MEDITARE DA CRISTIANI

pedrodiaz
00martedì 21 aprile 2009 21:10
HANS URS VON BALTHASAR


 

 

 

 

Introduzione

Tutto dipende dall’interrogativo se Dio ha parlato all'umanità - di se stesso naturalmente e anche delle sue intenzioni nella creazione dell'uomo e del suo mondo - oppure se l'Assoluto resta il Silenzio al di là di ogni parola terrena.

Se è corretta la seconda ipotesi, allora tutti i sentieri sono aperti, anzi devono essere percorsi tutti i sentieri, sui quali l'uomo - che sa molto bene che questo mondo passeggero e in quanto tale ingannevole non può essere la verità - si mette in cammino per tendere verso l'indicibile. Su ripidi sentieri che lasciano alle spalle il mondo molteplice e fugace; in eroica ascesi e mistico sprofondarsi l'uomo tende a dirompere le mura carcerarie del proprio io troppo angusto, forse solo per un attimo, forse definitivamente.

Tutte le forme di meditazione dell'umanità che a tentoni è in cerca dell'Altissimo «se mai arrivi a trovarlo» (At 17,27) si assomigliano tutte l'una all'altra e invero tanto più quanto più radicale diventa questa ricerca superiore a ogni fugacità: dalle forme del lontano Oriente fino a quelle estreme dell'antichità mediterranea presenti in Plotino, nelle cui istruzioni per raggiungere l'estasi si è (vanamente) ancora esercitato il giovane Agostino.

Ma se è corretta la prima ipotesi, ossia che Dio ha parlato, allora entriamo nello spazio biblico, nello spazio delle tre religioni monoteiste, poiché anche l'Islam è fortissimamente modellato da temi vetero- e neotestamentari. Allora la meditazione può avere un significato solo come riflessione e appropriazione sempre più profonda della Parola di Dio su se stesso e sul mondo. Unico interrogativo: dove questa Parola di Dio raggiunge la sua forma compiuta in cui ogni singola validità si concentra in traboccante unità? Potrebbe essere che questo avvenga sulle tracce del Corano - comunicato dall'angelo Gabriele al profeta - in quelle strofe che il pio musulmano ha memorizzato e ripete giorno dopo giorno in atteggiamento orante? Ma può un angelo parlare di Dio così da rivelarne le intime profondità? «Nessuno ha mai potuto conoscere i segreti di Dio se non lo Spirito di Dio» (1 Cor 2,11).

Una domanda simile, anche se non identica, bisognerebbe rivolgerla anche all’Antico Testamento, la cui Legge fu anch'essa comunicata attraverso angeli (Gal 3,19; At 7,38), le cui istruzioni passarono per la bocca di profeti («Cosi parla il Signore») in molteplici «prescrizioni, statuti, promesse, norme, comandi» (Sal 119), continuamente ripensate, «mormorate», meditate dai credenti Israeliti. Ma restavano loro profondi e insoluti interrogativi, a livello di Antico Testamento interrogativi veramente insolubili: Giobbe, Kohelet. Per la loro soluzione è necessario quel compimento della «Alleanza» tra Dio e l'umanità che porta contemporaneamente a conclusione una duplicità: che Dio parli per se stesso e che egli parli come un uomo che illumina anche le domande esistenziali dell'uomo: il senso del dolore, della caducità, della morte e la definitività in Dio di tutta la pesantezza di una vita mortale: nella risurrezione dell'uomo morto alla vita eterna. Tutto ciò riassume con forza concentrata il proemio della Lettera agli Ebrei: «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi (tutti) per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questi, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza... dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell'alto dei cieli ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato» (Ebr 1,1-4).

Proprio perché l'autorivelazione di Dio si realizza pienamente in entrambe le direzioni: Dio che parla dalla propria profondità e che, parlando come uomo, disvela anche le profondità dell'uomo, le dimensioni della meditazione cristiana si dispiegano chiaramente. Essa può iniziare solo là dove Dio si rivela come uomo, dove dunque questo uomo rivela Dio in tutta la sua profondità. Ecco perché questo punto iniziale resta insuperabile. Ed essa si può realizzare pienamente solo là dove l'uomo rivelatore, Gesù Cristo Figlio di Dio, rivela Dio come suo Padre: nello Spirito Santo di Dio, che egli ci trasmette veramente, perché noi possiamo scrutare con esso le profondità di Dio, che solo lo Spirito di Dio scruta (1 Cor 2,10): «ma noi abbiamo lo Spirito di Dio per conoscere tutto cio che Dio ci ha donato» (1 Cor 2,12).

La meditazione cristiana è così, nello stesso tempo, pienamente trinitaria e pienamente umana. Nessuno deve voltare la schiena alla propria umanità personale e sociale per trovare Dio, ma ognuno deve, per trovare Dio, vedere il mondo e se stesso così come devono essere contemplati dalla parte di Dio.


 

 

pedrodiaz
00martedì 21 aprile 2009 21:11
1. La Parola mediatrice


 

 

 

 

«Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27). «Nessuno ha mai visto Dio: il Figlio di Dio unigenito, che è nel seno del Padre, egli ce lo ha rivelato, autos exegésato, ce ne ha dato l'esegesi» (Gv 1,18). «Nessuno ha visto il Padre se non colui che viene dal Padre: egli ha visto il Padre. In verità, in verità vi dico: lo sono il pane della vita» (Gv 6,46 ss.).

Non siamo noi che estorciamo con tecniche apprendibili la conoscenza dell'Assoluto: Dio si rivela liberamente da se stesso nel suo Figlio, ci dona una parola che sazia l'anima affamata. Apprendiamo che l'uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,27) affinché un giorno Dio possa porre in lui la perfetta immagine (2 Cor 4,4; Col 1,15), la piena impronta (Ebr 1,3) di se stesso, dell'Invisibile. L'uomo Gesù Cristo non è innalzato successivamente a questa immagine divina, dall’inizio si è saputo tale. L'affermazione «Ma io vi dico» - che supera l'autorità di Mosé - può essere solo l’Io stesso di Jahwe e della sua parola. «Prima che Abramo fosse io sono» (Gv 8,58) è lo scandalo insopportabile per il popolo abituato ai profeti. Si attentava alla vita di Gesù «perché chiamava Dio suo padre e così si uguagliava a Dio» (Gv 5,18). Lo si vuole lapidare «per la bestemmia, perché tu che sei uomo ti fai Dio» (Gv 10,33).

La pretesa di Gesù è senza analogie in tutta la storia delle religioni. Egli esige amore assoluto per se stesso, trascurando ogni amore interpersonale per quanto santo sia, anzi ogni amore di sé, per quanto ordinato (Lc 14,26). Egli accusa di furto e di latrocinio chi non si avvicina a Dio attraverso di lui, l'unica porta (Gv 10,8). Chi non lo ascolta e non lo comprende come Parola di Dio e non lo ama in quanto Parola di Dio non può reclamare per sé alcun rapporto con Dio: «Se Dio fosse vostro padre certo mi amereste. Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete ascoltarmi come la Parola» (Gv 8,42 ss.). «Chi non mi ama non osserva la mia parola, la parola che voi ascoltate non è mia ma del Padre che mi ha mandato» (Gv 14,24). «Il Padre vi ama perché voi avete amato me» (Gv 16,27). Condizione per il vero amore reciproco tra Dio e l'uomo, per il vero amore d'alleanza, è dunque, secondo l'esigenza di Gesù, l'amore per lui, per il Dio-Uomo, per il perfetto incarnatore dell'Alleanza: doppia via di Dio all'uomo e dell'uomo a Dio.

Cosi dunque la meditazione cristiana può essere nel suo nucleo solo contemplazione amorosa, riflessiva e obbediente di questo uomo che è l'autoaffermazione di Dio. Egli è la spiegazione di Dio e la sua dottrina per noi: «Chi va oltre non possiede Dio, ma chi si attiene alla dottrina possiede il Padre e il Figlio» (2 Gv 9). Questo attenersi significa credere e a questa fede sono donati gli occhi per scorgere attraverso l'umanità di Gesù la (sua) divinità. «Chi vede me vede il Padre» (Gv 14,9). Alla meditazione cristiana è dato di scoprire non solo nelle parole ma in tutte le situazioni e gli atti di Gesù l'atteggiamento e la condizione di Dio. Quando Gesù si adira (cosi spesso in Marco), quando impugna la frusta, noi apprendiamo come e perché Jahwe, il Dio geloso, si adira. Quando egli piange su Gerusalemme «che non ha voluto», a ora egli rivela la tristezza del Signore dell'Alleanza che inutilmente ha sprecato il suo amore. Quando egli si fa pregare - in Cana dalla madre, in Cafarnao dal centurione romano, in Siria dalla donna pagana e da questa preghiera è 'mutato', allora egli mostra come una preghiera insistente strappa infine al cuore di Dio quanto desiderato (Lc 18,1-7). Quando non esita a non rispondere e apparentemente lascia in asso le due donne amate a Bethania, allora anticipatamente egli preannuncia che sulla croce si sentirà abbandonato da Dio, sebbene già prima sapesse: «L'ora è già qui in cui voi mi lascerete solo, ma io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv 16,32; cfr. 8,29): Dio non abbandona neppure, e ancor meno, proprio quando sembra agli occhi del mondo che egli abbandoni.

Tutto in Gesù è parola. Anche il suo silenzio davanti ai tribunali degli uomini. Il suo essere coperto di colpi e di sputi. Soprattutto lo è la sua morte dopol'alto grido inarticolato cui segue il gelido mutismo del cadavere: nessuna parola di Dio è più eloquente di questa estrema condizione dell'uomo mortale. Infatti: se non avessimo questa parola, questa autoespressione di Dio, non sapremmo che, oltre ogni tenebra, «Dio è amore», una frase che nessun'altra religione del mondo ha osato esprimere. Nulla più di questa frase necessita della prova: eccola. «Chi lo ha visto lo testimonia e la sua testimonianza è vera. Egli sa che dice il vero perché anche voi crediate» (Gv 19,35). Ciò che poi è raccontato del Risorto è ancora più trasparente su Dio - paradisiaco è una parola troppo debole al riguardo - e appunto per questo nulla nel Vangelo è più umanamente delicato del colloquio con Maria Maddalena al sepolcro e con i discepoli nel Cenacolo, del rimprovero amoroso a Tommaso e della soddisfazione della sua richiesta, della scena sulla strada di Emmaus, del gesto benedicente all'Ascensione, e questo vale fin dentro l'apparizione gloriosa a Paolo, cui ancora Cristo appare consolatore e fortificatore nelle ore più difficili (At 18,9-10; 23,11; 27,24). Anche nella trasfigurazione gloriosa tutto rimane corporeo e concreto, nulla del mondo creato è rinnegato nel mondo redento. Così tutta la natura è inclusa nelle parabole di Gesù per illustrarci l'essenza del Regno di Dio: il tesoro trovato nel campo; la scoperta della perla preziosa, per la quale si vende tutto; la seminagione del contadino, di cui molta va persa e tra cui il nemico semina la zizzania. La grazia è una sorgente traboccante; l’amore un incendio che deve diffondersi nel mondo; e poi di nuovo una semente che cresce da sola, «non si sa come». Avvenimenti naturali, come il prato meravigliosamente fiorito, gli uccelli nel cielo che non seminano e non raccolgono, sono insegnamento visivo per i discepoli. Così il rapporto tra vite e tralcio mostra loro che senza Gesù non posso nulla, ma innestati in lui portano molto frutto. I miracoli di Gesù mostrano entrambi gli aspetti: che la guarigione o il nutrimento corporale rimandano alla cura di Dio per la guarigione e il nutrimento dell'anima, ma anche la corporalità rimane la sua genuina immagine e la sua vera espressione. «Che cos'è più facile: dire 'I tuoi peccati sono rimessi' o dire 'Alzati e cammina'?» (Mc 9,5). Le esemplificazioni sarebbero infinite, tutto il Vangelo contiene parola concreta dopo parola concreta, immagine dopo immagine; ognuna è limitata se vista con occhi terreni, ma aperta all'illimitatezza di Dio, rivelatrice della sua natura inesauribile e onnitraboccante. Ma questa apertura del finito verso Dio si trova già da sempre in Gesù Cristo, nella misura in cui come uomo rivolge ogni sua parola diretta al mondo contemporaneamente come preghiera al Padre. Chi medita lo dimentica spesso. Egli non deve dare alla parola rivelatrice di Dio una risposta trovata nel proprio intimo: quale fallimento sarebbe e quanto inferiore all'esigenza della Parola! Bensì egli possiede la risposta vera già presente nella Parola stessa: « Chi è in cammino verso il Signore è inserito nel suo colloquio col Padre, nella sua preghiera. Ogni forma della sua sofferenza, ogni assunzione di peccato avviene all'interno del suo colloquio col Padre.

