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    00 04/02/2009 18:43
    Converrebbe citare numerosi testi; eccone alcuni scelti tra molti altri: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli - ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Deuteronomio 7,7 -8).
    «Da lontano gli è apparso il Signore: "Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà» (Geremia 31,3).
    «Poiché tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; tuo redentore è il Santo di Israele, è chiamato Dio di tutta la terra. Come una donna abbandonata e con l'animo afflitto, il Signore ti ha richiamata. [...] Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore. [...] con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redento re, il Signore» (Isaia 54,5-8).
    Quando il profeta Zaccaria ci fa intravedere come sarà l'incontro perfetto e definitivo tra gli uomini e Dio, proclama: «Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo nome» (Zaccaria 14,9). Senza dirlo espressamente, il profeta ci invita a scoprire che la relazione degli uomini con Dio sfocerà in un amore unico tra Yahweh e l'insieme degli uomini. Se diamo al termine «soltanto» il senso di un amore esclusivo, arriviamo alla conclusione che questa unità assoluta di Dio come oggetto dell'amore degli uomini non è ancora realizzata, ma che costituisce il fine ultimo voluto da Dio, che sarà vissuto pienamente solo dopo l'avvento del Suo Regno.
    La sezione seguente permetterà di precisare sotto quale forma sia possibile, fin da oggi, per chi intende amare Dio di un amore unico, vivere pienamente questo comandamento. Dopo aver precisato il senso dell'unicità di Dio come oggetto dell' amore dell'uomo, conviene fare una distinzione tra questa unità e l'unicità percepita dall'intelligenza e che riguarda l'Essere che non ha altra determinazione che quella di essere. In che modo l'unicità dell' amore si differenzia dall'unicità della ragione?

    Tra i numerosi filosofi e metafisici che hanno sviluppato la percezione dell'Essere unico, il più conosciuto, e probabilmente quello che ha segnato e influenzato maggiormente questa corrente di pensiero, è Plotino. Di origine romana, visse in Egitto nel III secolo dopo Cristo. Nell' opera di Plotino, l'Essere unico è chiamato Dio molto raramente. L'aggettivo «divino» non è riferito all'Essere unico, ma all'intelletto che, per Plotino, è la prima emanazione dell'Essere Unico.
    Il procedimento di Plotino consiste nel superare i diversi livelli del reale per giungere a ciò che è semplice e senza nessuna determinazione. Anche il concetto di Bene può essergli applicato solo in senso figurato. Plotino preferisce parlare di «Ciò che è al di sopra» o di «Ciò che è al di là», espressione usata anche in questo studio. Superando il pensiero di Platone e di Aristotele, Plotino insegna che questo Essere Uno è al di là della vita e anche del pensiero: «Se qualcuno prende la sostanza ed il pensiero come punto di partenza non arriverà né a una sostanza né ad un pensiero, ma al di là, e troverà una cosa straha che non rinchiude in sé né sostanza né pensiero» (19).
    Un Essere unico di questo tipo basta a se stesso ed è totalmente immobile. Non è un creatore e non è in relazione con il mondo. Secondo Plotino, il mondo deve la sua esistenza a un'emanazione involontaria che procede da questo Essere unico e che tende necessariamente verso di lui. Si tratta, concretamente, di un'Unità totalmente chiusa su se stessa.

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    00 04/02/2009 18:44
    Il pensiero di Plotino ha esercitato una grande influenza sia negli ambienti ebraici che in quelli cristiani e musulmani. Nella misura in cui il concetto filosofico di Unità fa parte delle strutture profonde del pensiero, la pratica religiosa - come abbiamo constatato nel corso di questo studio - si è trovata ad essere influenzata in modo molto consistente da tale concezione plotiniana dell'Essere unico.
    Alcuni autori spirituali, appartenenti a una o all' altra religione monoteista, hanno tentato, con successo variabile, di unire i due procedimenti. Sembra che un avvicinamento di questo tipo comporti più rischi che benefici. Se l'atteggiamento fondamentale di Dio consiste nel far nascere tra lui e l'uomo una relazione d'amore, l'introduzione del concetto plotiniano dell'Essere unico per la comprensione di Dio porta a ridurre completamente il valore di questo atteggiamento.
    Ritroviamo in questo caso le ambiguità della conoscenza e delle parole che la esprimono. li termine «unico» applicato a Dio nella tradizione giudaica-cristiana può certamente significare in un secondo senso che non esistono altri dei, ma non può assumere il senso di una chiusura di Dio in se stesso, senza distruggere in questo modo l'esperienza messa in evidenza da tutti i testi della Bibbia. Al contrario, Dio è riconosciuto come unico in quanto solo lui intende stabilire una relazione d'amore esclusiva con l'uomo.
    Ma il fatto che Dio sia all' origine di una relazione d'amore e voglia suscitarne nell'uomo un' altra della stessa natura ci fa intravedere quello che sarà l'oggetto ultimo della manifestazione di Dio: Dio stesso è amore.

