1. La presenza Alcune cose su questo tema le abbiamo già accennate, ma ora bisogna entrare nel fulcro. Quando consideriamo una parola o una scena del Vangelo non consideriamo un testo ma colui di cui il testo parla e a cui si riferisce: la persona di Gesù. Ciò significa più di quanto detto prima: ossia che lo Spirito attualizza per noi attraverso i secoli detta scena; significa piuttosto che Gesù Cristo - in concomitanza con questo testo - si offre a noi come il Presente e Interloquente ed è proprio attraverso questo testo che parla, attraverso questa parola da lui espressa o questo miracolo. Dunque non solo sulla base di una generale onnipresenza di Dio, ma della presenza concretizzata proprio in questa parola, gesto o atteggiamento. Questo passaggio dalla lettera scritta non al Spirito ma al Signore vivente sembra a molti difficile, sebbene in fondo sia la cosa più facile. Io sto di fronte al mio Signore ed egli si rivolge personalmente a me. Egli stesso si rivolge a me nella misura in cui è la Parola, la Parola del Padre in tutte le sue forme umane, sia il parlare che il tacere, sia il grido di esultanza verso il Padre che il pianto su Gerusalemme, sia il monito che la consolazione, sia il gesto umile che quello imperioso. Parola Lui lo è sempre. E Parola ora proprio per me. Ma già tra uomini il discorso non è mai solubile dall'aprirsi della persona: essa vuole esprimersi, essere sentita e presa in considerazione. Cosi in ogni modalità del parlare di Gesù è presente lui stesso che si vuole annuncia - r - è e donare come persona, come Parola del Padre. La parola concreta, parlata (o taciuta) non divisibile dalla Parola che Lui stesso è. E questa Parola che è lui stesso non vuole solo avvicinarsi a noi, magari fino al nostro orecchio sensibile o spirituale, ma con la sua interpellanza vuole colpire la nostra persona nel suo nocciolo più profondo. Ecco perché più sopra, quando Parola ed Eucaristia furono così intimamente accostate, potevamo paragonare la meditazione alla comunione. Cristo, che sembra stare davanti a noi, esige ingresso nella nostra vita per un pasto in comune: «Ecco, io sto davanti alla porta e busso; se qualcuno ascolta la mia voce e apre, entrerò da lui e cenerò con lui e lui con m'e» (Ap 3,20). Ciò che significa í per Gesù questa reciprocità del desinare lo sappiamo bene: si tratta di uno scambio dell'essere più profondo: ognuno diventa cibo per l'altro. Nella meditazione questo scambio non ha l'uniformità (solo apparente) del sacramento, ma mostra la sua ricchezza inesauribile attraverso tutte le variazioni della parola evangelica. Infatti in tutte le espressioni di Gesù nel Vangelo possiamo e dobbiamo comprenderci come accoglitori della Parola, non solo nelle parole di esortazione o di consolazione o anche in quelle di monito rivolte ai discepoli, ma certamente anche nelle dure parole di rifiuto dirette ai Farisei (Mt 23). Anche queste parole non hanno un semplice valore passato ma valgono al presente per la Chiesa, per noi. Non c'è nessuna scena in cui anche noi non siamo implicati: la scena in casa di Simone fariseo, nella quale dobbiamo ascoltare sia la parola rivolta a questi, sia quella rivolta alla peccatrice ai piedi di Gesù: entrambe ci interessano. E così sempre. E ogni volta la singola parola non è un'espressione occasionale, ma annuncio dell’essere di Gesù. Del suo essere infinitamente ricco e mai contraddicentesi, sempre unitario, mentre dalla nostra parte esiste quella molteplicità di contraddizioni generate dall'annuncio di Gesù: noi siamo , gli ingrati, i lontani, impenitenti, noi coloro che cercano conversione e accoglienza, noi i chiamati che non possono mai essere tanto sicuri di sé, che Gesù non li possa interpellare con le parole: «Volete andarvene anche voi?» (E non sono scappati tutti, quasi tutti, nell'ora decisiva?). Così non c'è parola o gesto di Gesù di cui possiamo dire: non mi tocca. Dobbiamo però fare attenzione che in quanto cristiani possiamo meditare solo secondo il Nuovo Testamento, ossia non possiamo immaginarci altro giudice della nostra colpa se non colui che, portando i nostri peccati, è anche il nostro salvatore. Le cinque meditazioni sui peccati nel libretto degli Esercizi