Note sul libro della GENESI

Pagine: [1], 2, 3
pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:36

 


 

guld20ornen20backpic.gif

Note sul libro della GENESI

Charles Henry Mackintosh

I sottotitoli sono stati aggiunti da un’edizione francese.


Indice:

1. Capitolo 1: La creazione
    1.1 Il Creatore
1.2 Le tenebre e la luce
1.3 Il sole, la luna e le stelle [figure di Gesù, della Chiesa e dei credenti]
1.4 L’uomo e la donna — Cristo e la Chiesa
2. Capitolo 2: Il settimo giorno della creazione [il riposo e le sue benedizioni]
2.1 Il sabato
2.2 Il primo giorno della settimana
2.3 Il giorno del Signore
2.4 Un riposo futuro
2.5 Un fiume divino
2.6 Morte e vita [Adamo, un essere responsabile]
3. Capitolo 3: La caduta
3.1 Le insuazioni del serpente
3.2 L’autorità della parola di Dio
3.3 Diffidenza riguardo all’amore di Dio
3.4 Tentazione di Adamo, tentazione di Gesù
3.5 La coscienza
3.6 «Dove sei?» [La rivelazione di ciò che Dio è]
3.7 L’uomo davanti a Dio
3.8 Le tuniche di pelle [la giustizia di Dio]
3.9 Fuori del giardino
4. Capitolo 4: Caino e Abele
4.1 L’uomo religioso e l’uomo di fede
4.2 Adamo e Cristo, due capostipiti della razza
4.3 Due sacrifici
4.4 Il sacrificio di Caino 
    4.5 Il sacrificio di Abele
    4.6 La fede e i sentimenti
4.7 Il valore del sacrificio stesso [identificazione del uomo con la sua offerta]
4.8 L’omicida
4.9 Caino e la sua discendenza
5. Capitolo 5: Le generazioni di Set a Noè
5.1 La vita e la morte — la morte e la vita
    5.2 Enoc
6. Capitoli da 6 a 9: Il diluvio
6.1 L’unione di ciò che è santo con ciò che è profano
6.2 Noè trova grazia agli occhi dell’Eterno
    6.3 Fede nella parola di Dio
6.4 Il modo della salvezza
6.5 Perfetta sicurezza nell’arca
6.6 Una porta chiusa
6.7 Così sarà alla venuta del Figlio dell’uomo
6.8 Siate riconciliati con Dio
6.9 Le acque diminuiscono
6.10 Noè esce dall’arca
6.11 L’arco di Dio nella nuvola
6.12 Noè s’inebrio
7. Capitoli 10 e 11: Di Noè a Abramo
7.1 Babilonia
7.2 La torre di Babele
7.3 Dispersione e riunione
8. Capitolo 12: Abramo
8.1 L’appello di Dio
8.2 La croce ci mette a parte dal mondo
8.3 L’obbedienza
8.4 La tenda e l’altare
8.5 La prova: une carestia — soggiorno in Egitto
9. Capitoli 13 e 14: Abramo e Lot
    9.1 Il ritorno dall’Egitto
9.2 Lot, nipote d’Abramo
9.3 L’amore del mondo
9.4 Conferma delle promesse ad Abramo
9.5 La battaglia dei re
9.6 L’intervento di Abramo
9.7 Melchisedec e la tentazione del re di Sodoma
10. Capitolo 15: Rivelazione di Dio ad Abramo
10.1 Il scudo e la ricompensa d’Abramo
10.2 Il figlio e l’erede
10.3 La fede che giustifica
10.4 La fede in Cristo morte e risuscitato
10.5 Le sofferenze prima dell’entrata in possesso dell’eredità
10.6 La visione d’Abramo
11. Capitolo 16: Sarai e Agar
11.1 Il ricorso a mezzi umani
11.2 Tristi conseguenze
11.3 Si miete quello che si semina
    11.4 I due patti
12. Capitolo 17: Abramo diventa Abrahamo — Sarai diventa Sara
12.1 L’alleanza di Dio con Abrahamo
12.2 La circoncisione
13. Capitolo 18: Visita dei messaggeri celesti a Abrahamo
13.1 Comunione con il Signore
13.2 La rivelazione dei disegni di Dio
13.3 L’intercessore
13.4 Gli eventi futuri e la speranza della Chiesa
14. Capitolo 19: La distruzione di Sodoma
14.1 Una posizione falsa
14.2 Una testimonianza nulla
14.3 Il disastro completo
15. Capitolo 20: Abrahamo a Gherar
15.1 Una mancanza seria
15.2 Come Dio vede i suoi
16. Capitolo 21: Nascita d’Isacco
16.1 L’adempimento della promessa
16.2 Isacco e Ismaele
16.3 La nuova e la vecchia natura
16.4 Libertà e servitù
17. Capitolo 22: Il sacrificio d’Isacco
17.1 Dio prova la fede d’Abrahamo
17.2 Abrahamo ubbidisce
17.3 La prova della fede
17.4 Giustificato dalla fede, giustificato dalle opere
17.5 Il risultato della prova
17.6 Conferma delle promesse
18. Capitolo 23: Morte di Sara — La spelonca di Macpela
18.1 Fede nella risurrezione
18.2 Onestà davanti al mondo
19. Capitolo 24: Rebecca, una moglie per Isacco
19.1 Una figura dell’appello della Chiesa
19.2 Il giuramento del servitore
19.3 La testimonianza del servitore
19.4 Il risultato della missione del servitore
20. Capitolo 25: Fine della vita di Abrahamo
20.1 Il secondo matrimonio di Abrahamo
20.2 Esaù sprezza la sua primogenitura
21. Capitolo 26: Isacco a Gherar poi a Beer Sheba
22. Capitolo 27: Giacobbe e Esaù
    22.1 L’elezione della grazia
22.2 Giacobbe si fa passare per Esaù
22.3 Sapere aspettare il tempo fissato da Dio
22.4 Gli espedienti di Giacobbe
22.5 L’atteggiamento d’Isacco
22.6 Rebecca e Esaù
23. Capitolo 28: Giacobbe fuggitivo
23.1 La disciplina di Dio
23.2 Bethel, la casa di Dio
23.3 La grazia sovrana di Dio
23.4 Una coscienza a disagio
24. Capitoli da 29 a 31: Giacobbe a casa di Labano
    24.1 Alla scuola di Dio
24.2 L’ingannatore a casa dell’ingannatore
24.3 La conoscenza della grazia e la conoscenza di noi stessi
25. Capitoli da 32 a 34: Di ritorno in Canaan
25.1 Gli arrangiamenti umani e la preghiera
25.2 Giacobbe a Peniel
25.3 Giacobbe diventa Israele
25.4 Incontro con Esaù
25.5 Giacobbe si stabilisce a Succot
25.6 Guai a Sichem
26. Capitolo 35: Giacobbe a Bethel
27. Capitolo 36: La discendenza di Esaù
28. Capitolo 37: Giuseppe e i suoi fratelli
28.1 Una figura di Cristo
28.2 Le sofferenze e la gloria
29. Capitolo 38: Giuda e sua famiglia
30. Capitoli da 39 a 45: Giuseppe in Egitto
30.1 Gli atti degli uomini e i disegni di Dio
30.2 Giuseppe, meravigliosa figura di Cristo
30.3 Una moglie, compagna della sua gloria
30.4 Restaurazione dei fratelli di Giuseppe
31. Capitoli da 46 a 50: Giacobbe in Egitto
31.1 La fine di Giacobbe
31.2 Giuseppe e il Faraone

tratto da - bibbiaweb org

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:37
1. Capitolo 1: La creazione
1.1 Il Creatore
Lo Spirito Santo apre questo libro in modo particolarmente notevole. Ci pone senza preamboli davanti a Dio, nella piena essenza del suo essere, e ce lo fa vedere in quella scena in cui Egli solo è all’opera e agisce. Lo udiamo rompere il silenzio della terra, lo vediamo risplendere nelle tenebre che la coprono, per creare, per Se stesso, una sfera nella quale possa manifestare, la sua potenza eterna e la sua divinità (Epist. Romani 1:20).