    L'unità dell'amore

    Senza che riflessioni di questo tipo possano essere considerate dimostrazioni, sembra illuminante avvicinare la percezione a cui siamo giunti - quella dell'amore come presente in Dio - alla conoscenza dell' amore nella coppia umana, come descrive il libro della Genesi.
    Questo testo, molto lontano dalla realtà biologica, insiste sul legame strutturale che esiste tra l'uomo e la donna; questa è derivata da una costola dell'uomo, e perciò viene riconosciuta da Adamo come una sua stessa parte: «Essa è carne dalla mia carne e ossa dalle mie ossa» (Genesi 2,23). li racconto si conclude in questo modo: «E i due saranno una sola carne» (Genesi 2,24). Questa unità non appartiene al livello dell'esistenza, ma a quello dell' amore. li racconto ci invita a scoprire una modalità dell'Unità e quindi del monoteismo che renda conto dell' amore presente in Dio.
    Tra tutte le realtà del nostro universo composte da due elementi separati (mente e corpo, carne e ossa, nucleo cellulare e citoplasma...), nessuno possiede un'esistenza propria. Nella coppia umana sono unite due persone, dotate ognuna di un' esistenza che non dipende dall' altra. La testimonianza di molti mistici rende conto della possibilità di vivere nell'amore di Dio un'unità che ha la stessa struttura di quella della coppia umana. Non sarebbe forse una via per approfondire la relazione tra l'uomo e Dio il fatto di accogliere la possibilità di una struttura di questo tipo in Dio stesso?

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    00 04/02/2009 18:44
    In realtà, l'esistenza in molti esseri spirituali di questo legame d'amore con Dio, che alcuni chiamano talvolta matrimonio mistico, ci porta a concludere che uno scambio di questo tipo è presente anche all'interno stesso di Dio. In una struttura così concepita, l'affermazione che non c'è altro Dio che Yahweh conserva tutta la sua forza. Ma la scoperta che Dio stesso è «unione» d'amore ci incita e procura alla nostra relazione con lui una giustificazione complementare.
    Non possiamo che constatare la frattura radicale introdotta dall'uomo che accetta di entrare in questa relazione d'amore con Dio. Al-Hallaj la giustifica così:

    «Quando la Verità si è impadronita di un cuore,
    lo libera di tutto ciò che non le appartiene!
    Quando Allah si affeziona ad un uomo,
    uccide in lui ciò che non gli appartiene!
    Quando ama uno dei suoi fedeli,
    incita gli altri a odiarlo,
    affinché il suo servitore si avvicini a lui,
    per acconsentire a lui»
    (20).

    Una frattura di questo tipo si può osservare nella maggior parte di quelli che hanno affrontato il rischio dell'incontro d'amore con Colui che è Amore. La maggioranza ha dovuto subire le condanne dei responsabili riconosciuti della comunità religiosa. È il caso del carmelitano spagnolo Giovanni della Croce, imprigionato dai suoi confratelli.
    Vorrei lasciare la parola a una cristiana nata nella metà del XIII secolo vicino a Valenciennes e condannata al rogo nella piazza di Grève a Parigi il 1° giugno 1310. Divorata da questo amore per l'Amore, Marguerite Porete percorrerà sino alla fine il suo cammino di incontro e di vita in Dio. È stata la prima ad aver osato raccontare la sua esperienza spirituale nella lingua parlata del suo paese. Ascoltiamola:

    «Queste creature non possono più parlare di Dio, perché, allo stesso modo in cui possono dire dov'è Dio, non possono dire chi è Dio. Infatti, chiunque parli di Dio quando vuole, a chi vuole e dove vuole parlare, deve sapere con certezza che non ha mai sentito il vero cuore dell' amore divino, in quanto quest'ultimo si impossessa dell'anima in mezzo a tutti senza che lei se ne accorga. In effetti, il cuore vero e raffinato dell' amore divino è senza materia di creatura, ed è donato da Creatore a creatura» (21).

