Lettera dodicesima
La settimana santa
Enrico ad Eugenio
Roma, Aprile 1847.
Mio caro Eugenio,
Dopo quella terribile veglia, di cui ti parlai nella mia ultima; dopo il fatto di quel prete che mercanteggiava l’assoluzione del sacrilego furto, io era immerso in terribili dubbi. Mi pareva impossibile che il Papa non sapesse cotali cose: e se le sapeva, come le sopportava? come le autorizzava? Giunsi perfino a maledire il momento nel quale era entrato in simili ricerche, e desiderava (cosa impossibile) rientrare nella mia semplicità di fervente Cattolico (Nota 1 - Perchè i preti vogliono la ignoranza?).
Era già qualche tempo che il mio professore non mi parlava; ma il giorno dopo quel fatto, finita la lezione, mi chiamò e mi disse che lo seguissi nella sua camera. Usciti dalla scuola, due altri Gesuiti anziani si unirono al professore; mi guardarono da capo a’ piedi con piglio piuttosto severo; ed io seguendoli, giungemmo nella camera del professore (Nota 2 - Povertà e carità gesuitica). Seduti i due reverendi, il professore prese a dirmi, con grande serietà:
"Figliuol mio, io debbo avvertirvi che voi correte un grave pericolo. Voi non avete voluto seguire i miei consigli, avete voluto continuare a discutere con quel protestante; non avete voluto condurre a noi il Puseita; vi siete affratellato con eretici, e così siete causa di molti danni. In quanto a voi, già la vostra fede vacilla; il Puseita tornerà ad esser protestante, e, da amico che ci era, ci diverrà nemico. E di voi cosa avverrà? Voi, figliuol mio, siete sull’orlo di un gran precipizio; ma siete ancora in tempo per salvarvi: perciò vi ho chiamato alla presenza di questi due padri anziani, per vedere se ci riescisse salvarvi; e ci riuscirà, purchè voi lo vogliate sinceramente."
Conoscendo tu il mio naturale timido, e la mia complessione nervosa, penserai che restassi spaventato da quelle parole. Se ti dicessi che restai tranquillo, mentirei; ma non restai spaventato in modo da non sapere cosa rispondere. Risposi dunque che se la mia fede vacillava alquanto, ciò era non tanto per le discussioni col Valdese, quanto per le cose che io stesso aveva vedute co’ propri occhi.
Allora raccontai le cose che mi aveva scritte il sig. Manson, quello che aveva veduto nelle segreterie, e quello che aveva appreso da quel parroco; ed ebbi la imprudenza di pronunziare il suo nome (Nota 3 - Calunnie del P. P. gesuita).
"Queste son bagattelle, rispose il padre: le segreterie sono dirette da uomini; e gli uomini, o per mancanza di discernimento, o per qualche altra ragione, possono abusare della loro posizione; ma il principio sopra il quale esse basano è santissimo, e non può mancare: esso è la podestà illimitata del S. Padre come Vicario di Gesù Cristo e come successore del grande Apostolo S. Pietro. Voi sapete quello che insegna il gran Fagnano, il più grande ed il più dotto de’ nostri canonisti, che non è permesso ad un Cattolico discutere le azioni del Papa: imperciocchè, egli dice, ciò che il Papa fa, lo fa per l’autorità di Dio che gli è confidata. Voi sapete che il cardinal Zabarella, teologo e sopratutto canonista dottissimo, ha sostenuto, che Dio ed il Papa sono una stessa cosa nelle loro decisioni: Deus et Papa faciunt unum consistorium. Voi sapete che questo insigne canonista ha anche detto, ed in un certo senso ha ragione, che il Papa, in un certo senso, è più di Dio; imperocchè egli può fare in buona coscienza delle cose che per gli altri sarebbero illecite, e che Dio stesso non potrebbe fare (Nota 4 - Dottrine sul papa). Voi sapete che il più grande de’ teologi, il nostro cardinal Bellarmino, insegna, che dato anche il caso impossibile, che il Papa errasse comandando il vizio, e proibendo la virtù; tutti i veri Cristiani sarebbero obbligati sotto pena di peccato a credere che i vizi sono virtù e le virtù sono vizi (* Bellarmino de R. P. lib. IV, cap. 5.), Voi sapete che il sacrosanto concilio Lateranense quinto ha chiamato il papa un vero Dio in terra ed il salvatore della Chiesa. E, sapendo queste cose, come può essere scossa la vostra fede per qualche abuso de’ ministri subalterni? Gli sbagli dello scolaro alterano forse la dottrina del maestro? Gli abusi de’ servi fanno diventare cattivi gli ordini del padrone?"
"Ma, padre mio, risposi, quello che io ho veduto e saputo non sono abusi de’ ministri, ma sono errori di dottrine e di principii. Dichiarare reliquie di un santo quelle che non sono che resti di un cadavere non si sa di chi, vendere le indulgenze, assolvere per denaro da furti sacrileghi, a me pare che sieno orribili abusi di principii."
