Il patto dell’Eterno era un patto di pura grazia. Non poneva alcuna condizione, non chiedeva nulla, non imponeva giogo né fardello. Quando l’Iddio di gloria apparve ad Abrahamo (Atti 7:2) a Ur dei Caldei, non si rivolse a lui dicendo: Fa’ questo e non fare quello. Un linguaggio così non è secondo il cuore di Dio. Egli preferisce mettere sul capo del peccatore una tiara pura, piuttosto che un giogo di ferro (Zaccaria 3:5; Deuteronomio 28:48). Ad Abrahamo la sua parola fu: «Io ti darò». La terra di Canaan non la si poteva conquistare con opere d’uomo; essa doveva essere un dono della grazia di Dio. E, al principio di questo libro dell’Esodo, vediamo Dio visitare il suo popolo in grazia, per compiere la promessa che aveva fatto in favore della progenie di Abrahamo. La condizione in cui l’Eterno trovò questa progenie, non rappresentava un ostacolo al compimento dei suoi disegni di grazia, dato che il sangue dell’Agnello gli forniva un fondamento perfettamente giusto in virtù del quale poteva compiere ciò che aveva promesso. Evidentemente l’Eterno non aveva promesso la terra di Canaan alla progenie di Abrahamo in base a qualcosa che s’aspettava da essa; se così fosse stato, il vero carattere della promessa sarebbe andato distrutto; Dio avrebbe fatto un contratto, non una promessa; ma Dio ha fatto dono ad Abrahamo per mezzo d’una promessa, non d’un contratto reciproco (vedere Galati 3).
Per questo, all’inizio del capitolo, l’Eterno ricorda al suo popolo la grazia usata fino allora verso di lui; e, nello stesso tempo, gli assicura che sarà sempre così, s’egli persevera nell’obbedienza alla voce della grazia dall’alto e rimane nel «fatto» della grazia. «Voi sarete tra tutti i popoli il mio tesoro particolare». A quale condizione gli Israeliti potevano essere questa preziosa proprietà dell’Eterno? Era forse salendo a fatica il cammino della propria giustizia e del legalismo? La maledizione di una legge violata, violata prima ancora della sua promulgazione, potevano forse condurli fin là? Certamente no. Come potevano dunque godere di una posizione così gloriosa? Soltanto restando nella posizione nella quale l’Eterno li vedeva dal cielo allorché costrinse il profeta, che aveva amato il salario d’iniquità, a gridare: «Come sono belle le tue tende, o Giacobbe, le tue dimore, o Israele! Esse si estendono come valli, come giardini in riva ad un fiume, come aloe piantati dall’Eterno, come cedri vicini alle acque. L’acqua trabocca dalle sue secchie, la sua semenza è bene adacquata, il suo re sarà più in alto di Agag e il suo regno sarà esaltato. Iddio che l’ha tratto d’Egitto gli dà il vigore del bufalo» (Numeri 24:5-8).
Tuttavia Israele non era disposto a occupare questa beata posizione. Invece di rallegrarsi nella santa promessa di Dio, osò prendere l’impegno più presuntuoso che labbra umane potessero mai formulare. «E tutto il popolo rispose concordemente e disse: Noi faremo tutto quello che l’Eterno ha detto» (v. 8). Era temerario parlare così. Gli Israeliti non dicono nemmeno: speriamo di fare o cercheremo di fare, linguaggio che avrebbe mostrato un certo grado di sfiducia in loro stessi. Si pronunciano in modo assoluto: «Noi faremo». Chi parlava così non era solo qualche carattere vanitoso, pieno di fiducia in se stesso, che si distingueva da tutti gli altri; no; «tutto il popolo rispose concordemente». Erano unanimi nell’abbandonare «la santa promessa», il «santo patto».