E altrettanto per ogni guida di uomini: chi viene a Lui viene al Padre, perché tutti egli conduce al Padre. I discepoli che lo ascoltano sentono due cose: la sua chiara parola rivolta a loro e al mondo. Ma contemporaneamente sentono ciò che egli dice loro nella sua preghiera al Padre» ( ADRIENNE VON SPEYR). Egli riceve offerta, insieme con l'ascolto, quella fede che non è semplice atto interiore dell'uomo, ma un aprirsi a Dio, ossia preghiera. Non certo nel senso che all'uditore venga suggerito qualcosa di già confezionato che potrebbe e dovrebbe riconsegnare a Dio tale e quale. Ma con lo schiudersi a Dio presente nella Parola gli viene donata piuttosto una propria disponibilità, grazia come libertà. Che questa libertà donata è lo Spirito Santo di Dio ci dovremo riflettere più avanti. Qui dovrebbe solo diventare visibile il fatto che Gesù Cristo, come perfetta alleanza tra Dio e uomo, nel suo essere Parola è essenzialmente dialogico, ma che il dialogo divino-umano che egli media nel suo essere, avviene già da sempre oltre il semplice dialogare tra due persone separate.

 

 

 

pedrodiaz
00martedì 21 aprile 2009 21:12
2. Introduzione nella meditazione


 

 

 

 

Chi vuole udire qualcosa deve prepararsi con il silenzio alla capacità di udire. Se lui stesso parla o parlano in lui i suoi pensieri, desideri, preoccupazioni, allora il rumore che fanno renderà impotente la sua capacità di ascolto. Perciò ogni istruzione alla meditazione incomincia con la richiesta di creare silenzio e vuoto interiore, affinché ci sia spazio per ciò che deve venire accolto. Si parla di «interrompere», di «concentrazione» della coscienza diffusa, di «percorrere» il misterioso cammino verso l'interiorità, ecc. Ma a buon diritto si può dubitare che un tale sforzo, nella sua nuda negatività, conduca già a quella positiva disponibilità di ascolto che distingue la meditazione cristiana da altre forme di contemplazione, nelle quali, poiché non vi risuona nessuna parola da parte di Dio, una tale disponibilità è superflua.

Cristianamente il silenzio richiesto non deve essere realizzato precedentemente dall’uomo, anzi il credente deve rendersi conto che egli possiede già da sempre in sé e contemporaneamente in Dio la «cameretta» silenziosa e nascosta in cui deve entrare (Mt 6,6) e in cui è presso il Padre. Allo stesso modo forse dei «piccoli» ignari che hanno i loro «angeli in cielo che contemplano sempre il volto del mio Padre celeste» (Mt 18,10). Le nostre cure e preoccupazioni terrene sono già da sempre sul piatto ascendente della bilancia, mentre l'altro, discendente, ma anche lui nostro, ossia il nostro essere in Dio, ha «un sovrappeso inimmaginabile» (2 Cor 4,17). Non abbiamo bisogno di aprirci dapprima un varco verso Dio con le nostre forze: «la nostra vita» è già da sempre «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). Allora non abbiamo bisogno per la nostra preparazione alla meditazione di lunghi rivolgimenti psicologici, ma,solo della breve presa di coscienza nella fede di dove si trova già da sempre il nostro vero centro e fulcro. Ci sembra di essere lontani da Dio, ma lui ci è vicino; non dobbiamo avvicinarci a Lui con fatica, anzi le cose stanno proprio così come le descrive la parabola: «Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20). E il discorso del figlio imparato a memoria: «Padre, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi garzoni» è già superato dal gesto del padre che grida verso la casa: «Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi». Similmente avviene nella parabola del banchetto nuziale del re, dove agli invitati viene annunziato « Tutto è pronto», solo che questi non vogliono venire (Mt 22,4). La pienezza di Dio è accessibile senza anticamere, non c'è bisogno di un lungo viaggio «verso il cielo», di una discesa «nell'abisso» (Rm 10,6 ss.). La parola di Dio rivolta a me non è «sopra la (tua) capacità e irraggiungibile», ma «vicinissima sulla tua bocca e nel tuo cuore» (Dt 30,11.14). La «preparazione» del bambino è un salto nelle braccia del Padre, tenendo conto che l'amore del Padre, ossia la volontà e l'interessamento di Dio, tiene il primato su ogni nostra capacità che, sia che lo vogliamo o no, gia a sempre è riconosciuta, pensata e ordinata da Dio nei suoi progetti.

Se dunque la preghiera preparatoria «chiede da Dio nostro Signore la grazia che tutte le mie intenzioni, azioni e attività» in questa meditazione «siano puramente ordinate al servizio e alla gloria della sua divina Maestà» (Esercizi Spirituali, n. 46), allora questa richiesta non è espressa da una estrema distanza, ma deve essere lo slancio del bimbo verso il cuore del Padre che ha sempre ragione e che è la naturale norma di ogni agire del bambino. Con ciò viene anche affermato che la preparazione del nostro cuore non deve essere calcolata, così da raggiungere attraverso la meditazione un nostro rendiconto e un nostro vantaggio, ma consiste proprio nell'abbandono di ogni volontà autonoma alla profondità del disinteressato amore di Dio. (Così un sacerdote non preparerà la sua predica durante la propria meditazione, che non deve essere funzionalizzata a questa, anche se naturalmente nella preparazione dell'omelia avrà bisogno di una propria preghiera meditativa).

Ma questo abbandonarsi alla volontà di Dio, proprio anche nella imminente meditazione, racchiude come dato naturale la richiesta (Esercizi Spirituali, n. 48) che mi si dischiuda per grazia di Dio il significato destinato a me della Parola rivoltami. La Parola di Dio è come un sacramento che effettivamente opera per se stesso ciò che dice e significa, ma per raggiungere ciò deve cadere come seme su un terreno preparato e dissodato. Nella richiesta è insita l'umiltà che non pensa di poter forzare da sola l'accesso alle profondità di Dio, il che tuttavia non impedisce il proposito di sforzarsi seriamente circa il contenuto tenuto in serbo per me. Per chi crede con semplicità non ci sono neppure tensioni in tutto ciò: egli sa che nella sequela di Cristo deve darsi da fare per realizzare la volontà di Dio. Nella preghiera non cadono tordi arrostiti in bocca a nessuno. Ed egli sa anche che ogni «alzarsi presto», ogni «vegliare» e «costruire» rimane vano se Dio non dà il successo gratuitamente (Sal 127). La richiesta non si rivolge a un vuoto informe; senza voler prevenire nulla essa si rivolge alla volontà di Dio, che qui ed ora, in questa meditazione mi vuole dare un dono determinato: vorrei da Te ciò che Tu hai in mente di mostrarmi e donarmi.

Ma manca ancora un momento. L'appello di Dio per me è già sempre concreto e in mia attesa là dove Gesù Cristo in terra ha presentato l'appello di Dio. 1 vangeli raccontano scene, dialoghi, istruzioni, miracoli di Gesù che sono tutti, come detto innanzi, Parola di Dio al mondo. Quella Parola che è trasmessa attraverso parole umane e gli scritti degli evangelisti, attraverso i quali dobbiamo passare per cogliere la Parola così come è intesa da Dio stesso. Non è questo il tempo per soffermarsi esegeticamente sul mezzo di trasmissione in quanto tale; tale fatica può essere fatta al di fuori della meditazione in utile studio. Ora non sto davanti a un testo che posso comparare orizzontalmente con altri testi e forse a partire da essi posso anche relativizzare, ma ora sto davanti al testo attraverso cui io - verticalmente in profondità e altezza - sono immediatamente confrontato con la Parola di Dio. Naturalmente, in quanto cristiano credente, di una cosa non posso dimenticarmi: che Gesù Cristo, in quanto definitiva Parola di Dio, non è identificabile con alcuna singola proposizione, ma comprensibile solo nel suo destino complessivo: come colui che per noi vive, muore e risorge. Noi lo possiamo incontrare c me Punico e indivisibile in ogni singolo gesto, ogni singola parola e scena della sua vita, morte e risurrezione. Nella fede sono consapevole di questa unità e con questa fede io medito ora la sua singola parola: questa situazione sul lago, nella tempesta sulle onde, nel tempio, tra la folla, nel gruppo dei discepoli, nell'orto degli ulivi, durante la via crucis...

Tutto e ogni singola cosa deve essere concreto, deve essere rappresentato, con i sensi e l'immaginazione senza i quali una semplice comprensione razionale non sarebbe neanche umana, non corrisponderebbe neanche alla Parola incarnata. Con i sensi e l'immaginazione di un credente che, in quanto tali, diventano per se stessi sensi «spirituali» e immaginazione «spirituale» e poiché sono al servizio della fede e in contatto con «l'oggetto» aperto verso Dio - appunto l'uomo Gesù Cristo rivelatore di Dio - si aprono a loro volta verso il divino. Voler astrarre dai sensi, dall’immaginazione, dai concetti finiti per accostarci a Dio può solo distogliere da colui che si è descritto come la «via» e la «porta». Se una «forza» non esce dal corpo di Gesù il malato cronico non può essere guarito, se Gesù non spalma con la sua saliva gli occhi del cieco, costui non può vedere, se egli non soffia con il suo respiro fisico sui suoi discepoli, costoro non possono ricevere lo Spirito. Il corpo di Gesù - il credente lo sa è ora il tempio in cui Dio abita (Gv 2,21). Se si riflette che il fedele si accosta a Dio in grado massimo nella celebrazione del mistero eucaristico della carne e sangue di Gesù donati, allora si dovranno rifiutare in quanto inadeguate alla via cristiana tutte le forme di meditazione che tentano di «innalzarsi» dal corporale al «puro spirituale».

Ma ritorniamo all'intelligenza che Gesù, in quanto soggetto di questa storia tripartita vita mortale, morte, vita eterna in cielo ma anche nei sacramenti - non può essere composto da una molteplicità di parole, ma in quanto questa persona incomparabile, simultaneamente Dio e uomo, è sempre l'indivisibile Uno. Quando pronuncia una frase, racconta una parabola, opera un miracolo, in tutto ciò egli Può sempre essere compreso come l'Uno e proprio perciò rivela il Dio uno, vivente e trinitario. Non dobbiamo perciò allontanarci dalla parola, parabola, miracolo per acquistare attraverso ulteriore «materiale» più intelligenza o un accesso più facile. Nell'Unico, che contemplato con occhi puramente mondani può apparire limitato, si trova tutto ciò di cui necessitiamo in questa meditazione per ascoltare ciò che l'unico e, in questa unità, perfetto Dio ci vuole suggerire. Divagare con la scusa di informarci meglio, di arricchire il nostro sapere sarebbe una forma di dispersione.

