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Quanto al problema in sé, Rizzardi rileva: "Una delle questioni cruciali che la cultura occidentale oggi non riesce a penetrare fino in fondo è il rapporto tra religione e potere politico in Islâm. Perché e fino a che punto la dimensione religiosa prende spazio dentro la dimensione politica; fino a che punto i due termini dîn (religione) e dawlah (stato) sono indissociabili?" (14). Al quesito nodale risponde non solo evocando "Maometto, lo statista della Costituzione medinese, sulla quale viene costruita la "città" della ummah, [che] dà avvio al processo di statalità islamica" (15), ma affermando: "Non è sufficiente dire che l’Islâm è la religione di stato, occorre parlare di statalità islamica, in quanto la sharî’ah definisce la natura e la struttura dello stato" (16). Quindi propone: "Per introdurci a capire, richiamiamo due principi direttivi. Il primo è che la religione si mantiene e si fortifica nella misura in cui la ’asabiyyah (coesione di gruppo) cementa unitariamente il gruppo e il mulk (potere) fa vivere e protegge la sharî’ah.

"L’appoggio che proviene dallo spirito di gruppo e dal potere è fondamentale per l’essere stesso della religione che a sua volta determina sia il gruppo che il potere. In simile contesto l’interrelazione fra dîn e dawlah è "naturale".

"Il secondo principio riguarda la dinamica stessa della sharî’ah e in particolare le modalità della sua realizzazione. La sharî’ah deve essere realizzata pienamente, deve trovare accoglienza incondizionata, proprio perché Legge di Dio. La mancanza di successo è la sconfitta di Dio e il fallimento della recitazione e della testimonianza del predicatore. In questa prospettiva assume significato l’higrah del Profeta, in quanto segna il "trionfo" della Parola. Il gihâd entra nella fase di "testimonianza forte" mediante il coinvolgimento in primo piano anche della statalità. Il Profeta progetta la "città" islamica, per la quale tutte le componenti, individuo, gruppo e potere, sono convocate insieme a stabilire la sharî’ah internamente ed esternamente al gruppo islamico" (17).

Dunque, il profeta — il primo musulmano e il musulmano per eccellenza (18) —, emigrato a Yathrib di fronte al rifiuto della sua predicazione da parte degli abitanti de La Mecca, la ribattezza Medina, la "città" per antonomasia, e vi organizza la "comunità", cioè costituisce lo Stato, la "città-Stato", e ne detta la Costituzione (19); quindi, a partire dalla battaglia di Badr, nella quale nel 624, alla testa degli emigrati e con l’aiuto dei medinesi, vince i meccani, piega manu militari chi non accetta l’appello.

Stando così le cose, anche se "la storia dei paesi musulmani non conferma l’indirizzo muhammadiano, che perde la sua intrinseca forza con il disfacimento del califfato e il sorgere di una costellazione di stati diversamente gestiti" (20), se non altro perché si tratta di una storia sei volte secolare, se non addirittura tredici volte secolare, "la ummah, l’unità tra dîn e dawlah, il califfato rimangono i termini che hanno riferimento con l’idealità islamica, con la nativa vocazione dell’Islâm e in questo senso restano come la stella polare cui indirizzare la ricerca e la salvaguardia dell’identità islamica" (21).