Non vi è nulla qui che appaghi una vana curiosità, nulla su cui lo spirito dell’uomo sia chiamato a speculare; vi è la sublime realtà della verità divina nella sua potenza morale, che agisce sul cuore e sull’intelligenza. Lo Spirito di Dio non vuole fornire elementi alla curiosità dell’uomo o soddisfarla con teorie sottili. I geologi possono investigare le viscere della terra e trarre materiali con i quali spesso pretendono di completare o contraddire gli scritti divini; possono estendere le loro speculazioni ai detriti fossili; ma l’umile discepolo si attiene con sacro diletto alle pagine ispirate: egli legge, crede e adora. Intraprendiamo dunque, con questo spirito, lo studio di questo libro, e ci sia dato di realizzare ciò che significa «mirare la bellezza dell’Eterno e meditare nel suo Tempio». (Salmo 27:4).

«Nel principio, Iddio creò i cieli e la terra». Le prime parole del Libro Sacro ci pongono in presenza di Colui che è la sorgente infinita di ogni vera benedizione. Lo Spirito Santo non adduce nessun argomento per provarci l’esistenza di Dio; Dio si rivela, si fa conoscere per mezzo delle sue opere. «I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annunzia l’opera delle sue mani». «O Eterno, tutte le tue opere ti celebreranno!».

Solo l’incredulo e l’ateo cercano delle prove dell’esistenza di Colui che, per mezzo della sua Parola, chiamò i mondi all’esistenza e rivelò Se stesso come l’Iddio sovranamente savio, l’Onnipotente, l’Eterno. Chi, fuorché Dio, potrebbe creare qualcosa? «Levate gli occhi in alto e guardate: Chi ha creato queste cose? Colui che fa uscir fuori e conta il loro esercito, che le chiama tutte per nome, e per la grandezza del suo potere e per la potenza della sua forza, non una manca» (Isaia 40:26). Gli dèi delle nazioni non sono che idoli, ma l’Eterno ha fatto i cieli. Nel libro di Giobbe, cap. 38 a 41, l’Eterno stesso si appella al creato come prova irrecusabile della sua sovranità. Questo appello, pur presentando all’intelligenza la più vivida e convincente prova dell’onnipotenza di Dio, commuove il cuore con la sua meravigliosa condiscendenza. Tutto è divino: la maestà e l’amore, la potenza e la tenerezza!

1.2 Le tenebre e la luce
«E la terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso». Era veramente una scena in cui Iddio solo poteva agire. Senza dubbio l’uomo, nell’orgoglio del suo cuore, s’è dimostrato fin troppo disposto a interferire nell’opera di Dio, in altre e ben più elevate sfere d’azione; ma qui l’uomo non ha alcun posto fino al momento in cui, come ogni altra cosa, diventa l’oggetto della potenza creatrice.

Dio è solo nell’opera della creazione. Egli, dalla sua eterna dimora di luce, riguardò alla deserta solitudine dello spazio e vide la sfera ove i suoi piani meravigliosi e i suoi consigli dovevano, un giorno, spiegarsi e manifestarsi; sfera in cui il suo eterno Figliuolo doveva vivere, affaticarsi, testimoniare, soffrire e morire per manifestare, alla vista dei mondi attoniti, le gloriose perfezioni della Divinità.

Tutto era tenebre e caos, ma Dio è un Dio di luce e d’ordine. «Dio è luce e non vi sono in Lui tenebre alcune». Le tenebre non possono sussistere nella sua presenza, considerate sia dal punto di vista fisico che morale, intellettuale o spirituale.

«Lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque». Covava, per così dire, sulla scena delle sue future operazioni; scena tenebrosa, invero, e che offriva un vasto campo d’azione all’Iddio di luce e di vita. Egli solo poteva rischiarare quella scena, farne scaturire la vita; sostituire l’ordine al caos e stabilire una distesa tra le acque, in modo che la vita potesse svilupparsi senza temere la morte. Queste erano opere degne di Dio.

«Iddio disse: Sia la luce! e la luce fu». «Egli parlò e la cosa fu. Egli comandò e la cosa sorse». L’incredulo vuoi sapere come, dove, quando. Ma lo Spirito dice: «Per fede intendiamo che i mondi sono stati formati dalla Parola di Dio, cosicché le cose che si vedono non sono state tratte da cose apparenti» (Ebrei 11:3). Questa risposta soddisfa pienamente chi è alla scuola di Dio, ad onta del sorriso sprezzante dei filosofi.

Dio non vuol fare di noi degli astronomi o dei geologi, né occuparci dei particolari che il museo o il telescopio mettono sotto gli occhi di ognuno. Lo scopo di Dio è di introdurci nella sua presenza come adoratori, con cuori e menti ammaestrati e condotti dalla sua santa Parola. Il filosofo può sprezzare ciò che chiama pregiudizi volgari e gretti del pio discepolo della Parola di Dio; può gloriarsi del suo telescopio col quale misura la distesa dei cieli, o gloriarsi delle scoperte che fa nelle profondità della terra; quanto a noi, con tali opposizioni «di quella che falsamente si chiama scienza» (1 Tim. 6:20) non abbiamo nulla a che fare. Crediamo che tutte le vere scoperte fatte sia in alto nei cieli o in basso nella terra o nelle acque o sotto la terra, sono in accordo con ciò che è scritto nella Parola di Dio; tutte le altre pretese scoperte sono soltanto degne di essere interamente respinte. Bisogna che il cuore sia perfettamente convinto della pienezza, dell’autorità, della perfezione, della maestà e della totale ispirazione del Sacro Libro (Salmo 12:6). Sarà questa la sola salvaguardia efficace contro il razionalismo e la superstizione. Una conoscenza esatta della Parola e una intera sottomissione al suo contenuto, sono oggi più che mai indispensabili al discepolo di Cristo. Voglia Iddio nella sua grazia aumentare abbondantemente fra noi questa conoscenza e questa sottomissione.

«E Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce dalle tenebre. E Dio chiamò la luce "giorno" e le tenebre notte». Abbiamo qui i due grandi simboli, sovente adoperati nella Parola: la presenza della luce costituisce il giorno; l’assenza della luce, la notte. Così è nella storia delle anime. Vi sono «i figliuoli della luce» e «i figliuoli delle tenebre». La differenza è netta e solenne. Tutti coloro sui quali la luce della vita ha brillato, tutti quelli che «l’Oriente da alto» ha visitato a salvezza, tutti quelli che hanno ricevuto la luce della conoscenza della gloria di Dio rifulsa nel volto di Gesù Cristo, chiunque essi siano, appartengono alla prima categoria e sono figliuoli della luce e del giorno. D’altra parte, tutti quelli che sono nelle tenebre, nell’accecamento e nell’incredulità della natura, i cui cuori non sono stati per la fede illuminati dai raggi del sole di giustizia, sono ancora avvolti nelle tenebre della notte spirituale, sono figliuoli delle tenebre, figliuoli della notte.

