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CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

💝

 

 
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Note sul libro dell’ESODO

Ultimo Aggiornamento: 21/04/2011 19:46
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CAPITOLO 14
Capitolo 14
«Ecco quelli che scendon nel mare su navi, che traffi­cano sulle grandi acque; essi veggono le opere dell’Eter­no e le sue meraviglie nell’abisso» (Salmo 107:23).

Come è vero tutto questo! eppure, quanto indie­treggiano i nostri cuori di fronte alle «grandi acque»! Preferiamo i bassi fondali e siamo così privati di vedere le opere e le meraviglie del nostro Dio; poiché esse le vediamo e le conosciamo solo nelle acque profonde.

È alla luce delle prove e delle difficoltà che l’anima fa qualche esperienza della grande e indicibile felicità che si prova nel poter contare su Dio. Se tutto andasse facilmente, non sarebbe così. Non è quando si scivola nella superficie di un lago tranquillo che è sentita la realtà della presenza del Maestro; se ne fa l’esperienza quando mugghia la tempesta e i flutti coprono la barca. Il Signore non ci offre la prospettiva di un cammino esente da prove o da tribolazioni; al contrario Egli ci dice che incontreremo le une e le altre; però ci pro­mette di essere con noi in mezzo a queste cose, il che vale infinitamente di più che l’esserne esenti. È me­glio godere della presenza di Dio nella prova che essere esenti da prove e non fare questa preziosa esperienza. Provare che il cuore di Dio simpatizza con noi è assai più dolce che provare la potenza della sua mano per noi. La presenza del Maestro in mezzo ai suoi fedeli servitori, mentre questi attraversano la fornace, era preferibile alla manifestazione della sua potenza per preservarli (Daniele 3). Spesso vorremmo che ci fosse accordato di prose­guire senza prove, ma se così fosse perderemmo molto. Mai la presenza del Signore è dolce come nei momenti di gran difficoltà.

È ciò che provarono gli Israeliti nelle circostanze che ci sono riferite in questo capitolo. Essi si trovano là in una difficoltà opprimente, insor­montabile. Sono chiamati a «trafficare sulle grandi ac­que»; «tutta la loro saviezza vien meno» (Salmo 107:23 e 27). Faraone, pentendosi di averli lasciati uscire dal suo paese, decide di fare uno sforzo disperato per riprenderli. «E Faraone fece attaccare il suo carro e prese il suo popolo seco. Prese seicento carri scelti, e tutti i carri d’Egitto; e su tutti c’eran dei guerrieri... E quando Faraone si fu avvicinato, i figliuoli d’Israele alza­rono gli occhi; ed ecco, gli Egiziani marciavano alle loro spalle, ond’ebbero una gran paura e gridarono all’Eter­no» (vv. 6 e 10). Era una situazione che metteva seriamente alla pro­va; una scena nella quale ogni sforzo umano diventava inutile. Come gli Israeliti non avrebbero potuto tentare di far indietreggiare i potenti flutti dell’oceano con un filo di paglia, così neppure avrebbero potuto cercare di tirarsi fuori da loro stessi con uno sforzo qualunque. Il mare stava davanti a loro; dietro, gli eserciti di Faraone; attorno, le montagne. E tutto questo era permesso e ordinato da Dio! Dio aveva scelto il terreno dove Israele doveva accamparsi «vicino a Pi-Hahiroth, di fronte a Baal-Tsefon»; inoltre è lui che permette che Faraone li raggiunga. Perché questo? Proprio per manifestare se stesso nella salvezza del suo popolo, e nella disfatta completa dei nemici di questo popolo. «Colui che divise il Mar Rosso in due, perché la sua benignità dura in eterno, e fece passare Israele in mezzo ad esso, per­ché la sua benignità dura in eterno; e travolse Faraone e il suo esercito nel Mar Rosso, perché la sua beni­gnità dura in eterno» (Salmo 136:13-15).

