viottolo, da dove entrano i devoti che non vogliono essere veduti; tutti quelli che frequentano il Caravita la sera sono tenuti in Roma per spie de' gesuiti; così i Romani han fatto molte burle per conoscerli. Una sera un Romano entrò in quell'oratorio, e con due grandi spugne asciugò la pila dell'acqua santa ed in quella vece versò nella pila un fiasco di nerissimo inchiostro. I devoti entrando si facevano il segno di croce bagnando il dito medio nell'inchiostro, credendo bagnarlo nell'acqua benedetta, e così imprimevano una macchia d'inchiostro sulla fronte.

Il Romano burlone, dopo fatta la burla, andò al vicino gran caffè del Veneziano, e raccontò il fatto a coloro che erano là. Finito l'oratorio, molti bigotti andavano a quel caffè, e, facendo i disinvolti ed i liberali, si mescolavano nella conversazione, per poi riportare il tutto ai reverendi padri, ma quella sera furono sooperti e svergognati.

Due volte la settimana in quelle raunanze si faceva la disciplina, che è stata poi smessa per i disordini avvenuti; ed ecco come si faceva. Finita la predica, si chiudevano le porte; allora i sagrestani andavano per la chiesa con grandi fasci di fruste a cinque capi di corda con nodi e distribuivano a ciascuno degli astanti una di quelle fruste, ciò fatto, si smorzavano tutti i lumi, e si restava qualche minuto in silenzio. Questo intervallo era concesso, affinchè i più devoti avessero il tempo di sciogliersi i pantaloni, per percuotersi a nudo. Quando il predicatore credeva che tutti potessero essere pronti, faceva una esortazione acciò tutti si disciplinassero forte per meritare il perdono de' peccati, e compiere nella loro carne quello che mancava alla passione di Cristo. Allora s'intuonava il miserere, e tutti i devoti in coro cantavano, si battevano, e qualcuno gridava misericordia, e molti piangevano forte. Finito il miserere, il P. predicatore suonava il campanello, e la disciplina cessava. Si restava alcuni minuti acciò ognuno potesse rivestirsi, e ricomporsi, e, ad un altro segno del campanello, dalla porta della sagrestia veniva un lume.

Alcuni de' disordini che fecero sospendere questa pratica furono i seguenti. Una sera si era introdotto un tale che aveva ricevuta una cattiva azione da uno di que' bigotti e voleva vendicarsene. Si mise dietro al suo devoto, e quando cominciò la disciplina, impugnò la sua frusta, e per tutto il tempo del miserere flagellò bravamente sul viso del suo uomo, il quale aveva bel gridare: ma in quel frastuono ognuno credeva che fossero grida di un peccatore che domandava misericordia. Portati i lumi, il percussore aveva cangiate posto, ed il bigotto andò a casa bene conciato.

Un'altra sera un burlone portò con sè un pezzo di ricotta: si mise dietro ad un devoto, e quando si avvide che quegli aveva calati i calzoni, pose destramente in quelli la sua ricotta. Finita la disciplina, il devoto nel tirarsi su i calzoni, sentì dentro di essi quel semiliquido, e non sapendo cosa era ne restò spaventato. Andò in sagrestia co' calzoni in mano, e si avvide della burla.

Un'altra sera, dopo smorzati i lumi, un burlone incominciò a piangere, e gridare che voleva pubblicamente confessarsi. Il predicatore cercava calmarlo; ma riuscendo inutili le sue ragioni, gli permise di parlare, pensando che ne potrebbe venire una grande edificazione.

Colui allora incominciò ad accusarsi di essere un ladro, un truffatore, un ipocrita, che ingannava perfino i rev. padri, e di tante altre orribili cose. Poi disse che quella confessione fatta allo scuro non avrebbe servito alla sua umiliazione, se non si fosse fatto conoscere, e disse egli essere il sig. N. N. e nominò un conosciutissimo bigotto della raunanza; il quale levò subito la voce, e disse: "Non è vero, io sono un galantuomo." Uno scoppio di risa chiuse questa scena; i lumi vennero; ma il falso penitente aveva già cangiato posto, e non si potè sapere chi fosse.
Pedro

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Le missioni in Roma
Nota 14. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

I gesuiti in Roma fanno una missione perpetua. In ogni mese vanno in una chiesa di Roma a fare la missione la domenica e le altre feste. La congregazione della missione è composta di uomini della bassa classe, devoti e devote. Esce la missione del Caravita; uno de' congregati, vestito di nero con un mantello nero alla Don Basilio, porta un gran crocifisso; quattro o sei altri congregati vestiti nello stesso modo lo sieguono cantando in tuono nasale le litanie; vengono poi i padri missionari in gran mantello, berretta, ed un crocifisso sul petto, e sono seguiti dal resto de' congregati de' due sessi che rispondono al canto. Giunti alla chiesa, il crocifisso è posto sulla piattaforma ove vanno i missionari, ed i cantori inginocchiati in mezzo alla chiesa cantano nello stesso tuono nasale una invocazione a Maria in questi precisi termini:
Dio ti salvi, regina,
E madre universale,
Per cui favor si sale
Al paradiso
E il popolo risponde:
Per cui favor si sale
Al Paradiso.