Lettore, fermatevi e chiedetevi nella presenza di Colui che investiga i cuori, a quale di queste due classi di persone appartenete. Non illudete voi stessi; si tratta per voi di vita o di morte. Potete essere povero, sprezzato, ignorante; ma, se per lo Spirito, siete unito al Figliuol di Dio che è «la luce del mondo» (Giov. 1:4) siete un figliuolo di luce, destinato a risplendere tosto nelle sfere celesti di cui «l’Agnello immolato» sarà per sempre il centro e il sole. Questo non è frutto dell’opera vostra, ma il risultato dei consigli e delle operazioni di Dio stesso, che vi ha dato luce, vita, gioia e pace in Gesù e per mezzo del suo sacrificio. Ma se siete estraneo all’azione e all’influenza santificante della luce divina, se i vostri occhi non sono stati aperti per vedere qualche bellezza in Gesù, Figliuol di Dio, allora, quand’anche possedeste tutta la sapienza di un grande scienziato e tutti i tesori della filosofia umana, quand’anche fossero vostri tutti i titoli accademici che le scuole e le università di questo mondo possono conferire, rimarreste tuttavia un «figliuolo della notte e delle tenebre» (1 Tess. 5:5), e se morrete in questo stato sarete per sempre avvolto dalle tenebre e dai terrori di una notte eterna! Non proseguite dunque prima di esservi assicurato se siete «del giorno» o «della notte».
pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:38
1.3 Il sole, la luna e le stelle
[figure di Gesù, della Chiesa e dei credenti]

Poi, Iddio disse: «Sianvi dei luminari nella distesa dei cieli per separare il giorno dalla notte; e siano dei segni per le stagioni e per i giorni e per gli anni; e servano da luminari nella distesa dei cieli per dar luce alla terra. E così fu. E Dio fece i due grandi luminari: il luminare maggiore per presiedere al giorno, e il luminare minore per presiedere alla notte; e fece pure le stelle». Il sole è il centro della luce e, nel medesimo tempo, il centro del nostro sistema; è intorno a lui che si muovono le sfere minori, ricevendone la luce. Può dunque essere considerato con ragione come una figura di Colui che, per rallegrare il cuore di quelli che «temono il Signore», si leverà ben presto portando la salvezza nelle sue ali (Mal. 4:2). La bellezza di questo simbolo è evidente specie per chi, dopo le veglie della notte, ha potuto vedere il sole levarsi e indorare l’oriente coi suoi scintillanti raggi. Le nebbie e le ombre della notte si disperdono e tutto il creato sembra salutare il ritorno dell’astro del giorno. Fra breve anche il sole di giustizia si leverà, le ombre della notte fuggiranno e il creato tutto si rallegrerà vedendo apparire l’aurara d’un mattino senza nuvole, principio d’un giorno eterno di gloria.

La luna, oscura in se stessa, trae tutta la sua luce dal sole e la riflette incessantemente a meno che la terra si interponga. Appena il sole è sceso all’orizzonte la luna si presenta per riflettere i raggi del sole sul mondo avviluppato dalle tenebre; se invece appare di giorno, la si scorge con difficoltà a causa dello splendore del sole. La terra interviene talvolta e con le sue fosche nubi, coi densi vapori che sorgono dalla sua superficie, nasconde alla nostra vista l’argentea luce di quella luna che, mentre il sole è un bellissimo e appopriato simbolo di Cristo, è, a sua volta, una immagine caratteristica della Chiesa. Cristo, sorgente della luce è ora invisibile: «la notte è avanzata»; il mondo non vede Gesù, ma la Chiesa lo vede ed è responsabile di riflettere la sua luce sopra un mondo immerso nelle tenebre. La Chiesa è il solo mezzo di comunicazione della conoscenza di Cristo al mondo: «Voi siete la nostra epistola conosciuta e letta da tutti gli uomini» dice l’apostolo; e ancora: «Essendo manifesto che voi siete una lettera di Cristo» (2 Cor. 3:2-3). Quale responsabilità per la Chiesa! Come dovrebbe vigilare onde nulla venga ad impedirle di riflettere la luce celeste di Cristo in tutte le sue vie! Ma come può essa riflettere questa luce? Semplicemente lasciandola risplendere su di lei nel suo puro chiarore. Se la Chiesa camminasse nella luce di Cristo, rifletterebbe indubbiamente la sua luce e questo la manterrebbe nella sua vera posizione. La luna non ha luce propria e così è della Chiesa. Non è chiamata a rischiarare il mondo con la propria gloria, ma solo a riflettere la luce che riceve. Ha, cioè, l’obbligo di studiare con santa diligenza, il sentiero di Cristo quaggiù e seguire le sue orme per la potenza dello Spirito Santo che abita in lei. Ma, ahimè!, la terra, con la sua ombra, le sue nubi e i suoi vapori, s’intromette, nasconde la luce e offusca questa «lettera di Cristo» e il mondo vede a malapena alcuni caratteri di Cristo in quelli che si chiamano col suo Nome; sovente invece scopre in essi un umiliante contrasto, piuttosto che una rassomiglianza con Gesù. Ci sia dato di studiare Cristo con uno spirito di preghiera affinché siamo capaci di imitarlo più fedelmente!

Le stelle sono astri lontani che splendono in altre sfere; ne vediamo solo lo scintillare; del resto non hanno rapporto col nostro sistema solare. «Una stella differisce da un’altra stella in gloria». Così sarà nel regno futuro del Figliuolo: Sole di gloria, Egli brillerà con rifulgente ed eterno splendore e il suo corpo, la Chiesa, rifletterà fedelmente i suoi raggi d’ogni intorno; mentre i santi, individualmente, risplenderanno nella gloria speciale che il giusto Giudice distribuirà ad ognuno in ricompensa del servizio fedele compiuto durante l’oscura notte della sua assenza. Questo pensiero dovrebbe incoraggiarci a camminare con più ardore ed energia sulle orme del nostro Signore assente (Luca 19:12-19).

Le parti inferiori del creato vengono in seguito: il mare e la terra pullulano di esseri viventi. Alcuni si credono autorizzati a considerare le opere di ciascuno dei sei giorni come raffiguranti le diverse dispensazioni e i grandi principi d’azione che le reggono e le caratterizzano; ma, occupandoci delle Sacre Scritture, dobbiamo stare in guardia contro tutto ciò che è prodotto dall’immaginazione degli uomini, ed io non mi sento la libertà di entrare in questo ordine d’interpretazione, e mi limiterò a dare quello che ritengo essere l’insegnamento più chiaro e diretto del sacro testo.

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:38
1.4 L’uomo e la donna — Cristo e la Chiesa
Essendo stata messa in ordine ogni cosa, non mancava che un capo per prenderne la direzione. «Poi Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza, ed abbia dominio sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sul bestiame e su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra. E Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. E Dio li benedisse; e Dio disse loro: "Crescete e moltiplicate e riempite la terra e rendetevela soggetta, e dominate sul pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sopra la terra"». Il lettore osserverà che dopo aver parlato dell’uomo al singolare, la Scrittura ne parla al plurale: dopo aver detto «egli lo creò», dice: «Egli li creò» e: «Dio li benedisse» (versetti 27-28).