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    00 04/02/2009 18:45

    Marguerite Porete non esita a mettere in causa coloro che hanno la ragione come unico criterio per incontrare Dio: «Sì, Ragione, sarete sempre cieca, voi e tutti coloro che si nutrono della vostra dottrina! Infatti è proprio cieco chi vede le cose davanti agli occhi e non le conosce, e questo è il vostro caso» (22).
    Esiste quindi un monoteismo che non è opera della ragione, ma che nasce da un' esperienza che è inesprimibile, come affermano tutti coloro che l'hanno vissuta. Ma c'è un elemento comune, che si ritrova nel corso della storia religiosa umana e nelle diverse correnti: la frattura necessaria che provoca questa esperienza rispetto alle espressioni ragionate del dogma religioso, e abbastanza spesso rispetto ai comportamenti comuni. Furono questi i folli in Cristo e i vagabondi mistici della cristianità russa ortodossa nel XVIII e nel XIX secolo. Associata a tale rottura si manifesta, nella maggior parte di questi innamorati di Dio, una forza che permette loro di vincere, o almeno di affrontare tutte le contraddizioni:

    «Se sei innamorato dell' amore,
    se è l'amore che cerchi,
    prendi un pugnale affilato
    e taglia il collo alla timidezza.
    Sappi che la reputazione
    è un grande ostacolo nel Sentiero»
    (23).

    Occorre accettare, in nome del rispetto che dobbiamo avere per tutti coloro che ci hanno reso partecipi della loro esperienza e ne hanno reso testimonianza, a volte a prezzo della stessa vita, che viene proposto agli uomini un cammino al fine di entrare in comunione d'amore con l'Unico. Dobbiamo anche accettare che questo cammino resta, in gran parte, estraneo a un' analisi razionale da parte della nostra intelligenza. Non per questo bisogna avvolgere nel mistero questo incontro: i mistici ebrei, cristiani e musulmani ci hanno trasmesso molte testimonianze di quello che hanno vissuto, in unione con il dogma religioso della comunità a cui appartenevano.
    A conclusione di questo studio, conviene segnalare che questo concetto di «Unità» attribuito a Colui che è in relazione d'amore con gli uomini, in quanto suscita un amore in cui è unico, apre la via alla scoperta che ci propone Gesù di Nazaret di una realtà divina in cui Dio stesso, in se stesso, è una comunione d'amore. Per la creatura umana, la possibilità di entrare in una comunità d'amore con il suo Creatore si trova confortata e in un certo modo giustificata: osiamo dire che, proprio perché Dio stesso è comunione d'amore, anche noi siamo invitati a vivere con lui una simile comunione d'amore, che ci fa condividere la sua stessa «vita».
    Al contrario, il procedimento di affermazione dell'unità di Dio a partire dalla ragione umana non può che portare a una distanza sempre maggiore tra «Ciò che è al di là di tutto» e la nostra identità rinchiusa nella materia e nella contingenza.
    Esistono due forme distinte della dottrina monoteista, il monoteismo razionale, che ci esclude da un incontro con Dio, e il monoteismo dell'amore, che porta gli uomini in una comunione di vita con Dio.

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    00 04/02/2009 18:45
     

    Appendice 1

    Monoteismo e tolleranza

    Molti nostri contemporanei sono convinti che il monoteismo sia intollerante. Siccome la fede nel Dio unico provoca un rifiuto radicale e una repressione violenta delle altre dottrine religiose, il monoteismo si trova a essere accusato di essere all'origine di molte persecuzioni avvenute nel corso della storia.
    Alcuni fatti possono giustificare questo giudizio:

    - per avere adorato il vitello d'oro, Mosè manda i Leviti ad uccidere più di tremila uomini tra il popolo ebraico. Questo gesto costituisce addirittura un'investitura per le loro funzioni religiose (Esodo 32,19-29);
    - poiché sono seguaci di Baal e quest'ultimo non ha acceso l'olocausto a differenza di Dio, il profeta Elia scanna nel torrente Kison i quattrocentocinquanta profeti di Baal (Primo libro dei Re 18,20-40);
    - per aver sostenuto il partito degli oppositori di Maometto, tutti i maschi puberi della tribù dei Banu Qurayza (da settecento a ottocento individui circa) vengono decapitati dopo la vittoria dei musulmani, nell'aprile del 627 (24);
    - mentre l'imperatore Costantino tollerava i culti ed i riti non cristiani dopo aver riconosciuto la libertà per i cristiani nel 313, l'imperatore Costanzo II, nel 356, decide che sono passibili della pena di morte «coloro che si ritiene abbiano partecipato ai sacrifici e onorato gli idoli» (Codice Teodosiano XVI, 10, 6). In base a questo decreto, l'autorità della comunità cristiana racconta di avere esercitato la costrizione, in epoche diverse e nella maggior parte dei paesi occidentali, arrivando fino alla pena di morte, nei confronti di tutti quelli che osavano aderire a una dottrina dichiarata eretica: catari del Languedoc o della Lombardia, marrani di Castiglia o di Andalusia.

