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Molti pensano — prosegue dal canto suo padre Borrmans facendo stato della situazione contemporanea — che debba essere una guerra offensiva e missionaria in nome di una fedeltà superiore ad Allah e all’imperativo ripetuto nel Corano: "Combattete…". Altri lo accettano come una guerra difensiva e un ultimo espediente, quando siano state esaurite tutte le altre forme di sforzo personale e collettivo" (77). Quindi segnala un importante tentativo di "rilettura", quasi di "trasformazione" del jihâd nella dinamica di un "movimento missionario", denunciandone contestualmente il sostanziale fallimento: "Numerosi e attivi sono oggi i movimenti missionari musulmani, di carattere collettivo o di stile associativo (Jamâ‘at-i Tablîgh, Almadiyya, Voce dell’Islam, ecc.) che vorrebbero essere principalmente "spirituali", ma conservano sempre in sé (a causa del Corano, della Sunna e della Sharî’a, di cui sono sostenitori e diffusori), la vocazione o la pretesa di instaurare un nuovo ordine pubblico islamico, nel quale la condizione dei cristiani e degli ebrei è pur sempre quella di essere cittadini protetti (dhimmî) che non possiedono tutti i diritti dei musulmani. Un hadîth attribuito a Maometto ripete che l’"Islam domina e non può essere dominato"; e un altro, troppo spesso citato nei testi scolastici, afferma che "il paradiso si trova all’ombra delle spade"" (78).

Quindi, "deviante" o no che sia l’"ortodossia" — evoco di nuovo l’ipotesi di Carré —, essa è dominante e solo variamente rappresentata, talora con "deviazioni offensive" (79), ma non sostanzialmente contestata: "La situazione attuale dell’islam — confessa lo stesso Carré — sembra confortare la natura politica e quindi teocratica dell’islam in quanto religione, in particolare dell’islam sciita" (80). Quindi — ancora — si tratta di un fenomeno di cultura diffusa, che non dipende da scelte operate da singoli capi politici o da intellettuali, ma si radica nella natura del fenomeno religioso islamico ed emerge da esso, sulla base delle più diverse e imprevedibili sollecitazioni, che di queste emergenze costituiscono condizioni e non cause, perché in esso è presente (81). 

Ergo, secondo Louis Gardet — in religione frà André, dei Piccoli Fratelli di Gesù —, "l’Islàm è dunque, e indivisibilmente, religione, insieme giuridico-politico e insieme culturale" (82): "Dobbiamo guardarci dall’applicare con troppa facilità concetti occidentali direttamente o indirettamente venuti dal cristianesimo. In valori cristiani, noi distingueremmo la Chiesa, "Cristo continuato" che ha le parole di verità eterna, [...] e la cristianità, sua figura temporale, con lo splendore dei santi, con tutte le esigenze spirituali impresse nella vita di ogni giorno, ma anche con tutto il peso delle debolezze e incapacità umane. Questa distinzione, indispensabile se si vuol comprendere le esigenze della fede cristiana nel mistero stesso della Chiesa — Chiesa visibile, fondata da Cristo e retta mediante la continuità apostolica — non ha una corrispondenza esatta nell’Islàm. La dâr al-Islàm — afferma conclusivamente e perentoriamente l’orientalista francese —, la casa, il mondo dell’Islàm, si presenta, non è mai esagerato ripeterlo, come un tutto politico-giuridico-religioso. "Quanto alla famosa distinzione, rendete a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare, non ha senso nell’Islàm", diceva nel 1939 il shaykh al-Marâghî [Muhammad Mustafâ, 1881-1945], rettore dell’Università d’al-Azhar" (83).

Secondo una formula lapidaria del domenicano francese Jacques Jomier — uno dei fondatori dell’IDEO, l’Institut Dominicain d’Études Orientales, de Il Cairo —, "l’Islam è in effetti un movimento politico-religioso che vuole procurare ai suoi fedeli la felicità in questo mondo e nell’altro" (84); e non meno lapidaria è un’affermazione del tunisino Mohamed Talbi, specialista di storia musulmana medioevale e d’islamologia: "L’islam è una "religione politica" che, a partire dalla nahda, il suo rinascimento (relativo), ha cercato di sbarazzarsi, spesso in contesto violento, dall’influenza dell’ideologia del potere, anche se in effetti vi è rimasta avvolta sempre di più. L’islam è preda dell’ideologia politica e ne rimane condizionato; è sempre stato così. Per quanto ne sappiamo, è l’unica religione che ha iscritto la politica nella sua ‘aquida, cioè nel suo credo. L’imâma (l’esercizio dell’autorità) è il nocciolo del credo sciita e tutte le altre correnti dell’islam sono state indotte o costrette ad adeguarsi a questo credo. In cui non è la missione a possedere valore, ma il potere" (85).