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unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Il “Testamento” dell’Apostolo Paolo

Ultimo Aggiornamento: 01/01/2010 18:48
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Il “Testamento” dell’Apostolo Paolo (dalla II Timoteo)
Vincenzo Labate

Il “testamento”: definizione

“Il testamento è un atto scritto, essenzialmente revocabile, con il quale una persona dispone delle proprie sostanze, in tutto o in parte, per il tempo in cui avrà cessato di vivere”[1]. In senso figurativo si usa anche il termine di “Testamento spirituale”, che è “un’espressione con cui viene tradizionalmente indicato un complesso di disposizioni scritte, che costituisce il lascito spirituale del testatore il quale affida ad altri (discendenti, discepoli, concittadini ecc.) il compito di continuare l’opera da lui intrapresa in vita”[2]. Il termine “testamento” qui usato nel definire la Seconda Epistola di Paolo a Timoteo, non vuole indicare perciò l’apertura di una nuova dispensazione diversa da quella inaugurata dal Signore Gesù Cristo ma, semplicemente, tutta una serie di consigli, ammaestramenti, esortazioni che sgorgano dal cuore paterno ed affettuoso di un anziano servo di Dio cosciente della sua oramai imminente dipartita e, che vuole lasciare in “eredità” ad un giovane ministro.
L’Apostolo l’ha dettati non per Timoteo soltanto, ma per i cristiani di tutti i tempi, poiché egli annunzia anche i nostri tempi
[3].
Egli vuole che la sua testimonianza ed il suo insegnamento vengano tramandati dall’una all’altra generazione da uomini fedeli e capaci, e che i cristiani vi si attengano fermamente non accettando modifiche o innovazioni ma possano fondare la loro vita sulla Parola di Dio. Perciò l’apostolo Paolo ispirato dallo Spirito Santo afferma: “Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona”
[4]. In questa Lettera, l’Apostolo sente veramente prossima la fine della sua “corsa”, e desidera passare il “testimone”[5] a Timoteo suo giovane e fedele collaboratore: “QUANTO A ME, io sto per essere offerto in libazione, e il tempo della mia partenza è giunto. HO COMBATTUTO IL BUON COMBATTIMENTO, HO FINITO LA CORSA, HO CONSERVATO LA FEDE” (II Tim.4:6,7). E rivolgendosi a Timoteo lo esorta: “tu, che hai seguito da vicino il mio insegnamento, la mia condotta…tu persevera nelle cose che hai imparate”…(II Tim.3:10,14).
In altre parole l’Apostolo vorrebbe dire: “Si, Timoteo ora tocca a te, tu hai fatto un ottimo “riscaldamento”, ma ora prendi il “testimone” della mia esperienza e del mio esempio e corri anche tu in modo da riportare il premio”.