    I fatti citati sono solamente una selezione tra molti altri e, riferendosi alle tre religioni monoteiste, danno adito all' accusa di intolleranza, accusa che rende responsabile la dottrina monoteista.
    In realtà, associare a quest'ultima le cause dell'intolleranza e della violenza rivela una visione molto superficiale. Infatti la stessa intolleranza e la stessa violenza si ritrovano in alcuni universi religiosi politeisti, il che sembrerebbe stabilire un legame tra intolleranza e religione, ma anche in alcune società senza riferimenti divini, come il periodo francese del Terrore o, nell' ex URSS, i gulag. Tutto ciò dimostra che il monoteismo non è direttamente all'origine dell'intolleranza.
    In questa sede non è possibile cercare le cause, che del resto sono molteplici, dell'intolleranza nelle società umane, in quanto richiederebbe uno studio quasi illimitato, ma vorrei mettere in evidenza, al di là dei fatti ricordati, che il monoteismo non è strutturalmente intollerante.
    All'affermazione di un Dio unico e onnipotente conviene associare da una parte la presenza della sofferenza e del male nel mondo, e dall' altra l'esistenza di più dottrine monoteiste. È opportuno esaminare cosa significano queste due realtà messe in relazione con il monoteismo nella sua struttura fondamentale.