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In tutto il cammino dei riscattati di Dio attraverso il deserto non c’è una sola posizione i cui limiti non siano stati trac­ciati con cura dalla mano della saggezza e dell’amore infinito. La portata speciale e la particolare influenza di ciascuna di queste posizioni, sono calcolate con cura. I Pi-Hahiroth e i Migdol sono tutti disposti in un modo che è in rapporto immediato con la condizione morale di coloro che Dio guida attraverso i giri e i labirinti del deserto ed anche in modo da manifestare il vero carat­tere di Dio. Se l’incredulità suggerisce spesso questa domanda: perché questo? Dio lo sa. E, certamente, ne rivelerà il perché tutte le volte che questa rivelazione potrà contribuire alla sua gloria e al bene dei suoi. Non ci chiediamo forse spesso perché siamo posti in questa o in quella circostanza? Non ci tormentiamo sovente per sapere la ragione per la quale siamo esposti a que­sta o a quella prova? Come sarebbe meglio che curvas­simo la testa in un’umile sottomissione e dicessimo «va bene così» e «tutto andrà bene». Quando è Dio che stabilisce la nostra posizione, possiamo essere certi che la scelta è fatta con saggezza e che è salutare; ma anche quando, follemente e volontariamente, l’abbiamo scelta noi, Dio, nella sua misericordia, domina la nostra follia e fa sì che la potenza delle circostanze, nelle quali ci siamo immessi, lavori per il nostro bene spiri­tuale.

Quando si trovano nei più grandi dilemmi e nelle più grandi difficoltà, i figliuoli di Dio, proprio allora, hanno il privilegio di vedere le più belle manifestazioni del carattere e dell’attività di Dio; e, per questo, Egli li pone sovente nella prova, per manifestarsi in modo sempre più chiaro. Egli avrebbe potuto condurre Israele attraverso il Mar Rosso e farlo arrivare al di fuori del raggio di azione degli eserciti di Faraone, anzi, prima che questi lasciasse l’Egitto; però, facendo così, il suo nome non sarebbe stato così pienamente glorificato, né il nemico, nel quale voleva «glorificarsi» (v. 17), così decisamente sconfitto. Troppo spesso perdiamo di vista questa grande ve­rità e, di conseguenza, al momento della prova, il co­raggio ci manca. Se possiamo interpretare una crisi dif­ficile come un’occasione per Dio di far apparire, in nostro favore, la piena sufficienza della grazia divina, le nostre anime conservano il loro equilibrio e noi pos­siamo glorificare Dio, anche in mezzo alle acque più profonde.

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Il parlare degli Israeliti, in quest’occasione, può stu­pirci e sembrarci difficile da spiegare; però, più cono­sciamo i nostri malvagi cuori increduli, più vedremo come è grande la somiglianza che c’è tra noi e questo popolo. Pare che avessero dimenticato la recente mani­festazione della potenza divina in loro favore. Avevano visto gli dèi d’Egitto giudicati e la potenza dell’Egitto abbattuta sotto la verga dell’Eterno. Avevano veduto la stessa mano rompere la catena di ferro della schiavitù egiziana e spegnere la fornace. Hanno visto tutte que­ste cose e, tuttavia, non appena una nube scura appare al loro orizzonte, la loro fiducia vien meno, il coraggio manca, e danno corso a mormorii increduli, dicendo: «Mancavan forse sepolture in Egitto, che ci hai me­nati a morire nel deserto? Perché ci hai fatto questa azione di farci uscire dall’Egitto? Non è egli questo che ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare, che serviamo gli Egiziani? Poiché meglio era per noi servire gli Egiziani che morire nel deserto» (vv. 11-12).

La cieca incredulità erra sempre e scruta invano le vie di Dio. Questa incredulità è la stessa in ogni tempo; è stata essa a indurre Davide a dire, in un brutto gior­no: «Un giorno o l’altro io perirò per le mani di Saul; non v’è nulla di meglio per me che rifugiarmi nel paese dei Filistei» (1 Samuele 27:1). E come si svolsero le vicende? Saul fu ucciso sul monte di Ghilboa e il trono di Davide stabilito per sempre. È ancora l’incredulità che, in un momento di profondo abbattimento, indusse Elia il Tisbita a fuggire, per salvarsi la vita, dinanzi alle furiose minacce di Izebel. E cosa capitò? Izebel fu divorata sulla strada ed Elia portato in cielo sul carro di fuoco.

