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"La seconda corrente, quella radicale, pensa l’islamizzazione a partire "dall’alto", dal politico. In questa strategia la conquista del potere non avviene attraverso la predicazione ma attraverso il gihâd, il combattimento sulla via di Dio. In Europa, fuori dalla Casa dell’islam, i gruppi islamisti non possono che seguire una strategia di tipo neotradizionalista" (60). Benché il tentativo definitorio sia decisamente apprezzabile, non posso non notare la difficoltà di accreditarlo simpliciter dopo quanto ho già trascritto — e ancora trascriverò — da fonti non meno autorevoli circa l’inscindibilità, nell’orizzonte islamico, fra "religione e società temporale" e "religione e Stato", quindi fra religione e politica. E, in subordine, riesce difficile accreditare altrettanto simpliciter l’attribuzione indubbia di una determinata strategia a ciascuna delle correnti identificate, quando lo stesso studioso certifica gli sponsali fra islamisti e neotradizionalisti in Europa, quindi anche in Italia (61). Valga come segno di questi sponsali il fatto che, nella "Bibliografia essenziale" della prima "parafrasi" o "traduzione interpretativa" in lingua italiana del Corano — il cui testo è di per sé intraducibile (62) —, con l’imprimatur — per così dire e per intendersi —, cioè con "revisione e controllo dottrinale" dell’UCOII, l’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (63), stanno fianco a fianco il commento coranico di orientamento radicale del "fratello musulmano" egiziano Sayyid Qutb (64) e il "catechismo" wahabita, quindi neotradizionalista, dello sceicco algerino, vissuto lungamente in Arabia Saudita, Abu Bakr Djabiar Al-Djazairi (1921-1999) (65).

Comunque, rebus sic stantibus e rimanendo in tema, Annie Laurent suggerisce: "Notiamo che l’origine "divina" della condizione discriminatoria riservata ai non musulmani nell’Islam la differenzia completamente dalla condizione nella quale sono stati messi i non cristiani nei paesi di cristianità in determinate epoche storiche perché questa non deriva da una lettura letterale del Vangelo ma dal giudizio del potere politico o ecclesiastico in caso di minaccia alla sopravvivenza collettiva, oppure dalla malizia umana" (66).

Superato per certo troppo brevemente lo "scoglio" — mi si perdoni il gioco di parole —, riprendo.

5. La sharî’a come ideale e come riferimento 

Il vulnus, la ferita inferta nel secolo XIX alla concezione dello Stato islamico, trova il suo precedente maggiore, secondo Nallino, nel 1258, cioè al tempo dell’invasione da parte dei mongoli del califfato di Baghdâd, dell’espugnazione e della devastazione della capitale e dell’estinzione della dinastia califfale araba degli Abbasidi (750-1258) (67); secondo altri si compie nel 1924, quando, in seguito all’esito del primo conflitto mondiale (1914-1918) e alla frantumazione dell’Impero Ottomano, Mustafa Kemal (1881-1938) nel 1923 instaura la Repubblica Turca e abolisce il sultanato, e nel 1924 abolisce formalmente lo stesso califfato (68); comunque, in entrambe le ipotesi, tale ferita viene strutturalmente collegata al terminus, a quo oppure ad quem, logico costituito appunto dall’istituzione califfale. Ebbene, tale vulnus dev’essere sanato, sia di fatto all’interno di ogni singola società islamica, sia di principio contestando la correttezza dottrinale della duplicità del diritto introdotta nelle stesse società attraverso l’assunzione di codificazioni occidentali: infatti, "la maggior parte delle costituzioni dei paesi arabi afferma che l’Islam è la religione di Stato e che il diritto musulmano è una fonte principale, o la fonte principale del diritto [...]. Malgrado queste affermazioni il diritto musulmano copre oggi soltanto il diritto di famiglia e il diritto successorio, come pure il diritto penale in qualche paese come l’Arabia Saudita" (69). Perciò la problematica relativa, diversamente affrontata dalle varie correnti intraislamiche identificate come tali da padre Borrmans, riporta alla problematica essenziale: si deve trattare e si tratta di "Risveglio politico o rinnovamento religioso?" (70). E il missionario d’Africa deve constatare che "nessun musulmano sarebbe in grado di rispondere a una domanda così formulata, poiché vi è il "detto" (quanto viene scritto da pensatori e giornalisti) e il "non detto" (quanto viene detto dal popolo), e quest’ultimo si rivela il più importante. Nel frattempo, sotto la pressione stessa della contestazione degli islamisti e delle loro manifestazioni violente, in numerosi paesi, l’Islam ufficiale o ufficioso diventa spesso molto esigente nei confronti del potere in carica [...] e la pratica religiosa si estende e diventa più evidente: le moschee si moltiplicano e la situazione d’insieme si fa più musulmana. Il politico e il religioso sembrano allora spalleggiarsi più che mai, anche se taluni vogliono distinguere molto chiaramente il risveglio (sahwa) dei veri credenti dall’estremismo degli islamisti" (71).