Spirituali sfociano tutte in un «dialogo» con il Crocifisso; anche l'ultima severa meditazione sull'inferno si conclude con un'azione di grazie al Redentore che non mi ha fatto cadere nel pericolo della dannazione con «l'interruzione della mia vita» e che anzi «mi ha rivolto continuamente una così grande pietà e misericordia» (Esercizi Spirituali, n. 71). Naturalmente «l'amore perfetto scaccia la paura» (1Gv 4,18), ma un tale amore non potremo mai attribuircelo. «Il timore rimane ordinato alla punizione» e noi sappiamo che l',abbiamo meritata. Ma possiamo comprendere questa punizione come una forma della misericordia di Dio che ci vuole purificare e affermare che siamo pronti a riceverla da Lui in questo senso. Questo è un tema molto ampio, perché disponibilità al castigo per la nostra colpa è inseparabile dal patire con Gesù per tutte le colpe e perciò anche nascostamente legata alla disponibilità ad espiare per la colpa di altri, conosciuti e sconosciuti. Gesù ci viene incontro nel modo più immediato come Parola di Dio nei Vangeli, perciò le nostre meditazioni si atterranno con preferenza a questi. Ma anche le lettere degli Apostoli non ci rendono presente altro se non Lui, sia che parlino direttamente di Lui o della sua autopresentazione nella vita dei cristiani - così direttamente come nella vita di Paolo, che spiega se stesso totalmente in rapporto a Cristo. O l'eco del Vangelo negli Atti degli Apostoli e tutto ciò che anche nell'antica Alleanza è espresso con riferimento al futuro compimento nel Messia. «Voi scrutate le Scritture, perché pensate di trovare in loro vita eterna, ma non volete venire da me per avere la vita… Se voi credeste a Mosé, mi credereste, perché di me egli ha scritto» (Gv 5,39 ss.46). Una meditazione su parole ed avvenimenti veterotestamentari non sarebbe cristiana se non fosse attuata nella presenza del perfezionatore e con lo sguardo verso la sua pienezza. Un'ultima cosa: non si può contemplare il Signore presente come un oggetto o un'idea, ma solo come colui che è il dono del Padre a noi e perciò ci rivolge un'interpellanza. Infatti ogni grazia contiene l'esigenza di corrisponderle, ogni contemplazione (theoria) contiene in sé già il momento della conversione (praxis). Perciò non esiste nella meditazione una precisa delimitazione tra gli atti dell'intelletto e quelli della volontà. Paolo, sopraffatto dalla visione del Signore, gettato a terra, ha un'unica risposta: «Signore, cosa vuoi che io faccia?» (Atti 9,6). Non che lo sguardo del meditante si debba prematuramente distogliere da Gesù per applicare a se stesso considerazioni morali; ma nella contemplazione stessa e per vedere e comprendere meglio e più profondamente, bisogna intraprendere anche e sempre una trasformazione del proprio stato. Una trasformazione che ultimamente non procede dal mio sguardo su me stesso o anche solo dal mio sguardo su Gesù, bensì dal suo sguardo su di me, lui che è «un giudice dei pensieri e dei sentimenti del cuore... Tutto giace nudo e aperto davanti agli occhi di colui cui dobbiamo rendere ragione» (Ebr 4,12 ss.). 2. La Parola silenziosa Che Gesù sia la Parola del Padre non solo nel suo parlare con gli altri ma in tutta la sua esistenza, che include ogni umana azione e comportamento, è già stato detto. Quando egli parla e ammaestra esplicitamente, allora le sue parole hanno senso soltanto se introducono nelle dimensioni del suo essere intimo, della sua autocomprensione, della sua missione dal Padre, della sua vita dal Padre e verso il Padre. La parola parlata è come la punta di un triangolo che poggia a terra e che si apre in alto verso l'infinito. La sua parola è solo l'occasione offerta di ascendere verso questa apertura. La parola invita in primo luogo gli stanchi e oppressi: «Venite a me, io (non la mia parola) vi ristorerò» (Mt 11,28). Ma un logos concluso in se stesso non potrebbe ristorare ma solo prosciugare, se non venisse da più lontano di se stesso, dalla fonte originaria del Padre, e se non rimandasse più lontano di se stesso, poiché può offrire l'acqua che proprio in chi si disseta «sgorga in vita eterna» (Gv 4,14), lo Spirito Santo. Questo solo è il senso del suo parlare. Dove il vertice della parola parlata non si