Al massimo una parola o parabola o un miracolo possono essere contemplati nell'interna progressione della vita di Gesù. Una beatitudine, per esempio «beati i poveri in spirito», ci apre la sua ricchezza se la sentiamo dapprima come una parola dell'uomo Gesù: come egli stesso è povero davanti al Padre dal cui cibo dipende, che lo Spirito Santo gli porta. Come egli poi invita i discepoli e il popolo in ascolto, attraverso la beatitudine, a una tale povertà davanti a Dio; come infine egli illumini definitivamente con questa sua parola programmatica le più profonde intenzioni dell'Antico Testamento, i «poveri di Jahwe». Ma in modo del tutto spontaneo la parola dell'uomo Gesù acquista la sua ultima profondità nel Gesù sofferente, poiché tutte le sue parole sono già sempre dette nella prospettiva della Passione, sono

riferimento ad essa. Così, per esempio, può perdonare i peccati già prima della passione solo perché sulla croce offrirà espiazione per tutti i peccati; così si rivela solo dalla croce cosa sia estrema povertà nello spirito. E tuttavia nessun fedele può fermarsi alla croce poiché il supremo amore realizzatosi su di essa ottiene la sua rivelazione nel «beato» della risurrezione in quanto rivelazione del «loro è il regno dei cieli» entrambe già vere prima ma ora apertamente dimostrate. E che poi la parola della povertà non sia affatto superata si rivela proprio perché in Dio c'è una povertà perfettamente beata poiché nessuna delle persone divine vorrebbe avere qualcosa per sé ma tutto - l'intera divinità - possiede solo nel dono all'altro (altrimenti avremo tre dei contemporaneamente). Così la medesima e identica parola dell'identico Gesù attraverso la sua vita, morale e risurrezione vale nello stesso modo per il mondo, la discesa agli inferi e il cielo e dunque la sua verità è molto più ampia, universale e divina di quello che potremmo sognarci. E naturalmente anche un quarto punto vi farebbe parte: che questa beatitudine e a povertà si rivela anche nell'eucarestia in quanto cuore della Chiesa e perciò anche in tutta l'esistenza della Chiesa: infatti la beatitudine di Gesù consiste nell'espropriare se stesso così da diventare spazio di vita per tutti coloro che lo ricevono e attraverso di loro per tutti gli uomini. Questo è il suo «spirito», il suo sentimento che è proprio il suo Spirito Santo, che egli ci comunica nel suo eterno farsi povero.

Tutto questo solo come esempio illustrativo di come in una sua sola parola Gesù è contenuto nella sua totalità e invero anche nella sua unitarietà, pur attraverso la sua storia; di come egli in una sola parola può esprimere l'ideale dell'uomo alla sua sequela, l'ideale che egli, Cristo stesso, è e l'ideale che Dio è in quanto trinità. Solo la ricchezza di dimensioni all'interno dell'unità e non certo un metodo rigidamente applicabile voleva essere presentato in tutto ciò.


 

 

pedrodiaz
00martedì 21 aprile 2009 21:13
3. La luce dello Spirito Santo


 

 

 

 

Gli ampi spazi della Parola di Dio si aprono a chi medita cristianamente solo attraverso lo Spirito di Dio donatogli. E come potrebbe infatti comprendere che cos'è il cuore di Dio, che si apre spontaneamente, se non attraverso lo Spirito di Dio, che gli è comunicato (1 Cor 2, 10)?

Ciò diventa subito chiaro di fronte all'istruzione spesso ripetuta che il contemplante deve cercare di inserirsi quanto più concretamente possibile nella scena che desidera contemplare. Immagini di essere presente nella stalla di Betlemme come uno dei pastori; essere al seguito della fuga in Egitto; presentare un'ordinazione a Gesù falegname in Nazareth; partecipare a una guarigione nella sinagoga di Cafarnao ed essere presente tra i cinquemila mirabilmente sfamati, ecc.

Questo sforzo viene ragionevolmente richiesto se ciò che si vuole contemplare deve apparire come realtà concreta e gravida di salvezza e non impallidire in impotente astrazione. Ma tutto questo immedesimarsi resterebbe un dubbio esperimento psicologico se non fosse giustificato da una fede molto più profonda: che lo Spirito Santo ha innalzato l'avvenimento storicamente accaduto - prima di ogni umano sforzo - al di sopra di ogni tempo storico e lo ha reso contemporaneo a ogni epoca, così che mi si presenta già da sempre come presente, prima che io mi sforzi per la sua attualizzazione o «contemporaneità».

Gesù conosce la validità per tutti i tempi della sua singola azione terrena: «Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt 24,35). Tuttavia egli lascia allo Spirito il compito di realizzare per tutti i tempi questa attualità delle sue parole, azioni e sofferenze. E non si tratta solo di richiamare alla memoria ciò che avvenne una volta nella storia ed è ormai. trascorso, bensì di una reale ri-presentazione e attualizzazione.

Qui si impone lo stretto parallelismo tra Parola e sacramento. Sarebbe sbagliato agganciare

l'attualizzazione operata dallo Spirito solo al sacramento e non anche alla parola del Vangelo (che, come abbiamo visto, abbraccia le azioni, la passione e la risurrezione del Signore, così come le sue affermazioni). Origene ha sottolineato questo in modo fortissimo spiegando il passo dove al profeta Ezechiele e al visionario dell'Apocalisse viene ordinato di mangiare la parola (nella forma del rotolo del libro). Il padre della Chiesa sa che «il vero cibo dello spirito è la Parola» e «che cosa potrebbe essere per l'anima più nutriente della parola?». «Come il pane materiale è assimilato dal corpo nutrito e si trasforma nel suo essere, così anche il ‘pane vivo disceso dal cielo’ - la Parola di Dio appunto - è recepito dallo spirito e dall'anima e comunica a colui che si offre al suo nutrimento la propria forza».

Per questo ai credenti viene raccomandato: «Voi, ai quali è permesso partecipare ai santi misteri, lo sapete: quando vi si affida il corpo del Signore, voi lo custodite con ogni cura e onore, affinché nessuna briciola ne cada per terra. Ma se applicate così grande attenzione per conservare il suo corpo - e lo fate a buon diritto - come potete allora credere che sia una colpa minore trascurare la sua parola più del suo corpo?».

Il Logos di Dio è una totalità: il.suo corpo fisico è inseparabile dalla sua parola espressa essa pure fisicamente (presa sempre in tutte le sue dimensioni), per cui nella liturgia la parola e il sacramento sono indivisibili, ma la medesima unità si impone anche nella meditazione. E questa attualizzazione unitaria resta primariamente l'azione dello Spirito Santo.

Questa attualizzazione non pone però il contemplante semplicemente di fronte a un testo che forse possiede «significato per tutti i tempi», ma di fronte all’evento stesso in esso racchiuso, che nella sua attualizzazione perde tutto ciò che a motivo dei millenni alle sue spalle può farlo sembrare invecchiato e consumato. No davvero, l'evento è ora presente per me, totalmente nuovo e intatto, in una divina giovinezza. Come se fosse destinato a me, originariamente per me. E mi è presentato totalmente dischiuso in tutte le sue ampiezze. L'attualizzazione dello scenario sul lago di Genesaret avrebbe ben poca importanza se contemporaneamente non mi si rivelasse la sopratemporale, anzi eterna significatività di ciò che avviene in esso: cosa significa che l'uomo-Dio dà la vista a un cieco, rialza una donna piegata a terra, ne guarisce un'altra dal suo letto di febbre così che può rialzarsi e può servirlo... Ognuno di questi. quasi innumerevoli eventi ha uno stabile appiglio sulla terra, ma la sua portata si perde nelle infinite altezze della divina vita trinitaria. Lo Spirito non «spiritualizza» il terreno ma indica l'illimitata autorivelazione di Dio soggiacente nell'evento dell’incarnazione. E questo - come abbiamo detto - non nella atemporalità di una generale verità filosofica ma nel suo rivolgere proprio a me la sua attualità storicamente irripetibile, e perciò non superabile, nella misura in cui mi espongo ad esserne colpito.

Tutto questo naturalmente non vuol dire che il contemplante non debba più sforzarsi personalmente, ma che può lasciarsi offrire ciò che lo Spirito gli dischiude, quasi come in un film. Ma tutto ciò significa piuttosto che egli deve restare consapevole che senza lo Spirito, che «scruta le profondità di Dio», non può certo penetrare in queste profondità. Lo Spirito è il vero esperto per la rivelazione di questi misteri, velati allo sguardo puramente umano, ma già offerti nell'incarnazione sensibile. Ed egli lo è tanto più in quanto è presente contemporaneamente nel mistero oggettivo che stiamo contemplando e nella soggettiva profondità di noi stessi, come il ponte dunque che ci conduce al mistero. Egli lo è inoltre nella misura in cui è «uno che guida» (Rm 8), anzi proprio uno spirito che «sospinge fuori» (Mc 1,12) dal passato, che non permette un soffermarsi su qualcosa di superficiale, ma che ci ispira la coscienza del Dio sempre maggiore. Egli non vuole irrequietezza, ma non sopporta neppure una quiete oziosa, spira al di là del cercare e del trovare, del muoversi e del riposare. Possiamo trovare ristoro in Dio, ma non in noi stessi.

 

 

 

pedrodiaz
00martedì 21 aprile 2009 21:15
1. La presenza


 

 

 

1. La presenza

Alcune cose su questo tema le abbiamo già accennate, ma ora bisogna entrare nel fulcro. Quando consideriamo una parola o una scena del Vangelo non consideriamo un testo ma colui di cui il testo parla e a cui si riferisce: la persona di Gesù. Ciò significa più di quanto detto prima: ossia che lo Spirito attualizza per noi attraverso i secoli detta scena; significa piuttosto che Gesù Cristo - in concomitanza con questo testo - si offre a noi come il Presente e Interloquente ed è proprio attraverso questo testo che parla, attraverso questa parola da lui espressa o questo miracolo. Dunque non solo sulla base di una generale onnipresenza di Dio, ma della presenza concretizzata proprio in questa parola, gesto o atteggiamento. Questo passaggio dalla lettera scritta non al Spirito ma al Signore vivente sembra a molti difficile, sebbene in fondo sia la cosa più facile. Io sto di fronte al mio Signore ed egli si rivolge personalmente a me. Egli stesso si rivolge a me nella misura in cui è la Parola, la Parola del Padre in tutte le sue forme umane, sia il parlare che il tacere, sia il grido di esultanza verso il Padre che il pianto su Gerusalemme, sia il monito che la consolazione, sia il gesto umile che quello imperioso. Parola Lui lo è sempre. E Parola ora proprio per me.

Ma già tra uomini il discorso non è mai solubile dall'aprirsi della persona: essa vuole esprimersi, essere sentita e presa in considerazione. Cosi in ogni modalità del parlare di Gesù è presente lui stesso che si vuole annuncia - r - è e donare come persona, come Parola del Padre. La parola concreta, parlata (o taciuta) non divisibile dalla Parola che Lui stesso è. E questa Parola che è lui stesso non vuole solo avvicinarsi a noi, magari fino al nostro orecchio sensibile o spirituale, ma con la sua interpellanza vuole colpire la nostra persona nel suo nocciolo più profondo. Ecco perché più sopra, quando Parola ed Eucaristia furono così intimamente accostate, potevamo paragonare la meditazione alla comunione. Cristo, che sembra stare davanti a noi, esige ingresso nella nostra vita per un pasto in comune: «Ecco, io sto davanti alla porta e busso; se qualcuno ascolta la mia voce e apre, entrerò da lui e cenerò con lui e lui con m'e» (Ap 3,20). Ciò che significa í per Gesù questa reciprocità del desinare lo sappiamo bene: si tratta di uno scambio dell'essere più profondo: ognuno diventa cibo per l'altro.

Nella meditazione questo scambio non ha l'uniformità (solo apparente) del sacramento, ma mostra la sua ricchezza inesauribile attraverso tutte le variazioni della parola evangelica. Infatti in tutte le espressioni di Gesù nel Vangelo possiamo e dobbiamo comprenderci come accoglitori della Parola, non solo nelle parole di esortazione o di consolazione o anche in quelle di monito rivolte ai discepoli, ma certamente anche nelle dure parole di rifiuto dirette ai Farisei (Mt 23). Anche queste parole non hanno un semplice valore passato ma valgono al presente per la Chiesa, per noi. Non c'è nessuna scena in cui anche noi non siamo implicati: la scena in casa di Simone fariseo, nella quale dobbiamo ascoltare sia la parola rivolta a questi, sia quella rivolta alla peccatrice ai piedi di Gesù: entrambe ci interessano. E così sempre. E ogni volta la singola parola non è un'espressione occasionale, ma annuncio dell’essere di Gesù. Del suo essere infinitamente ricco e mai contraddicentesi, sempre unitario, mentre dalla nostra parte esiste quella molteplicità di contraddizioni generate dall'annuncio di Gesù: noi siamo , gli ingrati, i lontani, impenitenti, noi coloro che cercano conversione e accoglienza, noi i chiamati che non possono mai essere tanto sicuri di sé, che Gesù non li possa interpellare con le parole: «Volete andarvene anche voi?» (E non sono scappati tutti, quasi tutti, nell'ora decisiva?). Così non c'è parola o gesto di Gesù di cui possiamo dire: non mi tocca.