b. Il “testamento”: occasione e data

Per quanto riguarda l’occasione della stesura della Seconda Epistola a Timoteo, bisogna innanzitutto dire che molto probabilmente non è stata scritta durante i due anni di prigionia citati dallo scrittore del libro degli Atti. In questa Seconda Epistola troviamo Paolo prigioniero in Roma, abbandonato quasi da tutti, trattato come un malfattore e ripieno del chiaro presentimento di un prossimo martirio, e tutto ciò dopo un viaggio estenuante in Oriente da Mileto a Troas da Cipro a Corinto[6] ecc. Non solo, ma dal libro degli Atti e da alcune Epistole della prima prigionia, si evince che in quei due anni Paolo ebbe con se fino all’ultimo giorno molti amici, era trattato con riguardo e sperava in una prossima liberazione[7], senza contare che egli aveva seguito per venire a Roma un itinerario ben diverso da quello sopra accennato. Probabilmente, dopo la sua liberazione e quel tempo passato a visitare le chiese orientali, Mileto, Troas, Corinto ecc., l’Apostolo fu di nuovo arrestato e condotto a Roma come un malfattore e in quella seconda prigionia scrisse la Seconda Epistola a Timoteo: era circa l’anno 66 d.C. Da Corinto, l’Apostolo aveva scritto a Tito che era sua intenzione svernare nell’Epiro a Nicopoli. Fu in questa città, probabilmente, che il suo lavoro d’evangelizzazione tra un popolo tutto pagano, destò l’attenzione delle autorità e fu di nuovo imprigionato. Infatti, dopo la sua partenza da Roma, nel 63 d.C., le autorità romane avevano mutato le loro disposizioni liberali verso i Cristiani.
Questi, un tempo tollerati perché confusi con gli Ebrei, nei due anni di prigionia dell’Apostolo in Roma, erano cresciuti di numero e, rinvigoriti dalla liberazione dell’Apostolo s’erano messi in evidenza come un’associazione distinta dalla Sinagoga, al punto che un anno dopo, nel 64 d.C. Nerone aveva cominciato ad infierire contro di loro. Tacito negli Annali (XV,44) ci racconta che l’imperatore si era divertito a incendiare mezza Roma, riversandone poi la colpa sui cristiani per farli massacrare, come segue: “Onde liberar sé dall’accusa del popolo, decise di farla cadere sopra altri. Per questo, egli punì con tortura raffinata una razza d’uomini detestati per i loro mali riti, e chiamati volgarmente cristiani. Quel nome derivava da Cristo il quale nel regno di Tiberio fu giustiziato sotto Ponzio Pilato procuratore della Giudea. Per questo fatto, la setta di cui egli era il fondatore, ricevette un colpo che per un tempo arrestò i progressi di una pericolosa superstizione, ma si riebbe subito dopo e si sparse con nuovo vigore, non solo in Giudea sua terra natia, ma finanche nella città di Roma, dove ogni cosa infame ed abominevole affluisce come un torrente da ogni parte del mondo. Nerone procedette con i suoi soliti artifizi. Trovò un branco di scellerati miserabili i quali si lasciarono indurre a confessarsi rei, e sulla testimonianza di questi, molti cristiani furono condannati, pur non essendoci prove certe che fossero loro gli autori dell’incendio. Vennero fatti morire con una crudeltà raffinata, ed ai loro patimenti Nerone aggiunse beffe e derisione. Alcuni furono rivestiti di pelli di belve e poi fatti divorare dai cani; altri furono inchiodati sopra croci, molti furono arsi vivi, e parecchi vennero coperti di sostanze infiammabili che si accendevano la sera per servir di torce nella notte. L’imperatore aprì i propri giardini per far godere i romani di quel tragico spettacolo…”
Essendo tali le disposizioni di Nerone verso i Cristiani di Roma, dopo il 64, è naturalissimo che le autorità dell’Epiro abbiano pensato ad arrestare e mandargli vivo il “capo” riconosciuto dell’odiata setta, cioè Paolo, non appena egli si fece conoscere in quella provincia non ancora evangelizzata, alle porte dell’Italia. Doveva essere al principio dell’inverno quando lo arrestarono e, facendogli attraversare l’Adriatico da Apollonia a Brundusium (Brindisi), lo portarono prigione nuovamente nella capitale. Paolo è solo col diletto Luca e con Tichico, quando viene incarcerato. Tito, venuto da Creta, è stato da Paolo mandato in Dalmazia, Crescente in Galazia, e Dema “avendo amato il presente secolo” è tornato ai suoi affari a Tessalonica. I cari cristiani “della casa di Cesare”
[8] e tanti altri convertiti anni addietro, non sono più, sono morti nell’atroce persecuzione del 64 ed ormai i Cristiani vengono trattati da scellerati. A Paolo non rimane che un duro carcere, dove fatta eccezione per qualche senatore come Pudente o per un ricco asiatico come Onesiforo, a nessuno è permesso di vederlo. Questa volta, non avrà da aspettare a lungo il suo giudizio; la sua morte è sicura, ed è vicina. E’ in mezzo a queste circostanze, che Paolo scrive a Timoteo il quale, svolgeva il proprio ministerio pastorale ad Efeso, in Asia Minore, pregandolo di venire presto per portargli il mantello ed i libri da lui lasciati a Troas. Questa lettera, Paolo la manda per mano di Tichico, restando con Luca e quei pochi i quali, in quei tempi di terrore, osavano dirsi Cristiani in Roma: Eubulo, Lino, Pudente e Claudia.

[Modificato da E-sia 01/01/2010 18:46]

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c. Il testatore

La Seconda Epistola a Timoteo ci fa conoscere gli ultimi giorni del “testatore”; Paolo aveva speso la sua vita per il Signore. Nella seconda Epistola ai Corinzi egli poteva affermare: “…Spesso sono stato in pericolo di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le verghe; una volta sono stato lapidato; tre volte ho fatto naufragio; ho passato un giorno e una notte negli abissi marini. Spesso in viaggio, in pericolo sui fiumi, in pericolo per i briganti, in pericolo da parte dei miei connazionali, in pericolo da parte degli stranieri, in pericolo nelle città, in pericolo nei deserti, in pericolo sul mare, in pericolo tra falsi fratelli; in fatiche e in pene; spesse volte in veglie, nella fame e nella sete, spesse volte nei digiuni, nel freddo e nella nudità. Oltre a tutto il resto, sono assillato ogni giorno dalle preoccupazioni che mi vengono da tutte le chiese” [9]. Questo aveva raccolto Paolo, dopo una vita spesa al servizio del divino Maestro. Ora egli desidera avere il suo vecchio mantello per ripararsi dal freddo del duro carcere e le sue pergamene (forse una copia dei Salmi e dei Profeti), per occupare le lunghe ore della prigionia stretta. Questo è tutto il suo patrimonio! L’Apostolo, anche in questa circostanza è comunque vittorioso. Non lo vediamo come un uomo sconfitto del resto, non lo era stato neanche durante la prima prigionia quando scrivendo ai credenti di Filippi, ispirato dallo Spirito Santo poteva affermare: “Rallegratevi del continuo nel Signore. Da capo dico: Rallegratevi”[10].
Il suo comportamento sino alla fine, non può non sussurrarci, quanto aveva detto qualche tempo prima ai Corinzi: “Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i piú miseri fra tutti gli uomini”
[11]. Ecco come un servo di Dio è pronto alla chiamata estrema. Paolo è trionfante e non solo rassegnato. “…so in chi ho creduto, e son persuaso ch'egli è potente da custodire il mio deposito fino a quel giorno” [12]. “Quanto a me, io sto per essere offerto in libazione, e il tempo della mia partenza è giunto. Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede. Ormai mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che avranno amato la sua apparizione” [13].
“Il Signore mi libererà da ogni mala azione e mi salverà nel suo regno celeste. A Lui sia la gloria ne' secoli dei secoli. Amen”
[14].
Ogni credente dovrebbe arrivare al traguardo con la stessa risoluzione di Paolo; per lui “il vivere è Cristo e il morire guadagno”
[15] ma, è necessario ricordare che prima di morire come Paolo, bisogna vivere come Paolo!