La formazione della donna è introdotta, in effetti, solo nel capitolo seguente, benché già qui Iddio «li» benedica e e «rimetta loro» il governo universale. Tutti gli ordini inferiori del creato sono posti sotto il loro comune dominio: Eva è benedetta di ogni benedizione in Adamo, ed è anche da lui che trae tutta la sua dignità. Per quanto non ancora chiamata all’esistenza, essa è nei disegni di Dio considerata come una parte dell’uomo: «I tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo e nel tuo libro erano tutti scritti i giorni che m’eran destinati, quando nessuno d’essi era sorto ancora» (Salmo 139:16). Così è della Chiesa, la Sposa del secondo Adamo. Dall’eternità essa era vista in Cristo suo capo e suo Signore, come è scritto nel capitolo 1 dell’Epistola agli Efesi: «Siccome in Lui ci ha eletti, prima della fondazione del mondo, affinché fossimo santi e irreprensibili dinanzi a lui nell’amore». Prima che un solo membro della Chiesa avesse ricevuto il primo alito di vita, erano tutti, nel pensiero eterno di Dio, «predestinati ad essere conformi all’immagine del suo Figliuolo». I consigli di Dio hanno fatto della Chiesa una parte necessaria dell’uomo mistico; perciò la Chiesa è chiamata «la pienezza di Colui che porta a compimento ogni cosa in tutti» (Efesi 1:23).

È molto comune l’idea che la redenzione non abbia altro oggetto che la benedizione e la sicurezza delle anime individualmente; questo modo di vedere è del tutto al disotto del vero. Indubbiamente è ben vero che tutto ciò che costituisce la parte dell’individuo in qualunque senso è in perfetta sicurezza, ne sia benedetto Iddio; ma questa è, tuttavia, la parte meno importante della redenzione. Una verità infinitamente superiore è il fatto che la gloria di Cristo è unita e legata all’esistenza della Chiesa. Se, sull’autorità della Scrittura, ho diritto di considerarmi come parte costituente di ciò che, di fatto, è necessario a Cristo, non posso dubitare che non vi sia abbondantemente in Lui tutto quello di cui posso aver bisogno personalmente. Non è forse la Chiesa necessaria a Cristo, il Secondo Uomo? «Non è bene che l’uomo sia solo; io gli farò un aiuto che gli sia convenevole» (Gen. 2:18). E ancora: «Poiché l’uomo non viene dalla donna, ma la donna dall’uomo; e l’uomo non fu creato a motivo della donna; ma la donna a motivo dell’uomo... D’altronde, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo senza la donna; poiché, siccome la donna viene dall’uomo, così anche l’uomo esiste per mezzo della donna, ed ogni cosa è da Dio» (1 Cor. 11:8-12). Non si tratta dunque solo di sapere se Dio può salvare un povero peccatore privo d’ogni forza; di sapere se Egli può togliere i peccati e ricevere a sè il peccatore in virtù della giustizia divina; ma Dio ha detto: «Non è bene che l’uomo sia solo»; non ha lasciato il «primo uomo» senza un aiuto simile a lui e non lascerà il Secondo Uomo senza un aiuto che gli sia convenevole. Senza Eva vi sarebbe stata una lacuna nella prima creazione, e senza la Chiesa, la Sposa, vi sarebbe una lacuna nella nuova creazione.

Consideriamo ora in che modo Eva fu chiamata all’esistenza, benché anticipiamo sul capitolo seguente. In tutto il creato, non si trovava per Adamo un aiuto che fosse simile a lui. Un profondo sonno deve cadere su di lui affinché, da una parte di se stesso, sia formata una compagna che condivida con lui la sua dominazione e la sua benedizione. «E l’Eterno Iddio fece cadere un profondo sonno sull’uomo che s’addormentò; e prese una delle costole di lui e rinchiuse la carne al posto d’essa. E l’Eterno Iddio, con la costola che aveva tolto all’uomo, formò una donna e la menò all’uomo. E l’uomo disse: "Questa finalmente è ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Ella sarà chiamata donna perché è stata tratta dall’uomo"». (Gen. 2:21-23).

Considerando Adamo ed Eva come una figura, un tipo di Cristo e della Chiesa, vediamo che era necessario che la morte di Cristo fosse un fatto compiuto prima che la Chiesa potesse essere formata, per quanto, secondo il piano di Dio, la Chiesa fosse vista ed eletta in Cristo prima della fondazione del mondo. Vi è una grande differenza fra i segreti disegni di Dio e la rivelazione e l’adempimento di essi. Perché l’intento di Dio, riguardo le parti costituenti la Chiesa, potesse essere realizzato, bisognava che prima il Figliuolo fosse rigettato e crocifisso, che sedesse negli alti luoghi, e che lo Spirito Santo, mandato da lui, scendesse per battezzare i credenti unendoli in un solo corpo. Questo non vuol dire che non vi fossero delle anime vivificate prima della morte di Cristo: Adamo è stato salvato, non ne dubitiamo, e, dopo di lui, migliaia d’altri uomini, in virtù del sacrificio di Cristo, prima ancora che fosse compiuto. Ma la salvezza delle anime individualmente e la formazione della Chiesa per mezzo dello Spirito Santo, come corpo distinto, sono due cose ben diverse; se ne tiene troppo poco conto in pratica. Il posto unico che appartiene alla Chiesa, la sua relazione speciale «col secondo Uomo venuto dal cielo», i privilegi che la distinguono e la dignità di cui è rivestita, se fossero realmente conosciuti e realizzati per lo Spirito Santo, produrrebbero dei frutti meravigliosi (Efesi 5:23-33).

Il tipo che ci è posto dinanzi, ci può dare una idea dei risultati che sarebbero prodotti da una vera intelligenza della posizione della Chiesa e delle sue relazioni con Cristo. Quale affetto doveva aver Eva per Adamo! Che prossimità, che intimità di comunione! In dignità e in gloria era una stessa cosa con lui. Adamo non dominava su di lei, ma con lei. Egli era signore di tutto il creato, Eva era uno con lui. Più ancora, come già l’abbiamo detto, era vista e benedetta in lui. «L’uomo» era l’oggetto dei disegni di Dio e la «donna» era necessaria all’uomo; perciò è stata creata. L’uomo appare per primo e la donna è vista in lui; in seguito è formata quale parte di lui. Nulla, come tipo può essere più interessante e istruttivo nel suo carattere; non già che si possa fondare una dottrina sopra un tipo, ma quando la dottrina si trova pienamente e chiaramente esposta in altre parti della Scrittura, allora siamo preparati per comprendere, apprezzare e ammirare il tipo.

Troviamo nel Salmo 8 una bella descrizione dell’uomo che domina sulle opere di Dio: «Quando io considero i tuoi cieli, opra delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte — che cosa è l’uomo che tu n’abbia memoria. Il figliuol dell’uomo che tu ne prenda cura? Eppur tu l’hai fatto poco minor degli angeli e l’hai coronato di gloria e d’onore. Tu l’hai fatto signoreggiare sulle opere delle tue mani, hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi: pecore e buoi tutti quanti e anche le fiere della campagna; gli uccelli del cielo e i pesci del mare, tutto quel che percorre i sentieri dei mari». Qui l’uomo appare senza che sia menzionata la donna perché la donna è vista nell’uomo.