Dobbiamo però fare attenzione che in quanto cristiani possiamo meditare solo secondo il Nuovo Testamento, ossia non possiamo immaginarci altro giudice della nostra colpa se non colui che, portando i nostri peccati, è anche il nostro salvatore. Le cinque meditazioni sui peccati nel libretto degli Esercizi Spirituali sfociano tutte in un «dialogo» con il Crocifisso; anche l'ultima severa meditazione sull'inferno si conclude con un'azione di grazie al Redentore che non mi ha fatto cadere nel pericolo della dannazione con «l'interruzione della mia vita» e che anzi «mi ha rivolto continuamente una così grande pietà e misericordia» (Esercizi Spirituali, n. 71). Naturalmente «l'amore perfetto scaccia la paura» (1Gv 4,18), ma un tale amore non potremo mai attribuircelo. «Il timore rimane ordinato alla punizione» e noi sappiamo che l',abbiamo meritata. Ma possiamo comprendere questa punizione come una forma della misericordia di Dio che ci vuole purificare e affermare che siamo pronti a riceverla da Lui in questo senso. Questo è un tema molto ampio, perché disponibilità al castigo per la nostra colpa è inseparabile dal patire con Gesù per tutte le colpe e perciò anche nascostamente legata alla disponibilità ad espiare per la colpa di altri, conosciuti e sconosciuti.

Gesù ci viene incontro nel modo più immediato come Parola di Dio nei Vangeli, perciò le nostre meditazioni si atterranno con preferenza a questi. Ma anche le lettere degli Apostoli non ci rendono presente altro se non Lui, sia che parlino direttamente di Lui o della sua autopresentazione nella vita dei cristiani - così direttamente come nella vita di Paolo, che spiega se stesso totalmente in rapporto a Cristo. O l'eco del Vangelo negli Atti degli Apostoli e tutto ciò che anche nell'antica Alleanza è espresso con riferimento al futuro compimento nel Messia. «Voi scrutate le Scritture, perché pensate di trovare in loro vita eterna, ma non volete venire da me per avere la vita… Se voi credeste a Mosé, mi credereste, perché di me egli ha scritto» (Gv 5,39 ss.46). Una meditazione su parole ed avvenimenti veterotestamentari non sarebbe cristiana se non fosse attuata nella presenza del perfezionatore e con lo sguardo verso la sua pienezza.

Un'ultima cosa: non si può contemplare il Signore presente come un oggetto o un'idea, ma solo come colui che è il dono del Padre a noi e perciò ci rivolge un'interpellanza. Infatti ogni grazia contiene l'esigenza di corrisponderle, ogni contemplazione (theoria) contiene in sé già il momento della conversione (praxis). Perciò non esiste nella meditazione una precisa delimitazione tra gli atti dell'intelletto e quelli della volontà. Paolo, sopraffatto dalla visione del Signore, gettato a terra, ha un'unica risposta: «Signore, cosa vuoi che io faccia?» (Atti 9,6). Non che lo sguardo del meditante si debba prematuramente distogliere da Gesù per applicare a se stesso considerazioni morali; ma nella contemplazione stessa e per vedere e comprendere meglio e più profondamente, bisogna intraprendere anche e sempre una trasformazione del proprio stato. Una trasformazione che ultimamente non procede dal mio sguardo su me stesso o anche solo dal mio sguardo su Gesù, bensì dal suo sguardo su di me, lui che è «un giudice dei pensieri e dei sentimenti del cuore... Tutto giace nudo e aperto davanti agli occhi di colui cui dobbiamo rendere ragione» (Ebr 4,12 ss.).

TOP  2. La Parola silenziosa

Che Gesù sia la Parola del Padre non solo nel suo parlare con gli altri ma in tutta la sua esistenza, che include ogni umana azione e comportamento, è già stato detto. Quando egli parla e ammaestra esplicitamente, allora le sue parole hanno senso soltanto se introducono nelle dimensioni del suo essere intimo, della sua autocomprensione, della sua missione dal Padre, della sua vita dal Padre e verso il Padre. La parola parlata è come la punta di un triangolo che poggia a terra e che si apre in alto verso l'infinito. La sua parola è solo l'occasione offerta di ascendere verso questa apertura. La parola invita in primo luogo gli stanchi e oppressi: «Venite a me, io (non la mia parola) vi ristorerò» (Mt 11,28). Ma un logos concluso in se stesso non potrebbe ristorare ma solo prosciugare, se non venisse da più lontano di se stesso, dalla fonte originaria del Padre, e se non rimandasse più lontano di se stesso, poiché può offrire l'acqua che proprio in chi si disseta «sgorga in vita eterna» (Gv 4,14), lo Spirito Santo.

Questo solo è il senso del suo parlare. Dove il vertice della parola parlata non si apre verso l'alto («non si accorgevano che parlava loro del Padre») li egli interrompe il dialogo, sebbene «abbia ancora molto da dire e da giudicare su di voi. Ma perché parlo ancora con voi?» (Gv 8,25). Questa interruzione del dialogo - che già nella maggior parte dei dibattiti del vangelo di Giovanni era un «dialogo tra sordi» - avviene definitivamente nella passione, dove ogni invito a penetrare nelle profondità del Logos è inutile già dall'inizio. Così Gesù tace davanti a Caifa (Mt 26,63), davanti a Erode(Lc 23,9) e infine anche davanti a Pilato(Mt 27,12.14; Gv 19,19) e parla solo col suo silenzio: «Egli fu maltrattato e si lasciò umiliare e non aprì la bocca, come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori» (Is 53,7). È il compimento di quel tacere di Dio, per il quale non ha più senso parlare, per cui incatena anche il suo profeta Ezechiele e lo fa ammutolire (Ez 3,25 ss.). Questi parlerà solo per gesti simbolici (come anche le stazioni della Via Crucis di Gesù sono parole dette da muti gesti) fino al giorno in cui uno scampato da Gerusalemme comunicherà agli esiliati la rovina della città e il popolo riconoscerà che la parola di Jahwe è veritiera (Ez 24,27; 33,22).

Ma ciò si realizza evangelicamente nelle parole di Gesù in croce quando proclama l'ultima verità del Padre nel grido dell'abbandono, ma contemporaneamente si abbandona con un alto grido nelle mute mani del Padre per essere nel giorno della morte, al Sabato santo, l'inespressa ma tuttavia tonante parola.

Bisogna dire in primo luogo che il silenzio di Dio e di Gesù non è mai insignificante. una modalità che, più forte di qualsiasi proclamazione, rivela il suo vero essere. Ignazio di Antiochia ne sapeva molto su questo tema e ne parla già nell'ambito della propria passione: «Meglio è tacere ed essere che parlare e non essere. È cosa buona insegnare se chi parla pratica ciò che insegna. Uno solo è il maestro (Cristo), che disse e fu fatto e le opere che egli compì nel silenzio sono degne del Padre. Chi comprende veramente la parola di Gesù è in grado di capire anche il suo silenzio, per giungere cosi alla perfezione e per operare (come Gesù) attraverso la sua parola ed essere conosciuto attraverso il suo silenzio» (Ef 15,1-2). Gesù agisce qui non, solo parlando ma anche tacendo e colui che lo segue in ciò può essere esortato dal suo silenzio: è dunque - come quello di Dio - un silenzio significativo. Naturalmente Ignazio parla anche del «Dio unico che si è rivelato attraverso suo figlio Gesù Cristo, che è la sua Parola uscita dal silenzio» (Magn 8,2) e parla della concezione di Maria, della nascita così come della morte del Signore come di «tre misteri altisonanti che furono compiuti nel silenzio di Dio» (EJ 19,1). In questo silenzio di Dio sono compiuti questi «misteri altisonanti», ma «i principi di questo mondo» non vi prestano ascolto. Concezione, nascita, morte sono dunque parole proclamate ma non ascoltate. Ma che il silenzio del Padre (sigé), dal quale nasce il logos, possa essere interpretato gnosticamente (come se dietro il logos un abisso di silenzio fosse la divinità originaria) lo vieta l'eterna generazione del Figlio dal Padre, nel senso del prologo giovanneo. Infatti di Gesù Cristo si dice che «procedette dall'unico Padre ed era presso l'Unico e a lui tornò» (Magn 7,2). Qui il silenzio del Padre, già da sempre gravido del logos, ossia significativo, è equiparato alla nascita di questa Parola e così viene fondato quanto detto prima: che il Logos si può annunziare anche attraverso il silenzio.

Il mistero del Sabato santo non costituisce qui alcuna eccezione. Non solo il fatto che Gesù diventò solidale con noi nel suo silenzio di morte è un alto grido (kraugé), ma anche il fatto che egli espressamente scende nel silenzio di quella morte che è morte lontana dalla vita di Dio, morte in cui nessuno può più lodare Dio (cfr. Sal 6,6). Dio non può annunziare più chiaramente di cosi che egli ci raggiunge perfino nel nostro essere perduti. Che nel vecchio canto ecclesiale si cantasse della «morte di Dio» significa che egli ha inserito il morire dell'uomo (lontano da Dio) nel rapporto tra il Padre e il Figlio incarnato nello Spirito Santo, che dal Figlio nella morte è restituito al Padre e che questo silenzio mortale fa parte del suo mistero rivelato, rivolto a noi.

Ci sono molti momenti nel silenzio di Gesù.

C'è un silenzio durante il quale egli ascolta l'accusa contro l’adultera e silenziosamente chinato scrive per terra, silenzio che poi- improvvisamente, rialzandosi Gesù, si condensa nella parola di giudizio: «Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra contro di lei». Un silenzio che poi sprofonda di nuovo in un mutismo che non è altro se non l'eco della potente parola negli accusatori, come mostra il loro allontanarsi furtivo (Gv 8,1-11 ). E c'è poi il silenzio dell'adolescente che non rivela ai suoi genitori che rimarrà nella casa di suo Padre; silenzio che causa la loro angosciosa ricerca e che di nuovo sfocia nella sua parola autorevole che riecheggia per lunghi anni nella loro incomprensione. Questo non comprendere è il loro capire quali sconosciuti spazi si aprono con lui e quale rispetto esige la convivenza con chi è piombato dall'alto nel loro matrimonio.

Oppure poi un tacere per gli uni mentre agli altri parla: «Chi sono mia madre e i miei fratelli?» (Mc 3,33). Coloro che chiedono accesso e risposta non ottengono più di questo. O ancora in modo diverso nelle rivelazioni eccezionali senza una parola di Gesù, come nella Trasfigurazione sul Tabor, dove a coloro che fa esperimentano è negato un discorso chiarificatore, proprio come Paolo nell'estasi «ascoltai parole indicibili, esprimere le quali non è concesso a nessun uomo» (2 Cor 12,4). Parole dunque che si situano al di là del parlare umano e tuttavia sono affermazioni. A partire da questi esempi si può dire che tutte le parole di Gesù restano circondate da una zona di silenzio, che però non è limitazione della sua parola, ma al contrario rappresenta le dimensioni di questa parola non co-udibili per l'uomo. Infatti quando Dio si esprime non trattiene nulla per sé, solo non trova un ascoltatore al di fuori di sé che sia all'altezza della misura della sua parola. La

miglior risposta che può ricevere «Ecco sono la serva del Signore» non sa dove possono portare le conseguenze del «mi avvenga secondo la tua. parola ». Più avanti si mostrerà che la miglior comprensione della Parola può avvenire in abbandoni e unioni al di sopra della sfera del parlare scambievole.