Continuano i cantori, ripetendo il popolo i due ultimi versi
d'ogni strofa;

Voi siete gioia e riso
Di tutti i sconsolati,
Di tutti i tribolati
Unica speme.
A voi sospira e geme
Il nostro afflitto cuore
In un mar di dolore
E di amarezza.
Maria, mar di dolcezza,
I vostri occhi pietosi,
Materni ed amorosi,
A noi volgete.
Noi miseri accogliete
Nel vostro santo velo,
E il vostro Figlio in cielo
A noi mostrate.
Gradite ed ascoltate,
O Vergine Maria,
Dolce, clemente, e pia,
Gli affetti nostri.
E dei nemici nostri
A noi date vittoria,
E poi l'eterna gloria
In Paradiso.

Questi ultimi versi si ripetono tre volte.
Dopo ciò incomincia il dialogo. Due gesuiti sono seduti su due seggioloni sulla piattaforma: uno di essi fa da confessore, l'altro da penitente. Costui parla il linguaggio del popolo, e dice tante scurrilità da far crepare dalle risa. Dopo il dialogo, un altro Gesuita fa una predica seria, e poi finisce per invitare gli uomini alla sera al Caravita. Al calar del sole escono dal Caravita diversi gruppi di bigotti vestiti di nero, ed uno di essi porta in un sacco nero un crocifisso pieghevole, e vanno a fermarsi nelle piazze frequentate a quell'ora dal popolo basso e da' contadini. Viene un Gesuita, ed allora si tira dal sacco il crocifisso, s'improvvisa con un tavolino o una panca un pulpito, sul quale monta il Gesuita: i bigotti cominciano il canto, finoacchè si raduna un poco di gente: allora il Gesuita incomincia a predicare. Qualche volta accade che un cavadenti, o un giocoliere fa concorrenza al Gesuita sulla stessa piazza; ed allora tutta la gente abbandona il Gesuita e corre dal giocoliere che la diverte meglio. Finita la predica, i devoti col crocifisso inalberato, seguiti dal P. predicatore, tornano cantando al Caravita, e qualcuno li siegue. L'ultima domenica di ciascun mese, vi è la comunione generale nella chiesa ove hanno fatta la missione. I Gesuiti empiono allora i confessionali, e cercano di confessare quanto più possono, sempre per la maggior gloria di Dio.
Pedro

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Regole de' Gesuiti
Nota 15. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Affinchè la asserzione del testo non sembri esagerata, ne daremo le prove. Noi non citeremo il monita secreta, libro sull'autenticità del quale vi potrebbe essere che dire. Noi citeremo le regole stesse de' Gesuiti. Ne possediamo una copia di quelle regole che porta questo titolo: "Regulae societatis Jesu." Turnoni apud Cladium Michaelem typographum universitatis 1596, e vi è la incisione rappresentante il P. Ignazio di Lojola, che non era ancora nè santo nè beato. E siccome cotali libri sono rari ad aversi, non avendoli che i Gesuiti, ed essendo loro espressamente vietato di farli vedere agli estranei; così non sarà, speriamo, di noia ai nostri lettori se ne facciamo un brevissimo, ma fedelissimo estratto.

Incomincia il libro con un compendio delle costituzioni della società. Al numero 4 dice (traduciamo dal latino per comodo di chi non conoscesse quella lingua): "il modo di vivere esteriore per giuste cagioni, e riguardando sempre alla maggior gloria di Dio, è il modo di vivere comune:" quindi è vietata qualunque penitenza, od afflizione corporale, senza averne ottenuto speciale permesso dal superiore. Al numero 5 si ordina che appena un individuo entra nella società debba fare la confessione generale di tutta la sua vita, a quel Gesuita che gli sarà destinato dal superiore, e ne' due anni del noviziato debbono ogni sei mesi fare la loro confessione generale a quel confessore che sarà loro destinato dal superiore. I professi poi debbono farla ogni anno, al confessore che il superiore gli darà.

Al numero 6 è detto: "Uno sia il confessore di tutti, quello destinato a ciò dal superiore." Sottomettersi ad aprire la propria coscienza ad un uomo, e non avere neppure il magro piacere di scegliersi un uomo di sua confidenza, ci sembra tale, una tirannia da superare qualunque limite.

Ma si dirà: Il confessore è obbligato al segreto, per il sigillo della confessione. A quante cose si è obbligati, eppure non si fanno! Il sigillo della confessione è una bellissima cosa in teoria; ma in pratica è egli osservato? E poi in mano de' Gesuiti cosa è il sigillo? Quando tutto deve essere diretto alla maggior gloria di Dio, quando i mezzi per giungere a questo fine non sono mai cattivi, perchè sono indifferenti; se per la maggior gloria di Dio è necessaria una rivelazione, si avrà scrupolo a farla? Ma vi è anche il mezzo di servirsi della confessione sensa rivelarla direttamente. Quando un novizio deve essere ammesso alla professione, i padri anziani si adunano; il maestro de' novizi, che è il loro confessore obbligato, dà loro le informazioni, ed il suo parere per il primo; supponete che dica: "Il giovane è buono; ma io non lo credo atto al nostro ordine." Questo basta; tutti sono del mestiere e capiscono, ed il novizio è rimandato alla unanimità.
Evviva il sigillo!
Nel numero 7 è ordinato che se qualcuno per qualche particolare circostanza, come qualche volta accade, dovesse confessarsi da un altro, deve poi ripetere tutta intera quella confessione al confessore destinato dal superiore.
L'affetto santo per la famiglia è un delitto pe' Gesuiti: ecco cosa è ordinato al numero 8. "Ciascuno che entra nella società, siegua il consiglio di Cristo, Chi lascerà il padre etc.; ed abbia per abbandonato il padre, la madre, i fratelli, le sorelle, e quanti altri ha nel mondo; ritenendo detta a sè quella parola chi non odia il padre e la madre, non può essere mio discepolo: e così procuri di spogliare ogni affetto verso la carne ed il sangue ecc." Il Gesuita dunque non è più figlio, non più fratello, non più amico, non più parente; e cosa è dunque? È Gesuita.