Non vi è nessuna rivelazione del mistero della Chiesa nell’Antico Testamento. L’apostolo dice espressamente, parlando di questo mistero: «Il quale mistero nelle altre età, non fu dato a conoscere ai figliuoli degli uomini, nel modo che ora, per mezzo dello Spirito è stato rivelato ai santi apostoli e profeti di Lui» (apostoli e profeti del Nuovo Testamento) (Efesi 3:1-11). Perciò nel Salmo 8 è parlato solo dell’uomo, ma sappiamo che l’uomo e la donna sono considerati insieme sotto un solo capo. Tutto questo avrà la sua perfetta realizzazione nei secoli a venire, allorquando il «vero Uomo», «il Signore venuto dal cielo», siederà sul suo trono, e con la Chiesa sua Sposa regnerà sul creato rinnovato. Questa Chiesa è nata dalla tomba di Cristo, fa parte del «suo corpo», «della sua carne e delle sue ossa», Lui il capo, lei il corpo; insieme non fanno che un solo Uomo. La Chiesa, facendo così parte di Cristo, occuperà nella gloria un posto unico. Nessuna creatura fu mai unita ad Adamo come Eva, poiché nessun’altra creatura faceva parte di Adamo stesso. Così anche la Chiesa occuperà il posto più vicino a Cristo nella gloria futura.

Non è soltanto ciò che la Chiesa sarà, ma ciò che essa è che merita la nostra ammirazione. Essa è, attualmente, il corpo di cui Cristo è il capo; è il tempio nel quale Dio abita. Quali non dovremmo noi essere, se tali sono la dignità e la gloria futura di ciò di cui, per la grazia di Dio, facciamo parte! Quello che si addice a noi, assolutamente, è un cammino santo, una vita di devozione a Dio, di separazione per Lui e di santa elevazione. Ci sia dato di afferrare queste cose per la potenza dello Spirito Santo, per avere un sentimento più profondo della condotta e del carattere che sono degni dell’alta vocazione a cui siamo chiamati. «Egli illumini gli occhi del vostro cuore affinché sappiate a quale speranza Egli v’abbia chiamati, qual sia la ricchezza della gloria della sua potenza. La quale potente efficacia della sua forza, Egli ha spiegato in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla propria destra nei luoghi celesti, al disopra di ogni principato e autorità e podestà e signoria, e d’ogni altro nome che si nomina non solo in questo mondo, ma anche in quello a venire. Ogni cosa Egli ha posto sotto ai piedi, e l’ha dato per capo supremo alla Chiesa, che è il corpo di Lui, il compimento di colui che porta a compimento ogni cosa in tutti» (Efesi 1:18-23).


pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:39
2. Capitolo 2: Il settimo giorno della creazione
[il riposo e le sue benedizioni]
Due soggetti importanti richiamano la nostra attenzione in questo capitolo: «il settimo giorno» e «il fiume».

2.1 Il sabato
Esistono pochi soggetti sui quali vi sia stata tanta controversia e vi siano ancora tante divergenze come quello del «sabato», per quanto la dottrina del sabato sia esposta nella Scrittura nel modo più semplice e più chiaro per chi vuol sottomettersi all’insegnamento di Dio. Esamineremo a suo tempo il comandamento esplicito di «osservare il sabato»: qui, non si tratta d’un comandamento dato all’uomo, ma troviamo la semplice dichiarazione che: «Dio si riposò il settimo giorno» (vers. 2). «Così furono compiti i cieli e la terra e tutto l’esercito loro. Il settimo giorno, Iddio compi l’opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno da tutta l’opera che aveva fatta. E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, perché in esso si riposò di tutta l’opera che aveva creata e fatta» (cap. 2:1-3). Queste parole ci dicono che Dio si riposò, poiché tutto quello che concerneva il creato, l’opera sua, era compiuta; non si tratta qui in alcun modo d’un comandamento dato all’uomo. Colui che per sei giorni aveva lavorato, cessò l’opera sua e si riposò. Tutto era completo e terminato ed era «molto buono». Tutto era fatto come l’aveva ideato, ed Egli si riposava dell’opera sua. «Le stelle del mattino cantavan tutte assieme e tutti i figliuoli di Dio davano in gridi di giubilo» (Giobbe 38:7). L’opera del creato era compiuta e Dio celebrava un sabato; è il solo che Dio abbia mai celebrato, se ci atteniamo semplicemente a quello che gli Scritti Ispirati ci insegnano. Più tardi, leggiamo che Dio diede ordine all’uomo di «osservare il sabato» ma l’uomo non seppe rispettare l’ordine di Dio; mai più, da nessuna parte, troviamo queste parole: «Dio si riposò». Invece, Gesù dice: «Il mio Padre opera fino ad ora, ed anch’io opero» (Giov. 5:17). Il sabato, nel senso proprio ed esatto dell’espressione, non potrebbe essere celebrato se non dove non vi sia realmente più nulla da fare, in una creazione pura, esente da ogni contaminazione. Dio non può trovare riposo dove esiste il peccato ed è assolutamente impossibile che Egli possa riposarsi e trovare piacere attualmente nel creato. Le spine e i triboli con gli innumerevoli altri tristi frutti d’un creato che geme e sospira, ci dicono esplicitamente la necessità che Dio lavori e non che si riposi. Iddio potrebbe forse riposarsi in mezzo ai rovi e alle spine, in mezzo ai sospiri e alle lacrime, di fronte alla malattia e alla morte, alla degradazione di un mondo colpevole e in rovina? Potrebbe Egli riposarsi e celebrare un sabato in mezzo a simili circostanze? Comunque, la Scrittura ci insegna che Dio non ebbe, fino a oggi, che un solo «sabato» quello di cui ci parla il cap. 2 della Genesi. «Il settimo giorno» fu il sabato e nessun altro. Questo giorno dimostrava che l’opera del creato era compiuta: ma quest’opera è stata poi guastata e il riposo del settimo giorno è stato interrotto. Dopo la caduta dell’uomo, Dio ha lavorato: «Il Padre mio opera fino ad ora, ed anche io opero»: e lo Spirito Santo anche lavora. Di certo Cristo non ebbe nessun sabato quando era sulla terra. Ha compiuto l’opera sua e l’ha compiuta gloriosamente, ma dove trascorse il settimo giorno? Nella tomba.

Sì, lettore mio, Cristo il Signore, Dio manifestato in carne, il Signore del sabato, passò il settimo giorno nelle tenebre e nel silenzio del sepolcro. Non ci dice nulla questo fatto? Avrebbe potuto, il Figliuol di Dio, giacere in una tomba il settimo giorno se quel giorno avesse dovuto essere trascorso in pace e in riposo, nella coscienza che assolutamente nulla più rimaneva da fare? Di per se sola, la tomba di Gesù ci dice l’impossibilità di celebrare un sabato, e questa tomba occupata dal Signore del sabato nel settimo giorno, mette in risalto che l’uomo è una creatura scaduta, colpevole, senza risorse; una creatura che termina la sua lunga storia di peccato crocifiggendo il Signore di gloria e ponendo, sull’apertura della sua tomba, una grande pietra per farlo restare là, se fosse possibile: e mentre il Figlio di Dio è nella tomba, l’uomo celebra il sabato! Che pensiero! Cristo è nel sepolcro per ristabilire il sabato interrotto, e l’uomo tenta di osservare il sabato, come se tutto fosse in ordine; l’uomo celebra il suo sabato, non quello di Dio: un sabato senza Cristo e senza Dio, una forma vuota senza potenza e senza valore.