Ma prima bisogna parlare di qualcosa d'altro, di ciò che nella meditazione è chiamato aridità, secchezza, desolazione. Il meditante sta davanti a un testo che è solo lettere alfabetiche e che non si apre a uno spazio interiore spirituale e neanche a una presenza vivente; è uno stato nel quale «l'anima si trova completamente pigra, tiepida, triste, come separata dal suo i Creatore e Signore» (Esercizi Spirituali, n. 317). Si può parlare qui di un silenzio della Parola? In un senso sì, perché essa sembra non volersi aprire da sola. Questo stato può avere, come ci viene insegnato, differenti cause: colpa propria «perché siamo pigri, tiepidi o trascurati nei nostri esercizi spirituali», oppure stimolo da parte del Signore affinché ci affatichiamo per penetrare nelle sue profondità anche senza il suo aiuto sensibile, oppure infine la nostra presunta esperienza esistenziale che l'ingresso in questa profondità non può essere strappata con i nostri sforzi, ma è «totalmente dono e grazia di Dio nostro Signore» e noi «non possiamo gonfiare il nostro spirito in una specie di orgoglio o vanagloria» per essere saliti con forza propria su questo o quel «gradino di preghiera» (Esercizi Spirituali, n. 322). Possiamo e dobbiamo bussare ma non ascrivere al nostro bussare la magica forza che ad esso debba necessariamente corrispondere lo schiudersi della porta. L'apparente silenzio della Parola è in ciascuno dei tre aspetti un denso insegnamento: «beati coloro che non vedono e tuttavia credono» - e credere anche in una gioia non-sentita, indicibile, trasfigurata (chará aneklaléto kai dedoxasmené, 1Pt 1,8), la cui «trasfigurazione» però è presso il Signore e a cui noi ora rinunciamo.

In ciò la meditazione cristiana si distanzia notevolmente da ogni tecnica di meditazione non cristiana, che dal suo punto di vista lavora a buon diritto per un determinato traguardo esperienziale che prima o poi deve essere raggiungibile e che non fa i conti con la libertà dello spazio di grazia della Parola che si apre dal di dentro. Inoltre il cammino della insensibilità - astraendo ora dalle conseguenze delle nostre trascuratezze - è un cammino della sequela nella situazione della passione del Verbo stesso che sulla croce si è sentito «come separato dal suo Creatore e Dio», dal Padre eternamente parlante: e questo al culmine dell'autoespressione del Padre che si muove a pietà del suo mondo, che muto corre incontro al suo figlio perduto, «gli getta le braccia al collo e lo bacia» (Lc 15,20). Questa è parola oltre ogni parola, espressa nel grido di abbandono «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?».

Cosi ciò che nella meditazione è vissuto come aridità e perfino come notte oscura può essere contemporaneamente nel nascondimento e nella verità chiarissimo splendore dell'amore. Ma questo amore si deve celare nella nudità della fede, l’unica cosa che Gesù, cui ogni esteriorità ed interiorità è stata rubata, non può perdere. Così è definitivamente confermato che nella meditazione cristiana ogni silenzio è significativo. O, detto altrimenti: che là dove noi percepiamo mancanza di parole (apofasi) in senso terreno, lì si aprono le sfere metaespressive della parola e del senso.


TOP   3. Indugiare nella Parola

Ogni istruzione sulla meditazione parla di indugiare. Possono essere indicati tempi cronologici di quanto ci si deve soffermare, ma la lunghezza del tempo può variare senza che si alteri il fatto stesso del soffermarsi. Ma il tempo cronologico deve essere tanto ampliato che si possa almeno giungere a un indugiare spirituale. Riguardo a ciò si può ricordare il pensiero di Madeleine Delbrél che il tempo cronologico del cristiano impegnato nella vita attiva può essere più compresso di quello del contemplativo, il cui tempo sarà più ampio. Per il primo ci sono «trivellazioni verticali nel profondo» che ci forniscono più velocemente l'olio combustibile e riscaldante che non il far legna nei boschi, ma anche la «trivellazione» necessita di un suo tempo conveniente.

Noi ci soffermiamo lì dove siamo di casa, non in viaggio. Il paesaggio della autorivelazione di Dio in Gesù Cristo è la nostra patria. È un paesaggio che non si finisce mai di percorrere - sempre si mostrano nuove prospettive - ma che ci è familiare e quanto più lo abitiamo, tanto più diventa familiare. Si dice infatti che siamo pellegrini e stranieri in terra (Ebr 11,13; 1 Pt 2,11), che quaggiù siamo una «colonia di cittadini del cielo» (Fil 3,20). Infatti lo spazio definitivo in cui abbiamo la nostra patria è lo spazio della missione compiuta del Figlio, che è ritornato nell'eternità della Trinità con tutte le sue esperienze terrene. Qui tutte le situazioni vissute appaiono nella loro verità definitiva; in quanto molteplicità delle sue «situazioni» (per usare la parola-chiave di Bérulle: «états») esse sono tutte integrate nell'eterna e unitaria situazione del Figlio nel Padre.

Proprio verso questa ultima integrazione tende la meditazione. Poiché questa semplificazione di tutte le situazioni terrene di Gesù non ci è immediatamente accessibile, facciamo bene, partendo per il momento da uno dei suoi misteri, a circoscrivere l'unità ivi soggiacente. In questo si situa una porzione di lavoro.

Prendiamo un esempio qualunque: il dodicenne e la sua coscienza di essere primariamente e univocamente in ciò che è di suo Padre. Il suo luogo è il tempio. Egli sa già di certo che tutta la storia di passione di questo tempio si compirà in lui. In questo dover-essere-qui diventa visibile tutta la sua missione, fino alla distruzione del tempio di pietra e di quello di carne che è lui stesso, e fino alla sua ricostruzione in tre giorni. Ciò che egli sa non è comunicabile, neppure ai propri familiari. Così incomunicabile come è il sapere della Vergine, quando la sua gravidanza diventò visibile. Quale solitudine già nell'anima di questo ragazzo, quale peso il Padre già gli pone sulle spalle. Egli deve essere il pilastro che porta tutto solo, tutto ciò che è già stato e tutto ciò che verrà. Ma il vecchio e il nuovo non stanno improvvisamente uno di fianco all'altro, egli siede tra i dottori e pone loro domande. Egli vuole conoscere l'antica sapienza, vi vuole essere istruito, il che non impedisce che lui, l'interrogante, ha l'intelligenza e conosce le risposte - tutta l'antica alleanza è in fondo un interrogativo a Dio, a Gesù - che meravigliano tutti gli ascoltatori (ora lo ascolta la vecchia alleanza). Egli non domanda come colui che sa tutto e meglio. C'è in lui questo vero imparare la sua propria preistoria, ma essa diventa interrogativo rivolto a lui e lo conferma nel fatto che, in quanto tempio definitivo e legge conclusiva e in quanto profeta e sacerdote escatologico, deve essere la Parola: la risposta che tutto adempie.

E qui si intromettono, quasi di lato, Maria e Giuseppe, non consapevoli che si trovano nello stadio di passaggio dal vecchio al nuovo; tornando a casa avevano lasciato il vecchio e sono «stupiti» che, alla ricerca del nuovo, lo trovino proprio nel vecchio. Continuità ma insieme frattura a cui loro - inconsapevoli e non comprendenti - si devono abituare passando attraverso il destino del figlio. Quanto aumenteranno ancora per la madre questo non comprendere, questa frattura, queste sofferenze quando, riassumendo in sé come figlia di Sion tutto il vecchio, si trasformerà sotto la croce nella Ecclesia immaculata! (Ef 5,27). E poi tutto quello che era esploso come un fulmine si vela di nuovo per lunghi anni: «Poi andò con loro a Nazareth e fu loro sottomesso». Ma sotto il velo la meditazione continua: «Sua madre conservava tutto ciò nel suo cuore», e con lei la Chiesa di tutti i tempi e ora noi. Nulla di ciò è puro passato, di valore solo antiquario: continuo è il passaggio dalla promessa alla realizzazione (anche là dove contempliamo un episodio storico, che improvvisamente diventa in noi presenza realizzantesi); sempre attuale è il soprassalto che rompe le nostre abitudini e il nostro sapere, sempre presente la meravigliata ed esortativa risposta del Signore: «Come, non sapevate che ... ? ». E sempre lievita sotto la copertura del quotidiano l'evento che nella coscienza di Gesù tutto quanto è incompreso, dubbioso, sconcertante ha la sua risposta. E questo nel paradosso che Paolo ci richiede: «Dobbiamo comprendere l'amore che supera ogni comprensione» (EJ 3,19).

Questi erano alcuni appunti per un lavoro di circoscrizione di un mistero, per una delimitazione delle sue dimensioni: quanti altri passi sarebbero ancora possibili intorno allo stesso mistero! Ma almeno una cosa dovrebbe diventare visibile da questo esempio: che questi passi non vogliono restare a distanza ma tendono verso il centro e il profondo: verso l'interiore atteggiamento del Figlio di Dio che comprende tutto il suo essere terreno come strumento nella missione del Padre e rimane in contatto orante con lui attraverso lo Spirito Santo, per comprendere la sua volontà. A uno qualsiasi di questi passi - come un sipario che si alza - ci si apre uno spiraglio verso questo centro. Allora è d'obbligo: fermarsi! Che il sipario si sia alzato è grazia e invito ad afferrare quanto contemplato, lasciarsi penetrare da esso, in un'apertura del desiderio (e in nessun modo della volontà di godere e di possedere), che ne vorrebbe essere colmato. Può essere unito a gioia, anzi a gioia traboccante, il fatto che ci venga concesso di poter contemplare i frutti non solo attraverso i vetri di una vetrina, ma di poterli «gustare» ed «assaporare». Questi sono gli antichi termini per questa partecipazione donata: «Sapere molto e non gustare nulla: a che serve?» (san Bonaventura su san Francesco, Hexaem. XXIII, 21). «Non il sapere molto sazia l'anima e le dà soddisfazione, ma il sentire e gustare le cose anteriormente» (Esercizi Spirituali, n. 2). Ignazio in questo passo lascia aperto se questo gustare avviene «per proprio penetrare» nell'oggetto contemplato o «nella misura in cui l'intelligenza è illuminata attraverso la forza». Il primo potrà avvenire difficilmente senza qualcosa del secondo, ma il secondo certamente non senza il primo.

Ma non si indugerà su un aspetto esteriore dell'avvenimento, ma solo in una visione interiore del sentimento, dell'atteggiamento, del cuore di Gesù Cristo, e una tale visione interiore può essere autentica solo quando in essa risplende insieme il suo rapporto col Padre nello Spirito Santo e il suo rapporto con gli uomini nella sua missione. Infatti Gesù non esiste altrimenti che in questo doppio movimento, egli è l'unico «mediatore tra Dio e gli uomini, colui che dà se stesso come riscatto per tutti» (1 Tim 2 ss.). Se l'ammirante indugiare ci «rapisse» dal tempo e quell'unico sguardo in quell'unica profondità ci bastasse; se fosse dunque completamente errato procedere dal trovato verso un nuovo cammino di ricerca, tuttavia ci può valere come criterio di autenticità questo: che non possiamo essere «rapiti» se non verso il concreto contenuto di questa mediazione in cui esiste l'unica viva unità tra Dio e uomo. Dio non può essere «gustato» altrimenti se non come colui che si apre e si offre in Cristo, e l'uomo non può essere altrimenti compreso se non come colui che è raggiunto da questo amore diretto a lui. Dio «in sé» si dona a noi veramente nel Dio «per noi». Perciò non abbiamo bisogno - per dirlo ancora una volta - di procurarci altri «sensi spirituali» per gustare Dio se non quelli donatici da Dio, che all'interno della divina umanità di Gesù sono sufficienti per toccare quel Dio che qui si apre e si inclina verso di noi. Infatti la Parola è diventata carne e non si è mai ritirata verso qualcosa di puramente spirituale.

Perciò anche il soffermarsi nelle profondità del mistero ci riporterà senza violenta interruzione alla nostra missione. Può darsi che essa quasi scompaia per un attimo nella contemplazione della missione di Cristo, ma ritroveremo il nostro piccolo posto nel suo grande spazio. Ma può anche darsi che, meditando la sua missione nel mondo che parte dal Padre ed è realizzata nello Spirito Santo, vi contempliamo anche la nostra missione e dalla contemplazione stessa siamo spinti verso il desiderio di una sua migliore realizzazione. Una continuità esiste in entrambi i casi, così come sopra avevamo riconosciuto una continuità tra theoria e praxis.