d. L’erede

L’erede è Timoteo, ma anche tutti i servitori di Dio d’ogni tempo che accolgono e faranno propri i preziosi consigli del testatore. Il nome Timoteo è di origine greca; etimologicamente può avere diversi significati: “timorato di Dio”, “che adora Iddio”, “che onora Dio”.
L’apostolo Paolo chiama Timoteo “mio figliuolo diletto e fedele nel Signore”
[16] e “mio vero figliuolo in fede”[17]; questo indica Paolo essere stato lo strumento usato da Dio per la conversione di Timoteo. In occasione del suo primo viaggio missionario, l’Apostolo passò per Listra, in Licaonia, dove condusse a Cristo, Eunice e Loide, la madre e la nonna di Timoteo. Questi fu anch’egli conquistato alla fede cristiana in quel periodo. Sua madre era giudea, il padre greco[18]. Timoteo, divenuto cristiano attivo, fu raccomandato a Paolo dai fratelli di Listra ed Iconio e quando l’Apostolo visitò di nuovo Listra nel corso del suo secondo viaggio missionario (Atti 16:2), Paolo lo scelse quale compagno d’opera. In seguito, per non creare problemi fra i Giudei, l’Apostolo lo fece circoncidere (Atti 16:3). Timoteo accompagnò Paolo in Galazia, quindi a Troas, Filippi, Tessalonica e Berea, dove restò con Sila, mentre Paolo andava ad Atene (Atti 17:14). L’Apostolo ordinò a questi due discepoli di raggiungerlo al più presto in quella città (Atti 17:15). Timoteo vi giunse presto. In I Tessalonicesi 3: 1,2 si vede che Paolo lo rimandò da Atene a Tessalonica. Non sembra che Sila si recasse ad Atene. Quest’ultimo e Timoteo raggiunsero Paolo a Corinto (Atti 18:5; I Tess. 3:6), dove Timoteo restò poi per qualche tempo con Paolo (I Tess. 1:1; II Tess. 1:1). Benché il testo non lo dica, probabilmente accompagnò l’Apostolo nel suo viaggio di ritorno. Timoteo è citato in seguito a proposito del ministero di Paolo ad Efeso.
In I Corinzi 4:17, lo scrittore ci conferma che, prima di scrivere questa lettera, aveva mandato Timoteo a Corinto per reprimervi degli abusi. Però non sappiamo se Timoteo giunse a Corinto in quel periodo (Atti 16:10); sembra in ogni modo che ritornasse ad Efeso poiché, poco prima di lasciare questa città, Paolo mandò Timoteo ed Erasto in Macedonia (Atti 19:22), dove l’Apostolo raggiunse ben presto il suo giovane amico (II Corinzi 1:1). Insieme si recarono a Corinto (Romani 16:21). Timoteo figura nel numero dei discepoli che accompagnarono Paolo a Gerusalemme, al termine del suo terzo viaggio (Atti 20:4). Il testo non dice se Timoteo salì a Gerusalemme col suo “padre” spirituale. Non è menzionato a proposito dell’incarcerazione a Cesarea o del viaggio di Paolo a Roma. Il suo nome è citato però in alcune epistole della prima prigionia
[19].

e. “L’eredità”

Se c’è un testamento, un testatore ed un erede è evidente che vi dev’essere anche un’eredità. Qual era l’eredità che Paolo stava lasciando a Timoteo? La risposta è l’Evangelo! Proprio la “Buona Novella” che Paolo aveva annunziato in tutta la sua pienezza senza tralasciare nessun particolare. Nel discorso di commiato agli anziani di Efeso riportato negli Atti degli Apostoli, Paolo poteva infatti affermare: “...non mi sono tirato indietro dall'annunziarvi TUTTO IL CONSIGLIO DI DIO”[20].
Non aveva fatto alcun conto della propria vita come se gli fosse stata preziosa pur di poter condurre a termine e con gioia, la sua “corsa” e il servizio affidatogli dal Signore Gesù che era di testimoniare dell’Evangelo della grazia di Dio. Adesso che intravedeva la sua imminente dipartita voleva esortare, istruire, incoraggiare il giovane ministro Timoteo a continuare a proclamare con fedeltà TUTTO L’EVANGELO. Nel redigere il “testamento”, l’Apostolo dà all’erede preziosi consigli per continuare l’opera che Paolo stava per lasciare.
In quest’Epistola, Paolo si presenta come “apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio” e saluta Timoteo come il suo “diletto figliuolo”, mostrando il profondo affetto che nutre per lui. Il suo interesse per Timoteo è rivelato dalle costanti preghiere in suo favore (v.3), e dall’amore che traspare dall’ardente desiderio di vederlo (v.4), fatto che l’avrebbe riempito di gioia. L’Apostolo ricorda la “fede non finta” di Timoteo, fede autentica, senza ipocrisia o simulazione che oltre a dimostrare la fiducia che Paolo riponeva nel giovane pastore, vuole sottolineare una delle qualità che ogni fedele ministro di Dio dovrebbe possedere: l’integrità.
Essa non presenta la sistematica trattazione di un argomento in particolare, ma è l’espressione spontanea del cuore di Paolo.