2.2 Il primo giorno della settimana
Ma qualcuno dirà: «Il settimo giorno è diventato il primo, e i principi sono rimasti gli stessi». Credo che tale opinione non posi sopra alcun fondamento scritturale. Dove è la divina garanzia per una tale asserzione? Non esiste; invece la distinzione fra il settimo e il primo giorno della settimana è mantenuta, nel modo più positivo, nel Nuovo Testamento. Perciò leggiamo nel cap. 28 dell’evangelo di Matteo: «Or nella notte di sabato, quando già albeggiava, il primo giorno della settimana...». Il «primo giorno della settimana» non era dunque il sabato trasportato dal settimo ad un altro giorno, ma un giorno totalmente nuovo: è il primo giorno d’un periodo nuovo, non l’ultimo giorno d’un vecchio periodo. «Il settimo giorno» è in relazione con la terra e il riposo terrestre; «il primo giorno della settimana» invece è in rapporto col cielo e il riposo celeste. La differenza è immensa, sia riguardo al principio stesso sia considerando il soggetto sotto l’aspetto pratico. Se osservo «il settimo giorno», assumo il carattere d’un uomo terrestre, in quanto quel giorno è evidentemente il riposo della terra, il riposo della creazione. Ma se, ammaestrato dalla Parola di Dio e dallo Spirito Santo, comprendo il significato del «primo giorno della settimana» afferrerò subito il rapporto diretto che esiste fra questo giorno e il nuovo ordine di cose del tutto celeste, di cui la morte e la risurrezione di Cristo costituiscono il fondamento eterno. Il settimo giorno era in rapporto con Israele e la terra, il primo giorno della settimana è in rapporto con la Chiesa e il cielo. Oltre a ciò, notiamolo, Dio aveva «comandato» ad Israele di osservare il sabato; mentre il primo giorno della settimana è dato alla Chiesa come un privilegio di cui è chiamata a godere. Il sabato era la pietra di paragone dello stato morale d’Israele; il primo giorno della settimana è la prova significativa della eterna accettazione della Chiesa; il sabato manifestava ciò che Israele era capace di fare per Dio; il primo giorno della settimana dimostra pienamente ciò che Dio ha fatto per noi.
pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:40
2.3 Il giorno del Signore
Non si potrebbe stimare troppo la natura e l’importanza del «Giorno del Signore», come è chiamato il primo giorno della settimana nel 1° capitolo dell’Apocalisse. Questo giorno, essendo il giorno in cui Cristo risuscitò d’infra i morti, pubblica non già il compimento del creato, ma il trionfo glorioso e totale della redenzione. L’osservanza del primo giorno della settimana non è dunque, come l’abbiamo già detto, una schiavitù o un giogo per il credente; anzi, è una gioia per lui il celebrare questo giorno felice. Cosi vediamo che il primo giorno della settimana era il giorno speciale in cui i primi cristiani si radunavano per rompere il pane (Atti 20:7), e la distinzione tra questo giorno e il sabato era pienamente mantenuta a quell’epoca della storia della Chiesa. I giudei celebravano il sabato nelle loro sinagoghe, per «leggere la legge e i profeti»; i cristiani celebravano il «primo giorno della settimana» radunandosi per rompere il pane. Non vi è un solo passo, in tutta la Scrittura, in cui il primo giorno della settimana sia chiamato «il sabato»; mentre esistono molte prove che segnano la differenza essenziale fra questi due giorni.

Perché dunque contendere per quel che non ha alcun fondamento nella Scrittura? Amate, onorate, celebrate il giorno del Signore; cercate di essere «in spirito» in quel giorno, come l’apostolo; lasciate i vostri affari temporali, per quanto è in vostro potere di farlo, ma nello stesso tempo, date a quel giorno il nome e il posto che gli appartengono; comprendete bene su quali principi è stabilito; lasciategli il suo carattere particolare; e, soprattutto, non legate il credente ad un giogo di ferro nell’osservanza del settimo giorno, dato che, per lui, è un santo e felice privilegio celebrare il primo. Non fate scendere il cristiano dal cielo, dove trova il riposo, sulla terra dove non ne può trovare. Non esigete da lui che osservi un giorno che il suo Maestro ha passato nella tomba, invece di rallegrarsi nel giorno felice in cui l’ha lasciata. Leggete attentamente Matt. 1:6; Marco 16:1-2; Luca 24:1; Giov. 20:1,19,26; Atti 20:7; 1 Cor. 16:2; Apoc. l:10; Atti 13:14; 17:2; Coloss. 2:16.

2.4 Un riposo futuro
Non si creda, tuttavia, che perdiamo di vista il fatto importante che il sabato sarà di nuovo celebrato nella terra d’Israele e su tutta la terra: «Resta dunque un riposo di sabato per il popolo di Dio» (Ebrei 4:9). Quando il Figliuolo d’Abrahamo, Figliuolo di Davide, Figliuolo dell’uomo prenderà posto in governo su tutta la terra, vi sarà un glorioso sabato, un riposo che il peccato non potrà più interrompere. Ma ora il Figliuolo è rigettato e tutti quelli che Lo conoscono e L’amano sono chiamati a partecipare al suo rigettamento, ad «uscire a Lui fuori del campo portando il suo vituperio» (Ebrei 13:13). Non vi sarebbe obbrobrio se la terra potesse celebrare un sabato, ma il fatto stesso che la Chiesa professante cerca di fare del «primo giorno della settimana» il «sabato», mette in evidenza lo stato nel quale essa è caduta e il principio stesso della sua posizione; questo non è che uno sforzo incessante per ritornare ad uno stato di cose e ad un codice di morale terrena. È possibile che molti non lo comprendano e che molti cristiani osservino coscienziosamente «il giorno di sabato» come tale; ma se siamo in obbligo di rispettare la coscienza di quei credenti, abbiamo il diritto, ed è il nostro dovere, di chiedere su quale fondamento scritturale si basano le loro convinzioni. Comunque, non abbiamo a che fare con la coscienza e le convinzioni degli uomini, ma coll’intenzione dello Spirito di Dio nel Nuovo Testamento; e chiediamo ad ogni lettore cristiano di rendersi ben conto della sua posizione in rapporto «col settimo giorno» ossia il sabato e in rapporto col «primo giorno della settimana» ossia il «giorno del Signore». (*)

_____________________
(*) A Dio piacendo ritorneremo su questo soggetto occupandoci del capitolo 20 dell’Esodo. A proposito del sabato, diremo soltanto che si può far del male e rattristare dei fratelli pii, con pretesto di zelo per la cosidetta libertà cristiana, e perdere di vista il vero posto che il giorno del Signore occupa nel Nuovo Testamento. Se un cristiano, soltanto per dimostrare la sua libertà, si dà, alla domenica, ai lavori della settimana, pone un intoppo davanti a molti suoi fratelli. Un tale modo di agire non proviene dallo Spirito di Cristo. Se ho luce e libertà, a questo riguardo, nel mio spirito, devo rispettare la coscienza dei miei fratelli che non hanno le mie stesse idee. Comunque, non credo che chi si comporta così comprenda realmente i veri e preziosi privilegi connessi col giorno del Signore. Dovremmo essere riconoscenti di poterci liberare, alla domenica, dalle occupazioni e dalle distrazioni terrene, invece che immergerci in esse volontariamente, con lo scopo di mostrare che siamo liberi! In molte nazioni le leggi dello Stato proibiscono il lavoro alla domenica; noi pensiamo che sia questo un atto della Providenza di Dio e una grazia per i cristiani; se non fosse così, il cuore avaro e cùpido degli uomini priverebbe il più possibile i cristiani del dolce privilegio di poter adorare Dio, coi loro fratelli, nel giorno del Signore. Chi può dire quanto sarebbe deleterio l’effetto prodotto da un’occupazione ininterrotta negli affari di questo mondo? I cristiani che dal lunedì mattina al sabato sera respirano la pesante atmosfera degli uffici o dei negozi, delle officine o dei laboratori, possono farsene un’idea.
pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:40
2.5 Un fiume divino
Occupiamoci ora del legame che esiste fra «il sabato» e «il fiume che usciva da Eden». È questa la prima volta che é menzionato «il fiume di Dio» nella Scrittura, e tale soggetto è introdotto qui in relazione col riposo di Dio.