Il luogo in cui siamo invitati a soffermarsi è il centro infinitamente misterioso dell'Alleanza. Infatti Gesù Cristo è l'Alleanza: egli è identicamente il massimo profeta, attraverso cui Dio parla all'umanità, così come è il massimo sacerdote, attraverso cui l'umanità si offre a Dio e, in quanto ultima parola di Dio, offre se stesso come sacerdote, è il «buon pastore» che «dona la vita per le sue pecore», e in quanto pastore che rappresenta Dio è il re, e lui stesso si chiama così. I tre aspetti principali della antica alleanza, secondo la quale un uomo assume un ufficio per il popolo: il profeta, il sacerdote, il re come pastore, si riuniscono nell'«unico mediatore del patto» e possono essere compresi e correttamente valutati solo uno nell'altro e attraverso l'altro. In questa unità che supera ogni precedente aspetto particolare sfocia la meditazione cristiana. In essa infatti si trova la perfetta autorivelazione di Dio, al di là di ogni singola parola e concetto, in una unità non astratta ma concretissima, superiore ad ogni parola. Profezia in quanto autoespressione di Dio, ma non in una parola limitata, bensì nella autodonazione trinitaria, che si esprime nel sommo sacerdozio di Gesù - si consideri Gv 17 - e questo come la permanente proclamazione della regale gloria divina, che è anche nella sua autoumiliazione la cura del pastore per ogni pecorella smarrita.

Nella meditazione ci possono essere trasmesse immagini e impressioni della interiore vita divina, ma la meditazione stessa non può che essere cristologica. Ma ciò significa d'altra parte che nulla di cristologico ci può illuminare e affascinare che non sia trinitario: infatti nessuno raggiunge il Padre se non nella sua paternità, ossia nella sua autospoliazione al Figlio e nessuno giunge al rapporto tra Padre e Figlio se non nello Spirito Santo di entrambi, che scruta le profondità dell'amore divino. Questo significa che alla fine le immagini diventano così accecanti che Dio - colui che è al di là di ogni comprensione - è comprensibile solo a se stesso, così che perfino i serafini davanti allo splendore della gloria devono velare il loro volto (Is 6,2) e solo adorare. Il mistero rivelato di Dio è infinito.


 

 

 

pedrodiaz
00martedì 21 aprile 2009 21:16
2. La Parola silenziosa


 

 

 

2. La Parola silenziosa

Che Gesù sia la Parola del Padre non solo nel suo parlare con gli altri ma in tutta la sua esistenza, che include ogni umana azione e comportamento, è già stato detto. Quando egli parla e ammaestra esplicitamente, allora le sue parole hanno senso soltanto se introducono nelle dimensioni del suo essere intimo, della sua autocomprensione, della sua missione dal Padre, della sua vita dal Padre e verso il Padre. La parola parlata è come la punta di un triangolo che poggia a terra e che si apre in alto verso l'infinito. La sua parola è solo l'occasione offerta di ascendere verso questa apertura. La parola invita in primo luogo gli stanchi e oppressi: «Venite a me, io (non la mia parola) vi ristorerò» (Mt 11,28). Ma un logos concluso in se stesso non potrebbe ristorare ma solo prosciugare, se non venisse da più lontano di se stesso, dalla fonte originaria del Padre, e se non rimandasse più lontano di se stesso, poiché può offrire l'acqua che proprio in chi si disseta «sgorga in vita eterna» (Gv 4,14), lo Spirito Santo.

Questo solo è il senso del suo parlare. Dove il vertice della parola parlata non si apre verso l'alto («non si accorgevano che parlava loro del Padre») li egli interrompe il dialogo, sebbene «abbia ancora molto da dire e da giudicare su di voi. Ma perché parlo ancora con voi?» (Gv 8,25). Questa interruzione del dialogo - che già nella maggior parte dei dibattiti del vangelo di Giovanni era un «dialogo tra sordi» - avviene definitivamente nella passione, dove ogni invito a penetrare nelle profondità del Logos è inutile già dall'inizio. Così Gesù tace davanti a Caifa (Mt 26,63), davanti a Erode(Lc 23,9) e infine anche davanti a Pilato(Mt 27,12.14; Gv 19,19) e parla solo col suo silenzio: «Egli fu maltrattato e si lasciò umiliare e non aprì la bocca, come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori» (Is 53,7). È il compimento di quel tacere di Dio, per il quale non ha più senso parlare, per cui incatena anche il suo profeta Ezechiele e lo fa ammutolire (Ez 3,25 ss.). Questi parlerà solo per gesti simbolici (come anche le stazioni della Via Crucis di Gesù sono parole dette da muti gesti) fino al giorno in cui uno scampato da Gerusalemme comunicherà agli esiliati la rovina della città e il popolo riconoscerà che la parola di Jahwe è veritiera (Ez 24,27; 33,22).

Ma ciò si realizza evangelicamente nelle parole di Gesù in croce quando proclama l'ultima verità del Padre nel grido dell'abbandono, ma contemporaneamente si abbandona con un alto grido nelle mute mani del Padre per essere nel giorno della morte, al Sabato santo, l'inespressa ma tuttavia tonante parola.

Bisogna dire in primo luogo che il silenzio di Dio e di Gesù non è mai insignificante. una modalità che, più forte di qualsiasi proclamazione, rivela il suo vero essere. Ignazio di Antiochia ne sapeva molto su questo tema e ne parla già nell'ambito della propria passione: «Meglio è tacere ed essere che parlare e non essere. È cosa buona insegnare se chi parla pratica ciò che insegna. Uno solo è il maestro (Cristo), che disse e fu fatto e le opere che egli compì nel silenzio sono degne del Padre. Chi comprende veramente la parola di Gesù è in grado di capire anche il suo silenzio, per giungere cosi alla perfezione e per operare (come Gesù) attraverso la sua parola ed essere conosciuto attraverso il suo silenzio» (Ef 15,1-2). Gesù agisce qui non, solo parlando ma anche tacendo e colui che lo segue in ciò può essere esortato dal suo silenzio: è dunque - come quello di Dio - un silenzio significativo. Naturalmente Ignazio parla anche del «Dio unico che si è rivelato attraverso suo figlio Gesù Cristo, che è la sua Parola uscita dal silenzio» (Magn 8,2) e parla della concezione di Maria, della nascita così come della morte del Signore come di «tre misteri altisonanti che furono compiuti nel silenzio di Dio» (EJ 19,1). In questo silenzio di Dio sono compiuti questi «misteri altisonanti», ma «i principi di questo mondo» non vi prestano ascolto. Concezione, nascita, morte sono dunque parole proclamate ma non ascoltate. Ma che il silenzio del Padre (sigé), dal quale nasce il logos, possa essere interpretato gnosticamente (come se dietro il logos un abisso di silenzio fosse la divinità originaria) lo vieta l'eterna generazione del Figlio dal Padre, nel senso del prologo giovanneo. Infatti di Gesù Cristo si dice che «procedette dall'unico Padre ed era presso l'Unico e a lui tornò» (Magn 7,2). Qui il silenzio del Padre, già da sempre gravido del logos, ossia significativo, è equiparato alla nascita di questa Parola e così viene fondato quanto detto prima: che il Logos si può annunziare anche attraverso il silenzio.

Il mistero del Sabato santo non costituisce qui alcuna eccezione. Non solo il fatto che Gesù diventò solidale con noi nel suo silenzio di morte è un alto grido (kraugé), ma anche il fatto che egli espressamente scende nel silenzio di quella morte che è morte lontana dalla vita di Dio, morte in cui nessuno può più lodare Dio (cfr. Sal 6,6). Dio non può annunziare più chiaramente di cosi che egli ci raggiunge perfino nel nostro essere perduti. Che nel vecchio canto ecclesiale si cantasse della «morte di Dio» significa che egli ha inserito il morire dell'uomo (lontano da Dio) nel rapporto tra il Padre e il Figlio incarnato nello Spirito Santo, che dal Figlio nella morte è restituito al Padre e che questo silenzio mortale fa parte del suo mistero rivelato, rivolto a noi.

Ci sono molti momenti nel silenzio di Gesù.

C'è un silenzio durante il quale egli ascolta l'accusa contro l’adultera e silenziosamente chinato scrive per terra, silenzio che poi- improvvisamente, rialzandosi Gesù, si condensa nella parola di giudizio: «Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra contro di lei». Un silenzio che poi sprofonda di nuovo in un mutismo che non è altro se non l'eco della potente parola negli accusatori, come mostra il loro allontanarsi furtivo (Gv 8,1-11 ). E c'è poi il silenzio dell'adolescente che non rivela ai suoi genitori che rimarrà nella casa di suo Padre; silenzio che causa la loro angosciosa ricerca e che di nuovo sfocia nella sua parola autorevole che riecheggia per lunghi anni nella loro incomprensione. Questo non comprendere è il loro capire quali sconosciuti spazi si aprono con lui e quale rispetto esige la convivenza con chi è piombato dall'alto nel loro matrimonio.

Oppure poi un tacere per gli uni mentre agli altri parla: «Chi sono mia madre e i miei fratelli?» (Mc 3,33). Coloro che chiedono accesso e risposta non ottengono più di questo. O ancora in modo diverso nelle rivelazioni eccezionali senza una parola di Gesù, come nella Trasfigurazione sul Tabor, dove a coloro che fa esperimentano è negato un discorso chiarificatore, proprio come Paolo nell'estasi «ascoltai parole indicibili, esprimere le quali non è concesso a nessun uomo» (2 Cor 12,4). Parole dunque che si situano al di là del parlare umano e tuttavia sono affermazioni. A partire da questi esempi si può dire che tutte le parole di Gesù restano circondate da una zona di silenzio, che però non è limitazione della sua parola, ma al contrario rappresenta le dimensioni di questa parola non co-udibili per l'uomo. Infatti quando Dio si esprime non trattiene nulla per sé, solo non trova un ascoltatore al di fuori di sé che sia all'altezza della misura della sua parola. La

miglior risposta che può ricevere «Ecco sono la serva del Signore» non sa dove possono portare le conseguenze del «mi avvenga secondo la tua. parola ». Più avanti si mostrerà che la miglior comprensione della Parola può avvenire in abbandoni e unioni al di sopra della sfera del parlare scambievole.

Ma prima bisogna parlare di qualcosa d'altro, di ciò che nella meditazione è chiamato aridità, secchezza, desolazione. Il meditante sta davanti a un testo che è solo lettere alfabetiche e che non si apre a uno spazio interiore spirituale e neanche a una presenza vivente; è uno stato nel quale «l'anima si trova completamente pigra, tiepida, triste, come separata dal suo i Creatore e Signore» (Esercizi Spirituali, n. 317). Si può parlare qui di un silenzio della Parola? In un senso sì, perché essa sembra non volersi aprire da sola. Questo stato può avere, come ci viene insegnato, differenti cause: colpa propria «perché siamo pigri, tiepidi o trascurati nei nostri esercizi spirituali», oppure stimolo da parte del Signore affinché ci affatichiamo per penetrare nelle sue profondità anche senza il suo aiuto sensibile, oppure infine la nostra presunta esperienza esistenziale che l'ingresso in questa profondità non può essere strappata con i nostri sforzi, ma è «totalmente dono e grazia di Dio nostro Signore» e noi «non possiamo gonfiare il nostro spirito in una specie di orgoglio o vanagloria» per essere saliti con forza propria su questo o quel «gradino di preghiera» (Esercizi Spirituali, n. 322). Possiamo e dobbiamo bussare ma non ascrivere al nostro bussare la magica forza che ad esso debba necessariamente corrispondere lo schiudersi della porta. L'apparente silenzio della Parola è in ciascuno dei tre aspetti un denso insegnamento: «beati coloro che non vedono e tuttavia credono» - e credere anche in una gioia non-sentita, indicibile, trasfigurata (chará aneklaléto kai dedoxasmené, 1Pt 1,8), la cui «trasfigurazione» però è presso il Signore e a cui noi ora rinunciamo.