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    00 04/02/2009 18:46
    Anche se non concorda con il pensiero corrente, conviene trovare e analizzare tutte le conseguenze dalla presenza sulla terra della sofferenza, del male e di tutte le violenze provocate dai fenomeni naturali o dall'azione degli uomini. Se Dio, l'Unico Onnipotente, non interviene di fronte a tale realtà, spesso ritorna questa domanda: l'assenza della reazione divina è la conseguenza del fatto che accanto all'Unico Onnipotente interviene un'altra forza in grado di distruggere l'opera di Dio, che però in questo caso non sarebbe più l'unico, oppure l'assenza di intervento divino di fronte al male è volontaria? In questo secondo caso, nella sua saggezza, l'Unico Onnipotente lascia che esistano alcuni mali, anche se ha il potere di impedirli, o per evitare mali più grandi, o per permettere la realizzazione di altri beni (25).
    Nella misura in cui l'Onnipotenza è unica, il fatto che nel mondo esistano la sofferenza, la morte e il male mette in evidenza la tolleranza di questo Dio unico nei confronti di ciò che gli si oppone. Da questo punto di vista, il monoteismo non può essere causa di intolleranza, in quanto il comportamento dei credenti non può essere opposto a quello di Dio (26).
    Da un diverso punto di vista, partendo questa volta dal comportamento umano, l'unità nell' amore indotta dall'incontro con l'Unico, così come la descrivono i mistici delle tre principali religioni monoteiste, esige nel fedele un comportamento libero e volontario. Questo atteggiamento, questa scelta dell'Unico, è insegnato sia dal Giudaismo («Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita», Deuteronomio 30,19-20), che dal Cristianesimo («E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre! "», Lettera ai Romani 8,15) e dall'Islam («Non vi sia costrizione nella Fede: la retta via ben si distingue dall'errore, e chi rifiuta Tagut [l'idolo] e crede in Dio s'è afferrato all'impugnatura saldissima che mai si può spezzare», Corano II, 256).
    La coesistenza di queste religioni monoteiste, con strutture religiose ben distinte, contribuisce a dare forza e necessità all' atto di adesione libera e volontaria del credente. L'autorità, qualunque essa sia, non può imporre con la forza a un individuo di aderire a questa o a quella dottrina monoteista. Se c'è costrizione, il legame con Dio non può essere una relazione fondata sull' amore.
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    00 04/02/2009 18:46
    Ma perché allora, nella realtà, tutte le grandi religioni monoteiste hanno avuto atteggiamenti di violenza e di costrizione in diversi momenti della loro storia? Senza voler rifare un'analisi della storia di queste religioni, bisogna tener conto di due componenti comuni a ognuna (e anche a ogni dottrina sociale, politica o economica): il bisogno, presente in ogni comunità, di organizzarsi, di possedere strutture riconosciute e la necessità di dotarsi di testi fondatori.
    Fino a un'epoca recente, la maggior parte delle società umane affermava la sua identità, e di conseguenza la sua sopravvivenza, eliminando tutti gli oppositori, sia all' esterno che all'interno. Così, nei quattro fatti citati all'inizio di questa appendice, ognuno dei quattro capi, Mosè, Elia, Maometto e l'imperatore Costanzo II, agisce come responsabile del popolo che comanda: da ciò deriva la volontà di eliminare tutti quelli che costituiscono una minaccia per la coesione della comunità, che ha nella religione una delle sue componenti principali. Nei molti conflitti che hanno segnato la nostra storia, i vinti erano trattati come schiavi - e in questo modo conservavano almeno la vita - oppure venivano uccisi. Questa «legge della guerra» ha regolato per molto tempo i conflitti tra sostenitori di divinità anch' esse in lotta tra di loro.
    Il ricorso alla costrizione e alla violenza deriva anche dalla difesa dei testi fondatori. Nel Giudaismo e nel Cristianesimo, questi testi sono il punto d'arrivo di tutta una riflessione di autori diversi, riunita abbastanza tardivamente e dotata di un valore normativo variabile. Oggi si ritiene che la Torah ebraica - i primi cinque libri della Bibbia - sia stata costituita nel suo stato attuale verso la fine del VI secolo avanti Cristo. In quell'epoca era considerata come l'insegnamento di Mosè, ma verso il 400 avanti Cristo fu proclamata testo dettato da Dio e scritto dagli angeli. Questa affermazione le procurò un' autorità incontestabile. È questo l'insegnamento trasmesso dal Talmud, che considera la Torah la prima delle sue creature. Ne consegue che, in virtù della sua origine divina - ma senza riferimento all'unicità di Dio -la Torah condanna a morte coloro che la infrangono.
    Nel caso di una donna accusata di adulterio - atto punito con la lapidazione - Gesù, costretto a dare il suo giudizio, si limiterà a tracciare dei segni sul terreno e ad allontanare le accuse con una replica molto nota: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» (Vangelo secondo Giovanni 8,7). Su questo punto Gesù preciserà il senso della  sua missione: «Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Vangelo secondo Giovanni 12,47).
    Gli scritti cristiani sono molto compositi. Risalgono, nella loro totalità, a un periodo in cui i cristiani erano messi al bando dalla comunità ebraica ed erano oggetto, in diversi modi, della repressione del potere romano. Come avvenne per la Torah ebraica, però, questi testi furono riuniti e, con l'appoggio del potere imperiale, ricevettero un' autorità quasi uguale a quella della Torah. Ancora oggi si dice «è Vangelo» per qualificare un'affermazione incontestabile, mettendo in evidenza la posizione e il ruolo attribuiti a questo testo.
    Il cambiamento più evidente è l'invito alla non violenza: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgi anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due» (Vangelo secondo Matteo 5,38-41).
    Un invito di questo tipo alla tolleranza attiva non sarà però sufficiente per evitare che l'autorità nella comunità cristiana usi violenza e costrizione. Fornendo ai testi fondatori un'autorità divina, il potere gerarchico aveva la possibilità di esercitare la stessa autorità. Risulta evidente che questo atteggiamento non è una conseguenza del monoteismo, ma dell' autorità divina attribuita ai testi fondatori.
    Il ruolo e la funzione che l'Islam attribuisce al Corano risultano in continuità con la religione ebraica riguardante la Torah e, rispetto al Giudaismo e al Cristianesimo, conferiscono al Corano uno statuto superiore. Quando trasmette i versetti del Libro di Dio (V, 44), il messaggero di Dio, Gabriele (Il, 97) si limita a far scendere nel cuore di Maometto quello che prima era stato trasmesso attraverso Mosè e Gesù: «Dio! Non c'è altro dio che Lui, il Vivente, che di sé vive. Egli t'ha rivelato il Libro, con la Verità, confermante ciò che fu rivelato prima, e ha rivelato la Torah e il Vangelo» (Corano III, 2-3).
    Sino alla fine del IX secolo (III secolo dall'egira), i musulmani hanno attribuito al Corano lo stesso statuto della Torah, quello, cioè, di uno scritto dettato da Dio e comunicato agli uomini. Però, in seguito ai confronti tra il potere religioso animato dal teologo Ahmad Ibn Hanbal e il potere politico dei califfi abbassidi, il Corano fu proclamato e riconosciuto come l'espressione nel linguaggio umano della Parola increata ed eterna di Allah.
    Questa Parola divina è al di là di ogni enunciazione, anche se il testo del Corano le è rigorosamente identica, senza tuttavia che questa identità possa essere spiegata. Per questo motivo, il potere religioso islamico gode di un' autorità uguale a quella del testo del Corano, e non può essere soggetto ad alcuna contestazione. In nome dell' autorità che deriva dal Corano, ogni musulmano può intervenire e imporre il suo punto di vista. Questa possibilità non è una conseguenza del monoteismo islamico, ma dello statuto divino che la religione musulmana riconosce al testo del Corano.

