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CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro dell’ESODO

Ultimo Aggiornamento: 21/04/2011 20:15
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CAPITOLO 25
Capitolo 25
Questo capitolo è il principio di uno dei più ricchi filoni della miniera inesauribile degli scritti ispirati; ogni colpo di piccone mette in luce nuove ricchezze. Uno solo è l’arnese col quale si può lavorare in una simile miniera: il ministero speciale dello Spirito Santo. La natura umana non può fare nulla; la ragione è cieca; l’immaginazione è completamente inutile; l’intelligenza, anche la più spiccata, invece di essere in grado di interpretare i simboli sacri, assomiglia piuttosto a un pipistrello davanti al sole che va sbattendo ciecamente contro gli oggetti che è incapace di discernere. Bisogna che lasciamo fuori la nostra ragione e la nostra immaginazione e, con un cuore sobrio, un occhio semplice e dei pensieri spirituali, entriamo nei santi cortili per contemplare da vicino questi particolari così pieni di significato. Solo lo Spirito Santo ci può guidare nel recinto sacro della casa dell’Eterno e interpretare per l’anima nostra la vera portata di tutto ciò che si presenta dinanzi a noi. Volere spiegare queste cose con l’aiuto delle facoltà non santificate dell’intelligenza è assurdo come il voler riparare un orologio con le tenaglie e il martello di un fabbro. «Le cose raffiguranti quelle che sono nei cieli» (Ebrei 9:23) non possono essere interpretate dall’intelligenza naturale, anche la più sviluppata. Devono essere considerate alla luce del cielo. La terra non ha una luce che possa svilupparne le bellezze; Colui che ha prodotto le immagini è il solo capace di spiegarne il significato; Lui che ha dato i simboli è il solo che può interpretarli.

Per l’occhio dell’uomo sembrerebbe che non ci sia ordine nel modo con cui lo Spirito Santo ci presenta tutte le prescrizioni per il tabernacolo; ma non è così. Ovunque regnano l’ordine più perfetto, la precisione più sorprendente, la più minuziosa esattezza. I capitoli da 25 a 30 formano una parte a sé del libro dell’Esodo, che si divide a sua volta in due sezioni di cui la prima finisce al capitolo 27 v. 19 e la seconda alla fine del cap. 30. La prima incomincia con la descrizione dell’arca della testimonianza dentro il velo e finisce con quella dell’altare di rame e del cortile dove doveva essere messo. Prima di tutto, dunque, vi troviamo il trono giudiziario di Dio sul quale era seduto il Signore di tutta la terra; poi siamo condotti nel luogo in cui Dio incontrava il peccatore nella potenza e in virtù d’un’espiazione compiuta. Poi, nella seconda parte, impariamo come l’uomo si avvicina a Dio; quali sono i privilegi, gli onori, le responsabilità di quelli che, come sacerdoti, potevano accostarsi alla presenza divina per rendere culto e godere della sua comunione.

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L’ordine è dunque perfetto e magnifico. Non può essere diversamente poiché è divino. L’arca e l’altare di rame rappresentano due estremi. La prima era il trono di Dio stabilito in giustizia e in giudizio (Salmo 89:14); l’ultimo era il luogo dove il peccatore poteva accostarsi, dove la «benignità e la verità» camminavano davanti alla faccia dell’Eterno. L’uomo, da se stesso, non aveva libertà di avvicinarsi all’arca per trovare Dio, poiché «la via al santuario non era ancora manifestata» (Ebrei 9:8). Ma Dio poteva venire all’altare di rame e incontrava qui l’uomo come peccatore! «Giustizia e diritto (o giudizio)» non potevano ammettere il peccatore nel luogo santo; ma la «benignità e la verità» potevano far sì che Dio uscisse di là, non nello splendore e nella maestà in cui appariva di solito tra le basi mistiche del suo trono, i cherubini di gloria, ma in un ministero di grazia che ci è rappresentato simbolicamente dagli utensili e dagli ordinamenti del tabernacolo.