Avvenne così ai figliuoli di Israele al momento della prima prova. Credettero che l’Eterno si fosse preoc­cupato di liberarli d’Egitto per farli morire nel deserto: s’immaginavano di essere stati preservati dalla morte dal sangue dell’Agnello pasquale per essere seppelliti nel deserto. L’incredulità ragiona sempre così: essa ci induce a interpretare Dio alla presenza delle difficoltà, invece che interpretare le difficoltà alla presenza di Dio. La fede si pone al di là delle difficoltà e vi trova Dio in tutta la sua fedeltà, il suo amore, la sua potenza. Il credente ha il privilegio di essere sempre alla presenza di Dio; vi è stato introdotto dal sangue del Signore Gesù, e nulla dovrebbe riuscire a toglierlo di là. Il posto che gli è stato dato alla presenza di Dio non può mai perderlo, dal momento che Cristo, suo capo e suo rap­presentante, lo occupa per lui. Ma, benché la cosa in se stessa non la si possa perdere, se ne può, tuttavia, perdere il godimento, l’esperienza, la potenza. Tutte le volte che le difficoltà si pongono tra il cuore del credente e il Signore, egli evidentemente non gode della presenza del Signore, ma soffre di fronte alle difficoltà, proprio come quando una nuvola si mette fra noi e il sole, privandoci, per un momento del godimento dei suoi raggi. La nuvola non impedisce al sole di brillare, ma ci toglie il godimento. Capita proprio così quando permettiamo che le prove, le pene e le difficoltà della vita rubino alle nostre anime i raggi risplendenti della faccia del nostro Padre, che brilla di un chiarore im­mutabile nella persona di Cristo. Non v’è difficoltà trop­po grande per il nostro Dio. Anzi, più la difficoltà è grande, più egli ha occasione di intervenire, secondo il suo carattere, come l’Iddio buono e onnipotente.

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21/04/2011 19:43
 
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Indubbiamente, la situazione di Israele, come è de­scritta nei primi versetti di questo capitolo, era atta a mettere alla prova profondamente e ad abbattere «la carne e il sangue»; però c’era là il Padrone del cielo e della terra, e i figliuoli di Israele non avevano che da riposarsi su lui.

Ma pure, come presto manchiamo, caro lettore, quando viene la prova! I sentimenti di cui abbiamo par­lato hanno un suono piacevole per l’orecchio e sono molto belli sulla carta e, benedetto sia il Signore, sono divinamente veri; ma l’importante è metterli in pratica, quando viene l’occasione. È praticandoli che se ne sperimenta la potenza e la felicità. «Se uno vuol fare la volontà di lui, conoscerà se questa dottrina è da Dio» (Giovanni 7:17).

«E Mosè disse al popolo: Non temete, state fermi e mirate la liberazione che l’Eterno compirà oggi per voi; poiché gli Egiziani che avete veduti quest’oggi non li vedrete mai più in perpetuo. L’Eterno combatterà per voi e voi ve ne starete queti» (vers. 13-14). «Ve ne starete quieti! »; è quello il primo atto della fede di fronte alla prova. Per la carne e il sangue è una cosa impossibile. Chi conosce l’agitazione del cuore umano nelle prove e nelle difficoltà, può farsi un’idea di ciò che implichi «Io starsene quieti».

