00 21/04/2011 19:36
Noi sappiamo, Dio ne sia benedetto, che nulla può rompere il legame che unisce a lui il vero credente. Noi siamo salvati dall’Eterno, non con una salvezza con­dizionale, ma con una «salvezza eterna» (Isaia 45:17). Ma la salvezza e la comunione non sono la stessa cosa. Vi sono molte persone salvate che non sanno di es­serlo e ve ne sono molte che, pur sapendolo, non ne godono. È impossibile essere felici al riparo di un’ar­chitrave cosparsa di sangue se c’è del lievito nella casa. È un assioma, nella vita divina. Possa essere scritto nei nostri cuori! Pur senza essere il fondamento della nostra salvezza, la santità pratica è intimamente legata al godimento della salvezza. Non era col pane senza lievito che un Israelita era salvato, ma per mezzo del sangue; però, il pane lievitato lo avrebbe privato della comunione. E, per ciò che lo concerne, il cristiano non è salvato dalla santità pratica, ma dal sangue; però, se si concede il male, col pensiero, in parole o in azioni, non avrà nessun vero godimento della salvezza, nes­suna vera comunione con la persona dell’Agnello.

Sono sicuro che da questo dipende gran parte della sterilità spirituale e della mancanza di una pace vera e costante che si riscontra presso i figliuoli di Dio. Molti di loro non praticano la santità, non osservano la festa dei «pani senza lievito» (Esodo 23:15). Il san­gue è sulla porta, ma il lievito dentro la casa impedisce di godere la sicurezza che il sangue dà. La sanzione che diamo al male distrugge la nostra comunione, sebbene non interrompa il legame che unisce eternamente le nostre anime con Dio. Quelli che fanno parte dell’As­semblea di Dio devono essere santi; non sono stati libe­rati soltanto dalla colpa e dalle conseguenze del pec­cato, ma anche dalla potenza, dall’amore del peccato e dal praticarlo. Il solo fatto che Israele fosse liberato dal sangue dell’Agnello pasquale, gli imponeva la respon­sabilità di togliere il lievito. Gli Israeliti non potevano dire, secondo l’orribile linguaggio degli Antinomisti, «ora che siamo salvati possiamo fare ciò che ci pare e piace». Assolutamente no! Se erano salvati per gra­zia, lo erano in vista della santità. Un’anima che si serva della gratuità della grazia divina e della perfe­zione della redenzione che è in Cristo per vivere nel peccato (Romani 6:1), mostra chiaramente di non com­prendere né la grazia né la redenzione.

La grazia non salva soltanto l’anima dandole una sal­vezza eterna, ma le comunica pure una natura che si compiace in tutto ciò che è di Dio, perché è divina. Noi siamo così partecipi della natura divina che non può peccare poiché è nata da Dio (Giovanni 1:13; 3:3-5; 2 Pietro 1:4; 1 Giovanni 3:9; 5:18). Camminare nella po­tenza di questa natura è osservare la festa dei pani senza lievito. Non c’è né «vecchio lievito» né «lievito di malizia e di malvagità» (1 Corinzi 5:8) nella nuova na­tura, poiché è di Dio, e Dio è santo e «Dio è amore» (1 Giovanni 4:8). Così è evidente che, se togliamo il vecchio lievito, non lo facciamo per migliorare la nostra vecchia natura (che è irrimediabilmente malvagia e corrotta) e nemmeno per ottenere la nuova natura, ma perché già la possediamo. Abbiamo la vita e, nella po­tenza di questa vita, rigettiamo il male. Soltanto quan­do siamo liberati dalla colpa del peccato, possiamo com­prendere e manifestare la vera potenza della santità; volerlo fare altrimenti è un lavoro inutile. La festa dei pani senza lievito la si può osservare solo al riparo del sangue.