Essenzialmente il lavoro è stato suddiviso in tre sezioni principali:

  1. Esortazione a confessare coraggiosamente l’Evangelo.

  2. Esortazione ad insegnare la sana dottrina.

  3. Esortazione a compiere tutti i doveri del ministerio.

[Modificato da E-sia 01/01/2010 18:45]

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UNA TESTIMONIANZA CORAGGIOSA

Questa è la parte dell’epistola, ove l’apostolo Paolo rivolge delle esortazioni a Timoteo per annunziare la “Buona Notizia” senza lasciarsi spaventare dall’opposizione del mondo. Esse sono: ravvivare il dono ricevuto, non vergognarsi del glorioso Evangelo della salvezza, faticare e soffrire come buon soldato di Cristo. In altre parole vuole scuotere Timoteo ad essere un testimone coraggioso.

1. “…Ravvivare il dono…”
Le parole iniziali del versetto 6 “per questa ragione” fanno da collegamento con la certezza dell’Apostolo circa la fede di Timoteo. Paolo n’è convinto. D'altronde se non l’avesse mancherebbe la condizione essenziale per essere un testimone dell’Evangelo. Chi non crede non può far partecipe ad altri ciò che non ha. Per questo Timoteo viene prima di tutto incoraggiato col ricordargli il mandato affidatogli da Dio. Non gli occorre un nuovo dono per le gravi responsabilità che deve affrontare, ma solo ravvivare ciò che ha ricevuto. Il greco anazopureo (ravvivare) significa o “accendere di nuovo” o “mantenere in pieno ardore”. Un’altra versione traduce: “Ventilare sulla fiamma del dono di Dio”. L’immagine contenuta nel ravvivare è quella di un fuoco che arde lentamente ed ha bisogno di essere attivato dalla ventola in modo da dare tutto il calore e tutta la luce di cui è capace. Non è necessario, pertanto, pensare che Timoteo avesse perduto il suo antico ardore, pur se indubbiamente egli, come cristiano e ministro dell’Evangelo, necessitava di un incentivo per mostrare una fiammeggiante combustione di quel fuoco. Egli non doveva lasciarsi spaventare e scoraggiare dalle difficoltà, ma con rinnovato zelo e coraggio doveva mettere in piena attività i doni ricevuti per lo sviluppo dell’opera di Dio.
Fu utile a Timoteo il ricordo di Paolo di ravvivare il dono ricevuto; né saranno superflue le fraterne esortazioni rivolte ai ministri dell’Evangelo ed a tutti i cristiani di ogni tempo di ravvivare il dono che Dio ha affidato a ciascuno. Tutti hanno ricevuto qualche dono; si tratta quindi di metterlo in piena attività per il servizio del Signore. Un dono non adoperato è come una fiamma non alimentata che si spegne a poco a poco; una facoltà che si atrofizza. I doni, si ravvivano con la preghiera; essa ci mette in contatto con Dio e ci dà l’ispirazione necessaria. Con la meditazione della Sua Parola che c’insegna i diversi modi per farli fruttare. Attraverso una vita ripiena di Spirito Santo, con cui sarà possibile annunciare l’Evangelo efficacemente
[21] e infine, con l’attività pratica, il metterli cioè quotidianamente in opera. Sarà vero il detto che “Chi fa sbaglia” ma, non c’è nulla di più errato che lasciare inoperosi i doni di Dio, i quali potrebbero fare tanto bene agli altri.[22]
Il dono (charisma) che troviamo anche in I Tim.4:14 è sicuramente, più che una dote naturale; è un’attività soprannaturale dello Spirito Santo. In entrambi i casi, la concessione del dono è unita all’imposizione delle mani e dev’essere intesa alla luce dei compiti speciali ai quali Timoteo era stato chiamato ad operare.
E’ da rilevare che il charisma è specificato essere in (en) Timoteo e ciò, chiarisce che il vero dono di Dio è una grazia interiore e non un’operazione esterna. Nessuno dovrebbe cercare di prendere un “ufficio” se non ha ricevuto il dono necessario per adempierlo.
I Suoi doni, Dio li conferisce con l’azione della Sua Provvidenza e del Suo Santo Spirito ma, non ha promesso di conferire doni, ogni qualvolta un collegio di anziani od un rappresentante di chiesa, impongono le mani ad un candidato. Da un attento esame della Scrittura si evince che l’imposizione delle mani non era una particolare cerimonia in cui veniva trasmesso un “fluido” speciale che passava dall’officiante al candidato; Simon mago pensava purtroppo così.
[23] La Parola di Dio c’insegna[24] che con l’imporre le mani non si fa che riconoscere un dono già conferito dal Signore e appartare per un dato ufficio colui che lo possiede, implorando l’effusione abbondante dello Spirito Santo. La verità della Scrittura, fa a pugni con le convinzioni di alcune persone, purtroppo a volte anche credenti, che vanno sempre attorno sperando che qualcuno, magari qualche “predicatore famoso”, gli possa dare alcunché. Niente di più errato! Nessuno può darci nulla! “Ogni donazione buona e ogni dono perfetto vengono dall'alto, discendendo dal Padre degli astri luminosi presso il quale non c'è variazione né ombra prodotta da rivolgimento”.[25] Un noto predicatore pentecostale, attaccato alla “fedele Parola”[26] affermava: “Se sei salvato, ripieno di Spirito Santo, allora è già tutto dentro di te; conservalo e ravvivalo! Il Signore opera e ravviva i doni che offre ai credenti. Non hai bisogno che qualcuno venga a dirti: “Dio m’ha detto di dirti”. Dio può dirlo direttamente a te con la Sua Parola perché Egli ti conosce”.[27]
L’esortazione a ravvivare il dono è inoltre importante perché, ogni ministro cristiano ha bisogno talvolta di ritornare all’ispirazione della sua chiamata, affinché gli venga ricordata non solo la grandezza della sua vocazione ma anche la portata della grazia divina che gli dà la possibilità di metterla in pratica. Certo, ogni operaio cristiano impegnato in un compito anche modesto ha bisogno della certezza che Dio non designa nessuno ad un incarico senza provvedere un dono speciale idoneo per il suo adempimento.
“Poiché Iddio ci ha dato uno spirito non di timidità, ma di forza e d'amore e di correzione”
[28]. In questo versetto il “dono” è definito in modo più preciso dato che la congiunzione poiché unisce strettamente questo versetto con quello precedente. Paolo voleva ricordare al giovane Timoteo che il dono da lui ricevuto per l’intervento dello Spirito Santo, era prima di tutto spirito “di forza”. S’intende di potenza, di forza interna, di coraggio morale, che trasforma un giovane come Timoteo in un eroe impavido di fronte al mondo. Egli non si doveva lasciare intimorire dagli ostacoli, dalle beffe, dalle minacce, dalle sofferenze. Ad uno spirito di “timidezza” (dal greco deilia che può essere tradotto anche con “codardia”, “viltà”), l’Apostolo contrapponeva lo spirito di forza, il che, non significa che il servo di Dio debba avere necessariamente una forte personalità, ma che egli ha forza di carattere sufficiente a mostrarsi coraggioso nell’esercizio del ministerio.
L’aver la forza dello Spirito Santo in se stessi ha reso molti uomini, naturalmente timidi, capaci di sviluppare un coraggio non d’origine propria quando sono chiamati nel nome di Dio a svolgere un difficile servizio.
In secondo luogo il “dono” ricevuto è spirito “d’amore”. Esso è indispensabile a tutti i cristiani ma soprattutto ai ministri di Cristo e Paolo, sapeva bene quel che diceva, proprio perché alcuni anni prima, ispirato dallo Spirito Santo aveva scritto: “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente. L'amore è paziente, è benevolo; l'amore non invidia; l'amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. L'amore non verrà mai meno…”
[29]
Lo spirito d’amore ci porta non all’indifferenza, ma alla pazienza, al perdono, alla compassione verso i fratelli e gli uomini in genere, che spinge i servi di Dio a spendere tutta la loro vita per il loro progresso spirituale e la loro salvezza, perché “…L'AMORE DI CRISTO CI COSTRINGE…”[30]
L’ultima parola adoperata per caratterizzare le disposizioni prodotte dallo Spirito Santo viene tradotta in diversi modi: “sobrietà”, “saggezza”, “senno”, “consiglio”, “disciplina”, “correzione” o più letteralmente “autocontrollo”.
E’ l’attitudine e la disposizione per le quali il ministro di Cristo, animato dall’amore per le anime, forte della forza di Dio e della sua buona coscienza, si sente portato a richiamare i propri fratelli sulla retta via “…ad ammonire i disordinati, a confortare gli scoraggiati, a sostenere i deboli, a essere pazienti con tutti”
[31], e a chiamare a ravvedimento i peccatori. Certamente per adempiere quel dovere con saggezza e coraggio Timoteo doveva prima esercitare una severa disciplina sopra se stesso.