La natura vuol fare qualcosa; si metterà a correre qua e là; vuole avere una parte nell’opera; e pur cer­cando di giustificare e santificare i propri atti, dando loro il nome pomposo di «uso leggittimo dei mezzi», ciò che essa fa non è altro che il frutto diretto e posi­tivo dell’incredulità, che esclude sempre Dio e non vede altro che le dense nubi della propria creazione. L’incre­dulità crea o ingrandisce le difficoltà e poi, per toglierle, fa appello ai nostri sforzi e alla nostra irrequieta, infrut­tuosa attività che, in realtà, non fanno altro che solle­vare intorno a noi una polvere che impedisce di vedere la salvezza di Dio. La fede invece eleva l’animo al di sopra delle difficoltà, per farlo guardare direttamente a Dio stesso, e, così, ci rende capaci di starcene quieti. Coi nostri sforzi e con la nostra inquieta agitazione non guadagnamo niente. «Tu non puoi fare un solo capello bianco o nero... E chi di voi può, con la sua solleci­tudine, aggiungere alla sua statura pure un cubito?» (Matteo 5:36; 6:27).

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21/04/2011 19:44
 
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Cosa avrebbe dovuto fare Israele di fronte al Mar Rosso? Potevano forse asciugarlo? Potevano appianare le montagne? Potevano annientare gli eserciti di Egitto? Essi erano là, circondati da un muro impenetrabile di dif­ficoltà, di fronte al quale la natura non poteva far altro che tremare e sentire la sua completa impotenza! Ma proprio quello era il momento per Dio di agire. Quando l’incredulità è scacciata, allora Dio può entrare in scena e per avere una giusta visione delle sue azioni, bisogna starsene quieti. Ogni movimento della natura umana in proporzione alla portata che ha, è un impedimento si­curo per scorgere l’intervento divino in nostro favore e per poterne gioire.

Così è anche di noi in ogni fase della nostra storia. Così è di noi come peccatori, allorché, sotto il sentimento del disagio che dà il peccato che pesa sulla coscienza, cerchiamo di avere soccorso dai nostri propri atti per ottenere ristoro. Allora, realmente, dobbiamo starcene tranquilli per vedere la liberazione dell’Eterno. Cosa avremmo potuto fare noi nell’opera dell’espiazione per il peccato? Avremmo potuto andare sulla croce col Figlio di Dio? Avremmo potuto scendere con lui nella «fossa di perdizione e nel pantano fan­goso» (Salmo 40:2)? Avremmo potuto tracciarci un sentiero fino alla Rocca Eterna sulla quale Egli si è posto nella risurrezione? Ogni persona onesta direbbe che un tale pensiero è un’audace bestemmia. Dio è solo nella redenzione; e, quanto a noi, non abbiamo che da star­cene quieti e vedere la liberazione di Dio. Il fatto stesso che è la liberazione di Dio, dimostra che l’uomo non ha niente da fare.

Il principio non è diverso, una volta che siamo en­trati nel cammino cristiano. In ogni difficoltà, grande o piccola che sia, la nostra sapienza è di starcene quieti, di rinunciare alle nostre opere e di cercare in Dio riposo e liberazione. E neppure dobbiamo fare delle distinzioni fra varie difficoltà: non possiamo dire che ve ne siano di leggere, alle quali possiamo far fronte noi stessi e di altre in cui solo la mano di Dio è efficace. No, esse superano, tutte, le nostre forze. Per noi è impossibile cambiare colore a un capello come trasportare un mon­te: siamo incapaci di creare un mondo, come un filo di erba. Non ci resta, dunque, che abbandonarci con fede fiduciosa nelle mani di Colui che «si abbassa a riguar­dare nei cieli e sulla terra» (Salmo 113:6).

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21/04/2011 19:44
 
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Qualche volta attraversiamo le più grandi prove con trionfo e poi perdiamo coraggio, tremiamo, manchiamo sotto le dispensazioni più ordinarie. Perché questo? Per­ché nelle grandi prove siamo costretti a gettare il nostro fardello sul Signore mentre cerchiamo follemente di portare noi le difficoltà meno grandi.

«L’Eterno combat­terà per voi e voi ve ne starete queti» (v. 14). Preziosa certezza! Non è forse atta a tranquillizzare lo spirito in presenza delle difficoltà più serie e dei più grandi peri­coli? Il Signore si pone non solo tra noi e i nostri pec­cati, ma anche tra noi e le circostanze in mezzo alle quali ci troviamo. Nel primo caso ci dà la pace della co­scienza; nel secondo la pace del cuore. Sono due cose assolutamente distinte, come ogni cristiano sperimen­tato sa.

