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9. La tensione utopica di una "religione politica" 

Dunque, l’islam è una "religione politica" (90), che promette e induce a perseguire anche la "[...] felicità terrena [...] legata essenzialmente alla obbedienza della Legge; quasi che la Legge giustifica [sic] il valore della felicità oltrechè garantirla" (91); quindi una felicità in un certo senso condizionata dall’instaurazione totale della legge e dalla sua applicazione, sì che ogni ostacolo storico costituisce ostacolo al passaggio della ummah dalla realtà all’utopia: "L’ideale della ummah è così alto che difficilmente viene realizzato dalle comunità storiche, dei popoli dell’Islâm. Le trasgressioni rispetto alla realizzazione della ummah, unica e una, sotto l’unica sharî’ah, guidata da un unico califfo, sono evidenti sia a livello giuridico che politico. Ciononostante l’ideale della ummah rimane, come aspirazione degli individui e dei popoli. In questo senso si può parlare di utopia, essa è il già e il non ancora dei popoli islamici; ogni popolo almeno parzialmente professa e attua la sharî’ah, tuttavia la pienezza di realizzazione della sharî’ah, in termini storici, non esiste. Si può parlare di un diverso grado di approssimazione all’ideale, ma l’ideale come tale è quasi irraggiungibile" (92). Ma la sua realizzazione è conditio sine qua non della stessa felicità eterna e della sua premessa terrena: il rispetto della Legge attraverso la sua adozione da parte del potere. Infatti — secondo Allam —, "non essendovi nell’islâm l’idea di un peccato originale, il regno di Dio può realizzarsi sulla terra" (93); inoltre — al dire del missionario d’Africa tedesco Josef Stamer —, "[...] L’islam è contemporaneamente religione e Stato, sottomissione al Dio Unico attraverso riti chiaramente codificati e, nello stesso tempo, modello d’organizzazione della società. I due sono rivelati da Dio. L’ideale religioso si può realizzare pienamente solo attraverso l’ideale politico, la città islamica" (94). Si tratta di tesi di specialista e d’osservatore, che però sintetizzano quanto afferma ex professo e articolatamente un protagonista, teorico e testimone autorevole, quale Sayyd Qutb: "Se si vuole che l’islam agisca — scrive in un’opera pubblicata agli inizi degli anni 1950 —, esso deve governare. Questa religione non è sorta per ritirarsi negli eremi e nei templi, né per rifugiarsi nei cuori e nelle coscienze. Essa è venuta per esercitare il potere sulla vita e disporne liberamente per forgiare la società secondo la concezione globale che essa ha della vita; non solo attraverso l’esortazione e il consiglio, ma anche grazie ai poteri legislativo e amministrativo. Questa religione si è manifestata per tradurre i suoi principi e i punti di vista in forma di vita [concreta], per imporre i suoi ordini e i suoi divieti a una società e a un popolo fatto di carne e sangue, che si muova su questa terra e che nel comportamento, nell’organizzazione della vita, nei legami sociali e nella forma di governo sia un modello di applicazione dei principi, delle concezioni, delle regole e delle leggi di questa religione" (95). Allo scopo — ribadisce lo stesso autore alla fine degli anni 1970 —, non basta la predicazione: "L’instaurazione del regno di Dio sulla terra, l’abolizione del dominio dell’uomo, la sottrazione della sovranità agli usurpatori per restituirla a Dio, l’applicazione della Legge divina e l’abolizione delle leggi umane non possono essere ottenuti solo attraverso la predicazione. Coloro che hanno usurpato l’autorità di Dio e opprimono le Sue creature non cederanno il loro potere semplicemente per effetto della predicazione; se così fosse, sarebbe stato molto semplice per gli Inviati di Dio stabilire la fede sulla terra.

"La loro storia e le vicende di questa religione attraverso i secoli dimostrano piuttosto il contrario" (96): "Chi dunque capisca la vera natura di questa religione [...] si renderà conto dell’assoluta necessità che il movimento islamico comprenda anche la lotta armata (al-gihâd bi-l-saif), oltre all’impegno della predicazione, e che questa non è da intendersi come azione difensiva, nel senso specifico di "guerra di difesa", come vorrebbero i disfattisti che parlano sotto la spinta dei condizionamenti del presente o degli attacchi di qualche scaltro orientalista" (97).

Insomma — le sintesi sono rispettivamente di al-Mawdûdî, in un testo della fine degli anni 1930, e dell’estensore di una prefazione a un altro scritto dello stesso pensatore, edito negli anni 1950 —, "È impossibile per un musulmano realizzare la sua intenzione di osservare un modello di vita islamico sotto l’autorità di un sistema di governo non islamico" (98), e "Le riforme che l’islam vuol apportare non possono essere effettuate soltanto con prediche. Per realizzarle è indispensabile il potere politico" (99). Con il corollario che, "se lo stato islamico è necessario per realizzare il messaggio di Dio, allora l’essere cittadino non si basa sullo jus sanguinis o sullo jus soli, ma sullo jus religionis" (100).