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2. “Non avere…vergogna”
Un’altra delle caratteristiche di un testimone coraggioso è quella descritta nel versetto 8 del primo capitolo. Il dunque fa da collegamento col versetto precedente. Per essere un efficace “banditore” dell’Evangelo Timoteo non doveva vergognarsi di Esso anche, a costo di sofferenze. L’Apostolo, aveva esortato il giovane ministro a ravvivare il dono affidatogli da Dio, adesso voleva precisare come, in che modo, con quale attitudine, far valere pienamente questo dono. L’esortazione a non vergognarsi non implica necessariamente che Timoteo si fosse reso colpevole di qualche debolezza, ma non era superfluo rinfrancare il suo coraggio di fronte ai nuovi pericoli che minacciavano le chiese. La timidezza naturale produce subito la vergogna e, gli appelli al coraggio non sono mai fuori luogo, anche per molti che hanno dimostrato la robustezza della loro fede.
Nella Scrittura più volte Gesù aveva rivolto ai Suoi l’esortazione a non vergognarsi dell’Evangelo: “Perché se uno si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre suo con i santi angeli”
[32]. Paolo la rivolge qui ad un ministro, il che ci mostra che nessuno per quanto “elevata” la sua posizione, o grandi i suoi doni o privilegi, può dirsi al riparo dalla tentazione di vergognarsi in un modo o nell’altro dell’Evangelo. L’esortazione è rivolta ad un giovane ministro, e questo, può servire a mettere in guardia tutti i giovani, contro il pericolo della vergogna in un’età in cui, se da una parte c’è grande entusiasmo, dall’altra, l’esperienza è ancora debole e si può essere sensibili alle beffe ed all’avversione del mondo. In particolare è rivolta ad un giovane di carattere un po’ timido perché, chi possiede tale personalità, è più portato a lasciarsi scoraggiare e spaventare dalle circostanze o da quanti contrastano la verità. I modi in cui uno si potrebbe vergognare dell’Evangelo sono diversi. Ci si vergogna, non solo quando come Pietro si rinnega Gesù, ma anche quando si lascia a poco a poco affievolire la fiamma dello zelo della testimonianza.
Questo può succedere quando ci si lascia prendere troppo dalle sollecitudini della vita, perdendo di vista il bisogno delle anime perdute. Ci si vergogna inoltre, quando non si predica “Tutto l’Evangelo” o quando si rifiuta di sopportare quelle sofferenze o privazioni che la causa di Cristo richiede da ogni credente.
Nel caso di Timoteo questi, poteva correre il rischio di vergognarsi non solo della Parola di Dio ma, anche delle catene di Paolo dal momento che l’incarcerazione per amore dell’Evangelo implicava un marchio d’infamia nella società. Altri in quel tempo, per timore, avevano abbandonato l’Apostolo; Timoteo non doveva imitarli.
L’esortazione “non avere dunque vergogna” è arricchita da alcuni importanti imperativi.

