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È pure là che il cuore di questo caro e grande servi­tore, dalla storia del quale abbiamo raccolte già tante vere e profonde lezioni, trovava la grazia e la forza che l’hanno condotto attraverso tristi scene della vita del deserto. Senza paura di sbagliare possiamo affermare che alla fine, malgrado le prove e le lotte dei quaranta anni, Mosè poté abbracciare il suo fratello sul monte Hor con lo stesso affetto di quando lo aveva incontrato al principio «al monte di Dio» (Esodo 4:27; 18:5). Questi due incontri ebbero luogo, è vero, in circostanze assai diverse. Al monte di Dio i due fratelli, s’incontrarono, si abbracciarono, e si misero in marcia insieme per com­piere la loro divina missione. Sul monte Hor s’incontra­rono per ordine di l’Eterno (Numeri 20:25), perché Mosè spogliasse il suo fratello dei vestiti sacerdotali e lo ve­desse raccolto presso il suo popolo a causa di uno sba­glio al quale egli stesso aveva partecipato. Le circo­stanze cambiano; gli uomini possono separarsi l’uno dall’altro, ma in Dio «non c’è variazione né ombra prodotta da rivolgimento» (Giacomo 1:17).

«Mosè ed Aaronne dunque andarono, e radunarono tutti gli anziani dei figliuoli d’Israele. E Aaronne riferì tutte le parole che l’Eterno aveva dette a Mosè, e fece i prodigi in presenza del popolo. E il popolo prestò loro fede. Essi intesero che l’Eterno aveva visitato i fìgliuoli d’Israele e aveva veduto la loro afflizione, e si inchina­rono e adorarono» (vers. 29-31).

Quando interviene Dio bisogna che ogni barriera crolli. Mosè aveva detto: «Ma essi non mi crederanno»; ma non si trattava di sapere se avrebbero creduto a lui bensì se avrebbero creduto a Dio. Chi può considerarsi semplicemente come l’inviato da Dio, può anche essere perfettamente tranquillo per quanto riguarda l’accetta­zione del suo messaggio; e questa beata certezza non lo distoglie per nulla dalla tenera e affettuosa sollecitu­dine verso quelli a cui è mandato. Al contrario essa lo preserva dall’inquietudine disordinata dello spirito che non può fare altro che contribuire a rendere un uomo inadatto a portare una testimonianza ferma, elevata e perseverante. Un inviato di Dio dovrebbe sempre ricor­darsi che il messaggio che porta è il messaggio di Dio. Quando Zaccaria dice all’angelo: «A che conoscerò io questo?», quest’ultimo non fu per nulla turbato da quella domanda, ma rispose: «Io son Gabriele, che sto davanti a Dio; e sono stato mandato a parlarti e recarti questa buona notizia» (Luca 1:18-19). I dubbi del mortale non turbano nell’angelo il sentimento della dignità del suo messaggio; egli sembra dire: Come puoi tu dubitare quando dalla sala del trono della Maestà nei cieli ti è stato ora inviato un messaggio? È così che ogni messag­gero di Dio, secondo la sua misura, dovrebbe andare, e con questo spirito rilasciare il suo messaggio.