Tutto questo ci ricorda il cammino seguito da Colui che è raffigurato in tutte queste immagini, che è la sostanza di tutte queste ombre; Egli scese dal trono eterno di Dio nei cieli fino alle profondità della croce del Calvario; lasciò la gloria del cielo per l’onta della croce, per poter introdurre il suo popolo riscattato, perdonato e ricevuto in grazia, davanti a quello stesso trono che, per amor di lui, aveva lasciato. Il Signore Gesù, con la sua persona e la sua opera, colma lo spazio che separa il trono di Dio dalla polvere della morte, come pure la polvere della morte dal trono di Dio (confrontare Efesini 4:9-10). In Lui, Dio è sceso in perfetta grazia fino al peccatore; in Lui, il peccatore è condotto, in giustizia perfetta, fino a Dio. Tutta la strada, dall’arca all’altare di rame, portava l’impronta dell’amore; e tutta la strada dall’altare di rame all’arca era cosparsa col sangue dell’espiazione (Levitico 1:5; 3:2; 4:6-7,16-18,30,34...; 16:14-19; Ebrei 9:6-12). L’adoratore, passando per questa via meravigliosa, vede il Suo nome, il nome di Gesù, impresso su tutto quello che si offre al suo sguardo. Possa questo Nome essere più caro ai nostri cuori!

Continuiamo ora l’esame dei capitoli nel loro ordine. È interessante notare che la prima cosa che Dio comunica a Mosè è questo suo disegno di misericordia in base al quale vuole avere un santuario, o una santa dimora, in mezzo al suo popolo; un santuario composto di materiali che si riferiscono direttamente o indirettamente a Cristo, alla sua persona, alla sua opera, al frutto prezioso della sua opera, come appaiono, alla luce, la potenza e le molteplici grazie dello Spirito Santo. Inoltre, questi materiali erano il frutto profumato della grazia di Dio, offerte volontarie di cuori devoti. Il Dio che «i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere» (1 Re 8:27), acconsentiva, nella sua grazia, ad abitare in una tenda costruita per lui da quelli che avevano l’ardente desiderio di salutare la sua presenza fra loro.

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Questa tenda, o tabernacolo, può essere considerata in due modi: dapprima come immagine delle cose che sono nei cieli, poi come figura del corpo di Cristo. I materiali di cui era composta verranno considerati man mano che li incontreremo nel nostro studio.

Studieremo ora i tre grandi soggetti che questo capitolo ci pone dinanzi:

l’arca,
la tavola,
il candelabro.

L’arca della testimonianza occupa il primo posto nelle comunicazioni divine fatte a Mosè; anche la sua posizione, nel tabernacolo, era particolare. Rinchiusa dentro il velo, nel luogo santissimo, costituiva la base del trono dell’Eterno. Il suo stesso nome indica all’anima tutta la sua importanza; un’arca è destinata a conservare intatto ciò che contiene. In un’arca Noè e la sua famiglia, con tutte le specie degli animali della creazione, furono trasportati al sicuro sopra le onde e i flutti del giudizio che coprivano la terra. Come abbiamo visto al cap. 2, un bel bambino fu rinchiuso in un’«arca» (*) e preservato dalle acque della morte. Quando si tratta dunque dell’arca del patto (Numeri 10:33; Deuteronomio 31:9; Geremia 3:16; Ebrei 9:4), dobbiamo pensare che Dio destinava quest’arca a conservare intatto il suo patto in mezzo a un popolo soggetto all’errore. È in essa, come sappiamo, che furono riposte le seconde tavole della legge; le prime erano state spezzate ai piedi del monte (Esodo 32:19) per dimostrare che il patto dell’uomo era rotto, che il suo operato non poteva mai, in nessun modo, costituire la base del trono del governo dell’Eterno. «Giustizia e diritto son la base del suo trono» sia dal punto di vista terrestre che da quello celeste. L’arca non poteva, nel suo interno santificato, racchiudere delle tavole rotte. L’uomo poteva fallire nell’adempimento del voto che aveva volontariamente fatto; ma bisogna che la legge di Dio sia conservata in tutta la sua integrità e la sua divina perfezione. Se Dio stabiliva il suo trono in mezzo al suo popolo, doveva farlo in un modo degno di lui. Il principio e la misura del suo giudizio e del suo governo dovevano essere perfetti.

