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Perciò, l’inadeguata comprensione del problema, talora promossa, talora alimentata dal "desiderio" che le cose stiano diversamente, produce avversione e disattenzione nei confronti di quanti si oppongono al proprio "sogno", cioè si pongono nella linea della ricerca e della salvaguardia dell’identità islamica, tacendone oppure trasformandoli in soggetti marginali, quando — al contrario — sono centrali in quanto essenziali, e veramente rappresentativi anche dell’islam diffuso, cioè dell’islam sociologicamente maggioritario. Non supera per certo la difficoltà chi, come lo stesso Rizzardi, la comprende, ma defalca volontariamente dalla presentazione dell’islam la dimensione politica, della quale pure identifica con lucidità la portata, adducendo di essere principalmente interessato alla religione (22), che però diventa in questo modo categoria di un universo concettuale, l’universo concettuale dello studioso, e non anzitutto rilevazione fattuale della relazione umana, individuale e sociale, con la trascendenza, in tesi e in ogni ipotesi storica, quindi servizio di "chierico" a "laico", di informato a non informato. Né si dispone a informare correttamente chi, come Allievi, partendo dalla distinzione fra movimento politico e idee diffuse, istituisce un parallelo appunto fra la diffusione del pensiero marxista nell’Europa degli anni 1970 e di quello islamista, e conclude, "[...] in particolare pensando a qualche approccio, purtroppo non solo di impianto giornalistico, che da un’analisi ravvicinata del pensiero islamista e della sua presenza in alcuni paesi, [si] finisce per dedurre un po’ troppo a proposito dell’islam politico e, più problematicamente ancora, dell’islam in generale" (23). È vero — constata — che "i testi dei padri fondatori e dei teorici del pensiero fondamentalista [...] sono assai diffusi, e di fatto presenti nelle biblioteche di ogni buon musulmano appena acculturato, un po’ come, negli anni ’70, erano presenti, e citate, e talvolta persino lette, le opere, diciamo, di un Marx [Karl, 1818-1883] o di un Gramsci [Antonio, 1891-1937], e spesso anche di un Lenin [Nikolaj, pseudonimo di Vladimir Il’ic Ul’janov, 1870-1924]. Ma da questo non si poteva dedurre direttamente nulla sull’oggettivo impegno politico dei loro lettori, e ancora meno sull’appartenenza ad aree radicali o addirittura violente" (24). Certo, tale diffusione non prova l’appartenenza a movimenti di sorta, ma — proprio grazie all’analogia con la diffusione del pensiero marxista-leninista — mi pare difficile sostenere che non dica nulla neppure sulla cultura del soggetto lettore, quindi sulla sua mentalità, e che si possa eludere il quesito relativo alla coerenza o all’incoerenza strutturale, essenziale, fra l’essere un buon musulmano e l’accettare almeno implicitamente, passivamente, il pensiero fondamentalista islamico.

Dunque, questo modo "mutilato" di trattare il tema "islam", almeno — ma non solo — nella modalità divulgativa, sembra non costituire un caso particolare, ma far parte di una sorta di "tradizione consapevole", provata da quanto si può leggere in un classico appunto della divulgazione sull’islam in Italia, L’Islam, opera dell’iranista e islamologo di fede ba’â’î Alessandro Bausani, la cui prima edizione è del 1980 e che è stato ristampato nel 1999 con aggiornamenti a cura di Allievi (25). In essa, a smentita della scritta che compare come una sorta di "catenaccio" giornalistico al titolo, Una religione, un’etica, una prassi politica — per altro rivelatrice dei parametri dell’esigenza informativa —, all’inizio del capitolo su "La Legge" (26), l’autore afferma che "[...] essa disciplina tutta l’attività umana" (27): infatti, "i trattati [...] chiamati di "diritto musulmano" si aprono con una prima parte detta ‘ibâdât (atti di culto) includente cioè gli atti fisici, corpo esterno della fede del cuore, che mettono l’uomo in rapporto con Dio, per poi continuare con le mu‘âmalât, i rapporti cioè dell’uomo con gli altri uomini" (28); quindi "nel concetto musulmano "Dio" sostituisce il concetto antico di civitas. Si chiama "diritto di Dio" tutto quanto trascende il privato interesse" (29); ma, quando viene a esaminare quali siano i precetti della legge, dichiara: "Tratteremo soprattutto — per rimanere nel nostro concetto di "religione" — delle ‘ibâdât, atti più propriamente di culto, trascurando il mare magnum del vero e proprio diritto nel senso nostro, cioè le mu‘âmalât, e solo accennandovi quando ciò importi al nostro concetto di "religione"" (30).

Rebus sic stantibus — quindi — non si presta ascolto adeguato a quanto afferma Abû al-A‘lâ al-Mawdûdî, secondo padre Borrmans "[...] uno dei fautori del risveglio islamico contemporaneo, così come fu uno dei leaders che lavorarono per la creazione di uno Stato islamico, il Pakistan, nel subcontinente indiano. Pensatore rigoroso, musulmano colto e scrittore prolifico, ha pubblicato più di 150 opere di cui molte sono state tradotte in arabo e in inglese. È senza dubbio uno degli autori più conosciuti e più letti nel mondo musulmano, tanto più che le diverse correnti fondamentaliste si richiamano volentieri al suo pensiero e alla sua azione" (31). Ebbene, al dire di al-Mawdûdî, è per certo premessa necessaria a ogni corretta presentazione dell’islam "stabilire con chiarezza la differenza esistente tra "dìn" e "sciari’ah"" (32): "[...] ciascuno dei profeti, che di tempo in tempo hanno fatto la loro comparsa, hanno predicato l’Islam, cioè la fede in Allah, nei Suoi attributi, nel Giorno del Giudizio, nei profeti, nei Libri rivelati, ed hanno chiesto ai rispettivi popoli di vivere una vita di obbedienza e di sottomissione al Signore. Ciò costituisce il "dìn" il quale è stato l’elemento comune degli Insegnamenti di Tutti i Profeti" (33). Ma, "oltre questo "dìn" — prosegue il pensatore originario dell’India Meridionale, fondatore e leader del movimento Jama’at-i Islami, "Associazione islamica" (34) — esiste la "sciari’ah": il codice dettagliato di condotta, o i canoni che descrivono i modi del culto, i criteri della morale e della vita, le cose permesse e proibite, le leggi che separano il bene dal male. Questo diritto canonico ha subito degli emendamenti di tempo in tempo e, benché ciascun profeta abbia predicato il medesimo "dìn", ciascuno di loro portò con sé una "sciari’ah" differente, più confacente alle condizioni del suo popolo e della sua epoca; ciò al fine di far progredire la civiltà dei differenti popoli attraverso le epoche e per dotarli di una moralità più alta.