Non solamente fra' Gesuiti è ordinata la delazione come cosa santa; ma nel numero 9 si ordina che l'accusato deve essere contento che sieno state riportate al superiore tutte le cose che sono state osservate in lui.

Parlando della ubbidienza, ecco cosa ordinano le regole de' Gesuiti. Al numero 31 e 34 e 35, si dice, essere cosa necessarissima ad un Gesuita, darsi interamente alla più perfetta ubbidienza, ed a riguardare il superiore, chiunque egli sia, come la persona stessa di Gesù Cristo; e non solamente ubbidire con l'opera, quantunque la cosa comandata fosse difficile e repugnante; ma, rinnegando la propria volontà (cioè la coscienza), fare sua propria la volontà del superiore; persuadendosi che tutte le cose comandate dal superiore sono giuste, e rinnegando ogni nostro giudizio cantrario alla cieca ubbidienza.

Traduciamo letteralmente il numero 36. "Ciascuno persuada sè stesso, che coloro che vivono sotto la ubbidienza, sono condotti e diretti dalla divina provvidenza; e che perciò debbono lasciare che i superiori lo trattino come se fosse un cadavere, che si lascia far tutto senza lagnarsi; ovvero come il bastone di un vecchio, il quale colui che lo tiene in mano se ne serve quando, dove, ed in qualunque cosa egli vuole." I lettori traggano le loro canseguenze da questa regola, e la concilino se è possibile con la libertà e la dignità dell'uomo, con la responsabilità della propria coscienza, col Cristianesimo.

Questa idea dell'ubbidienza, passiva e cieca, piace tanto al fondatore de' Gesuiti, che in una sua lettera sull'ubbidienza che scrisse ai Gesuiti portoghesi, inserita nel libro delle Regole, la sviluppa in modo da persuadere anche ai più scettici, che il Gesuita non è che un istrumento nelle mani del suo superiore, ch'egli rinunzia al carattere di uomo, rinunziando al grande beneficio di Dio, la ragione; rinunzia al carattere di galantuomo, rinunciando alla sua coscienza; rinunzia al carattere di Cristiano, rinunziando alla sua responsabilità davanti a Dio. Dopo di aver detto (numero 6) che sono in grande errore e grave pericolo, coloro i quali credono poter fare anche le cose buone e sante contro la volontà del superiore, al numero 7 dice: "Circa le quali cose (cioè circa le cose buone e sante), o fratelli carissimi, interamente, per quanto è possibile, deponete la vostra volontà. Date liberamente al Ministro di Dio quella libertà che il Creatore vi ha data."

Nei numeri 16 e 18 esclude affatto la idea che si possa disubbidire se il superiore comandasse cosa cattiva, escludendo la possibilità di un tale comando: ecco le sue parole: "Non guardate nella persona del superiore l'uomo soggetto ad errare, e sottoposto alle umane miserie; ma riguardate in lui la stessa persona di Cristo, che è somma sapienza, immensa, bontà, e carità infinita, il quale nè può essere ingannato, nè può volere ingannar voi. E siate certi che seguendo la volontà del superiore, voi seguite con tutta certezza la divina volontà. Voi dovete fermamente credere, che tutto quello che il superiore comanda è precetto e volere di Dio." Con questa dottrina la riserva di ubbidire in tutto quello che non è peccato che cosa diviene? Il peccato è impossile nel superiore come è impossibile in Dio e in Gesù Cristo ch'egli pretende rappresentare.

Affinchè poi i superiori conoscano bene i loro polli, nel numero 40 del sommario delle costituzioni, è ordinato che ogni Gesuita, alla maggior gloria di Dio, nell'entrare nella compagnia "debba manifestare al superiore tutta la sua coscienza con grande umiltà, purità e carità, non nascondendo nulla di quello col quale avesse potuto offendere Iddio, e renda ad esso, od a chi sarà da lui deputato, un intero conto della sua vita precedente; ed ogni sei mesi renda poi lo stesso conto incominciando dall'ultimo." E nel numero 41 dice che questo rendiconto non deve limitarsi agli atti compiuti, ma deve estendersi fino alle tentazioni ed ai pensieri, inguisachè manifestino la loro anima interamente. Lo stesso è ripetuto nella quarta delle regole comuni.

Dalla pag. 40 alla 44 vi è una istruzione del come debba farsi questa manifestazionè di coscienza. Essi non solo debbono spontaneamente aprire al superiore la loro coscienza; ma debbono pregarlo d'interrogarli sui capi seguenti: "primo, se viva contento secondo la sua vocazione; secondo, come si conduca circa l'ubbidienza dell'intelletto (cioè circa quella ubbidienza che consiste nel credere buono tutto quanto è comandato dal superiore), circa la povertà, la castità, e l'uso delle altre virtù, ed a quale di esse si senta più inclinato; terzo, se prova qualche turbamento d'animo, ovvero tentazioni moleste, se resista ad esse facilmente o difficilmente, e con quali modi; ed a quali affezioni o a quali peccati si senta inclinato; quarto, se ha formato giudizi o discorsi sopra qualche regola o costituzione dell'ordine, o contro una qualche disposizione de' superiori; quinto, cosa pensi dell'istituto de' Gesuiti, e de' mezzi di cui essi si servono per giungere al loro fine, e quale sia lo zelo ch'egli sente per le anime." Per non dilungarci soverchiamente, tralasciamo di tradurre gli altri nove punti su' quali deve cadere l'interrogatorio semestrale.