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(*) Il termine, tradotto con «canestro», usato in Esodo 2:3, è lo stesso di quello di cui Dio si serve in Genesi 6:14.
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«Farai anche delle stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro; e farai passare le stanghe per gli anelli ai lati dell’arca perché servano a portarla» (vers. 13-14). L’arca del patto doveva accompagnare il popolo in tutti i suoi viaggi; essa non si fermò mai finché gli Israeliti furono un esercito in armi; andava di luogo in luogo nel deserto; camminò davanti al popolo attraverso il Giordano; fu il punto di collegamento di Israele in tutte le battaglie di Canaan; era la sicura e ferma garanzia della potenza ovunque andasse. Nessuna potenza del nemico poteva sussistere dinanzi a ciò che era l’espressione, nota a tutti, della presenza e della potenza di Dio. L’arca doveva essere la compagna di viaggio di Israele nel deserto; le stanghe e gli anelli erano la giusta espressione di questo carattere di viaggiatore.

Tuttavia non doveva viaggiare per sempre. Le fatiche di Davide (Salmo 132:1), così come le guerre di Israele, dovevano finire. Questa preghiera «Levati, o Eterno, vieni al luogo del tuo riposo tu e l’Arca della tua forza» (Salmo 132:8) doveva ancora salire a Dio ed essere esaudita. Questa sublime richiesta ha ottenuto un parziale esaudimento nei giorni gloriosi di Salomone, quando «i sacerdoti portarono l’arca del patto dell’Eterno al luogo destinatole, nel santuario della casa, nel luogo santissimo sotto le ali dei cherubini; poiché i cherubini avevano le ali spiegate sopra il sito dell’arca e coprivano dall’alto l’arca e le sue stanghe. Le stanghe avevano una tale lunghezza che le loro estremità si vedevano dal luogo santo davanti al santuario ma non si vedevano dal di fuori. Esse son rimaste quivi fino al di d’oggi» (1 Re 8:6-8). La sabbia del deserto doveva cedere il posto al pavimento d’oro del tempio (1 Re 6:30). Il pellegrinaggio dell’arca era finito: «Non ho più avversari, né mi grava alcuna calamità» (1 Re 5:4); le stanghe potevano essere ritirate nell’interno.

Ma c’è ancora una differenza tra l’arca del tabernacolo e l’arca del tempio. L’apostolo descrive l’arca nel deserto come «tutta ricoperta d’oro, nella quale si trovavano un vaso d’oro contenente la manna, la verga d’Aaronne che aveva fiorito e le tavole del patto» (Ebrei 9:4). Nei viaggi del deserto l’arca era così e conteneva quelle cose. Il vaso di manna era il ricordo del fatto che la fedeltà dell’Eterno aveva provveduto nel deserto ai bisogni del suo popolo riscattato; la verga di Aaronne era «un segno ai ribelli; onde sia messo fine ai loro mormorii» (Esodo 16:32-34 e Numeri 17:10). Ma quando venne il momento in cui le stanghe non servirono più, quando i viaggi e le guerre di Israele finirono, quando la casa «magnifica da salire in fama ed in gloria in tutti i paesi» venne terminata (1 Cronache 22:5), quando il sole della gloria di Israele raggiunse, in figura, il suo apogeo nello splendore e nella magnificenza del regno di Salomone, allora il ricordo dei bisogni e degli errori del deserto sparì e rimase solo ciò che costituiva il fondamento eterno del trono dell’Iddio di Israele e di tutta la terra: «nell’arca non v’era altro se non le due tavole di pietra che Mosè vi aveva deposte sull’Horeb» (1 Re 8:9).