Quando Dio si riposava nelle sue opere, tutto l’universo ne riceveva della benedizione; poiché Dio non poteva osservare un sabato senza che la terra tutta non ne subisse la santa e benefica influenza. Ma, ahimè, i ruscelli che uscivano da Eden, scena del riposo terrestre, sono tosto arrestati nel loro corso, perché il peccato è venuto ad interrompere il riposo del creato. Tuttavia, Dio ne sia benedetto, il peccato non ha fermato Dio nella sua opera, ma gli ha aperto un nuovo campo d’azione; e ovunque Dio agisce si vede scorrere «il fiume». Così, quando conduce con potente mano e con braccio disteso gli eserciti che ha riscattato facendoli passare attraverso le aride sabbie del deserto, vediamo scorrere il fiume, non già da Eden, ma dalla roccia percossa, bella e precisa immagine del principio in virtù del quale la grazia sovrana opera in favore dei peccatori e provvede ai loro bisogni. Qui non si tratta solo di creazione, ma di redenzione. «E la roccia era Cristo» (1 Cor. 10:4), Cristo percosso per la guarigione del suo popolo. La roccia percossa era in relazione con la dimora dell’Eterno nel tabernacolo; e vi è in questa relazione qualcosa di moralmente bello: Dio che abita in una tenda e Israele che beve l’acqua della Roccia percossa! Che linguaggio espressivo per ogni orecchio aperto e per ogni cuore circonciso!

Man mano che avanziamo nella storia delle vie di Dio, vediamo il fiume seguire un altro corso: «Or nell’ultimo giorno, il gran giorno della festa, Gesù, stando in pie’, esclamò: Se alcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno» (Giov. 7:37-38). Vediamo qui il fiume che proviene da un’altra sorgente e scorre in un altro letto; in un certo senso, la sorgente è sempre la stessa, cioè Dio, ma, in Gesù, essa è conosciuta in una nuova relazione e con un nuovo principio d’azione. Il Signore Gesù, nel capitolo 7 dell’evangelo di Giovanni, è in ispirito al di fuori di tutto l’ordine di cose esistente e si presenta come la sorgente del fiume dell’acqua della vita, e il credente è chiamato ad esserne il canale. In Eden, il fiume doveva spandere le sue acque al di fuori per innaffiare e fertilizzare la terra; nel deserto, la roccia percossa provvedeva al ristoro d’Israele assetato. Nello stesso modo ora, chiunque crede in Gesù è chiamato a lasciar scorrere i fiumi benefici di cui è il canale, a favore di tutti quelli che lo circondano; deve considerarsi come il canale delle svariate grazie di Cristo, in favore d’un mondo povero e misero; e più seminerà liberalmente più riceverà liberalmente, poiché: «C’è chi spande liberalmente e diventa più ricco, e c’è chi risparmia più del dovere e non fa che impoverire» (Prov. 11:24). Questo pone il credente in una posizione di dolce privilegio, e, nello stesso tempo, di solenne responsabilità; è chiamato ad essere il testimone costante della grazia di Colui in cui crede e a manifestare questa grazia continuamente. E quanto più egli s’approprierà dei suoi privilegi, tanto meglio assolverà alla sua responsabilità. Più si nutrirà abitualmente di Cristo, con lo sguardo fissato su Gesù e il cuore occupato della persona adorabile del Salvatore, più la sua vita e il suo carattere renderanno una testimonianza vera, e non equivoca, alla grazia che gli è stata rivelata. La fede è ad un tempo la potenza del servizio, la potenza della testimonianza e la potenza del culto. Se non viviamo «nella fede nel Figliuol di Dio il quale m’ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal. 2:24), non saremo né servitori utili, né testimoni fedeli, né veri adoratori. Potremo fare molte cose, ma senza servire Cristo; potremo parlare molto ma senza rendere testimonianza a Cristo; potremo dimostrare molta pietà e molta devozione, ma il nostro culto non sarà né vero, né spirituale.

Infine, troviamo ancora il fiume di Dio nell’ultimo capitolo dell’Apocalisse. «Poi, mi mostrò il fiume dell’acqua della vita, limpido come cristallo, che procedeva dal trono di Dio e dell’Agnello» (Apoc. 22:1). Sono questi i rivi del fiume di cui parla il salmista, e «che rallegrano la città di Dio, il luogo santo della dimora dell’Altissimo» (Salmo 46:4; paragonate anche Ezechiele 47:1-12 e Zaccaria 14:8). Nulla potrà mai più alterarne la sorgente o interromperne il corso. «Il trono di Dio» è l’immagine della stabilità eterna; e la presenza dell’Agnello indica che quel trono riposa sul fondamento di una redenzione compiuta. Non si tratta qui del trono dell’Iddio creatore, né di quello dell’Iddio che governa nella sua provvidenza, ma del trono di un Dio redentore. Quando vedo «l’Agnello» io so quali sono i rapporti del trono di Dio con me peccatore. Il trono di Dio come tale non potrebbe che spaventarmi, ma quando Dio si rivela nella persona dell’«Agnello», il cuore è attirato e la coscienza tranquillizzata. Il sangue dell’Agnello purifica la coscienza da ogni traccia di peccato. Alla croce, tutte le esigenze della santità divina sono state pienamente soddisfatte in modo che più comprendiamo questa santità, più apprezziamo la croce. Più alto sarà il concetto che abbiamo della santità di Dio, più stimeremo l’opera della croce. «La grazia regni mediante la giustizia a vita eterna per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore» (Rom. 5:21). Perciò il salmista invita i santi a celebrare la santità di Dio. La lode è un prezioso frutto della redenzione, ma prima che un credente possa rendere grazie pensando alla santità di Dio, bisogna che consideri questa santità ponendosi per la fede al di là della croce; non dal lato degli uomini e della morte, ma dal lato di Dio e della risurrezione.

Dopo aver tracciato il corso del fiume dalla Genesi all’Apocalisse, considereremo brevemente la posizione di Adamo in Eden.


pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:41
2.6 Morte e vita
[Adamo, un essere responsabile]

Abbiamo già visto Adamo come un tipo di Cristo; ma non dobbiamo considerarlo solo come tipo, ma anche come persona; dobbiamo considerarlo non solo come figura, in modo assoluto, del Secondo homo, «il Signore del cielo», ma anche come posto in una posizione di personale responsabilità. Dio aveva stabilito una testimonianza in Eden in mezzo a quella bella scena della creazione e per essa la creatura era messa alla prova: parlava di morte in mezzo alla vita, poiché Dio aveva detto: «nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai». (vers. 17). Parola strana e solenne, eppure necessaria! La vita di Adamo dipendeva dalla sua stretta obbedienza; il legame che lo univa all’Eterno Dio (*) era l’obbedienza fondata su una fiducia implicita nella verità e nell’amore di Colui che l’aveva posto in una posizione così elevata.