6. Il problema del jihâd 

A questo punto padre Borrmans deve sollevare un problema di enorme rilevanza: "Quale significato si dà, allora, al famoso jihâd?" (72). Jihâd è il termine tradotto abbastanza correntemente — e spesso, se non sempre, si aggiunge "più o meno correttamente" — con "guerra santa" e usato per indicare se non proprio un sesto "pilastro dell’islam", almeno un obbligo collettivo quando si tratta di portare le armi nel territorio degl’infedeli, che però diventa dovere personale, cioè non tollera esenzioni, quando il nemico minaccia la terra islamica (73).

In proposito, merita assolutamente di essere meditato un passo nel quale ‘Abd al-Rahmân ibn Muhammad Ibn Haldûn fornisce un’esposizione, straordinariamente felice per profondità e per sinteticità, della problematica corrispondente: "In assenza di un profeta — scrive —, una comunità religiosa ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura e la possa costringere a comportarsi secondo la legge rivelata. Questo qualcuno fa in qualche modo le veci del profeta, in quanto bada a che siano rispettati gli obblighi da lui imposti. Inoltre, in ragione della necessità di un governo politico per ogni organizzazione sociale umana, gli uomini hanno bisogno di chi sia capace di perseguire il loro bene, impedendo loro, anche con la forza, di fare ciò che loro può nuocere. Questa persona è il sovrano. Ora, nella comunità islamica, la guerra santa è un dovere canonico, a causa del carattere universale della missione dell’Islam, e dell’obbligo di convertire tutto il mondo, volente o nolente che sia. Ecco perché potere temporale e potere spirituale sono in questo caso confusi: il sovrano può dedicarvi le sue forze contemporaneamente. Le altre comunità religiose non hanno questo carattere ecumenico, e la guerra santa non è per esse un dovere canonico, se si eccettua il caso della legittima difesa. Ciò comporta che i capi di queste religioni non si occupino di politica. Il potere regale presso queste comunità appartiene ai suoi titolari, che l’hanno ottenuto per caso, e in ogni modo senza rapporto con la loro fede. Regnano per necessario effetto dello spirito di clan (nella cui natura è pure la ricerca del potere) e non perché debbano vincere le altre nazioni, come è il caso dell’Islam. Devono soltanto confermare la propria religione tra i loro sudditi…" (74). Come si vede, si tratta di un testo ricchissimo d’informazioni, di stimoli alla riflessione e di suggerimenti per il confronto della "comunità islamica" con altri mondi, in primis con quello occidentale e cristiano, almeno sostanzialmente non dimentico dei due "se vuoi" evangelici: non solo di quello supererogatorio contenuto in Mt. 19, 21: "Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi"; ma anche di quello "ordinario" riferito in Mt. 21, 17: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti", che configura la stessa coazione al rispetto della legge naturale richiamata nel decalogo come promossa dalla formazione della coscienza individuale e realizzata come legittima difesa della comunità dall’aggressione di suoi membri con diversa motivazione irrispettosi di tale legge. Insomma — ancora —, si tratta di un testo nel quale l’autore sintetizza — secondo l’islamologa Biancamaria Scarcia Amoretti — "il concetto di missione islamica equivalente a statalità islamica" (75) mettendo ben in chiaro la "confusione" fra spirituale e temporale (76), a sua volta radicata nella "confusione" fra naturale e soprannaturale, fra ragione e rivelazione, quindi illuminando la fondazione della coazione religiosa sia ad intra della struttura statuale, cioè dell’organizzazione della società, sia ad extra di essa, cioè di quella costituita dalla "guerra santa", condotta in una prospettiva non di libera e volontaria conversione universale, ma di universale dominio, rispetto al quale la conversione stessa o consegue oppure è indifferente, certamente è di minore rilievo.