Molti cristiani hanno la pace della coscienza ma non quella del cuore. Hanno visto, per grazia e per fede, Cristo tra loro e i loro peccati nella divina efficacia del suo sangue; ma non sanno, con la stessa semplicità, vedere Cristo nella sua divina sapienza, nel suo amore e nella sua potenza, fra loro e le circostanze nelle quali sono posti. Ne deriva una sostanziale differenza nella condizione pratica della loro anima e anche nel carat­tere della loro testimonianza. Nulla contribuisce a glori­ficare il Nome di Gesù più di questo riposo tranquillo dello spirito che deriva dall’avere Gesù tra noi e tutto ciò che potrebbe essere un soggetto di inquietudine per i nostri cuori. «A colui che è fermo nei suoi senti­menti (o meglio: allo spirito che s’appoggia su te) tu conservi la pace, la pace perché in te con­fida» (Isaia 26:3).

«Ma — si chiederà qualcuno — non dobbiamo pro­prio fare niente?». Come risposta, si potrà chiedere: «cosa possiamo fare?». Chi realmente si conosce può dire: «nulla!». Se dunque non possiamo fare nulla è meglio che ce ne stiamo tranquilli. Se il Signore agisce per noi, non facciamo meglio a tenerci indietro? Corre­remo noi davanti a lui? Andremo a ingerirci nella sua sfera d’azione, a entrare nel suo cammino? È perfetta­mente inutile agire in due quando uno solo è capace di fare tutto. Chi si sognerebbe di portare una candela ac­cesa per aumentare la luce del sole in pieno mezzodì? Eppure, chi facesse così, potrebbe sembrare un savio a paragone di chi pretende di aiutare Dio con la sua mal compresa attività.

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21/04/2011 19:44
 
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Tuttavia, quando Dio, nella sua grande misericordia, apre una strada, la fede vi può camminare; essa lascia la via dell’uomo per seguire quella di Dio. «L’Eterno disse a Mosè: Perché gridi a me? Dì ai figliuoli di Israele che si mettano in marcia» (v. 15). Soltanto quando abbiamo imparato a starcene quieti, possiamo metterci in marcia; diversamente tutti i nostri sforzi non serviranno ad altro che a manifestare la nostra follia e la nostra debolezza. La vera saggezza è dunque «stare tranquilli» qualunque sia la difficoltà o la perplessità nella quale ci si trova, e abbandonarsi su Dio che, certamente, ci aprirà la strada: e allora potremo camminare con tranquillità e piacevol­mente. Non v’è incertezza quando è Dio che ci apre una via; ma un cammino inventato da noi è un cammino di dubbio e di esitazione. L’uomo non rigenerato può pro­seguire per la sua strada con un’apparenza di fermezza e di decisione; ma uno degli elementi più distintivi della nuova creatura è la sfiducia in se stessi e la fiducia in Dio solo. Solo quando i nostri occhi hanno visto la libe­razione di Dio possiamo camminare in questa via: ma non possiamo mai vederla chiaramente prima di essere convinti dell’inutilità dei nostri sforzi miserabili.

Nell’espressione «mirate la liberazione» dell’Eterno c’è una forza e una bellezza sorprendente. Il solo fatto d’essere invitati a vedere la liberazione dell’Eterno di­mostra che questa liberazione è completa. Ci insegna che la salvezza è un’opera che Dio ha fatto e rivelato perché la vediamo e ne godiamo. La salvezza non è parte opera di Dio, parte opera dell’uomo; in questo caso non la si potrebbe chiamare salvezza di Dio (cf. Luca 3:6; Atti 28:28). Per essere salvezza di Dio bisogna che sia priva di tutto ciò che è dell’uomo; e il solo risultato pos­sibile degli sforzi dell’uomo è di nascondere la visione della salvezza di Dio.