Ma quasi tutto ciò fosse poco, i Gesuiti ordinano la delazione, e la mascherano da cosa santa. Nella ventesima delle regole comuni, è ordinato che non solo si debbano riferire al superiore gli atti e le parole altrui, ma eziandio le tentazioni che si supponessero avere da un altro. I missionari debbono in ogni settimana scrivere minutamente al superiore non solo quello che han fatto, ma renderli informati dello stato del paese. Il ministro in Ogni casa di Gesuiti è lo spione ufficiale: ecco cosa è scritto nel numero 8 delle regole del ministro. "Noti e riferisca al superiore non solo tutti i difetti che avrà potuto scuoprire nella casa o nel collegio, o avrà d'altronde conosciuti; ma ancora qualunque altra cosa che creda conveniente al buon governo, tanto riguardo alle cose che gli sono state commesse, come su tutte le altre: per esempio come si osservi dagli individui l'ubbidienza, come si attenda alla orazione ec."

"I superiori delle case ed i rettori, scrivano una volta alla settimana al loro provinciale, circa lo stato delle persone e di tutte le cose, non solo di quelle che si fanno da' nostri, ma anche di quelle che si fanno dagli estranei e che per il ministero de' nostri sono conosciute; non solo informi del bene, ma anche del male; e la sua informazione sia fatta in modo che il provinciale possa conoscere quelle cose come se fosse presente." Con gli stessi dettagli e la stessa chiarezza i provinciali debbono scrivere al generale, acciò egli abbia tutto presente. "Nelle cose che richiedono il segreto, si usino que' vocaboli che non possono essere intesi che dal superiore. La cifra la dà il generale."

Quanto poi alle cose de' Gesuiti, esse debbono essere impenetrabili agli esteri: ecco cosa è ordinato ne' numeri 38 e 39 delle regole comuni. "Nessuno riferisca a que' di fuori quello che si fa o si pensa fare fra noi. Nessuno, senza espressa licenza del superiore, comunichi le nostre costituzioni, i nostri libri, ovvero scritti ne' quali si contengono le nostre ordinazioni o privilegi. Nessuno dia o mandi fuori le istruzioni spirituali, le meditazioni, o gli esercizi della società."

Finiremo questa nota con due regole alquanto originali. Una è la 14 delle regole comuni, nella quale si proibisce d'insegnare a leggere e scrivere ai laici; e se sventuratamente sapevano queste cose prima di essere Gesuiti, vi è la proibizione espressa d'imparare di più, senza la licenza del P. Generale. L'altra è il modo come i Gesuiti debbano presentarsi. "Quando parlano, specialmente con uomini di una qualche autorità, non li guardino mai in viso, ma piuttosto sotto gli occhi: evitino di arrugare la fronte, e molto più il naso, affinchè si veda esteriormente la loro serenità: nel loro volto si vegga sempre un sorriso e mai tristezza: non si tengano le labbra nè molto strette nè molto aperte."

Ecco un piccolo cenno delle regole de' Gesuiti estratto dal loro libro, che nessuno potrà smentire. I nostri lettori che vorranno fare su questi punti serie riflessioni, si persuaderanno, che in quello che noi diciamo de' Gesuiti non vi è alcuna esagerazione.
Pedro

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Morale de' Gesuiti
Nota 16. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Ci sarebbe facile provare che con la dottrina de' teologi Gesuiti tutto è lecito, salvo che attaccare la compagnia; ma ciò ci porterebbe molto a lungo. Chi avesse volontà di conoscere queste cose può leggere le famose lettere provinciali di Biagio Pascal ed i seguenti libri: "Censures de la doctrine et de la morale des Jésuites faites par la falculté de theologie de Paris," 1762 senza data di luogo. "Les Jésuites criminels de lèse majesté dans la theorie et dans la pratique," À la Haye chez les frères Vaillant l759. "Histoire particulière des Jésuites en France, ou actes, denonciations, conclusions, et jugemens de la faculté de théologie de Paris, touchant les Jésuites et leur doctrine, avec les pieces qui y ont rapport," À Sorbon 1762. Dalla lettura di questi libri pieni di documenti, si vedrà quali orribili dottrine abbiano insegnate i Gesuiti.

Intanto riportiamo dal Compendium la seguente curiosa statistica delle dottrine gesuitiche.

IL PROBABILISMO è stato sostenuto da 54 autori Gesuiti, da Henriquez nel 1600, fino a La Croix nel 1757.
IL PECCATO FILOSOFICO e la coscienza erronea, sono stati sostenuti da 42 Gesuiti, da Salas nel 1607, fino al 1761.
LA SIMONIA, e la confidenza da 15, da Emanuele Sa nel 1590, fino a Trachala nel 1757.
L'IRRELIGIONE da 38, da Salas nel l607, fino a Trachala nel 1757.
L'IMPUDICIZIA da 18, da Sa nel 1590, fino a Flegeli nel 1750, Busembaum, e Trachala nel 1759.
Lo SPERGIURO, e la falsa testimonianza da 30, da Emanuele Sa e Toleto nel 1590 e 1601, fino a Reuter nel 1788, ed Antoine nel 1761.
IL FURTO da 35, da Sa e Toleto nel 1601, fino ad Antoine nel 1761.
L'OMICIDIO da 37, da Sa ed Henriquez nel 1600, fino ad Antoine nel 1761.
IL REGICIDIO, ed il delitto di lesa maestà sono stati sostenuti da 72 Gesuiti, da Emanuele Sa, Delrio e Filopater nel 1590 e 1593, fino a Matos e Alexander nel 1759.
LA COMPENSAZIONE OCCULTA, e il manutengolo de' ladri da 35, da Toleto nel 1601, fino ad Antoine nel 1761.
"E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni"
sulla santità e la eccellenza della dottrina de' Gesuiti.
Pedro