Queste parole furono dette da me con una certa forza. I due gesuiti anziani si scambiarono delle occhiate che mi sembravano alquanto misteriose; ma il mio maestro non si scompose punto, e con la usata freddezza, ma con un poco d’ironia, mi rispose, che "colui che con una parola cambiava il pane nel corpo santissimo di Gesù, poteva con molta più facilità fare per la sua parola che colui che con fede prega, anche avanti le ossa di un pagano, fosse come se pregasse un santo. In quanto poi al pagare le grazie, voi sapete, ed avreste dovuto dirlo ai vostri protestanti, che quel denaro non è il prezzo della grazia; non vi sarebbe oro bastante nel mondo per pagare il prezzo di una indulgenza, o di un’altra qualunque grazia pontificia: quel denaro è una porzione del riscatto dell’opera meritoria che dovrebbe farsi per meritare quella grazia (Nota 5 - Legati pro remedio animae): difatti osservò, chi non paga è obbligato a fare una penitenza corporale (Nota 6 - Scopatori) per ottenere quella grazia."
Io non mi mostrava abbastanza convinto. Allora uno dei due padri anziani mi disse che la mia anima era in uno stato pericoloso: che, in quello stato, mi guardassi bene dall’accostarmi alla comunione pasquale; che essi avrebbero pensato a farmi tenere il biglietto pasquale per presentare al mio parroco (Nota 7 - Biglietti pasquali); che dopo la Pasqua vi sarebbero stati gli esercizi a S. Eusebio, ed io vi sarei andato di nuovo, e così avrei riacquistata la perduta pace della mia coscienza.
"Tutto ciò va bene, disse il mio maestro; ma intanto voi ci dovete promettere di non parlare più con quei Protestanti."
Io che amo la mia pace, promisi tutto: solo per riguardo ai miei amici dissi, che li avrei evitati per quanto mi era possibile; ma che se essi fossero venuti da me contro mia voglia, o incontrandomi mi avessero parlato, non era nella mi educazione nè di scacciarli, nè di fargli uno sgarbo.
Il professore allora si alzò bruscamente, e mi disse in un tuono assai concitato: "Fate pure a vostro modo, come avete fatto finora, seguite pure i dettami della vostra pretesa civiltà; ma vi avverto, che se voi parlate ancora una volta con essi, siete irreparabilmente perduto." E, senza darmi altro tempo, mi licenziò bruscamente.
Le ultime parole del professore m’irritarono: esse mi parevano un attentato alla mia libertà; e la sua minaccia un semplice spauracchio per impormi i suoi voleri: quindi mi decisi a non cercare più i miei amici, a non rispondere alle loro lettere, se mi scrivevano; ma se venivano o se li avessi incontrati, non li avrei nè scacciati, nè sfuggiti; solo avrei cercato di non discutere.
La domenica seguente era la domenica delle palme. Andai nella chiesa di S. Pietro per assistere alla benedizione delle palme che faceva il Papa. Io era stretto nella folla (Nota 8 - Chi può entrare nella cappella papale), ed ammirava il Papa nella sua maestà, il quale dal sublime suo trono, circondato da cardinali e prelati, distribuiva le palme benedette alla sua corte, ed a qualche signore forestiere ammesso a quel grande onore (Nota 9 - Protestanti che ricevono la palma); e restava assai edificato nel vedere i forestieri, anche protestanti, che facevano a gara per essere ammessi a quell’onore, e, dopo aver baciato il piede al papa, ricevevano con gioia dalla sua mano un ramoscello di olivo benedetto!
Finita la distribuzione delle palme, la calca diminuì; allora sentii dietro a me una voce che diceva: "Oh! Che sublime spettacolo!" Sì, rispose un’altra voce, spettacolo orribilmente sublime! È una delle più sublimi azioni della vita di Gesù Cristo, posta in commedia.
Mi era rivolto per vedere a chi appartenevano quelle voci, e vidi i miei tre amici, i quali mi riconobbero e mi si avvicinarono stringendomi amichevolmente la mano. Eccomi di nuovo con loro; e come onestamente fuggirli?
Dopo la funzione delle palme, incominciò la messa cantata da un Cardinale, alla quale assisteva il Papa dal suo trono. In vece di una piccola porzione di Vangelo, si canta in quel giorno tutta la storia della passione del Signore secondo è scritta nell’Evangelo di S. Matteo. Tre diaconi con i loro libri del Vangelo posti in note musicali, vanno prima a baciare il piede al papa, poi montano sopra tre pulpiti, e cantano alternativamente la storia della passione. Uno di essi rappresenta l’Evangelista, e canta in voce di basso tutta la parte storica; un altro che sta alla sua destra, rappresenta Gesù Cristo, e canta in voce di tenore, ma in tuono basso, tutte le parole di Gesù Cristo; il terzo che è a sinistra rappresenta Pilato, Caifa e le turbe, e canta in voce di falsetto, tutte le parole pronunziate da cotestoro.