In ciò la meditazione cristiana si distanzia notevolmente da ogni tecnica di meditazione non cristiana, che dal suo punto di vista lavora a buon diritto per un determinato traguardo esperienziale che prima o poi deve essere raggiungibile e che non fa i conti con la libertà dello spazio di grazia della Parola che si apre dal di dentro. Inoltre il cammino della insensibilità - astraendo ora dalle conseguenze delle nostre trascuratezze - è un cammino della sequela nella situazione della passione del Verbo stesso che sulla croce si è sentito «come separato dal suo Creatore e Dio», dal Padre eternamente parlante: e questo al culmine dell'autoespressione del Padre che si muove a pietà del suo mondo, che muto corre incontro al suo figlio perduto, «gli getta le braccia al collo e lo bacia» (Lc 15,20). Questa è parola oltre ogni parola, espressa nel grido di abbandono «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?».

Cosi ciò che nella meditazione è vissuto come aridità e perfino come notte oscura può essere contemporaneamente nel nascondimento e nella verità chiarissimo splendore dell'amore. Ma questo amore si deve celare nella nudità della fede, l’unica cosa che Gesù, cui ogni esteriorità ed interiorità è stata rubata, non può perdere. Così è definitivamente confermato che nella meditazione cristiana ogni silenzio è significativo. O, detto altrimenti: che là dove noi percepiamo mancanza di parole (apofasi) in senso terreno, lì si aprono le sfere metaespressive della parola e del senso.


TOP   3. Indugiare nella Parola

Ogni istruzione sulla meditazione parla di indugiare. Possono essere indicati tempi cronologici di quanto ci si deve soffermare, ma la lunghezza del tempo può variare senza che si alteri il fatto stesso del soffermarsi. Ma il tempo cronologico deve essere tanto ampliato che si possa almeno giungere a un indugiare spirituale. Riguardo a ciò si può ricordare il pensiero di Madeleine Delbrél che il tempo cronologico del cristiano impegnato nella vita attiva può essere più compresso di quello del contemplativo, il cui tempo sarà più ampio. Per il primo ci sono «trivellazioni verticali nel profondo» che ci forniscono più velocemente l'olio combustibile e riscaldante che non il far legna nei boschi, ma anche la «trivellazione» necessita di un suo tempo conveniente.

Noi ci soffermiamo lì dove siamo di casa, non in viaggio. Il paesaggio della autorivelazione di Dio in Gesù Cristo è la nostra patria. È un paesaggio che non si finisce mai di percorrere - sempre si mostrano nuove prospettive - ma che ci è familiare e quanto più lo abitiamo, tanto più diventa familiare. Si dice infatti che siamo pellegrini e stranieri in terra (Ebr 11,13; 1 Pt 2,11), che quaggiù siamo una «colonia di cittadini del cielo» (Fil 3,20). Infatti lo spazio definitivo in cui abbiamo la nostra patria è lo spazio della missione compiuta del Figlio, che è ritornato nell'eternità della Trinità con tutte le sue esperienze terrene. Qui tutte le situazioni vissute appaiono nella loro verità definitiva; in quanto molteplicità delle sue «situazioni» (per usare la parola-chiave di Bérulle: «états») esse sono tutte integrate nell'eterna e unitaria situazione del Figlio nel Padre.

Proprio verso questa ultima integrazione tende la meditazione. Poiché questa semplificazione di tutte le situazioni terrene di Gesù non ci è immediatamente accessibile, facciamo bene, partendo per il momento da uno dei suoi misteri, a circoscrivere l'unità ivi soggiacente. In questo si situa una porzione di lavoro.

Prendiamo un esempio qualunque: il dodicenne e la sua coscienza di essere primariamente e univocamente in ciò che è di suo Padre. Il suo luogo è il tempio. Egli sa già di certo che tutta la storia di passione di questo tempio si compirà in lui. In questo dover-essere-qui diventa visibile tutta la sua missione, fino alla distruzione del tempio di pietra e di quello di carne che è lui stesso, e fino alla sua ricostruzione in tre giorni. Ciò che egli sa non è comunicabile, neppure ai propri familiari. Così incomunicabile come è il sapere della Vergine, quando la sua gravidanza diventò visibile. Quale solitudine già nell'anima di questo ragazzo, quale peso il Padre già gli pone sulle spalle. Egli deve essere il pilastro che porta tutto solo, tutto ciò che è già stato e tutto ciò che verrà. Ma il vecchio e il nuovo non stanno improvvisamente uno di fianco all'altro, egli siede tra i dottori e pone loro domande. Egli vuole conoscere l'antica sapienza, vi vuole essere istruito, il che non impedisce che lui, l'interrogante, ha l'intelligenza e conosce le risposte - tutta l'antica alleanza è in fondo un interrogativo a Dio, a Gesù - che meravigliano tutti gli ascoltatori (ora lo ascolta la vecchia alleanza). Egli non domanda come colui che sa tutto e meglio. C'è in lui questo vero imparare la sua propria preistoria, ma essa diventa interrogativo rivolto a lui e lo conferma nel fatto che, in quanto tempio definitivo e legge conclusiva e in quanto profeta e sacerdote escatologico, deve essere la Parola: la risposta che tutto adempie.

E qui si intromettono, quasi di lato, Maria e Giuseppe, non consapevoli che si trovano nello stadio di passaggio dal vecchio al nuovo; tornando a casa avevano lasciato il vecchio e sono «stupiti» che, alla ricerca del nuovo, lo trovino proprio nel vecchio. Continuità ma insieme frattura a cui loro - inconsapevoli e non comprendenti - si devono abituare passando attraverso il destino del figlio. Quanto aumenteranno ancora per la madre questo non comprendere, questa frattura, queste sofferenze quando, riassumendo in sé come figlia di Sion tutto il vecchio, si trasformerà sotto la croce nella Ecclesia immaculata! (Ef 5,27). E poi tutto quello che era esploso come un fulmine si vela di nuovo per lunghi anni: «Poi andò con loro a Nazareth e fu loro sottomesso». Ma sotto il velo la meditazione continua: «Sua madre conservava tutto ciò nel suo cuore», e con lei la Chiesa di tutti i tempi e ora noi. Nulla di ciò è puro passato, di valore solo antiquario: continuo è il passaggio dalla promessa alla realizzazione (anche là dove contempliamo un episodio storico, che improvvisamente diventa in noi presenza realizzantesi); sempre attuale è il soprassalto che rompe le nostre abitudini e il nostro sapere, sempre presente la meravigliata ed esortativa risposta del Signore: «Come, non sapevate che ... ? ». E sempre lievita sotto la copertura del quotidiano l'evento che nella coscienza di Gesù tutto quanto è incompreso, dubbioso, sconcertante ha la sua risposta. E questo nel paradosso che Paolo ci richiede: «Dobbiamo comprendere l'amore che supera ogni comprensione» (EJ 3,19).

Questi erano alcuni appunti per un lavoro di circoscrizione di un mistero, per una delimitazione delle sue dimensioni: quanti altri passi sarebbero ancora possibili intorno allo stesso mistero! Ma almeno una cosa dovrebbe diventare visibile da questo esempio: che questi passi non vogliono restare a distanza ma tendono verso il centro e il profondo: verso l'interiore atteggiamento del Figlio di Dio che comprende tutto il suo essere terreno come strumento nella missione del Padre e rimane in contatto orante con lui attraverso lo Spirito Santo, per comprendere la sua volontà. A uno qualsiasi di questi passi - come un sipario che si alza - ci si apre uno spiraglio verso questo centro. Allora è d'obbligo: fermarsi! Che il sipario si sia alzato è grazia e invito ad afferrare quanto contemplato, lasciarsi penetrare da esso, in un'apertura del desiderio (e in nessun modo della volontà di godere e di possedere), che ne vorrebbe essere colmato. Può essere unito a gioia, anzi a gioia traboccante, il fatto che ci venga concesso di poter contemplare i frutti non solo attraverso i vetri di una vetrina, ma di poterli «gustare» ed «assaporare». Questi sono gli antichi termini per questa partecipazione donata: «Sapere molto e non gustare nulla: a che serve?» (san Bonaventura su san Francesco, Hexaem. XXIII, 21). «Non il sapere molto sazia l'anima e le dà soddisfazione, ma il sentire e gustare le cose anteriormente» (Esercizi Spirituali, n. 2). Ignazio in questo passo lascia aperto se questo gustare avviene «per proprio penetrare» nell'oggetto contemplato o «nella misura in cui l'intelligenza è illuminata attraverso la forza». Il primo potrà avvenire difficilmente senza qualcosa del secondo, ma il secondo certamente non senza il primo.

Ma non si indugerà su un aspetto esteriore dell'avvenimento, ma solo in una visione interiore del sentimento, dell'atteggiamento, del cuore di Gesù Cristo, e una tale visione interiore può essere autentica solo quando in essa risplende insieme il suo rapporto col Padre nello Spirito Santo e il suo rapporto con gli uomini nella sua missione. Infatti Gesù non esiste altrimenti che in questo doppio movimento, egli è l'unico «mediatore tra Dio e gli uomini, colui che dà se stesso come riscatto per tutti» (1 Tim 2 ss.). Se l'ammirante indugiare ci «rapisse» dal tempo e quell'unico sguardo in quell'unica profondità ci bastasse; se fosse dunque completamente errato procedere dal trovato verso un nuovo cammino di ricerca, tuttavia ci può valere come criterio di autenticità questo: che non possiamo essere «rapiti» se non verso il concreto contenuto di questa mediazione in cui esiste l'unica viva unità tra Dio e uomo. Dio non può essere «gustato» altrimenti se non come colui che si apre e si offre in Cristo, e l'uomo non può essere altrimenti compreso se non come colui che è raggiunto da questo amore diretto a lui. Dio «in sé» si dona a noi veramente nel Dio «per noi». Perciò non abbiamo bisogno - per dirlo ancora una volta - di procurarci altri «sensi spirituali» per gustare Dio se non quelli donatici da Dio, che all'interno della divina umanità di Gesù sono sufficienti per toccare quel Dio che qui si apre e si inclina verso di noi. Infatti la Parola è diventata carne e non si è mai ritirata verso qualcosa di puramente spirituale.

Perciò anche il soffermarsi nelle profondità del mistero ci riporterà senza violenta interruzione alla nostra missione. Può darsi che essa quasi scompaia per un attimo nella contemplazione della missione di Cristo, ma ritroveremo il nostro piccolo posto nel suo grande spazio. Ma può anche darsi che, meditando la sua missione nel mondo che parte dal Padre ed è realizzata nello Spirito Santo, vi contempliamo anche la nostra missione e dalla contemplazione stessa siamo spinti verso il desiderio di una sua migliore realizzazione. Una continuità esiste in entrambi i casi, così come sopra avevamo riconosciuto una continuità tra theoria e praxis.

Il luogo in cui siamo invitati a soffermarsi è il centro infinitamente misterioso dell'Alleanza. Infatti Gesù Cristo è l'Alleanza: egli è identicamente il massimo profeta, attraverso cui Dio parla all'umanità, così come è il massimo sacerdote, attraverso cui l'umanità si offre a Dio e, in quanto ultima parola di Dio, offre se stesso come sacerdote, è il «buon pastore» che «dona la vita per le sue pecore», e in quanto pastore che rappresenta Dio è il re, e lui stesso si chiama così. I tre aspetti principali della antica alleanza, secondo la quale un uomo assume un ufficio per il popolo: il profeta, il sacerdote, il re come pastore, si riuniscono nell'«unico mediatore del patto» e possono essere compresi e correttamente valutati solo uno nell'altro e attraverso l'altro. In questa unità che supera ogni precedente aspetto particolare sfocia la meditazione cristiana. In essa infatti si trova la perfetta autorivelazione di Dio, al di là di ogni singola parola e concetto, in una unità non astratta ma concretissima, superiore ad ogni parola. Profezia in quanto autoespressione di Dio, ma non in una parola limitata, bensì nella autodonazione trinitaria, che si esprime nel sommo sacerdozio di Gesù - si consideri Gv 17 - e questo come la permanente proclamazione della regale gloria divina, che è anche nella sua autoumiliazione la cura del pastore per ogni pecorella smarrita.

