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3. Il diritto pubblico islamico fra duplicità di sistemi normativi e indebolimento 

Quindi, venendo a trattare de "Il sistema politico" (42), Nallino nota che "la dottrina classica del diritto pubblico musulmano, fondandosi sulle cose operate da Maometto, sulle circostanze di fatto della storia dei primi secoli dell’immenso impero islamico, sul principio fondamentale coranico che i musulmani sono tutti fratelli anche nel campo politico, senza distinzione di razza e di lingua, e infine sull’altro principio dominante il diritto pubblico e il privato, che un infedele non può avere autorità e supremazia su un musulmano, non concepisce musulmani viventi in terre governate da infedeli e quindi raffigura il mondo intero diviso in due sezioni: paesi d’islam (dâr al-islâm), abbraccianti tutti i territori abitati da musulmani e costituenti un’unica monarchia islamica, e paesi di guerra (dâr al-harb) ossia abitati e governati da infedeli. Dunque per l’islamismo v’è unità di fede, di legge, di governo, senza distinzione di nazionalità; e a capo di questa monarchia universale sta il califfo, che, se in materia di dogma e di rito è un credente come tutti gli altri e, dato il carattere rivelato della Legge islamica, è privo quasi completamente di facoltà legislativa, ha poteri sconfinati, è un padrone assoluto in tutto il rimanente degli affari dello stato. [...] Si ammette che il califfo possa affidare il governo di parti dell’impero a principi suoi vassalli, i quali ripetono la loro legittimità dal diploma d’investitura ricevuto dal califfo e possono avere il titolo di emiri, re, sultani ecc.; questi principi hanno gl’identici poteri del califfo, naturalmente sul solo territorio loro assegnato. Quindi la fine del califfato nel 1258 trovò già pronta la successione parziale nella maggioranza dei paesi musulmani" (43).

Infine, dopo aver registrato il fatto che, "sotto la pressione europea, il concetto islamico dello stato ha ricevuto un colpo mortale nel sec. XIX in tutti i paesi del Mediterraneo, eccettuato il Marocco" (44) colpo del quale fornisce come esempio l’introduzione, nel 1839, nell’ordinamento giuridico dell’Impero Ottomano della "piena uguaglianza [...] di tutti sudditi [...], senza distinzione di confessione religiosa" (45), Nallino afferma che "[...] delle dottrine islamiche di diritto pubblico [...] si può dire che nei paesi europeizzati sopravviva solo il principio della personalità del diritto in base alla fede religiosa per tutto quello che concerne lo stato delle persone, la famiglia, le successioni e le fondazioni pie; materie per le quali ogni confessione religiosa conserva i propri tribunali e la propria legislazione" (46).

Il fatto che Dio sia l’unico legislatore produce una sorta d’impotenza legislativa nei califfi e nei loro successori, che si devono limitare a far applicare e a "integrare" la Legge sacra, definendo questa integrazione attraverso una fictio iuris, denominata syiâsa, "linea di condotta", che la relega in campo amministrativo: "Il risultato di questo processo — osserva Schacht — fu la diffusione, in pratica in tutto il mondo islamico, di una duplice forma di amministrazione della giustizia: una di tipo religioso, esercitata dal qâdî che si atteneva scrupolosamente alla šarî‘a, e l’altra laica, esercitata da autorità politiche sulla base della consuetudine, dell’equità e dell’imparzialità — ma talvolta anche dell’arbitrio — delle norme governative e, in epoca moderna, sulla base dei codici" (47).