a. “…soffri…”
Questo imperativo indica la prontezza a condividere, se occorre, le stesse afflizioni che gli altri hanno sopportato per amore dell’Evangelo. La parola usata per esprimere questo concetto è sunkakopatheo, che significa “prendersi la propria parte di maltrattamenti”. Timoteo doveva sapere che in “eredità” non aveva ricevuto solamente l’onore d’essere ministro dell’Evangelo ma anche la “propria parte” di sacrificio, di sofferenza per amore di Esso. Ogni giovane che aspiri all’ufficio di vescovo
[33] dovrebbe essere cosciente di quest’importante verità. L’apostolo Paolo ispirato dallo Spirito Santo spiega come può riuscire a soffrire per Cristo ed essere vittorioso.
Innanzi tutto, perché siamo “sorretti dalla potenza di Dio” il che, significa, che la forza morale necessaria per sopportare qualsiasi sofferenza non risiede nell’uomo ma viene data da Dio. Gesù disse: “…Senza di me non potete fare nulla”
[34]. In secondo luogo ci deve essere la consapevolezza della propria fede; e poter dire: “…SO IN CHI HO CREDUTO…” [35].

b. “Attieniti…”
Questo secondo imperativo che troviamo al versetto 13 del capitolo primo dell’Epistola, letteralmente è abbi, vale a dire “tieni dinanzi a te” il modello delle sane parole. Una parola interessante è adoperata dall’apostolo Paolo per indicare il “modello”: Hupotuposis. Il termine dà l’idea di uno schizzo che un architetto potrebbe eseguire prima di compiere il progetto dettagliato di un edificio. Le “sane parole” cioè, sono la base, il fondamento, per costruire qualcosa di durevole ed eterno e per essere dei testimoni efficaci e coraggiosi.
Il modo con cui Timoteo poteva conservare fedelmente la sana dottrina è indicato dalle parole “con fede e con l’amore ch’è in Cristo Gesù”. Una conservazione meramente intellettuale della verità, produce solo un’ortodossia morta. Solo i cuori pieni di fede e di quell’amore che Dio ha sparso per lo Spirito Santo, sono adatti per conservare e a spandere la verità evangelica.

c. “Custodisci”
Quest’imperativo è un’amplificazione del precedente ed ha un accento speciale sulla custodia del primo deposito: l’Evangelo. La stessa parola (paratheke) del versetto 12 è adoperata anche in quest’occasione, ma mentre lì il deposito è custodito saldamente nelle mani di Dio, qui lo stesso Timoteo doveva garantire la sicurezza.
Sebbene sia più accentuato l’elemento umano, si riconosce immediatamente che Timoteo non poteva riuscire a custodirlo senza il Suo aiuto. Questo può venire soltanto “per mezzo dello Spirito Santo che abita in noi”. Timoteo come ogni ministro dell’Evangelo deve lasciarsi guidare e sostenere dallo Spirito di Dio, senza contristarlo o spegnerlo. Egli è Spirito di luce e darà piena conoscenza della verità, intendimento per discernerla dall’errore, sapienza nell’applicarla e difenderla. È Spirito di forza e darà il coraggio necessario. È Spirito di vita e ravviverà la fede e l’amore nel cuore del giovane testimone dell’Evangelo. Sapienza umana, capacità d’organizzazione ecclesiastica senza l’unzione dello Spirito Santo nella vita del servo di Dio, non valgono a niente se si vuole conservare nei cuori e nelle chiese la verità divina.
Le recenti esperienze che Paolo aveva fatto avevano dimostrato l’attualità dell’esortazione rivolta a Timoteo, di non vergognarsi dell’Evangelo. Parecchi collaboratori l’avevano abbandonato; il dovere di restare saldi, imitando i fedeli e i devoti, è tanto maggiore in quelli che rimangono.