«Dì ai figliuoli di Israele che si mettano in marcia». Pare che Mosè stesso non sapesse che fare. «Perché gridi a me?». Mosè poteva dire al popolo «state fermi e mirate la liberazione che l’Eterno compirà oggi per voi», mentre egli stesso presentava a Dio le richieste della sua anima in distretta, gridando a lui. Tuttavia è inutile che gridiamo quando dobbiamo aspettare; però facciamo sempre così: cerchiamo di camminare quando dovremmo fermarci, e ci fermiamo quando dovremmo camminare. Gli Israeliti potevano ben chiedersi: Dove dobbiamo andare? Una barriera insor­montabile sembrava ostacolare il loro avanzamento. Come attraversare il mare? Là stava la difficoltà. La na­tura non avrebbe mai potuto risolvere questo problema. Ma possiamo essere sicuri che Dio non dà mai un ordine senza comunicare, nello stesso tempo, il potere di ubbi­dire. Lo stato reale del cuore può essere messo alla prova dal comandamento, ma l’anima che, per grazia, è disposta a obbedire riceve da alto il potere di farlo. L’uomo al quale Gesù comandò di stendere la mano secca avrebbe potuto naturalmente domandare: Come posso stendere una mano secca? Invece non fece do­manda alcuna poiché con l’ordine, e dalla stessa sor­gente, viene la forza e il potere per obbedire (Luca 5:23-24; Giovanni 5:8-9).

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21/04/2011 19:45
 
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Così pure, per Israele, insieme all’ordine di cammi­nare, viene aperto il cammino: «E tu alza il tuo bastone, stendi la tua mano sul mare, e dividilo; e i figliuoli di Israele entreranno in mezzo al mare a piedi asciutti» (v. 16). Era quello il cammino della fede. La mano di Dio apre la via perché possiamo farvi i primi passi, e la fede non chiede altro. Dio non dà mai la direzione per due passi contemporaneamente; bisogna che facciamo un passo, poi riceviamo la luce per farne un altro e il nostro cuore sarà così tenuto in continua dipendenza da Dio. «Per fede passarono il Mar Rosso come per l’asciutto» (Ebrei 11:29). Certamente il mare non fu diviso in tutta la sua estensione, improvvisamente; Dio voleva guidare il suo popolo per la fede e non per vi­sione. Non c’è bisogno di fede per incominciare un viag­gio in cui la strada si scorge dal principio alla fine: ci vuole invece la fede per mettersi in cammino scorgendo solo quel che serve per fare il primo passo. Il mare si apriva man mano che Israele avanzava di modo che, per ogni nuovo passo, essi dipendevano da Dio. Era quello il cammino dei riscattati dell’Eterno, sotto la sua guida. Essi attraversavano le tetre acque morte, e avvenne che «le acque formavano come un muro alla loro destra e alla loro sinistra» ed essi entrarono sull’«asciutto» (v. 22).

Gli Egiziani non potevano entrare in quel cammino. Vi sono entrati perché hanno visto, davanti a loro, la strada aperta; per loro era questione di vista e non di fede. «Il che tentando fare gli Egizi furono inabissati» (Ebrei 11:29). Quando si cerca di fare ciò che solo la fede può compiere, si va incontro alla confusione e alla sconfitta. Il cammino nel quale Dio chiama il suo popolo, la natura umana non lo può fare. «Carne e sangue non possono eredare il regno di Dio» (1 Corinzi 15:50); non possono nemmeno camminare nelle vie di Dio. La fede è il grande principio che caratterizza il regno di Dio ed è la sola che ci rende capaci di camminare nelle vie di Dio. «Or senza fede è impossibile piacergli» (Ebrei 11:6). Dio è sommamente glorificato quando cammi­niamo con lui con gli occhi bendati, dimostrando d’avere più fiducia nella sua vista che nella nostra. Se so che Dio guarda per me, posso chiudere gli occhi e cammi­nare tranquillamente in una santa sicurezza. Nelle cose di questa vita, sappiamo che quando una sentinella o un guardiano è al suo posto, gli altri riposano tranquilla­mente. Quanto più noi possiamo riposare in piena sicu­rezza, sapendo che Colui che non sonnecchia e non dorme ha l’occhio fisso su noi e ci circonda con le sue braccia (Salmo 121:4).