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Ma tutta questa gloria è stata ben presto oscurata dalle dense nubi dell’infedeltà dell’uomo e dal disgusto di Dio. Il piede devastatore dell’incirconciso doveva calpestare le rovine di questa magnifica casa e la scomparsa della sua luce e della sua gloria doveva provocare ancora i fischi beffardi dello straniero (1 Re 9:8). Non è il posto adatto per continuare questo argomento con più particolari; mi limito a ricordare al lettore l’ultima menzione che la Parola di Dio fa dell’arca del patto, allorquando il peccato e la follia dell’uomo non turberanno più il luogo di riposo di quest’arca e dove non la si rinchiuderà più né in una tenda lavorata a ricamo, né in un tempio fatto da mano d’uomo: «Il regno del mondo è venuto ad essere del Signor nostro e del suo Cristo; ed Egli regnerà nei secoli dei secoli. E i ventiquattro anziani, seduti nel cospetto di Dio sui loro troni, si gettaron giù nelle loro facce e adorarono Iddio, dicendo: Noi ti ringraziamo, o Signore Iddio onnipotente che sei e che eri, perché hai preso in mano il tuo gran potere ed hai assunto il regno. Le nazioni s’erano adirate ma l’ira tua è giunta, ed è giunto il tempo di giudicare i morti, di dare il loro premio ai tuoi servitori, i profeti, ed ai santi e a quelli che temono il tuo nome, e piccoli e grandi, e di distruggere quelli che distruggon la terra. E il tempio di Dio che è nel cielo fu aperto e si vide nel suo tempio l’arca del suo patto e vi furono lampi e voci e tuoni e un terremoto ed una forte gragnuola» (Apocalisse 11:15-19).

Dopo l’arca e il suo contenuto viene «il propiziatorio». «Farai anche un propiziatorio di oro puro; la sua lunghezza sarà di due cubiti e mezzo, e la sua larghezza di un cubito e mezzo. E farai due cherubini d’oro; li farai lavorati al martello, alle due estremità del propiziatorio; e i cherubini avranno le ali spiegate in alto, in modo da coprire il propiziatorio con le loro ali; avranno la faccia volta l’uno verso l’altro; le facce dei cherubini saranno volte verso il propiziatorio. E metterai il propiziatorio in alto, verso l’arca; e nell’arca metterai la testimonianza che ti darò. Quivi io mi incontrerò teco; e di su il propiziatorio, di fra i due cherubini che sono sull’arca della testimonianza, ti comunicherò tutti gli ordini che avrò da darti per i figliuoli di Israele» (versetti 17 a 22). L’Eterno dichiara qui il suo misericordioso proposito di scendere dal monte ardente per prendere posto sul propiziatorio. Poteva venirvi ad abitare fino a che le tavole della testimonianza, nell’arca, erano intatte e i simboli della sua potenza, nella creazione e nella provvidenza, si innalzavano a destra e a sinistra, accessori inseparabili di questo trono su cui s’era seduto, trono di grazia basato sulla giustizia divina e sostenuto dalla giustizia e dal giudizio. Là brillava la gloria dell’Iddio di Israele; là pure venivano emanati i suoi comandamenti, raddolciti e resi più gradevoli dalla sorgente di misericordia da cui uscivano e dall’intermediario che li trasmetteva; come i raggi del sole che, pur attraverso le nuvole, vivificano e fecondano senza che il loro splendore abbagli. «I suoi comandamenti non sono gravosi» (1 Giovanni 5:3) quando sono ricevuti da sopra il propiziatorio, perché ci giungono uniti alla grazia che dà le orecchie per udire e la potenza per obbedire.