3. Essere fedeli nel ministerio
Dopo aver esortato Timoteo a ravvivare il dono ricevuto e a non aver vergogna della testimonianza dell’Evangelo, Paolo voleva esortare il giovane ministro ad essere fedele al proprio ufficio.
Questa esortazione ci viene presentata sotto tre aspetti diversi che si completano a vicenda.
Innanzi tutto, Timoteo doveva rinnovare del continuo la provvista di forza interna di cui aveva bisogno. In secondo luogo, doveva provvedere alla formazione di altri operai che con lui e dopo di lui dovevano predicare la Parola della vita. Infine, Timoteo non doveva indietreggiare dinanzi alle fatiche, ai sacrifici ed alle sofferenze connesse col disimpegno dell’ufficio affidatogli dal Signore.

a. “Fortificati”
“Tu dunque, figlio mio, fortíficati nella grazia che è in Cristo Gesù”
[36]. Timoteo doveva “fortificarsi”, una tipica parola paolina (endunamoo) che ricorre con lo stesso significato in Ef.6:10: “Del resto, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza”. Questa forza spirituale di cui il giovane ministro aveva bisogno, la poteva trovare nella grazia di cui Cristo è la fonte per tutti quelli che sono uniti a Lui.[37] La grazia era l’elemento, in cui Timoteo, poteva trovare il vigore che gli mancava, era “l’aria” che doveva respirare a pieni polmoni per essere ripieno di forza.
L’insegnamento è valido per i servi di Dio di ogni tempo; per far l’opera di Dio bisogna essere forti di forza interna, spirituale. Più sono grandi le difficoltà, le opposizioni, i pericoli, e maggiore dev’essere nel cuore la forza della fede, della risoluzione di servire, amare Dio e gli uomini. Questa forza che ha la sua sorgente nella grazia di Dio bisogna cercarla in preghiera e in una vita di comunione col Signore; tutto questo dipende da noi, perché, se siamo deboli e mancanti la colpa è nostra e non della grazia di Dio ch’è capace di far di un giovane timido e di salute cagionevole un eroe ed un testimone della fede.
[38]

b. “Affidale ad uomini fedeli”
“…le cose che hai udite da me in presenza di molti testimoni, affidale ad uomini fedeli, i quali siano capaci d'insegnarle anche ad altri”. Timoteo doveva “affidare” (paratithemi) ad altri, ciò che aveva udito. Il verbo è già usato in I Tim.1:18, riguardo all’attribuzione del mandato a Timoteo: “Io t'affido quest'incarico, o figliuol mio Timoteo, in armonia con le profezie che sono state innanzi fatte a tuo riguardo, affinché tu guerreggi in virtù d'esse la buona guerra”. Esso appare in Atti 14:23 ove Barnaba e Paolo nominarono gli anziani e poi li affidarono al Signore, ed anche in Atti 20:32 in cui Paolo analogamente affidò gli anziani di Efeso a Dio. Il concetto è chiaramente di affidare qualche cosa ad un altro per una sicura custodia.
La trasmissione della verità cristiana non deve essere mai lasciata al caso e non è evidentemente affidata casualmente ad ogni cristiano, ma solo “ad uomini fedeli, i quali siano capaci di insegnarle anche ad altri”.
Sono perciò richiesti due requisiti: la fedeltà alla verità, cioè una fedeltà che è stata provata, ed un’attitudine ad insegnare, “capaci” per la loro conoscenza della verità e per i loro doni di parola, il che non è dato a tutti.
[39] Come Paolo aveva provveduto a formarsi dei collaboratori, allo stesso modo Timoteo doveva provvedere a fare lo stesso. “L’opera di Dio deve andare avanti”, era questo il sentimento dell’apostolo Paolo e di quanti servono il Signore.


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01/01/2010 18:48
 
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c. “Sopporta, lotta, fatica”
Per incoraggiare Timoteo ad essere fedele al proprio ufficio, l’apostolo Paolo ispirato dallo Spirito Santo usa tre esempi suggestivi: il soldato, l’atleta ed il contadino.

L’esempio del soldato
Le immagini militari sono spesso state usate come esempio dall’apostolo Paolo
[40]. Egli, aveva avuto a che fare fin troppo a lungo coi soldati romani nelle sue varie prigionie ed anche in questo momento in cui scrive la seconda a Timoteo era guardato dai soldati.
Ogni cristiano è soldato di Cristo, ma lo sono in senso più completo coloro che si danno interamente al ministerio dell’Evangelo. Il Capo che li ha arruolati ed a cui ubbidiscono è Cristo; i nemici da combattere sono tutto ciò che si oppone al regno di Cristo; le armi non sono carnali ma spirituali “…infatti le armi della nostra guerra non sono carnali, ma potenti nel cospetto di Dio a distruggere le fortezze”
[41], né mancano per loro i disagi, le fatiche ed i pericoli se si vuole essere buoni soldati. Il soldato serviva da mirabile illustrazione di coraggio a Timoteo che probabilmente era tutt’altro che militaresco nel suo atteggiamento verso il “non invidiabile” mandato di Efeso. “Sopporta…le sofferenze” significa quindi che ogni cristiano deve aspettarsi in qualche misura dei travagli, come accade ad ogni soldato. Condizione di un buon servizio militare è il non essere trattenuto o distratto dagli affari infatti, “Uno che va alla guerra non s'immischia in faccende della vita civile, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato”[42]. La parola qui usata è s’impaccia (o s’immischia dal greco “emplekomai”), che dà l’idea di un soldato le cui armi sono impigliate nel mantello. La cosa principale è pertanto la rinuncia a tutto ciò che intralci le reali mete del soldato di Cristo. In altre parole, non c’è nulla di intrinsecamente colpevole nelle faccende della vita finché non impacciano. Allora esse devono essere decisamente gettate da parte. La ragione fondamentale di tale rinuncia è poi menzionata per rafforzare il valore dell’esempio.
Un soldato deve compiacere il suo comandante, Colui che l’ha arruolato.. Non si poteva trovare un esempio più mirabile per illustrare la misura di ciò che Cristo esige dai Suoi ministri.