«Allora l’angelo di Dio, che precedeva il campo di Israele, si mosse e andò a porsi alle loro spalle; pari­mente la colonna di nuvole si mosse dal loro fronte e si fermò alle loro spalle; e venne a mettersi tra il campo dell’Egitto e il campo di Israele; e la nube era tenebrosa per gli uni, mentre rischiarava gli altri nella notte» (vv. 19-20). L’Eterno si pose esattamente tra Israele e il nemico: fu una protezione per i suoi. Prima che Faraone potesse toccare un solo capello di Israele avrebbe dovuto attraversare la tenda stessa dell’Onnipotente, anzi, l’Onnipotente stesso. Dio si pone sempre tra il suo popolo e il nemico, di modo che «nes­sun’arma fabbricata contro di te riuscirà» (Isaia 54:17).

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21/04/2011 19:45
 
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Egli si è posto tra noi e i nostri peccati ed è un grande privilegio vederlo tra noi e ogni cosa od ogni persona che potrebbe essere contro di noi; così soltanto troviamo, nello stesso tempo, la pace del cuore e quella della coscienza. Il credente può mettersi diligentemente e ansiosamente alla ricerca dei suoi peccati, ma non li troverà più; perché? Perché Dio è tra lui ed essi. «Ti sei gettato dietro alle spalle tutti i miei peccati» (Isaia 38:17) e, nello stesso tempo, fa brillare su noi la luce del suo volto.

Nello stesso modo il credente può cer­care le sue difficoltà e non trovarle più, perché Dio è fra lui ed esse. Se dunque, invece di fermarsi sui nostri peccati e le nostre pene, il nostro sguardo si volgesse a Cristo, quanti calici amari sarebbero raddolciti, quante ore oscure rischiarate! Eppure facciamo l’esperienza continua che la maggior parte delle nostre prove e dei nostri dispiaceri è costituita da mali anticipati e da pre­occupazioni immaginarie, che esistono solo nel nostro spirito malato perché è incredulo. Possa il mio lettore conoscere la solida pace della coscienza e del cuore, che deriva dall’avere Cristo, in tutta la sua pienezza, tra sé e tutti i suoi peccati e le sue pene.

È solenne, e nello stesso tempo interessante, con­siderare il doppio aspetto «della colonna» in questo ca­pitolo. Per gli Egiziani «era tenebrosa», ma per Israele rischiarava nella notte. Quale somiglianza con la croce del nostro Signore Gesù Cristo! Essa certamente ha pure un doppio significato. Costituisce il fondamento della pace del credente, e suggella nello stesso tempo la condanna di un mondo colpevole. Lo stesso sangue che purifica la coscienza del credente e gli dà una pace perfetta, contamina questa terra e ne completa il pec­cato. La missione stessa del Figliuol di Dio, che spoglia il mondo del suo manto e lo lascia completamente senza scusa, riveste la Chiesa con un glorioso manto di giu­stizia e riempie la sua bocca di continue lodi. Lo stesso Agnello che colmerà di terrore, con la grandezza della sua ira, tutte le tribù e i popoli della terra, guiderà dol­cemente con la sua mano, nelle verdi pasture, lungo acque tranquille, per sempre, il gregge che ha riscattato col proprio sangue (vedere Apocalisse 6:15-17, e 7:13-17).

La fine di questo capitolo ci fa vedere Israele trion­fante sulle rive del Mar Rosso e gli eserciti di Faraone sommersi dalle acque. L’avvenimento provò dunque che i timori degli Israeliti e i discorsi orgogliosi degli Egi­ziani erano ambedue privi di fondamento. L’opera glo­riosa dell’Eterno aveva annientato gli uni e gli altri. Le stesse acque che facevano da muro ai riscattati dell’Eterno, servivano da tomba a Faraone: chi cammina per fede trova una strada, ma gli altri trovano una tomba. È questa una solenne verità che tuttavia non sminuisce il fatto che Faraone agiva in opposizione aperta e de­cisa alla volontà di Dio, quando cercò di passare il Mar Rosso: sarà sempre vero che chi vuole imitare gli atti della fede sarà confuso. Beati coloro che possono, anche se debolmente, camminare per fede! Essi seguono un sentiero di indicibili benedizioni che, anche se carat­terizzato da sbagli e infermità, è tuttavia incominciato in Dio, si continua in Dio e in Lui finirà. Ci sia dato di en­trare sempre più nella divina realtà, nella tranquilla e serena elevatezza e nella santa indipendenza di questa via.