L’arca e il propiziatorio, visti insieme come un tutto unico, sono per noi una sorprendente figura di Cristo, nella sua persona e nella sua opera. Magnificata la legge e resala onorevole, Cristo diventa con la morte una propiziazione (o un propiziatorio) per quelli che credono (Romani 3:25). La misericordia di Dio non poteva riposare se non sul fondamento di una perfetta giustizia. «Affinché... la grazia regni, mediante la giustizia, a vita eterna per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore» (Romani 5:21). L’unico luogo in cui Dio e l’uomo possano incontrarsi è quello in cui la grazia e la giustizia si incontrano in perfetto accordo. Nulla si addice a Dio se non una perfetta giustizia; nulla si addice all’uomo se non una perfetta grazia. Ma solo alla croce «la benignità e la verità si sono incontrate, la giustizia e la pace si sono baciate» (Salmo 85:10); così, il peccatore che crede trova la pace della sua anima; vede che la giustizia di Dio e la sua giustificazione hanno un unico fondamento, l’opera compiuta da Cristo. Quando l’uomo, sotto la potente azione della verità di Dio, prende il posto che gli spetta, come peccatore, Dio può, agendo in grazia, prendere il suo come salvatore; allora ogni questione è regolata; poiché i fiumi della grazia possono scorrere liberamente, avendo, la croce, risposto a tutte le esigenze della giustizia divina. Quando un Dio giusto e un peccatore perduto si incontrano su un propiziatorio asperso di sangue, tutto è regolato, regolato per sempre, regolato in un modo che glorifica perfettamente Dio e salva il peccatore per tutta l’eternità. Bisogna che Dio sia verace e ogni uomo confuso come bugiardo; e quando l’uomo è così portato a sentire la sua vera condizione morale davanti a Dio, e accetta il posto che la verità di Dio gli assegna, allora apprende che Dio si è rivelato come giusto giustificante e la sua coscienza trova così una pace sicura e, inoltre, la capacità d’essere in relazione con Dio e di prestare attenzione alla sua santa parola, nell’intelligenza di questa relazione nella quale la grazia divina ci ha introdotti.

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Il luogo santissimo ci presenta dunque una scena ammirevole: l’arca, il propiziatorio, i cherubini, la gloria. Che spettacolo per il sommo sacerdote quando vi entrava, una volta all’anno. Che il Signore apra i nostri cuori e le nostre intelligenze perché capiamo meglio il significato di queste preziose figure.

Mosè riceve poi le istruzioni riguardo la tavola del pane di presentazione. Su questa tavola era posto il nutrimento dei sacerdoti di Dio. Per sette giorni quei dodici pani di presentazione di fior di farina con incenso puro erano presentati all’Eterno. Poi, venendo sostituiti con altri, erano dei sacerdoti che li mangiavano in un luogo santo (Levitico 24:5-9). Sappiamo che quei dodici pani, rappresentano «l’uomo Cristo Gesù». Il fior di farina di cui erano fatti è l’immagine della perfetta umanità del Salvatore, mentre l’incenso puro rappresenta la completa consacrazione di questa umanità a Dio. Se Dio ha i suoi sacerdoti che lo servono nel luogo santo, avrà pure una tavola per loro e Cristo è il pane sulla tavola. La tavola pura e i dodici pani raffigurano Cristo come rappresentato continuamente a Dio in tutta l’eccellenza della sua pura umanità e dato come alimento alla famiglia sacerdotale. I «sette giorni» sono l’emblema della perfezione del divino godimento di Cristo; i «dodici pani», sono l’espressione dell’amministrazione di questo godimento nell’uomo e per mezzo dell’uomo. Forse c’è anche l’idea della relazione di Cristo con le dodici tribù d’Israele e i dodici apostoli dell’Agnello.

