CRISTIANI   Nelle mani del Padre

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I DIECI COMANDAMENTI

Ultimo Aggiornamento: 23/04/2011 18:19
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23/04/2011 18:16
 
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Settimo comandamento

NON RUBARE

NELLA BIBBIA

Il termine rubare come lo traduciamo noi aveva nel significato biblico due intenzioni:

  1. Il divieto di ratto di persone. Così Es. 21,16 dice: “Colui che rapisce un uomo e lo vende sarà messo a morte”. E in maniera molto simile Dt. 24,7: Quando si troverà un uomo che abbia rapito qualcuno dei suoi fratelli tra gli Israeliti, l’abbia sfruttato come schiavo o l’abbia venduto, quel ladro sarà messo a morte; cosi estirperai il male da te Il comandamento tutela quindi in primo luogo “la libertà del prossimo”.

  2. Il divieto di furto. Non solo come protezione dei ricchi ma come presupposto per una sana espansione personale per ognuno. Racconta la Bibbia che Tobia, un ebreo deportato in Babilonia, benché colpito dalla disgrazia della cecità, aveva un timore istintivo del furto, dell’appropriarsi la roba altrui, anche in piccola quantità. Un giorno sua moglie Anna, recatasi come di consueto al suo lavoro di tessitrice, ritornò a casa con un capretto, regalatole, oltre alla paga, dai suoi signori, forse per mostrarle quanto gradivano la sua laboriosità Non appena l’animale cominciò a belare, Tobia, accortosene, se ne sentì turbato. “Donde viene il capretto? disse alla moglie. Non è roba rubata? Restituiscilo ai signori, poiché non è lecito mangiare roba rubata” (Tob. 2,13). La moglie lo rassicurò. Stesse tranquillo: si trattava di un dono. L’episodio è commovente. Nella sua semplicità indica quanto il pio israelita volesse essere fedele al comandamento “non ruberai” dato da Dio a Mosè, e ricordato anche da Gesù nel. suo colloquio col giovane ricco. S. Paolo poi pone il furto tra i peccati che escludono dal regno di Dio. La ragione del comandamento di Dio va riposta nel diritto di ogni uomo a mantenere la propria vita e quella delle persone che hai a carico, e quindi a possedere i mezzi per assicurarla nel presente e nel futuro. Si tratta di un diritto naturale almeno dopo il peccato, essenziale per godere della dignità e della libertà cui ognuno aspira. Per questo Dio ha ordinato, con uno speciale comandamento, di praticare la giustizia, rispettando i diritti del prossimo, cioè i suoi beni. Tra questi diritti c’è non soltanto quello ai beni materia li, ma anche quello alla vita (quinto Comandamento) e al buon nome (ottavo Comandamento). Così, per fare degli esempi, un padrone è obbligato a corrispondere il giusto salario all’operaio; l’operaio a compiere coscienziosamente il suo lavoro; un commerciante a vendere senza ingannare clienti sul peso e la qualità della merce; il debitor a saldare il suo debito; chi ha trovato un oggetto a restituirlo, se può, al legittimo proprietario. L’uomo può entrare in possesso dei propri beni col lavoro o comprandoli, o ereditandoli, o anche ricevendoli in dono o come legato. Può anche avvenire che lo Stato, disponendo di beni pubblici troppo grandi, ne ceda la proprietà a cittadini bisognosi perché li usino per la propria utilità, Il settimo Comandamento obbliga ancora a non alienare i beni del prossimo, E a non danneggiarli o distruggerli. Lo stesso discorso vale per i beni della collettività. Questi appartengono a tutti: tutti quindi sono tenuti a rispettarli perché non si deteriorino o vadano in rovina, perdendo la loro funzione specifica di servire al bene comune. La vita moderna, con lo sviluppo della tecnica e della società che ne è seguito, ha portato a nuove applicazioni della giustizia. Così, per fare un esempio, i grandi complessi produttivi non possono dimenticare l’ambiente in cui operano. Rientra nell’ambito del settimo Comandamento non rendere nociva l’aria che si respira, non danneggiare con metodi poco razionali i boschi così necessari all’equilibrio idrologico e climatico di un territorio, non contaminare l’acqua dei fiumi o del mare. Essi forniscono i mezzi di sostentamento a tante persone, e nessuno può loro toglierli, scaricando, per esempio, nei fiumi le scorie delle industrie chimiche, che uccidono i pesci e privano i pescatori di una fonte di vita, recando danno alla stessa salute fisica. Il medesimo Comandamento proibisce ancora di abusare delle cose pubbliche per i propri interessi personali, come avviene, per recare degli esempi, truccando le aste indette dallo Stato per un appalto di lavori, gonfiando artificialmente il valore dei titoli di borsa per poi deprezzarli guadagnandoci cifre enormi, non pagando le tasse secondo le proprie possibilità, esportando capitali all’estero col pericolo di far perdere il lavoro agli operai, comprando con “bustarelle” i funzionari pubblici per averne dei vantaggi. Un altro modo tipicamente attuale di andare contro il settimo Comandamento è l’assenteismo ingiustificato di chi percepisce lo stipendio non rispettando il contratto di lavoro, o che nel lavoro non rende ciò che dovrebbe per malavoglia o altre ragioni prive di valore. Questi abusi a lungo andare danneggiano gravemente la vita sociale, producendo il depauperamento della nazione col conseguente abbassamento del tenore di vita, specialmente delle classi più povere. Come si vede, il settimo Comandamento ammette il principio della proprietà privata, un’espressione che suona male alle nostre orecchie, abituate a sentir parlare di socializzazione.

