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"Il processo si è concluso con l’arrivo di Muhàmmad [...], l’Ultimo dei Profeti, il quale ha portato il Codice definitivo destinato a tutta l’umanità e per tutte le epoche a venire. Il "dìn" non ha subito alcun cambiamento, ma al giorno d’oggi, tutte le "Sciari’e" anteriori sono state abrogate e di canone di comportamento valido non sussiste che l’universale "sciari’ah" che Muhàmmad ci ha portato.

"Essa è l’apogeo, il finale del grande processo di formazione che ebbe inizio all’alba dell’era umana" (35). Stando così le cose, il traduttore dell’opera da cui cito, Conoscere l’Islam, inserisce nel testo questa notazione: "La nostra trattazione relativa agli elementi essenziali dell’Islam resterebbe incompleta se non trattassimo anche la Legge dell’Islam, se non studiassimo i suoi principi fondamentali e se non tentassimo di descrivere il tipo di uomo e di società che l’Islam desidera produrre" (36).

Infine molti propongono — non senza ragione storica e con indubbio vantaggio descrittivo e classificatorio — di distinguere fra islam come "religione", da scrivere con la "i" minuscola, e Islam come "civiltà islamica", da scrivere con la "I" maiuscola (37), ma, all’origine della storia in questione, il legame di principio dîn wa-dawla, "religione e comunità", o dîn wa-dunyâ, "religione e società temporale", sembra permanere in quanto costitutivo e non semplicemente in quanto artificio descrittivo (38).

2. Il diritto pubblico nella "legge sociale dell’islam"

Nel 1933, dando ragione dell’impianto della voce "Islamismo", redatta per l’Enciclopedia Italiana, Nallino svolge "Considerazioni generali" (39) e afferma: "La distribuzione della materia in sistema religioso, sistema politico e sistema giuridico viene fatta qui per adattarla ai criteri europei; ma dal punto di vista islamico la dogmatica, la morale, il rito, il diritto privato e molta parte del pubblico (il sistema fiscale, il diritto di guerra, il processuale, il penale) formano un unico tutto, che scaturisce dalle medesime fonti sacre e che porta il nome complessivo di shar’ o sharî’ah (scería, in francese chériat, chéri, chrâa), che noi, in base all’uso del Vecchio Testamento, potremmo rendere in modo approssimativo con la Legge (religiosa, d’origine divina)" (40).

Procedendo nella descrizione lo stesso islamologo scrive: "La Sharî’ah è divisa dai musulmani in due sezioni: l’una riguardante quello che la teologia cattolica chiamerebbe il foro interno del credente, ossia l’attività della mente e del cuore (dogmatica e morale individuale); l’altra avente per oggetto gli atti esterni verso Dio, verso noi stessi e verso gli altri, ossia le pratiche del culto, i rapporti giuridici con gli altri uomini e alcune norme di condotta che in parte sarebbero per noi di galateo o di buona società e in parte anche di decoro personale. La seconda sezione (atti esterni) è quella che si chiama fiqh, vocabolo che, in mancanza di esatto equivalente nel mondo occidentale, si suol tradurre con "diritto musulmano"; essa si suddivide in ‘ibâdât, o pratiche del culto, e mu‘âmalât, o modo d’agire verso gli altri, ma senza che queste suddivisioni coincidano con quello che noi intenderemmo con esse secondo i criteri europei, poiché, ad es., nelle ‘ibâdât sono compresi precetti che a un occidentale parrebbero di diritto pubblico (qualche lato del sistema fiscale, il regime delle miniere) e viceversa nelle mu‘âmalât, che essenzialmente sarebbero i negozi giuridici, troviamo comprese materie che si direbbero piuttosto di rituale religioso (esecuzione di giuramenti e voti, macellazione ordinaria, sgozzamento delle vittime sacrificali, formalità di caccia e di pesca, cibi e bevande, abiti)" (41).