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Bisogna ricordare sempre che, quando il Signore è con noi, le nostre mancanze e le nostre infermità diven­tano per lui un’occasione per mostrare la sua grazia sufficiente a tutto, e la sua pazienza perfetta. Se Mosè se ne fosse ricordato non si sarebbe preoccupato della sua scarsa eloquenza. L’apostolo Paolo imparò a dire «Mi glorierò piuttosto delle mie debolezze, onde la po­tenza di Cristo riposi su me. Per questo io mi compiac­cio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecu­zioni, in angustie per amor di Cristo; perché, quando son debole, allora sono forte» (2 Corinzi 12:9-10). Questo è certamente il linguaggio di chi è molto avanti nella scuola di Cristo. È l’esperienza di un uomo che non si sarebbe spaventato di non possedere una lingua eloquente dal momento che aveva trovato nella pre­ziosa grazia del Signore Gesù, una risposta a tutti i suoi bisogni. La conoscenza di questa verità avrebbe dovuto liberare Mosè dalla sfiducia e dalla timidezza ec­cessive che lo dominavano. La sicurezza che, nella sua misericordia, il Signore gli avrebbe concesso di essere con la sua bocca, avrebbe dovuto tranquillizzarlo sul fatto dell’eloquenza. Colui che ha fatto la bocca del­l’uomo poteva, se ce n’era bisogno, riempirla della più potente eloquenza. Per la fede questo era semplice; ma ahimé, il povero cuore incredulo conta molto di più su una lingua eloquente che su Colui che l’ha creata. Que­sto fatto ci sembrerebbe inspiegabile se non sapessimo da quali elementi è composto il cuore dell’uomo. Que­sto cuore non può confidare in Dio e di qui deriva quella mancanza di fede nell’Iddio vivente che si riscontra an­che nei credenti quando si lasciano, anche solo un poco, dominare dalla carne.

Così nel caso che ci occupa Mosè continua a esi­tare: «E Mosè disse: Deh! Signore, manda il tuo mes­saggio per mezzo di chi vorrai» (v. 13). Si trattava di rifiutare il glorioso privilegio di essere il solo messag­gero di l’Eterno a Israele in Egitto.

Sappiamo tutti come l’umiltà prodotta da Dio sia una grazia inestimabile. «Siate rivestiti di umiltà» è un principio divino; e l’umiltà è, senza contraddizione, l’or­namento più convenevole per un miserabile peccatore. Ma rifiutare di prendere il posto che Dio ci assegna o di percorrere la via ch’Egli ci traccia, non è umiltà. In Mosè, evidentemente, ciò che lo tratteneva non era umiltà poiché «l’ira dell’Eterno s’accese contro Mosè», e non era nemmeno debolezza soltanto. Fino a che que­sto sentimento rivestiva i caratteri della timidezza, per quanto fosse, del resto, riprovevole, Dio, nella sua infi­nita grazia, lo sopportò e rispose con ripetute pro­messe; ma quando divenne incredulità e durezza di cuore, la giusta collera di l’Eterno s’accese contro Mosè. E così, invece di essere l’unico strumento nell’opera della testimonianza e della liberazione di Israele, do­vette condividere con un altro questo privilegio.