     

    Appendice 2

    Dichiarazione del Concilio Vaticano II sulla libertà religiosa

    «A motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. [...] Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su una disposizione soggettiva della persona, ma dalla sua stessa natura. Per cui il diritto ad una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano l'obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e il suo esercizio, qualora sia rispettato l'ordine pubblico informato a giustizia, non può essere impedito» (1, 2).

    «L'uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per raggiungere il suo fine che è Dio. Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza. E non si deve neppure impedirgli di agire in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso» (1, 3).

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    00 04/02/2009 18:46
    1] Benno Jacob, Das erste Buch der Tora, Genesis, Berlin 1934, p. 58.
    [2] Akhbar al-Hallaj, n. 62, p. 99.
    [3] Salita al Monte Carmelo, libro 1, cap. 13.
    [4] Al-Niffari, Stations, «Station de la nuit», Arfuyen, 1982.
    [5] Giovanni della Croce,
    Opere spirituali.
    [6] Charles Péguy,
    L'atrio del mistero della seconda virtù.
    [7] Eccone un esempio (da non imitare), tratto da un corso di divulgazione del pensiero scolastico: «La conoscenza dell'angelo non è altro che il duplice modo in cui la sua sostanza esercita l'esistenza, essenzialmente e intenzio
    nalmente». È chiaro che i nostri concetti derivati dalla relazione con il mondo materiale sono inadeguati per cogliere ciò che percepiamo come immateriale!
    [8] Somma teologica, la parte, domande 2, 3, 4, 7, 10, 11.
    [9] Targum pseudo-Jonathan, Genesi 12,1-5.
    [10] Gershom Scholem, Le nom et les symboles de Dieu dans la mystique luive, Le Cerf 1983, p. 62.
    [11] Nel testo italiano, invece, viene usato il singolare (n.d.t.).
    [12] Nella versione originale, Elohim, al plurale, è accompagnato dall'aggettivo plurale "santi", mentre El dall'aggettivo singolare "geloso" (n.d.t.).
    [13] Vedere il salmo 27.
    [14] Il commento di questi versetti è stato dato all'autore da un membro della Confraternita al-Ash'ariyya, con sede vicino a Parigi.
    [15] Cfr. libro dei Giudici 6,11 e seguenti.
    [16] Cfr. Atti degli Apostoli 7,53; Lettera ai Galati 3,19.
    [17] Cfr. Atti degli Apostoli 7,30.35.
    [18] Cfr. le sure XL, 7-9 e XLII, 5.
    [19] Le Enneadi VI, 7, 40.
    [20] Louis Massignon, La Passion d'al-Hallaj, Geuthner, Paris 1922, vol. I, p. 125.
    [21]
    Marguerite Porete, Le miroir des limes simples et anéanties, Albin Michel, Paris 1997, p. 79.
    [22] lbid., p. 107.
    [23] Mawlana Jalal ud-Din Rumi, Odes mystiques, Klincksieck, Paris 1973, Ode 213, p. 130.
    [24] Maxime Rodinson, Mahomet, Seuil, Paris 1968, pp. 246-247.
    [25] Questa è la posizione di Tommaso d'Aquino, in risposta alla domanda: «Si devono tollerare i riti degli infedeli?», in cui giustifica un atteggiamento tollerante nei loro confronti: cfr. Somma teologica, 2a,2ae, domanda 10, articolo 11,
    corpus.
    [26] «Quindi, anche nella società umana, coloro che comandano tollerano di buon grado alcuni mali, pet paura che siano impediti alcuni beni, oppure per paura che avvengano mali peggiori»
    (ibid.).
2