apre verso l'alto («non si accorgevano che parlava loro del Padre») li egli interrompe il dialogo, sebbene «abbia ancora molto da dire e da giudicare su di voi. Ma perché parlo ancora con voi?» (Gv 8,25). Questa interruzione del dialogo - che già nella maggior parte dei dibattiti del vangelo di Giovanni era un «dialogo tra sordi» - avviene definitivamente nella passione, dove ogni invito a penetrare nelle profondità del Logos è inutile già dall'inizio. Così Gesù tace davanti a Caifa (Mt 26,63), davanti a Erode(Lc 23,9) e infine anche davanti a Pilato(Mt 27,12.14; Gv 19,19) e parla solo col suo silenzio: «Egli fu maltrattato e si lasciò umiliare e non aprì la bocca, come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori» (Is 53,7). È il compimento di quel tacere di Dio, per il quale non ha più senso parlare, per cui incatena anche il suo profeta Ezechiele e lo fa ammutolire (Ez 3,25 ss.). Questi parlerà solo per gesti simbolici (come anche le stazioni della Via Crucis di Gesù sono parole dette da muti gesti) fino al giorno in cui uno scampato da Gerusalemme comunicherà agli esiliati la rovina della città e il popolo riconoscerà che la parola di Jahwe è veritiera (Ez 24,27; 33,22). Ma ciò si realizza evangelicamente nelle parole di Gesù in croce quando proclama l'ultima verità del Padre nel grido dell'abbandono, ma contemporaneamente si abbandona con un alto grido nelle mute mani del Padre per essere nel giorno della morte, al Sabato santo, l'inespressa ma tuttavia tonante parola. Bisogna dire in primo luogo che il silenzio di Dio e di Gesù non è mai insignificante. una modalità che, più forte di qualsiasi proclamazione, rivela il suo vero essere. Ignazio di Antiochia ne sapeva molto su questo tema e ne parla già nell'ambito della propria passione: «Meglio è tacere ed essere che parlare e non essere. È cosa buona insegnare se chi parla pratica ciò che insegna. Uno solo è il maestro (Cristo), che disse e fu fatto e le opere che egli compì nel silenzio sono degne del Padre. Chi comprende veramente la parola di Gesù è in grado di capire anche il suo silenzio, per giungere cosi alla perfezione e per operare (come Gesù) attraverso la sua parola ed essere conosciuto attraverso il suo silenzio» (Ef 15,1-2). Gesù agisce qui non, solo parlando ma anche tacendo e colui che lo segue in ciò può essere esortato dal suo silenzio: è dunque - come quello di Dio - un silenzio significativo. Naturalmente Ignazio parla anche del «Dio unico che si è rivelato attraverso suo figlio Gesù Cristo, che è la sua Parola uscita dal silenzio» (Magn 8,2) e parla della concezione di Maria, della nascita così come della morte del Signore come di «tre misteri altisonanti che furono compiuti nel silenzio di Dio» (EJ 19,1). In questo silenzio di Dio sono compiuti questi «misteri altisonanti», ma «i principi di questo mondo» non vi prestano ascolto. Concezione, nascita, morte sono dunque parole proclamate ma non ascoltate. Ma che il silenzio del Padre (sigé), dal quale nasce il logos, possa essere interpretato gnosticamente (come se dietro il logos un abisso di silenzio fosse la divinità originaria) lo vieta l'eterna generazione del Figlio dal Padre, nel senso del prologo giovanneo. Infatti di Gesù Cristo si dice che «procedette dall'unico Padre ed era presso l'Unico e a lui tornò» (Magn 7,2). Qui il silenzio del Padre, già da sempre gravido del logos, ossia significativo, è equiparato alla nascita di questa Parola e così viene fondato quanto detto prima: che il Logos si può annunziare anche attraverso il silenzio. Il mistero del Sabato santo non costituisce qui alcuna eccezione. Non solo il fatto che Gesù diventò solidale con noi nel suo silenzio di morte è un alto grido (kraugé), ma anche il fatto che egli espressamente scende nel silenzio di quella morte che è morte lontana dalla vita di Dio, morte in cui nessuno può più lodare Dio (cfr. Sal 6,6). Dio non può annunziare più chiaramente di cosi che egli ci raggiunge perfino nel nostro essere perduti. Che nel vecchio canto ecclesiale si cantasse della «morte di Dio» significa che egli ha inserito il morire dell'uomo (lontano da Dio) nel rapporto tra il Padre e il Figlio incarnato nello Spirito Santo, che dal Figlio