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Pio VIII e il generale de' Gesuiti
Nota 17. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Quando fu fatto papa Pio VIII, accadde il fatto seguente. Il papa, vecchio e malato di un erpete che lo rodeva, era sempre di cattivo umore, e, per non avere inquietezze, tolse tutte le udienze particolari. Egli non riceveva che i ministri e i capi de' dicasteri: aveva negata non solo la udienza ordinaria, ma perfino una udienza particolare, al P. Rootan eletto allora generale de' Gesuiti. Pio VIII aveva stabilito ogni giovedì una pubblica udienza alIa quale tutti erano ammessi, e la udienza si teneva a questo modo. Ciascuno nell'andare al palazzo riceveva un numero d'ordine: quando erano le dieci, si facevano tutti entrare nella gran sala dell'udienza ed erano posti secondo il loro numero tutti in piedi in modo da formare un circolo, o meglio un'ellittica aperta in fondo. Quando tutti erano al posto, il papa entrava nella sala, ed allora tutti si mettevano in ginocchio. Il papa entrava nell'ellittica e domandava al primo cosa volesse; e si spazientiva, se colui non diceva tutto presto ed in poche parole: in questo modo in una mezz'ora erano sbrigate una cinquantina di persone.

Il P. Rootan, non avendo potuto ottenere una udienza privata, bisognò che andasse alla pubblica. Si presentò; e Pio VIII quando fu avanti al P. Rootan, con la voce e maniera aspra, disse a lui come a tutti gli altri: "E voi cosa volete?" Il P. Rootan allora disse che il suo santo predecessore, Leone XII, aveva promesso di far dare dodicimila scudi ai Gesuiti per le spese incontrate nella elezione del nuovo generale, e che egli veniva a domandarli. Pio VIII, reprimendosi a gran forza, disse al P. Rootan: "Ah ve li aveva promessi? Ebbene citate gli eredi;" e gli volse le spalle. Finchè fu papa Pio VIII, ma lo fu per poco, il P. Generale de' Gesuiti non andò più alla udienza.
Pedro

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Avvelenamento di Clemente XIV
Nota 18. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Quante profezie moderne non si spiegano con la conoscenza del sistema gesuitico? Noi diremo a questo proposito qualche cosa sulle profezie e la morte di papa Clemente XIV, che soppresse i Gesuiti.

Poco dopo la soppressione de' Gesuiti, si trovò una mattina affisso sulle porte del Vaticano un cartello con queste lettere I. S. S. S. V. Nessuno capiva il mistero, ed il cartello fu portato al papa, il quale immediatamente lo capì, non per rivelazione dello Spirito Santo, ma perchè prima di essere papa era stato frate, e conosceva bene i Gesuiti. Egli dunque lo lesse così: "In settembre sarà sede vacante;" ed il 22 settembre il papa morì.

Nell'archivio della famiglia Ricci in Firenze, fra le altre memorie di Monsignor Scipione de' Ricci vescovo di Pistoia, nepote del P. Lorenzo Ricci, Generale de' Gesuiti nel tempo della soppressione, si trova la relazione della morte di papa Ganganelli, fatta dall'ambasciatore di Spagna che era in Roma, e mandata alla sua Corte. Questo documento è un po' lunghetto, ma lo crediamo interessante, perciò lo riproduciamo.

"Relazione del genere di malattia e morte del papa Clemente XIV mandata dal Ministro di Spagna alla sua real Corte.

"Fin dall'anno 1770 ebbero principio le profezie della contadina di Valentano Bernardina Beruzzi, rapporto ai negozi gesuitici, oltre molte altre, che la superstizione degl'individui dell'estinta compagnia procurò propagare, col fine senza dubbio d'intimorire la santità di Clemente XIV, acciò non pubblicasse la soppressione di essa. Profetizzò quella famosa impostora, che non si estinguerebbe la compagnia; che un Gesuita molto nominato sarebbe promosso al cappello dallo stesso Clemente XIV; che i Gesuiti fra poco tempo sarebbero tornati nelle provincie da dove erano stati espulsi; che il papa sariasi convertito in favore de' Gesuiti; con altre cose notoriamente false, e chiarite tali dai fatti susseguenti. Già per il 24 marzo questa illusa donna suppose morto Clemente XIV, e ripetè questa illusione della sua morte, finchè, disingannata che ancor vivea, tornò a profetizzare cappelli e favori per i Gesuiti. Avveratasi la soppressione della compagnia nell'Agosto 1773, si continuarono le profezie per altro termine, riducendole a due punti, uno cioè, che la società sarebbe risorta, e l'altro che sarebbero morti il papa e i principi che avevano procurata la soppressione, minacciandoli di varii gastighi. I propagatori di queste profezie erano diversi Gesuiti, che si facevano un sistema di spargere questi rumori. Applica ut fiat systema, erano le parole di una lettera di questi fanatici.