La proprietà privata però nella Bibbia sottosta a molti altri valori.

I profeti veterotestamentari usano parole roventi contro l’accumulazione della ricchezza da parte dei ricchi a spese dei poveri. La loro critica sociale mette in chiaro una cosa: si abusa della proprietà là dove essa non è più un mezzo per la propria sicurezza e il proprio sviluppo, ma diventa strumento di potere per dominare gli altri. Ove i potenti sfruttano l’indigenza dei poveri, lì è in pericolo quella libertà che Dio ha donato al suo popolo e che questi deve continuamente realizzare in concreto. Il libro del Siracide dice in maniera lapidaria: “Uccide il prossimo chi gli toglie il nutrimento” (34,22). La Bibbia sottolinea con grande energia i doveri sociali della proprietà. Il diritto di proprietà dei padroni e I loro rivendicazioni trovano il loro chiaro confine là dove entrano in gioco le necessità elementari di altri. Pertanto leggiamo nel libro del Deuteronomio (capitolo 24): Quando presti qualcosa a un altro e ne ricevi un pegno, “se quell’uomo è povero, non andrai a dormire col suo pegno. Dovrai assolutamente restituirgli il pegno al tramonto del sole, perché egli possa dormire col suo mantello e benedirti; questo ti sarà contato come una cosa giusta agli E occhi del Signore tuo Dio” (v. 12s); “non prenderai in pegno la veste della vedova” (v. 17); “nessuno prenderà in. pegno né le due pietre della macina domestica, né la pietra superiore della macina, perché sarebbe come prendere in pegno la vita” (v. 6). I doveri sociali della proprietà vengono alla luce anche nella prescrizione di non raccogliere accuratamente tutto nei campi, nelle vigne e negli uliveti, ma di lasciare la possibilità ai poveri di racimolare quel che resta (cf. Dt. 24,19-21; Lv. 19,9s; 23,22). La motivazione d’un simile comportamento suona: “Ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto; perciò ti comando di fare questa cosa” (Dt. 24,22). La Bibbia menziona all’israelita credente tre motivi, per cui non può disporre della sua proprietà a piacimento e in maniera arbitraria:

  1. Dio è il creatore e il sostentatore di tutte le cose, per cui ne è anche il primo proprietario; l’uomo è sol l’amministratore dei beni terreni. Questi gli sono stati dati in prestito, ed egli dovrà render conto a Dio di come li ha usati. Dio fa dire con estrema chiarezza: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini” (Lv. 25,23). Prima dell’entrata nella terra promessa l’israelita si sente fare questa raccomandazione: “Quando il Signore tuo Dio ti farà entrare in questo paese fertile... guardati dal pensare: la mia forza e la potenza della mia mano mi hanno conquistato queste ricchezze. Ricordati invece del Signore tuo Dio, perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere.., l’alleanza” (Dt. 8,7.17s; cf. 9,4).

  2. In linea di principio i beni della terra sono destinati a tutti gli uomini. Ciò risulta, per esempio, dal fatto che in caso di estrema necessità tutto è comune. Nell’Antico Testa mento questo principio rimane comprensibilmente limitato a Israele. Dio non ha dato la terra promessa al singolo, ma d Israele come comunità. Di conseguenza in questo paese deve essere posto per tutti. I profeti pronunciano parole molto dure contro coloro che speculano sui terreni e sulle case, contravvenendo a questa direttiva (cf. Mic. 2,1-3; Is. 5,8 ecc.). Il re stesso cade sotto questo verdet­to, quando non si comporta bene (cf. Ger. 22,13-19).