nella morte è restituito al Padre e che questo silenzio mortale fa parte del suo mistero rivelato, rivolto a noi. Ci sono molti momenti nel silenzio di Gesù. C'è un silenzio durante il quale egli ascolta l'accusa contro l’adultera e silenziosamente chinato scrive per terra, silenzio che poi- improvvisamente, rialzandosi Gesù, si condensa nella parola di giudizio: «Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra contro di lei». Un silenzio che poi sprofonda di nuovo in un mutismo che non è altro se non l'eco della potente parola negli accusatori, come mostra il loro allontanarsi furtivo (Gv 8,1-11 ). E c'è poi il silenzio dell'adolescente che non rivela ai suoi genitori che rimarrà nella casa di suo Padre; silenzio che causa la loro angosciosa ricerca e che di nuovo sfocia nella sua parola autorevole che riecheggia per lunghi anni nella loro incomprensione. Questo non comprendere è il loro capire quali sconosciuti spazi si aprono con lui e quale rispetto esige la convivenza con chi è piombato dall'alto nel loro matrimonio. Oppure poi un tacere per gli uni mentre agli altri parla: «Chi sono mia madre e i miei fratelli?» (Mc 3,33). Coloro che chiedono accesso e risposta non ottengono più di questo. O ancora in modo diverso nelle rivelazioni eccezionali senza una parola di Gesù, come nella Trasfigurazione sul Tabor, dove a coloro che fa esperimentano è negato un discorso chiarificatore, proprio come Paolo nell'estasi «ascoltai parole indicibili, esprimere le quali non è concesso a nessun uomo» (2 Cor 12,4). Parole dunque che si situano al di là del parlare umano e tuttavia sono affermazioni. A partire da questi esempi si può dire che tutte le parole di Gesù restano circondate da una zona di silenzio, che però non è limitazione della sua parola, ma al contrario rappresenta le dimensioni di questa parola non co-udibili per l'uomo. Infatti quando Dio si esprime non trattiene nulla per sé, solo non trova un ascoltatore al di fuori di sé che sia all'altezza della misura della sua parola. La miglior risposta che può ricevere «Ecco sono la serva del Signore» non sa dove possono portare le conseguenze del «mi avvenga secondo la tua. parola ». Più avanti si mostrerà che la miglior comprensione della Parola può avvenire in abbandoni e unioni al di sopra della sfera del parlare scambievole. Ma prima bisogna parlare di qualcosa d'altro, di ciò che nella meditazione è chiamato aridità, secchezza, desolazione. Il meditante sta davanti a un testo che è solo lettere alfabetiche e che non si apre a uno spazio interiore spirituale e neanche a una presenza vivente; è uno stato nel quale «l'anima si trova completamente pigra, tiepida, triste, come separata dal suo i Creatore e Signore» (Esercizi Spirituali, n. 317). Si può parlare qui di un silenzio della Parola? In un senso sì, perché essa sembra non volersi aprire da sola. Questo stato può avere, come ci viene insegnato, differenti cause: colpa propria «perché siamo pigri, tiepidi o trascurati nei nostri esercizi spirituali», oppure stimolo da parte del Signore affinché ci affatichiamo per penetrare nelle sue profondità anche senza il suo aiuto sensibile, oppure infine la nostra presunta esperienza esistenziale che l'ingresso in questa profondità non può essere strappata con i nostri sforzi, ma è «totalmente dono e grazia di Dio nostro Signore» e noi «non possiamo gonfiare il nostro spirito in una specie di orgoglio o vanagloria» per essere saliti con forza propria su questo o quel «gradino di preghiera» (Esercizi Spirituali, n. 322). Possiamo e dobbiamo bussare ma non ascrivere al nostro bussare la magica forza che ad esso debba necessariamente corrispondere lo schiudersi della porta. L'apparente silenzio della Parola è in ciascuno dei tre aspetti un denso insegnamento: «beati coloro che non vedono e tuttavia credono» - e credere anche in una gioia non-sentita, indicibile, trasfigurata (chará aneklaléto kai dedoxasmené, 1Pt 1,8), la cui «trasfigurazione» però è presso il Signore e a cui noi ora rinunciamo. In ciò la meditazione cristiana si distanzia notevolmente da ogni tecnica di meditazione non cristiana, che dal suo punto di vista lavora a buon diritto per un determinato traguardo esperienziale che