Dunque — sostiene padre Borrmans, insieme ulteriormente sintetizzando ed esplicitando — "la Sharî’a è l’organizzazione di tutta la vita individuale e collettiva secondo le imposizioni [...] della legge positiva divina, come è stata rivelata agli uomini. La Sharî’a definisce il culto e i suoi riti (professione di fede, preghiera, elemosina, digiuno, pellegrinaggio), enumerando gli articoli del credo ed esponendone il commento (fede in Dio, nei suoi angeli, nei suoi libri, nei suoi profeti e inviati, nel giudizio finale con quel che segue e nella predestinazione). La Sharî’a comprende anche l’insieme delle leggi che regolano i rapporti umani, dal matrimonio al commercio e all’industria, attraverso i codici di procedura, e assicura, infine, le regole per il funzionamento dello Stato e le punizioni dei colpevoli (Codice penale). Per i musulmani, la Sharî’a o legge islamica è la perfetta espressione della volontà divina circa i rapporti del credente con Dio e con i suoi fratelli" (48). Passando a indicazioni tematiche, lo stesso studioso nota poi che la sharî’a, "in materia di diritto penale" (49) comporta le "[...] prescrizioni divine del Corano e della Sunna: cioè, la legge del taglione (in caso di omicidio volontario), la "conciliazione" con il versamento del prezzo di sangue (diya) (in caso di omicidio involontario) e l’applicazione delle leggi volute da Dio nel suo Libro (hudûd Allâh), per il furto (mano destra tagliata, e per i recidivi piede sinistro amputato), per il brigantaggio (morte o amputazione), per la fornicazione (lapidazione o flagellazione), per l’uso delle bevande alcoliche (flagellazione), per la falsa accusa di fornicazione (flagellazione) e per l’apostasia (condanna a morte)" (50).

Quindi, anche a fronte di una storicamente e variamente ridotta rilevanza politico-giuridica, padre Borrmans osserva che, "tuttavia, la legge religiosa, o Sharî’a, struttura essenziale per l’organizzazione islamica della società, rimane per tutti fondamentale: eppure i musulmani sono profondamente divisi quando si tratta di darne una chiara interpretazione e di precisarne una giusta applicazione" (51). Infatti — prosegue — "al centro del dibattito resta tuttavia la domanda fondamentale: che cos’è l’Islam? Certuni vi vedono una fede e un’etica, altri vi aggiungono una dottrina e una mistica, ma molti insistono sulla legge (Sharî’a) e il sistema politico che essa include" (52).

E però "una tale organizzazione della società — scrive sempre padre Borrmans — nei paesi arabi rischia spesso di ridurre straordinariamente la possibilità dei cittadini non musulmani di vedere i propri diritti equiparati a quelli degli altri abitanti (non dimentichiamo che i cristiani arabi rappresentano circa il 10% della popolazione [il dato è del 1986]). Difatti essa ratifica o provoca ovunque quella consuetudine storica dell’impero islamico che si chiama "confessionalizzazione della società". Ogni membro della società musulmana vi è identificato anzitutto in funzione della religione professata. Per tale ragione la "Gente del Libro" (cristiani o ebrei), pur avendo la libertà di seguire la propria religione, il proprio culto e il proprio statuto personale (riguardante il matrimonio, la discendenza, il testamento, le donazioni e talvolta l’eredità), dipende, tuttavia, da tribunali speciali autonomi, detti "confessionali", controllati dalle autorità governative musulmane stesse. Con questo ordinamento, le minoranze cristiane ed ebraiche si vedono protette nella loro specificità (o nella loro differenza!) e anche trattate come "ospiti privilegiati", ma devono accontentarsi dello statu quo, così concesso, senza mai pretendere di crescere di numero o di autorità (costruire una nuova chiesa si ritiene, in tale contesto, una cosa quasi impossibile). Poiché i loro membri non partecipano all’"ideologia islamica" dello Stato, è chiaro che [...] non possono mai pretendere di raggiungervi i gradi più alti, donde il rischio di discriminazione (o per lo meno, di spartizioni "confessionali") nelle cariche pubbliche e, qualche volta, anche nel mondo del lavoro. Confessionalizzazione ed emarginazione sembrano perciò andare di pari passo, soprattutto se la minoranza non musulmana si sgretola" (53).