  3. Non possiamo dire che la proprietà degli altri non ci interessa, perché ne siamo corresponsabili. Di conseguenza dobbiamo stare attenti a non procurare danni al prossimo. Così leggiamo nel Deuteronomio (22,1-3; Cf. Es. 23,4): “Se vedi smarriti un bue o una pecora di tuo fratello, non devi fingere di non averli scorti, ma avrai cura di ricondurli a tuo fratello. Lo stesso farai del suo asino, lo stesso della sua veste, lo stesso di qualunque altro oggetto che tuo fratello abbia perduto e che tu trovi; tu non fingerai di non averli scorti”.

La Chiesa ha cercato anche se con molti errori di seguire le indicazioni bibliche per cui ancora oggi si può dire cosi:

Ognuno, per conseguenza, deve avere la possibilità di acquistarne e possederne, per provvedere ai suoi bisogni. Ciò significa che nessuno ha il diritto di appropriarsi di quei beni, i quali, non essendo necessari per lui, vengono a mancare della funzione sociale ad essi inerente. Questa funzione sociale consiste nella destinazione, voluta da Dio, dei beni della terra a vantaggio di tutta la comunità umana, mediante un possesso ragionevole e non egoistico da parte di coloro che li detengono. Così un ricco non può far fruttificare i suoi beni, quando la società è in difficoltà e tanti non trovano un lavoro. In tal caso egli ha il dovere d’impiegarli per il bene comune. Perché ciò avvenga lo Stato hai i diritto di espropriare quei beni che ritiene necessari alla collettività. In questa prospettiva si è realizzata in alcune nazioni la riforma agraria. La giustizia esige anche che le “azioni” delle grandi società industriali siano acquistate da quante più persone è possibile, per consentire alla ricchezza di circolare in mani sempre più numerose. i Nei suoi documenti la Chiesa ha dato sagge direttive perché i rapporti tra datori di lavoro e operai siano improntati a quella giustizia sociale e a quella solidarietà tra padroni e lavoratori che tenga conto dell’interesse di tutti. In un’impresa infatti nella quale ognuno lavora per il propri o profitto, senza tener conto degli altri, non ci può essere né giustizia né prosperità, ma solo sfruttamento. Quanto abbiamo detto del rapporto tra padroni ed operai vale anche, in qualche modo, per il rapporto tra nazioni più ricche e nazioni più povere. Le ricchezze del mondo, come abbiamo notato, sono di tutti e debbono essere accessibili E a tutti. Nelle relazioni tra i popoli ognuno deve dare quello che può. Alcuni possono dare le materie prime, altri la tecnologia, altri ancora le forze del lavoro. Lo scambio di questi beni fa parte di quella giustizia tra le nazioni di cui hanno parlato Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II. Quanto abbiamo detto finora fa parte della legge naturale E che il settimo comandamento esprime dicendo “non rubare”. Ma Gesù ci esorta a superare questa legge con la carità. Egli vuole che i rapporti tra le persone e tra i popoli siano ispirati dall’amore. Per questo ci ha indicato come usare nel modo migliore dei beni della terra. “Non potete”, egli dice, “servire a due padroni... Dio e il denaro” (Lc.16,13). Chi ha Dio come unica norma della sua vita saprà usare delle ricchezze per il. proprio sostentamento e non come mezzo di potere e di oppressione dei più deboli. S. Paolo è ancora più esplicito. “Raccomanda ai ricchi”, scrive a Timoteo, “di non cedere all’orgoglio, di non mettere la loro speranza nelle ricchezze incerte, ma in Dio che ci dona in abbondanza perché ne godiamo” (1Tim. 6,17). Chi, pur possedendo il denaro, mette tutta la sua fiducia in Dio, può essere certo di non peccare contro il settimo Comandamento. Egli seguirà un altro consiglio di S. Paolo, secondo il quale dobbiamo usare dei beni della terra come se non li usassimo, col distacco cioè naturale in chi sa che essi hanno un valore soltanto relativo.

Anche questo comandamento apre molti interrogativi; ecco alcuni con dei tentativi di risposta.