prima o poi deve essere raggiungibile e che non fa i conti con la libertà dello spazio di grazia della Parola che si apre dal di dentro. Inoltre il cammino della insensibilità - astraendo ora dalle conseguenze delle nostre trascuratezze - è un cammino della sequela nella situazione della passione del Verbo stesso che sulla croce si è sentito «come separato dal suo Creatore e Dio», dal Padre eternamente parlante: e questo al culmine dell'autoespressione del Padre che si muove a pietà del suo mondo, che muto corre incontro al suo figlio perduto, «gli getta le braccia al collo e lo bacia» (Lc 15,20). Questa è parola oltre ogni parola, espressa nel grido di abbandono «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Cosi ciò che nella meditazione è vissuto come aridità e perfino come notte oscura può essere contemporaneamente nel nascondimento e nella verità chiarissimo splendore dell'amore. Ma questo amore si deve celare nella nudità della fede, l’unica cosa che Gesù, cui ogni esteriorità ed interiorità è stata rubata, non può perdere. Così è definitivamente confermato che nella meditazione cristiana ogni silenzio è significativo. O, detto altrimenti: che là dove noi percepiamo mancanza di parole (apofasi) in senso terreno, lì si aprono le sfere metaespressive della parola e del senso.
3. Indugiare nella Parola Ogni istruzione sulla meditazione parla di indugiare. Possono essere indicati tempi cronologici di quanto ci si deve soffermare, ma la lunghezza del tempo può variare senza che si alteri il fatto stesso del soffermarsi. Ma il tempo cronologico deve essere tanto ampliato che si possa almeno giungere a un indugiare spirituale. Riguardo a ciò si può ricordare il pensiero di Madeleine Delbrél che il tempo cronologico del cristiano impegnato nella vita attiva può essere più compresso di quello del contemplativo, il cui tempo sarà più ampio. Per il primo ci sono «trivellazioni verticali nel profondo» che ci forniscono più velocemente l'olio combustibile e riscaldante che non il far legna nei boschi, ma anche la «trivellazione» necessita di un suo tempo conveniente. Noi ci soffermiamo lì dove siamo di casa, non in viaggio. Il paesaggio della autorivelazione di Dio in Gesù Cristo è la nostra patria. È un paesaggio che non si finisce mai di percorrere - sempre si mostrano nuove prospettive - ma che ci è familiare e quanto più lo abitiamo, tanto più diventa familiare. Si dice infatti che siamo pellegrini e stranieri in terra (Ebr 11,13; 1 Pt 2,11), che quaggiù siamo una «colonia di cittadini del cielo» (Fil 3,20). Infatti lo spazio definitivo in cui abbiamo la nostra patria è lo spazio della missione compiuta del Figlio, che è ritornato nell'eternità della Trinità con tutte le sue esperienze terrene. Qui tutte le situazioni vissute appaiono nella loro verità definitiva; in quanto molteplicità delle sue «situazioni» (per usare la parola-chiave di Bérulle: «états») esse sono tutte integrate nell'eterna e unitaria situazione del Figlio nel Padre. Proprio verso questa ultima integrazione tende la meditazione. Poiché questa semplificazione di tutte le situazioni terrene di Gesù non ci è immediatamente accessibile, facciamo bene, partendo per il momento da uno dei suoi misteri, a circoscrivere l'unità ivi soggiacente. In questo si situa una porzione di lavoro. Prendiamo un esempio qualunque: il dodicenne e la sua coscienza di essere primariamente e univocamente in ciò che è di suo Padre. Il suo luogo è il tempio. Egli sa già di certo che tutta la storia di passione di questo tempio si compirà in lui. In questo dover-essere-qui diventa visibile tutta la sua missione, fino alla distruzione del tempio di pietra e di quello di carne che è lui stesso, e fino alla sua ricostruzione in tre giorni. Ciò che egli sa non è comunicabile, neppure ai propri familiari. Così incomunicabile come è il sapere della Vergine, quando la sua gravidanza diventò visibile. Quale solitudine già nell'anima di questo ragazzo, quale peso il Padre già gli pone sulle spalle. Egli deve essere il pilastro che porta tutto solo, tutto ciò che è già stato e tutto ciò che verrà. Ma il vecchio e il nuovo non stanno improvvisamente uno di fianco all'altro, egli siede tra i dottori e pone