"Ciò non ostante, il papa visse bene e contento più di otto mesi dopo la soppressione, quantunque sempre sospettoso delle insidie gesuitiche, di che ne fece discorso con una persona tanto autorevole e verace come N. N…… asserendogli che si metteva nelle mani di Dio, cui si offeriva in sacrificio volentieri, giacchè sul punto dell'estinzione aveva determinato quello che avea creduto assolutamente necessario e giusto, dopo molte fervorose orazioni, sì proprie che di persone di conosciuta virtù.

"Il papa era di una complessione robusta, e soltanto pativa di certi flati ipocondriaci, aveva una voce sonora e gagliarda, camminava a piedi con tanta lestezza, quanto un giovane di pochi anni, era di allegrissimo genio e tanto umano ed affabile, che alcuni lo tenevano per eccesso. Era di grande e viva capacità, di sorte che con una parola capiva l'oggetto e il fine del discorso cui era diretto, mangiava con appetito, e dormiva giustamente lo spazio di cinque ore o poco più, tutte le notti.

"In uno dei giorni della settimana santa di quest'anno 1774,

dopo di aver pranzato, si sentì Clemente XIV una commozione nel petto, stomaco, e ventre, come di gran freddo interno, ed attribuendolo a pura casualità, si rasserenò poco a poco. Una delle cose che cominciarono ad osservarsi fu la decadenza della voce del S. Padre, sentendosi come un catarro di rara specie, e per questa ragione fu deliberato che per la cappella che avevasi da tenere nella basilica di S. Pietro il giorno di Pasqua di Resurrezione, gli si mettesse un capannone per ricovero del sito della cappella, e tutti osservarono la decadenza della voce del Papa.

"Cominciò il S. Padre a soffrire delle infiammazioni nella bocca e nella gola, cagionandogli questo un fastidio ed inquietudine straordinaria, e fu notato che quasi sempre teneva la bocca aperta: indi seguitarono alcuni vomiti interrotti, eccessivi dolori nel ventre, impedimento di orina, e una debolezza progressiva nel corpo e gambe, che gli levò non solo il sonno alcune volte, ma la sua solita agilità nel camminare. Era tale il coraggio del Papa, che procurava dissimulare e cuoprire questi sintomi; ma era così persuaso che eragli stata data qualche cosa mortifera, che furongli trovate delle pillole contro il veleno, delle quali senza dubbio aveva fatto uso.

"Così il Papa seguitava nel mese di maggio, giugno e luglio, con dissimulazione notabile della decadenza delle proprie forze e di altri accidenti: e contuttociò spargeasi e si pubblicava per tutto che sua Santità dovea morir presto, accennando alcuni il dì 16 luglio, e quando passò quel giorno, sparsero che il Papa morrebbe nel mese di ottobre, come fu scritto dalla Germania e d'altrove.

"In luglio cominciò il Papa il rimedio dell'acqua a passare, del quale usava ogni anno contro un umor salso che pativa nell'estate; e in questo fu notato che non venivagli sul principio nella superficie del corpo in abbondanza degli altri anni; ma, entrato nel mese di agosto, la eruzione venne sufficientemente abbondante. Ciononostante seguitavano la debolezza, il mal di gola, l'apertura della bocca, gli straordinari sudori, quali veniva detto ch'erano procurati dalla Santità Sua, come conducenti a ristabilirlo in salute.

"Verso gli ultimi di agosto, cominciò il Papa a ricevere i ministri, nonostante la debolezza e inquietudine interna che gli davano i suoi incomodi, dai quali provenne che perdette la sua naturale allegrezza e mansuetudine, ravvisandosi facilmente adirato e incostante, quantunque la sua naturale educazione e santa morale dominassero la veemenza del male, e lo riducessero alla umanità praticata con tutti. In questo tempo, scrisse il vicario generale di Padova al Segretario della congregazione de rebus jesuitarum, che certi ex-gesuiti gli si erano presentati giudicandolo terziario, e cominciando a prorompere in espressioni forti contro il Papa, manifestarono che sarebbe morto in settembre.

"Sparsesi egualmente una stampa in Germania: alla parte sinistra di essa, era una morte con bandiera che aveva un Cristo nel centro, un bastone con una specie di tabernacolo nella sua estremità, dentro del quale vedevasi un ex-gesuita in abito lungo di prete secolare, ed in cima il nome I H S; sotto la stampa eravi un motto che diceva: Sic finis erit. Eranvi poi certi versi in idioma tedesco, in cui si spiegava che i gesuiti, ancorchè avessero mutato abito, erano fermi di non cambiare sentimento, e tosto seguiva questo testo con i grandi caratteri dinotanti l'oronografo misterioso: qVoD bonVM est In oCVLIs sVIs faCIet. I Regum 35, 18. Unite le lettere maiuscole, compongono i numeri MDCCLVVVVIIII, che è l'anno 1774 in cui è morto Clemente XIV.

"Dopo questi antecedenti, venne la febbre al papa, la sera del 10 settembre, con una specie di sfinimento e prostrazione di forze, che fece credere che perderebbe presto la vita, gli fu quella sera stessa cavato dieci oncie di sangue, e non si trovò in esso segno d'infiammazione; e neppure nel respiro, petto, ventre e orina notossi cosa grave che dasse pensiero. Si vide anche che lo stesso sangue fece del siero corrispondente, nonostante che il medico avesse opinato essere il male derivato dalla mancanza de' sieri, per i copiosi sudori che la Santità Sua aveva patiti. Difatti la mattina degli undici, il papa cominciò a restare senza febbre, e secondo i medici restò netto in quella giornata e nella seguente del 12, notandosi però nel S. Padre un ristabilimento di forze, che non solo pensava uscire al suo solito passeggio ne' 14 e 15, ma ancora portarsi a Castel Gandolfo alla villeggiatura consueta.