L’esempio dell’atleta
“ Allo stesso modo quando uno lotta come atleta non riceve la corona, se non ha lottato secondo le regole”
[43]. Il paragone è uno di quelli che Paolo adoperava volentieri perché tratto da usi popolari greci, nella fattispecie i giochi olimpici. Per arrivare ad ottenere il premio, la corona che il presidente dei giochi metteva sul capo del vincitore, era necessario che l’atleta osservasse le leggi, prima e durante le gare. Prima di essere scelti per partecipare alla competizione gli atleti dovevano, infatti, pronunciare il giuramento di aver compiuto dieci mesi di allenamento. Un atleta che non si fosse sottoposto alla necessaria disciplina, non solo non avrebbe avuto la possibilità di vincere e di essere così coronato, ma avrebbe abbassato il tono dei giochi. Di conseguenza erano previste severe penalità per tutti quelli che infrangevano le regole. Questo secondo esempio applicato al ministerio cristiano, pone l’accento sull’assoluta necessità dell’autodisciplina.

L’esempio del contadino
Il terzo esempio che l’Apostolo dà a Timoteo per incoraggiarlo ad essere fedele nel ministerio è quello del “lavoratore che fatica”.
“Il lavoratore che fatica dev'essere il primo ad avere la sua parte dei frutti”
[44]. Si potrebbe tradurre meglio con “il fattore che lavora sodo”, il che ci parla di una fatica diligente.
Chi pota, vanga e falcia bagnato dei suoi sudori ha il diritto di godere per primo i frutti del campo. La lezione è evidente: nell’adempiere fedelmente il ministerio bisogna faticare, ma la fatica non sarà vana
[45] perché ci saranno i frutti.

Per essere fedele al proprio ufficio ogni ministro dell’Evangelo dovrebbe ricordarsi anche altri due imperativi dell’Apostolo.
Il primo è considera (“intendi”, “rifletti”) “poiché il Signore ti darà intelligenza in ogni cosa”. Dio è Colui che da sapienza per esserGli fedeli.
Il secondo è ricordati. “Ricordati di Gesù Cristo, risorto d'infra i morti, progenie di Davide, secondo il mio Vangelo”
[46]. Qui Paolo sembra voler dire: “Se tutte queste esortazioni e consigli non dovrebbero bastarti; quando non ce la fai più, RICORDATI DI GESU’ CRISTO!”
Il ricordo di Colui che ha sofferto per primo, deve essere d’ispirazione e d’incoraggiamento per tutti i ministri dell’Evangelo a proseguire nonostante le vicissitudini della vita. Il premio è grande!
“Sii fedele fino alla morte, e io ti darò la corona della vita”(Apocalisse 2:10).

_____________________________________

  1. Grande Lessico della Lingua Italiana Treccani

  2. Ibidem

  3. II Tim.3:1-5; 4:3,4

  4. II Tim.3:16,17

  5. Testimone: bastoncello che nelle corse podistiche a staffetta viene consegnato da un atleta al successivo della stessa squadra, per testimoniare l’effettiva continuità fra le diverse frazioni della gara (Diz. Della Lingua Italiana Garzanti). 

  6. II Tim.4:13,20

  7. Atti 28:31; Filem.22; Fil.1:25; 2:24

  8. Filippesi 4:22

  9. II Cor.11:23-28

  10. Filippesi 4:4

  11. I Cor. 15:19

  12. II Tim1:12

  13. II Tim.4:6-8

  14. II Tim.4:18

  15. Filippesi 1:21

  16. I Cor.4:17

  17. I Tim.1:2

  18. Atti 16:1

  19. Fil.1:1; 2:19-22; Col.1:1; Filem.1

  20. Atti 20:27

  21. Atti 1:8; 4:31; I Tess. 1:5

  22. I Pietro 4:10,11; Giac.4:17

  23. Atti 8:18,19

  24. Atti 13:2-4

  25. Giac.1:17

  26. Tito 1:9

  27. C.E. Greenaway

  28. II Tim.1:7

  29. I Cor.13:1-8

  30. II Cor.5:14

  31. I Tess.5:14

  32. Marco 8:38

  33. I Tim.3:1

  34. Giov.15:5

  35. II Tim.1:12

  36. II Tim.2:1

  37. I Cor.15:10; II Cor.12: 1-10; Fil.4:13; II Tim.4:17

  38. Gios.1:5,6; Ger.1:18,19

  39. I Tim.3:2

  40. Rom.6:13; 7:23; I Cor.9:7; II Cor:6:7; Ef.6:11-18

  41. II Cor.10:4

  42. II Tim.2:4

  43. II Tim.2:5

  44. II Tim.2:6

  45. I Cor.15:58

  46. II Tim.2:8


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