Nella meditazione ci possono essere trasmesse immagini e impressioni della interiore vita divina, ma la meditazione stessa non può che essere cristologica. Ma ciò significa d'altra parte che nulla di cristologico ci può illuminare e affascinare che non sia trinitario: infatti nessuno raggiunge il Padre se non nella sua paternità, ossia nella sua autospoliazione al Figlio e nessuno giunge al rapporto tra Padre e Figlio se non nello Spirito Santo di entrambi, che scruta le profondità dell'amore divino. Questo significa che alla fine le immagini diventano così accecanti che Dio - colui che è al di là di ogni comprensione - è comprensibile solo a se stesso, così che perfino i serafini davanti allo splendore della gloria devono velare il loro volto (Is 6,2) e solo adorare. Il mistero rivelato di Dio è infinito.

 

 

pedrodiaz
00martedì 21 aprile 2009 21:21
3. Indugiare nella Parola


 

 

 

 

3. Indugiare nella Parola

Ogni istruzione sulla meditazione parla di indugiare. Possono essere indicati tempi cronologici di quanto ci si deve soffermare, ma la lunghezza del tempo può variare senza che si alteri il fatto stesso del soffermarsi. Ma il tempo cronologico deve essere tanto ampliato che si possa almeno giungere a un indugiare spirituale. Riguardo a ciò si può ricordare il pensiero di Madeleine Delbrél che il tempo cronologico del cristiano impegnato nella vita attiva può essere più compresso di quello del contemplativo, il cui tempo sarà più ampio. Per il primo ci sono «trivellazioni verticali nel profondo» che ci forniscono più velocemente l'olio combustibile e riscaldante che non il far legna nei boschi, ma anche la «trivellazione» necessita di un suo tempo conveniente.

Noi ci soffermiamo lì dove siamo di casa, non in viaggio. Il paesaggio della autorivelazione di Dio in Gesù Cristo è la nostra patria. È un paesaggio che non si finisce mai di percorrere - sempre si mostrano nuove prospettive - ma che ci è familiare e quanto più lo abitiamo, tanto più diventa familiare. Si dice infatti che siamo pellegrini e stranieri in terra (Ebr 11,13; 1 Pt 2,11), che quaggiù siamo una «colonia di cittadini del cielo» (Fil 3,20). Infatti lo spazio definitivo in cui abbiamo la nostra patria è lo spazio della missione compiuta del Figlio, che è ritornato nell'eternità della Trinità con tutte le sue esperienze terrene. Qui tutte le situazioni vissute appaiono nella loro verità definitiva; in quanto molteplicità delle sue «situazioni» (per usare la parola-chiave di Bérulle: «états») esse sono tutte integrate nell'eterna e unitaria situazione del Figlio nel Padre.

Proprio verso questa ultima integrazione tende la meditazione. Poiché questa semplificazione di tutte le situazioni terrene di Gesù non ci è immediatamente accessibile, facciamo bene, partendo per il momento da uno dei suoi misteri, a circoscrivere l'unità ivi soggiacente. In questo si situa una porzione di lavoro.

Prendiamo un esempio qualunque: il dodicenne e la sua coscienza di essere primariamente e univocamente in ciò che è di suo Padre. Il suo luogo è il tempio. Egli sa già di certo che tutta la storia di passione di questo tempio si compirà in lui. In questo dover-essere-qui diventa visibile tutta la sua missione, fino alla distruzione del tempio di pietra e di quello di carne che è lui stesso, e fino alla sua ricostruzione in tre giorni. Ciò che egli sa non è comunicabile, neppure ai propri familiari. Così incomunicabile come è il sapere della Vergine, quando la sua gravidanza diventò visibile. Quale solitudine già nell'anima di questo ragazzo, quale peso il Padre già gli pone sulle spalle. Egli deve essere il pilastro che porta tutto solo, tutto ciò che è già stato e tutto ciò che verrà. Ma il vecchio e il nuovo non stanno improvvisamente uno di fianco all'altro, egli siede tra i dottori e pone loro domande. Egli vuole conoscere l'antica sapienza, vi vuole essere istruito, il che non impedisce che lui, l'interrogante, ha l'intelligenza e conosce le risposte - tutta l'antica alleanza è in fondo un interrogativo a Dio, a Gesù - che meravigliano tutti gli ascoltatori (ora lo ascolta la vecchia alleanza). Egli non domanda come colui che sa tutto e meglio. C'è in lui questo vero imparare la sua propria preistoria, ma essa diventa interrogativo rivolto a lui e lo conferma nel fatto che, in quanto tempio definitivo e legge conclusiva e in quanto profeta e sacerdote escatologico, deve essere la Parola: la risposta che tutto adempie.

E qui si intromettono, quasi di lato, Maria e Giuseppe, non consapevoli che si trovano nello stadio di passaggio dal vecchio al nuovo; tornando a casa avevano lasciato il vecchio e sono «stupiti» che, alla ricerca del nuovo, lo trovino proprio nel vecchio. Continuità ma insieme frattura a cui loro - inconsapevoli e non comprendenti - si devono abituare passando attraverso il destino del figlio. Quanto aumenteranno ancora per la madre questo non comprendere, questa frattura, queste sofferenze quando, riassumendo in sé come figlia di Sion tutto il vecchio, si trasformerà sotto la croce nella Ecclesia immaculata! (Ef 5,27). E poi tutto quello che era esploso come un fulmine si vela di nuovo per lunghi anni: «Poi andò con loro a Nazareth e fu loro sottomesso». Ma sotto il velo la meditazione continua: «Sua madre conservava tutto ciò nel suo cuore», e con lei la Chiesa di tutti i tempi e ora noi. Nulla di ciò è puro passato, di valore solo antiquario: continuo è il passaggio dalla promessa alla realizzazione (anche là dove contempliamo un episodio storico, che improvvisamente diventa in noi presenza realizzantesi); sempre attuale è il soprassalto che rompe le nostre abitudini e il nostro sapere, sempre presente la meravigliata ed esortativa risposta del Signore: «Come, non sapevate che ... ? ». E sempre lievita sotto la copertura del quotidiano l'evento che nella coscienza di Gesù tutto quanto è incompreso, dubbioso, sconcertante ha la sua risposta. E questo nel paradosso che Paolo ci richiede: «Dobbiamo comprendere l'amore che supera ogni comprensione» (EJ 3,19).

Questi erano alcuni appunti per un lavoro di circoscrizione di un mistero, per una delimitazione delle sue dimensioni: quanti altri passi sarebbero ancora possibili intorno allo stesso mistero! Ma almeno una cosa dovrebbe diventare visibile da questo esempio: che questi passi non vogliono restare a distanza ma tendono verso il centro e il profondo: verso l'interiore atteggiamento del Figlio di Dio che comprende tutto il suo essere terreno come strumento nella missione del Padre e rimane in contatto orante con lui attraverso lo Spirito Santo, per comprendere la sua volontà. A uno qualsiasi di questi passi - come un sipario che si alza - ci si apre uno spiraglio verso questo centro. Allora è d'obbligo: fermarsi! Che il sipario si sia alzato è grazia e invito ad afferrare quanto contemplato, lasciarsi penetrare da esso, in un'apertura del desiderio (e in nessun modo della volontà di godere e di possedere), che ne vorrebbe essere colmato. Può essere unito a gioia, anzi a gioia traboccante, il fatto che ci venga concesso di poter contemplare i frutti non solo attraverso i vetri di una vetrina, ma di poterli «gustare» ed «assaporare». Questi sono gli antichi termini per questa partecipazione donata: «Sapere molto e non gustare nulla: a che serve?» (san Bonaventura su san Francesco, Hexaem. XXIII, 21). «Non il sapere molto sazia l'anima e le dà soddisfazione, ma il sentire e gustare le cose anteriormente» (Esercizi Spirituali, n. 2). Ignazio in questo passo lascia aperto se questo gustare avviene «per proprio penetrare» nell'oggetto contemplato o «nella misura in cui l'intelligenza è illuminata attraverso la forza». Il primo potrà avvenire difficilmente senza qualcosa del secondo, ma il secondo certamente non senza il primo.

Ma non si indugerà su un aspetto esteriore dell'avvenimento, ma solo in una visione interiore del sentimento, dell'atteggiamento, del cuore di Gesù Cristo, e una tale visione interiore può essere autentica solo quando in essa risplende insieme il suo rapporto col Padre nello Spirito Santo e il suo rapporto con gli uomini nella sua missione. Infatti Gesù non esiste altrimenti che in questo doppio movimento, egli è l'unico «mediatore tra Dio e gli uomini, colui che dà se stesso come riscatto per tutti» (1 Tim 2 ss.). Se l'ammirante indugiare ci «rapisse» dal tempo e quell'unico sguardo in quell'unica profondità ci bastasse; se fosse dunque completamente errato procedere dal trovato verso un nuovo cammino di ricerca, tuttavia ci può valere come criterio di autenticità questo: che non possiamo essere «rapiti» se non verso il concreto contenuto di questa mediazione in cui esiste l'unica viva unità tra Dio e uomo. Dio non può essere «gustato» altrimenti se non come colui che si apre e si offre in Cristo, e l'uomo non può essere altrimenti compreso se non come colui che è raggiunto da questo amore diretto a lui. Dio «in sé» si dona a noi veramente nel Dio «per noi». Perciò non abbiamo bisogno - per dirlo ancora una volta - di procurarci altri «sensi spirituali» per gustare Dio se non quelli donatici da Dio, che all'interno della divina umanità di Gesù sono sufficienti per toccare quel Dio che qui si apre e si inclina verso di noi. Infatti la Parola è diventata carne e non si è mai ritirata verso qualcosa di puramente spirituale.

Perciò anche il soffermarsi nelle profondità del mistero ci riporterà senza violenta interruzione alla nostra missione. Può darsi che essa quasi scompaia per un attimo nella contemplazione della missione di Cristo, ma ritroveremo il nostro piccolo posto nel suo grande spazio. Ma può anche darsi che, meditando la sua missione nel mondo che parte dal Padre ed è realizzata nello Spirito Santo, vi contempliamo anche la nostra missione e dalla contemplazione stessa siamo spinti verso il desiderio di una sua migliore realizzazione. Una continuità esiste in entrambi i casi, così come sopra avevamo riconosciuto una continuità tra theoria e praxis.

Il luogo in cui siamo invitati a soffermarsi è il centro infinitamente misterioso dell'Alleanza. Infatti Gesù Cristo è l'Alleanza: egli è identicamente il massimo profeta, attraverso cui Dio parla all'umanità, così come è il massimo sacerdote, attraverso cui l'umanità si offre a Dio e, in quanto ultima parola di Dio, offre se stesso come sacerdote, è il «buon pastore» che «dona la vita per le sue pecore», e in quanto pastore che rappresenta Dio è il re, e lui stesso si chiama così. I tre aspetti principali della antica alleanza, secondo la quale un uomo assume un ufficio per il popolo: il profeta, il sacerdote, il re come pastore, si riuniscono nell'«unico mediatore del patto» e possono essere compresi e correttamente valutati solo uno nell'altro e attraverso l'altro. In questa unità che supera ogni precedente aspetto particolare sfocia la meditazione cristiana. In essa infatti si trova la perfetta autorivelazione di Dio, al di là di ogni singola parola e concetto, in una unità non astratta ma concretissima, superiore ad ogni parola. Profezia in quanto autoespressione di Dio, ma non in una parola limitata, bensì nella autodonazione trinitaria, che si esprime nel sommo sacerdozio di Gesù - si consideri Gv 17 - e questo come la permanente proclamazione della regale gloria divina, che è anche nella sua autoumiliazione la cura del pastore per ogni pecorella smarrita.

Nella meditazione ci possono essere trasmesse immagini e impressioni della interiore vita divina, ma la meditazione stessa non può che essere cristologica. Ma ciò significa d'altra parte che nulla di cristologico ci può illuminare e affascinare che non sia trinitario: infatti nessuno raggiunge il Padre se non nella sua paternità, ossia nella sua autospoliazione al Figlio e nessuno giunge al rapporto tra Padre e Figlio se non nello Spirito Santo di entrambi, che scruta le profondità dell'amore divino. Questo significa che alla fine le immagini diventano così accecanti che Dio - colui che è al di là di ogni comprensione - è comprensibile solo a se stesso, così che perfino i serafini davanti allo splendore della gloria devono velare il loro volto (Is 6,2) e solo adorare. Il mistero rivelato di Dio è infinito.

 

 

 

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