"Fino dal 15 tornò alla Santità Sua la debolezza con sonno eccessivo notturno e diurno, fino alla notte del 18, nella quale ebbe qualche vigilia; e trovandosi la mattina del 19 con febbre, ed una grande enfiagione nel basso ventre e ritenzione di orina, gli fu fatta una sanguigna, e non fu osservata qualità infiammatoria nel sangue; ed inoltre fatte varie pressioni sul ventre, non sentì dolore alcuno, avendo anche libero il petto e il respiro. Verso la sera del medesimo giorno, sopraggiunse al papa una accensione, onde furongli replicati i salassi; e lo stesso fecesi la mattina del 20; ancorchè fosse notata una maggior blandura nel polso e nel ventre, la quale crebbe di modo che il giorno medesimo 20 fu creduto di avere un poco migliorato; ma queste speranze svanirono colla nuova accensione nella stessa sera sopraggiunta; cosicchè fu creduto amministrargli il S. Viatico.

"Passò il papa la notte inquieta, onde gli vennero replicate le emissioni del sangue nel dì 21, seguitando la febbre ed il gonfiar del ventre, senza poter orinare, di sorte che la sera stessa del 21 gli fu amministrata la Estrema Unzione, ed in mezzo agli atti di contrizione e pietà veramente esemplare, rese l'anima al suo Creatore verso le ore 13 del dì 22 settembre del 1774.

"Alla medesima ora incirca del giorno seguente 23, si fece la sezione od imbalsamatura del cadavere. Prima però fu osservato che il viso era di color livido, le labbra e le unghie nere, e la region dorsale di color nericcio. L'abdome gonfio, e tutto il corpo estenuato e magro, d'un color cedrino che tendeva al cenericcio: il quale però lasciava vedere sì nelle braccia che nei fianchi, cosce e gambe, dei lividi apparenti sotto la cute.

"Aperto il cadavere, si vide che il lobo sinistro del polmone aderente alla pleura erasi infiammato ed incancrenito, e parimente infiammato l'altro lobo. Ambedue i lobi erano pieni di sangue saturato, e tagliata la sostanza de' medesimi, gemè un umor sanguinolento. Fu aperto il pericardio, e fu veduto il cuore impicciolito di mole, per la totale mancanza dei liquidi che nel pericardio trovavansi. Sotto il diaframma si videro il ventricolo e gl'intestini pieni di aere, e passati in cancrena: e fattasi l'incisione dell'esofago, seguitando sino al ventricolo, piloro e gl'intestini sottili, si riconobbe infiammata tutta la parte interna dell'esofago, tendente al cancrenismo, come ancora la parte inferiore e superiore del ventricolo, e tanto questo quanto gl'intestini ricoperti di un fluido che dai professori dicesi atrabilario; ed il fegato era piccolo, e nella parte superiore aveva delle parti sierose. La vescica del fiele comparsa grossa, in essa trovassi copia d'umore, che ancor si disse atrabilis: si trovò pure una quantità di linfa nella cavità del basso ventre. Nel cranio videsi la dura madre alquanto turgida ne' suoi vasi, e considerata la sostanza, nulla si osservò di particolare, se non che di essere un poco flaccida. Collocati gl'intestini ed i visceri di una vettina (*Le interiora de' papi sono poste in una vettina, ben chiuse e suggellate, e sono murate in una nicchia a sinistra dell'altar maggiore nella chiesa de' SS. Vincenzo ed Anastasio a Trevi. Il parroco di quella chiesa che riceve le sante viscere, prende per quella funzione sei grosse torcie di cera, e settanta scudi in buona moneta), questa crepò ad un'ora di notte (**Lo stesso accadde alle viscere di Leone XII, morto parimente di veleno. Ma la vettina ove erano le viscere di papa Leone scoppiò nella chiesa de' SS. Vincenzo ed Anastasio), ed empì la camera d'un fetore orribile; non ostante l'imbalsamatura fatta alcune ore prima. La mattina seguente 24, fu d'uopo chiamare alcuni professori verso le ore dieci (cinque antimeridiane), e si osservò che il cadavere gettava insopportabile fetore, il viso rigonfio e di color negriccio, le mani del tutto nere, e sopra i dorsi delle medesime esservi delle vescicone della altezza di due dita traversali ripiene di sierosità lixiviali, come se sopra le medesime si fosse versata dell'acqua bollente, o altro fluido atto a produrre vesciche.

"Fu osservato in oltre gran quantità di siero sanguinolento corrotto, e scorreva per il declivio del letto, e cadeva sul pavimento in copia abbondante, cagionando un tale fenomeno ammirazione ai professori nell'intervallo di 34 ore, in cui il cadavere dopo ben pulito e cavate le viscere era già stato imbalsamato con somma attenzione. Allora fu pensato incassare il cadavere; ma non fu fatto, per aver riflettuto monsignor Maggiordomo che ciò avrebbe potuto produrre qualche cattivo effetto nel pubblico, onde si procurò usare delle altre cautele: e mentre si spogliava il cadavere degli abiti pontifici, venne in gran parte appresso agli abiti la pelle. Si osservò poi nelle mani, l'unghia del pollice destro si era da esso separata; si fece la prova sull'altro, e si vide che ad un semplice stropicciamento tutte le unghie si separavano alla presenza di tutti gli astanti.