«Il candelabro d’oro puro» viene subito dopo, poiché i sacerdoti di Dio hanno bisogno di nutrimento ma anche di luce; e trovano in Cristo l’uno e l’altro. «Il candelabro, il suo piede e il suo trono saranno lavorati al martello; i suoi calici, i suoi pomi e i suoi fiori saranno tutti d’un pezzo col candelabro». «Le sette lampade» che facevano luce di fronte al candelabro, sono l’espressione della perfezione della luce e dell’energia dello Spirito, fondate sulla perfetta efficacia dell’opera di Cristo e legate ad essa. L’opera dello Spirito Santo non può essere mai separata da quella di Cristo; lo indica, in due modi, la magnifica immagine del candelabro d’oro. Le sette lampade unite al tronco d’oro battuto ci dicono che l’opera compiuta da Cristo è il solo fondamento sul quale riposa la manifestazione dello Spirito nella Chiesa. Lo Spirito Santo fu dato solo dopo la glorificazione di Gesù (ved. Giovanni 7:39 e Atti 19:2-6). Nel capitolo terzo dell’Apocalisse, Cristo è presentato alla Chiesa di Sardi come «Colui che ha i sette spiriti di Dio». Una volta esaltato alla destra di Dio, il Signore Gesù ha potuto spandere lo Spirito Santo sulla sua Chiesa affinché questa potesse risplendere secondo la potenza e la perfezione della sua esistenza, del suo agire e del suo culto.

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Vediamo anche che una delle particolari funzioni di Aaronne era quella di mantenere accese le sette lampade. «L’Eterno parlò ancora a Mosè dicendo: Ordina ai figliuoli d’Israele che ti portino dell’olio di oliva puro, vergine, per il candelabro, per tenere le lampade continuamente accese» (Levitico 24). È così che l’opera dello Spirito Santo nella Chiesa è legata all’opera di Cristo nella terra e a quella nel cielo. Le sette lampade c’erano, ma erano necessarie l’attività e la vigilanza del sacerdote per metterle a posto e mantenerle accese. Il sacerdote doveva continuamente servirsi degli smoccolatoi e dei porta smoccolature, fatti per raccogliere ciò che cadeva dalle lampade, per togliere tutto ciò che poteva ostruire i canali dell’olio vergine d’oliva. Gli smoccolatoi e i porta smoccolature erano pure d’oro poiché tutte queste cose erano il frutto immediato dell’operato divino. Se la Chiesa è una luce, lo è per l’energia dello Spirito e quest’energia è fondata su Cristo che, grazie al consiglio eterno di Dio, diventa nel suo sacrificio e nel suo sacerdozio la sorgente e la potenza d’ogni cosa per la sua Chiesa. Tutto viene da Dio. Quindi, sia che guardiamo all’interno di questo misterioso velo, sia che contempliamo l’arca col suo coperchio e i due cherubini o che ci soffermiamo sugli oggetti posti al di fuori del velo, la tavola pura e il candelabro puro coi rispettivi vasi e utensili, tutto parla di Dio, rivelato in rapporto al suo Figliuolo o allo Spirito Santo.

Lettore cristiano, la tua vocazione ti pone proprio nel mezzo di tutte queste realtà preziose. Il tuo posto non è soltanto fra «le cose raffiguranti quelle nei cieli» ma fra «le cose celesti stesse»; abbiamo «libertà d’entrare nel santuario in virtù del sangue di Gesù» (Ebrei 9:23; 10:19). Siamo sacerdoti per Dio. «Il pane di presentazione» è nostro. Il nostro posto è alla «tavola pura» per mangiare il pane sacerdotale alla luce dello Spirito Santo. Nulla mai ci priverà di questi privilegi divini; essi sono nostri per sempre. Facciamo attenzione a ciò che potrebbe privarci del godimento di queste cose. Guardiamoci dalle concupiscenze, i sentimenti, le immaginazioni che non sono pure, teniamo soggetto l’uomo naturale; teniamo fuori il mondo; teniamo lontano Satana. Che lo Spirito Santo riempia di Cristo l’anima nostra; allora saremo santi, praticamente, e sempre felici; porteremo del frutto e il Padre sarà glorificato in noi e la nostra gioia sarà completa.

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