  • Che cosa pensare della morale delle tasse? Con ciò tocchiamo già gli effetti sociali del settimo Comandamento. Cosa dobbiamo pensare della morale delle tasse? Per innumerevoli nostri contemporanei non esiste su questo punto un particolare motivo di conflitto, in quanto tutti i contributi da loro dovuti vengono percepiti dallo Stato direttamente attraverso il datore di lavoro. Non così invece avviene per molti altri, e non solo per i lavoratori autonomi dell’industria. Costituisce un’ingiustizia nei confronti del primo gruppo menzionato quando si ritiene una specie di gioco di società o uno sport il menare per il naso l’ufficio delle imposte, e si trova moralmente sostenibile l’opinione che basti pagare di tasse solo ciò che, grazie ai nostri “errori” nella denuncia dei redditi, l’ufficio delle imposte ha finito per stabilire quale nostro debito d’imposta. Nessuno ha qualcosa da dire contro lo sfruttamento di tutte le possibilità legali che ci vengono offerte per risparmiare sulle tasse. Ma è un’assurdità pretendere dalla società e dallo Stato l’attuazione di tutte le immaginabili garanzie sociali ed economiche nonché di tutte le immaginabili istituzioni previdenziali e, contemporaneamente, non voler per principio pagare ciò che, in forza del diritto e della legge, ci viene richiesto. Se riteniamo ingiusta la legislazione tributaria dobbiamo fare ricorso a tutti i mezzi democratici a nostra disposizione affinché vengano modificate le leggi, ma non possiamo appellarci al diritto del più forte là dove milioni di altre persone non hanno la possibilità di un tale diritto.

  • Oggi il commercio si basa sulle “situazioni di mercato”: come può un cristiano comportarsi in questo mondo del denaro?L’orrore della criminalità economica e dello sfruttamento immorale del mercato consiste proprio nel fatto che qui non viene pregiudicato e danneggiato soltanto un singolo uomo, ma, più o meno incisivamente, l’intera collettività, nel suo spazio di libertà e nelle possibilità di realizzarsi ed esprimersi attraverso la proprietà. Quando ci troviamo in simili situazioni, noi dovremmo sfruttare tutte le possibilità che abbiamo per porre fine a un’ingiustizia come questa che colpisce molti cittadini: dallo sciopero sistematico degli acquisti all’azione legale. Del resto una forma particolare di sfruttamento immorale del mercato interessa un numero maggiore di persone: alludiamo agli aumenti indiscriminati degli affitti. Nulla da obiettare contro il fatto che un proprietario di alloggio, mediante l’affitto che richiede, possa non soltanto conservare la sua proprietà e coprirne le spese, ma anche guadagnarne qualcosa. In fondo egli si è acquistato il possesso dell’alloggio con i frutti del suo lavoro. Del resto il possesso di un alloggio non rappresenta un’ “impresa di interesse collettivo”. Ma può, in buona coscienza, un proprietario di alloggio “prendere quanto può ottenere” anche se in questo modo, ad esempio, getta sulla strada una famiglia economicamente tribolata, che non può sostenere un aumento dell’affitto? Anche se oggi le leggi tutelano meglio che nei tempi passati gli inquilini socialmente più deboli, l’aumento illecito degli affitti continua a rimanere un problema etico, in quanto le leggi lasciano sempre un qualche spazio che può venire sfruttato da tali manovre speculative. Chi ha fondamentalmente capito che la totale o quasi totale dipendenza economica di un uomo da un altro uomo o da una società o dallo Stato riproduce, in chiave moderna, il senso e la lettera del settimo Comandamento vietante il sequestro di persona non avrà difficoltà a comprendere, se è un padrone di appartamenti, quale sia al riguardo il suo dovere di cristiano.

  • Il settimo Comandamento parlava nella Bibbia di ratto di persone; oggi, al di là dei sequestri esistono altri modi di “ratto”? La schiavitù non è finita neppure oggi. Da una statistica del 1979 risulta che il commercio degli schiavi è praticato in circa 40 Stati della terra. Non di rado i mercanti ci ricavano un utile di circa tre milioni per ogni capo. Per tenerli buoni durante il trasporto, li stordiscono con la droga. I compratori risiedono soprattutto nella penisola arabica. La schiavitù è anche tuttora diffusa in vari paesi dell’Asia e dell’America latina. Altra forma di ratto è la “tratta delle bianche”. Oggi il ratto di persone umane ha assunto soprattutto la forma del sequestro di ostaggi, rapimento di bambini per estorsione o pressioni politiche. Altre volte si rapiscono addirittura bambini di poveri per trapiantare i loro organi su bambini ricchi e malati.


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