Il signor Sweeteman si mostrò scandolezzato: pareva a lui che cantare quella storia dolorosa della passione, ed a quel modo, derogasse alla serietà, e che fosse una scena più degna da teatro che da chiesa. Ma il signor Manson che apprezza meglio le cose, vi trovava della edificazione; inquantochè questa cerimonia esteriore agiva maggiormente sui sensi. "Eppoi il canto del Vangelo, diceva egli, è antichissimo nella Chiesa."
"Il Vangelo, rispondeva il Valdese, non è stato scritto pei sensi, ma per il cuore. Credete voi che S. Pietro abbia cantato il Vangelo?"
Mentre i tre diaconi salivano sui loro pulpiti, il papa quatto quatto era passato dietro il trono, e si era ritirato in una camera fatta con arazzi e damaschi in un angolo della chiesa (Nota 10 - Il papa si diverte mentre si canta la passione). In tutto il tempo che si cantò la passione, si vedeva un vai vieni di cardinali, che passavano dietro al trono del papa, e non sapeva ove andassero. Il Valdese ci fece segno di seguirlo, come se ci volesse mostrare qualche gran cosa. Andammo; ed egli ci condusse dietro al trono per vedere la ragione di quell’andirivieni. Vedemmo da lontano la camera posticcia fatta con arazzi; ma le guardie svizzere che ne bloccavano le vie, c’impedirono di avvicinarci. Questo divieto fece nascere anco in me la curiosità di sapere cosa si facesse in essa. Mi avvicinai all’ufficiale degli Svizzeri che era mio amico, e gliene domandai.
"È il papa, mi disse, che, increscendogli di restare in piedi tutto il tempo del canto della passione, si ritira in quella camera fatta appositamente."
"E cosa fa in quella camera?" domandò il Valdese.
"Si trattiene a parlare co’ cardinali che lo vanno a vedere ed a prendere de’ rinfreschi."
Ringraziai l’ufficiale, e partimmo.
"Ecco cosa fa il papa, disse il Valdese: mentre nella chiesa si legge la passione del Signore, egli si nasconde per passare il suo tempo in conversazioni, sorbetti, e confetture! Mentre ogni Cristiano che ha ombra di fede, piange alla lettura della passione del Figlio di Dio, colui che si dice suo Vicario non si vergogna di starsene fra le risa ed i sorbetti; e ciò nella chiesa stessa! Signor Abate, signor Manson, voi tacete? Difendete, se ne avete il coraggio, questa azione che io non voglio qualificare."
Noi eravamo mortificati, e non sapevamo cosa rispondere; io, per mia parte, voltai le spalle ed uscii dalla chiesa.
Non ti dirò nulla, per non annoiarti, circa i pensieri che si suscitarono nella mia mente dopo questo fatto. Quei giorni erano giorni di vacanza, per cui non vidi il mio maestro, e neppure andai al Collegio.
Il giovedì santo tornai in S. Pietro, e montai alla cappella Sistina (Nota 11 - Cappelle Sistina e Paolina), per assistere alle funzioni di quel giorno; e sebbene sapessi, quasi per cosa certa, trovarvi i miei tre amici, pure non volli per ciò astenermi dall’andarvi. Dopo la messa, il papa portò il Sacramento nella cappella Paolina processionalmente, e lo ripose nel sepolcro (Nota 12 - I sepolcri). Scesi poscia sulla gran piazza per ricevere la benedizione che il papa dà in quel giorno urbi et orbi, cioè non solo a coloro che sono presenti, non solo alla città di Roma, ma altresì ai Cristiani di tutto il mondo. Oh! qual momento solenne, mio caro Eugenio! Il Papa è portato nella gran loggia sul suo trono a spalle di uomini: non appena egli si alza per benedire il popolo, che tutte le bande militari, che sono sulla piazza insieme colla guarnigione, suonano; i cannoni di Castel S. Angelo sparano; e le campane aggiungono col loro suono festivo alla maestà di quella cerimonia. Il signor Manson era come estatico. Dopo che si fu ritirato il papa, il signor Pasquali mi disse in presenza degli altri due: "Signor abate, qual differenza si fa nella vostra Chiesa, fra quello che voi chiamate il Santissimo Sacramento ed il papa?" Risposi che nel Santissimo Sacramento vi è personalmente Gesù Cristo, in corpo, sangue, anima e divinità; ed il papa è il suo Vicario. "Allora, rispose egli, perchè onorate più il vicario che il principale? Perchè quando benedite il popolo col Sacramento, lo fate senza alcuna solennità e quando benedice il papa sparate i cannoni, suonate le campane, mettete in gran gala le truppe? A me sembra che, sebbene a parole confessiate Gesù Cristo, coi fatti lo diciate minore del Papa."
Questa osservazione mi giunse nuova e ti confesso che non seppi cosa rispondere in quel momento.
parte prima