"Si videro nella regione dorsale tutti i muscoli sfacellati e disfatti, in guisa che nella metà del dorso lateralmente alla midolla spinale, si osservò per lo spazio di tre dita traverse da ogni parte un crostone totale, tanto de' muscoli sopraccostali, quanto degl'intercostali, che formandosi due aperture, permettevano di vedere l'imbalsamatura del di dentro nel petto illesa.

"Fu osservato inoltre, meno che nelle coscie e gambe, un efremen (ebullizione) universale. Si procurò usare varie cautele, e nelle incisioni che di nuovo si fecero, si vide nella superficie di esse un subollimento fluido, che manifestavasi agli occhi di tutti a guisa di ampolle.

"Altra osservazione che fecesi fu quella di essere cascati al cadavere i capelli, gran parte de' quali restò sul cuscino in cui poggiava il capo. Infine, nonostante tante cautele, e nuove imbalsamature, dopo che il cadavere fu portato a S. Pietro, fu di mestieri incassarlo, ad onta della politica colla quale spiegossi gran parte dei professori che assistevano alla sezione. Si sparsero per Roma molte delle cose riferite di sopra, sebbene con qualche alterazione, e il popolo romano si riempì di scandalo, credendo avvelenato il pontetice con l'acquetta che si fa in Calabria e in Perugia, secondo la comune opinione, per levare la vita a poco a poco come si è veduto.

"Gli osservatori univano le profezie che certamente non erano dello Spirito di Dio, poiché la maggior parte di esse eransi rese false. Uniamo altresì le notizie, stampe, minaccie; la commozione di Clemente XIV, l'infiammazione alla gola ed alla bocca, l'abbandonamento di forze progressivo, freddo ed enfiagione di ventre, ritenzione d'orina, perdita della voce, vomiti, e finalmente il color livido e negro del cadavere, quello delle unghie e il distacco di esse e de' capelli, siccità di cuore e di tutt'altro sopraesposto; non potendo combinare che una infiammazione, conforme dissero i medici, la quale non avesse una causa preternaturale e violenta, lasciasse il sangue senza segni d'infiammazione, e nascondesse la febbre per lo spazio di nove giorni. Questi stessi osservatori senza essere medici, credettero che potessero essere adottabili da un giudizio prudente i segni del veleno che assegna Paolo Zacchia medico romano."

Qui l'ambasciadore spagnuolo trascrive dalla famosa opera di medicina legale di Paolo Zacchia tutti i segni di un avvelenamento. Tutti furono persuasi che la morte di Clemente XIV sia stata cagionata dal veleno de' Gesuiti; eppure nè i cardinali di quel tempo, nè il papa successore fecero nulla per dimostrare legalmente il veneficio, e cercarne gli autori.
Pedro

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16/04/2011 19:10
 
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Marco Antonio de Dominis
Nota 19. alla lettera quattordicesima di Roma Papale 1882

Marco Antonio De Dominis fu uomo celebre nel principio del secolo XVII. Egli fu Gesuita, e fu fra di essi professore prima di belle lettere, poi di filosofia. Uscì dai Gesuiti e fu fatto vescovo di Segni, e poscia arcivescovo di Spalatro. In quel tempo regnava in Inghilterra Giacomo Il figlio della disgraziata Maria Stuarda. Il papa aveva buone speranze di ricondurre l'Inghilterra al romanesimo, sotto un re figlio di una che Roma chiamava martire; e la speranza era tanto più fondata, perchè re Giacomo si occupava molto di teologia. Bisognava dunque mandare in Inghilterra un uomo che fosse abilissimo nella politica e nella teologia, e che potesse esercitare una grande influenza senza dare il più piccolo sospetto. A questa bisogna fu scelto l'arcivescovo di Spalatro; il quale fingendo di voler divenir protestante, emigrò in Inghilterra. I vescovi e preti della Chiesa anglicana non capivano in loro stessi per la gioia; l'arcivescovo di Spalatro fu accolto a braccia aperte; il re Giacomo lo ricolmò di benefici, e De Dominis viveva da protestante.

Ma in poco tempo aveva sapute eccitare tali discordie, ed aveva saputo tanto furbescamente seminare il romanesimo, che il re Giacomo suo protettore lo scacciò d'Inghilterra, e poco dopo, in seguito delle discordie cagionate dal De Dominis, bandì dal regno tutti i Cattolici.

Il De Dominis tornò in Roma, a reclamare la realizzazione delle promesse che gli erano state fatte; ma papa Paolo V non era in umore di mantenerle, tanto più che la sua missione era male riuscita. Lo fece dunque rinchiudere nel Castel S. Angelo, come apostata, e mise il suo processo nelle mani del S. Uffizio. Il De Dorninis vedendosi a tale stato prese il veleno e mori. Il S. Uffizio continuò il suo processo, e bruciò il suo cadavere sulla piazza di Campo di Fiore. Poi ordinò che si facesse in memoria di lui una fontana all'angolo destro del palazzo Simonetti sulla piazza di S. Marcello, ove fosse scolpito il De Dominis in figura di facchino che tiene nelle mani un barile, dal quale esce acqua: e la fontana con quella statua esiste ancora.
Pedro

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