loro domande. Egli vuole conoscere l'antica sapienza, vi vuole essere istruito, il che non impedisce che lui, l'interrogante, ha l'intelligenza e conosce le risposte - tutta l'antica alleanza è in fondo un interrogativo a Dio, a Gesù - che meravigliano tutti gli ascoltatori (ora lo ascolta la vecchia alleanza). Egli non domanda come colui che sa tutto e meglio. C'è in lui questo vero imparare la sua propria preistoria, ma essa diventa interrogativo rivolto a lui e lo conferma nel fatto che, in quanto tempio definitivo e legge conclusiva e in quanto profeta e sacerdote escatologico, deve essere la Parola: la risposta che tutto adempie. E qui si intromettono, quasi di lato, Maria e Giuseppe, non consapevoli che si trovano nello stadio di passaggio dal vecchio al nuovo; tornando a casa avevano lasciato il vecchio e sono «stupiti» che, alla ricerca del nuovo, lo trovino proprio nel vecchio. Continuità ma insieme frattura a cui loro - inconsapevoli e non comprendenti - si devono abituare passando attraverso il destino del figlio. Quanto aumenteranno ancora per la madre questo non comprendere, questa frattura, queste sofferenze quando, riassumendo in sé come figlia di Sion tutto il vecchio, si trasformerà sotto la croce nella Ecclesia immaculata! (Ef 5,27). E poi tutto quello che era esploso come un fulmine si vela di nuovo per lunghi anni: «Poi andò con loro a Nazareth e fu loro sottomesso». Ma sotto il velo la meditazione continua: «Sua madre conservava tutto ciò nel suo cuore», e con lei la Chiesa di tutti i tempi e ora noi. Nulla di ciò è puro passato, di valore solo antiquario: continuo è il passaggio dalla promessa alla realizzazione (anche là dove contempliamo un episodio storico, che improvvisamente diventa in noi presenza realizzantesi); sempre attuale è il soprassalto che rompe le nostre abitudini e il nostro sapere, sempre presente la meravigliata ed esortativa risposta del Signore: «Come, non sapevate che ... ? ». E sempre lievita sotto la copertura del quotidiano l'evento che nella coscienza di Gesù tutto quanto è incompreso, dubbioso, sconcertante ha la sua risposta. E questo nel paradosso che Paolo ci richiede: «Dobbiamo comprendere l'amore che supera ogni comprensione» (EJ 3,19). Questi erano alcuni appunti per un lavoro di circoscrizione di un mistero, per una delimitazione delle sue dimensioni: quanti altri passi sarebbero ancora possibili intorno allo stesso mistero! Ma almeno una cosa dovrebbe diventare visibile da questo esempio: che questi passi non vogliono restare a distanza ma tendono verso il centro e il profondo: verso l'interiore atteggiamento del Figlio di Dio che comprende tutto il suo essere terreno come strumento nella missione del Padre e rimane in contatto orante con lui attraverso lo Spirito Santo, per comprendere la sua volontà. A uno qualsiasi di questi passi - come un sipario che si alza - ci si apre uno spiraglio verso questo centro. Allora è d'obbligo: fermarsi! Che il sipario si sia alzato è grazia e invito ad afferrare quanto contemplato, lasciarsi penetrare da esso, in un'apertura del desiderio (e in nessun modo della volontà di godere e di possedere), che ne vorrebbe essere colmato. Può essere unito a gioia, anzi a gioia traboccante, il fatto che ci venga concesso di poter contemplare i frutti non solo attraverso i vetri di una vetrina, ma di poterli «gustare» ed «assaporare». Questi sono gli antichi termini per questa partecipazione donata: «Sapere molto e non gustare nulla: a che serve?» (san Bonaventura su san Francesco, Hexaem. XXIII, 21). «Non il sapere molto sazia l'anima e le dà soddisfazione, ma il sentire e gustare le cose anteriormente» (Esercizi Spirituali, n. 2). Ignazio in questo passo lascia aperto se questo gustare avviene «per proprio penetrare» nell'oggetto contemplato o «nella misura in cui l'intelligenza è illuminata attraverso la forza». Il primo potrà avvenire difficilmente senza qualcosa del secondo, ma il secondo certamente non senza il primo. Ma non si indugerà su un aspetto esteriore dell'avvenimento, ma solo in una visione interiore del sentimento, dell'atteggiamento, del cuore di Gesù Cristo, e una tale visione interiore può essere autentica solo quando in essa risplende