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Prima di lasciare questa ricca parte del libro dell’Esodo ricorderemo un passo al quale l’apostolo Paolo fa allusione della nuvola e del mare. «Poiché, fratelli, non voglio che ignoriate che i nostri padri furon tutti sotto la nuvola e tutti passarono attraverso il mare, e tutti furon battezzati, nella nuvola e nel mare, per esser di Mosè» (1 Corinzi 10:1-2). Questo passo racchiude un insegnamento prezioso per il cristiano, poiché l’apostolo continua dicendo «or queste cose avvennero per servir d’esempio a noi» (ver. 6), insegnandoci così, con auto­rità divina, a interpretare il battesimo di Israele, «nella nuvola e nel mare», in modo figurato; e difatti niente può avere un significato più profondo e più pratico. È come popolo battezzato in questo modo che gli Israeliti cominciarono il loro pellegrinaggio attraverso il deserto, per il quale Colui che è amore aveva provveduto di «carne spirituale» e di «bevanda spirituale». In altre parole, essi erano in figura un popolo morto all’Egitto e a tutto ciò che ne faceva parte. La nuvola e il mare erano per essi ciò che sono per noi la croce e la tomba di Cristo. La nuvola li metteva al riparo dal nemici, il mare li separava dall’Egitto; così la croce ci mette al riparo da tutto ciò che può essere contro di noi, e noi siamo posti al di là della tomba di Cristo; è sotto questo punto di vista che incominciamo il nostro viaggiò attraverso il deserto, che cominciamo a gustare la manna celeste, e a bere l’acqua che sgorga dalla roccia spirituale verso quella terra di riposo di cui Dio ci ha parlato.

Aggiun­gerò che bisogna capire bene la differenza che c’è fra il Mar Rosso e il Giordano; l’uno e l’altro di questi avve­nimenti trovano nella morte di Cristo il loro antitipo. Ma mentre nel primo vediamo la separazione dall’Egit­to, nel secondo vediamo l’introduzione nella terra di Canaan. I credenti non sono solo separati dal presente mal­vagio secolo per mezzo della croce di Cristo, ma Dio li ha fatti uscire vivificati dalla tomba di Cristo; «risusci­tati con lui e con lui ci ha fatti sedere nei luoghi cele­sti in Cristo» (Efesini 2:6-7). Così, sebbene circondati dalle cose dell’Egitto, essi sono, quanto alla loro espe­rienza attuale, nel deserto, e nello stesso tempo sono portati, dall’energia della loro fede, nel luogo in cui Gesù è seduto alla destra di Dio. Il credente ha ricevuto il perdono di tutti i suoi peccati ed è, in effetti, asso­ciato a un Cristo risuscitato nei cieli; egli è salvato da Cristo e unito a lui per sempre. Niente meno di que­sto, avrebbe soddisfatto le affezioni di Dio o portato a realizzazione i suoi disegni riguardo alla Chiesa.

Lettore, comprendete queste cose? Le credete? Le realizzate? Ne manifestate la potenza? Sia benedetta la grazia che le ha fatte essere invariabilmente vere per ciascuno dei membri del corpo di Cristo, sia esso un occhio o un orecchio, una mano o un piede. La verità di queste cose non dipende da come le manifestiamo o dal fatto se le realizziamo o no, se le comprendiamo o no, ma dal «prezioso sangue di Cristo» che ha cancel­lato tutti i nostri peccati e posto il fondamento del com­pimento di tutti i consigli di Dio a nostro riguardo. Quello è il vero riposo per ogni cuore contrito e ogni coscienza travagliata.

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