insieme il suo rapporto col Padre nello Spirito Santo e il suo rapporto con gli uomini nella sua missione. Infatti Gesù non esiste altrimenti che in questo doppio movimento, egli è l'unico «mediatore tra Dio e gli uomini, colui che dà se stesso come riscatto per tutti» (1 Tim 2 ss.). Se l'ammirante indugiare ci «rapisse» dal tempo e quell'unico sguardo in quell'unica profondità ci bastasse; se fosse dunque completamente errato procedere dal trovato verso un nuovo cammino di ricerca, tuttavia ci può valere come criterio di autenticità questo: che non possiamo essere «rapiti» se non verso il concreto contenuto di questa mediazione in cui esiste l'unica viva unità tra Dio e uomo. Dio non può essere «gustato» altrimenti se non come colui che si apre e si offre in Cristo, e l'uomo non può essere altrimenti compreso se non come colui che è raggiunto da questo amore diretto a lui. Dio «in sé» si dona a noi veramente nel Dio «per noi». Perciò non abbiamo bisogno - per dirlo ancora una volta - di procurarci altri «sensi spirituali» per gustare Dio se non quelli donatici da Dio, che all'interno della divina umanità di Gesù sono sufficienti per toccare quel Dio che qui si apre e si inclina verso di noi. Infatti la Parola è diventata carne e non si è mai ritirata verso qualcosa di puramente spirituale. Perciò anche il soffermarsi nelle profondità del mistero ci riporterà senza violenta interruzione alla nostra missione. Può darsi che essa quasi scompaia per un attimo nella contemplazione della missione di Cristo, ma ritroveremo il nostro piccolo posto nel suo grande spazio. Ma può anche darsi che, meditando la sua missione nel mondo che parte dal Padre ed è realizzata nello Spirito Santo, vi contempliamo anche la nostra missione e dalla contemplazione stessa siamo spinti verso il desiderio di una sua migliore realizzazione. Una continuità esiste in entrambi i casi, così come sopra avevamo riconosciuto una continuità tra theoria e praxis. Il luogo in cui siamo invitati a soffermarsi è il centro infinitamente misterioso dell'Alleanza. Infatti Gesù Cristo è l'Alleanza: egli è identicamente il massimo profeta, attraverso cui Dio parla all'umanità, così come è il massimo sacerdote, attraverso cui l'umanità si offre a Dio e, in quanto ultima parola di Dio, offre se stesso come sacerdote, è il «buon pastore» che «dona la vita per le sue pecore», e in quanto pastore che rappresenta Dio è il re, e lui stesso si chiama così. I tre aspetti principali della antica alleanza, secondo la quale un uomo assume un ufficio per il popolo: il profeta, il sacerdote, il re come pastore, si riuniscono nell'«unico mediatore del patto» e possono essere compresi e correttamente valutati solo uno nell'altro e attraverso l'altro. In questa unità che supera ogni precedente aspetto particolare sfocia la meditazione cristiana. In essa infatti si trova la perfetta autorivelazione di Dio, al di là di ogni singola parola e concetto, in una unità non astratta ma concretissima, superiore ad ogni parola. Profezia in quanto autoespressione di Dio, ma non in una parola limitata, bensì nella autodonazione trinitaria, che si esprime nel sommo sacerdozio di Gesù - si consideri Gv 17 - e questo come la permanente proclamazione della regale gloria divina, che è anche nella sua autoumiliazione la cura del pastore per ogni pecorella smarrita. Nella meditazione ci possono essere trasmesse immagini e impressioni della interiore vita divina, ma la meditazione stessa non può che essere cristologica. Ma ciò significa d'altra parte che nulla di cristologico ci può illuminare e affascinare che non sia trinitario: infatti nessuno raggiunge il Padre se non nella sua paternità, ossia nella sua autospoliazione al Figlio e nessuno giunge al rapporto tra Padre e Figlio se non nello Spirito Santo di entrambi, che scruta le profondità dell'amore divino. Questo significa che alla fine le immagini diventano così accecanti che Dio - colui che è al di là di ogni comprensione - è comprensibile solo a se stesso, così che perfino i serafini davanti allo splendore della gloria devono velare il loro volto (Is 6,2) e solo adorare. Il mistero rivelato di Dio è infinito.
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