_____________________
(*) È da notare che nel cap. 2 della Genesi l’espressione «Dio» è sostituita da «Eterno Dio». Questo cambiamento è importante. Quando Dio agisce in rapporto all’uomo, prende il titolo di «Eterno Dio» (Jahveh Eloim), ma solo quando l’uomo appare sulla scena è usato il nome di «Eterno» (Jahveh). Citiamo alcuni dei numerosi passi in cui questo fatto è chiaramente presentato: «Venivano maschio e femmina d’ogni carne, come Dio aveva comandato a Noè; poi l’Eterno (Jahveh) lo chiuse dentro l’arca» (Genesi 7:16). Eloim stava per distruggere il mondo che aveva creato; ma Geova si prese cura dell’uomo col quale era in relazione. «E tutta la terra saprà che Israele ha un Dio (Eloim). E tutta queste moltitudine saprà che l’Eterno (Jahveh) non salva per mezzo di spada né per mezzo di lancia» (1 Sam. 17:46-49). Tutta la terra doveva riconoscere la presenza di Dio (Eloim), ma Israele era chiamato a riconoscere le imprese di Geova col quale era in relazione. Infine: «Ma Giosafat mandò un grido; e l’Eterno (Jahveh) lo soccorse; e Dio (Eloim) li attirò lungi da lui» (2 Cronache 18:31). Jahveh si prese cura del suo povero servitore smarrito; ma Dio (Eloim), per quanto sconosciuto da essi, indusse i Siri ad allontanarsi da lui.
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

Era solo in rapporto alla fiducia che aveva in Dio che Adamo poteva obbedirGli. Il capitolo 3 ci farà vedere in modo più completo, la portata e la verità di questo fatto; ma desidero fin d’ora attirare l’attenzione del lettore sull’interessante contrasto che esiste fra la testimonianza stabilita in Eden e la testimonianza della presente economia. In Eden allorquando tutto era vita, Dio parla di morte; ora invece, mentre tutto è morte, Dio parla di vita; poiché fu detto: «Nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai». Ora invece è detto: «Credi e vivrai!» Ma come in Eden il Nemico si adoperò per annullare la testimonianza di Dio, in quanto al risultato della disubbidienza, nello stesso modo egli cerca ora di annullare la testimonianza di Dio in quanto ai risultati della fede nel Vangelo. Dio aveva detto: «Nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai» e il serpente disse: «voi non morrete affatto». Ora la Scrittura afferma chiaramente che «Chi crede nel Figliuolo ha vita eterna», (Giov. 3:36), e lo stesso serpente cerca di persuadere gli uomini che non hanno la vita, né potrebbero illudersi di averla prima di aver fatto, provato, sperimentato ogni sorta di cose.

Caro lettore, se non avete ancora creduto con tutto il cuore alla testimonianza di Dio, ascoltate, vi supplico, la Parola del Signore e non le insinuazioni del serpente. «Chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha vita eterna e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (Giov. 5:24).


pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:42
 3. Capitolo 3: La caduta

Questa sezione del nostro libro ci presenta la completa rovina dello stato di cose di cui ci siamo occupati finora. Essa abbonda in principi di grande importanza, ed è stata con ragione meditata e utilizzata in ogni tempo da quelli che hanno avuto a cuore di proclamare la verità relativa alla rovina dell’uomo e al mezzo usato da Dio per trarlo da tale rovina.

3.1 Le insuazioni del serpente

Il serpente entra in scena con una domanda insolente allo scopo di insinuare il dubbio sulla rivelazione divina; modello e precursore terribile di tutte le questioni empie sollevate dai fedeli servitori del serpente nel mondo, questioni che non possono essere combattute che con l’autorità suprema e divina delle Sacre Scritture.

«Come! Iddio v’ha detto: Non mangiate del frutto di tutti gli alberi del giardino?» (vers. 1). Ecco l’astuta domanda del Diavolo. Se la Parola di Cristo fosse «abitata doviziosamente» nel cuore di Eva (Colossesi 3:16), la sua risposta sarebbe stata semplice, diretta e decisa. V’è un modo solo di rispondere alle domande e ai suggerimenti del diavolo: trattarli come provenienti da lui e respingerli per mezzo della Parola di Dio. Lasciarli avvicinare al cuore anche solo un istante, vuoi dire perdere l’unica forza che abbiamo per rispondervi efficacemente. Il diavolo non si presenta apertamente ad Eva dicendole: «io sono Satana, il nemico di Dio e vengo per calunniarLo e per trascinarvi alla perdizione». Non sarebbe stato, questo un linguaggio da «serpente»: tuttavia egli ha compiuto la sua opera sollevando dubbi nella mente della creatura. È incredulità assoluta accettare la domanda: «Ha Iddio detto?» quando si sa che Dio ha parlato; e il solo fatto d’accettarla prova che si è incapaci a combatterla. Infatti, nel caso di Eva, la forma stessa della sua risposta dimostra con evidenza che essa aveva lasciato che s’insinuasse nel suo cuore l’astuta domanda del serpente. Invece di attenersi strettamente alla precisa dichiarazione di Dio, vi aggiunge del suo; ma il fatto di aggiungere, come il fatto di togliere, prova che questa Parola non abita nel cuore e non governa la coscienza. Se uno trova la propria felicità nell’obbedienza, se ne fa la propria bevanda e il proprio nutrimento; se vive «di ogni parola che esce dalla bocca di Dio», imparerà a conoscere questa Parola e vi porrà attenzione; non è possibile che sia indifferente. Il Signore Gesù, nella sua lotta con Satana, applica la Parola con precisione perché viveva di essa e la stimava al di sopra di ogni altra cosa. Non poteva citarla scorrettamente, né farne una falsa applicazione e nemmeno essere indifferente. Eva agisce in modo diverso: lascia che il dubbio sia messo nelle parole di Dio, e vi aggiunge del suo. Il comandamento era semplice: «Tu non ne mangerai». Perché aggiungervi: «e non lo toccherai»? Dio non aveva parlato di «toccare»; perciò, sia che l’imprecisione procedesse da ignoranza o da indifferenza o forse in vista di far apparire Dio sotto una luce arbitraria, è chiaro che Eva era fuori dal vero terreno di una semplice fiducia nella santa Parola di Dio e dalla sottomissione a questa Parola. «Per ubbidire alla Parola delle tue labbra, mi son guardato dalle vie de’ violenti» (Salmo 17:4).

3.2 L’autorità della parola di Dio

Nulla è più imponente del modo con cui la Parola è citata da un capo all’altro delle Scritture e nulla è più importante della stretta obbedienza ad essa. Questa obbedienza la dobbiamo alla Parola semplicemente perché è la Parola di Dio. Sollevare un dubbio quando Dio ha parlato è una bestemmia. Noi siamo creature e Dio è il Creatore; egli può dunque con ogni diritto chiedere a noi l’obbedienza. L’incredulo può chiamare questo «obbedienza cieca»; il cristiano la chiama «obbedienza intelligente», perché è fondata sulla convinzione che ha di obbedire alla Parola di Dio. Se qualcuno non possedesse la Parola di Dio, si potrebbe dire con ragione che è nelle tenebre, poiché non vi può essere un solo raggio di luce, sia in noi che fuori di noi, che non emani da questa Parola pura ed eterna. Tutto quello che ci occorre è sapere che Dio ha parlato; allora l’obbedienza diventa la sfera più elevata dell’attività intelligente. Quando l’anima è pervenuta fino a Dio ha raggiunto la sorgente più elevata dell’autorità. Nessun uomo, nessun’assemblea d’uomini, ha diritto di chiedere l’obbedienza alla propria parola, perché è parola sua. Perciò le pretese della Chiesa di Roma sono empie e presuntuose, sono una usurpazione delle prerogative di Dio; e tutti coloro che si sottomettono ad essa defraudano Dio dei suoi diritti. La Chiesa Romana pretende di interporsi fra Dio e la coscienza, ma chi può farlo impunemente? Quando Dio parla, l’uomo ha l’obbligo di obbedire. Beato lui se lo fa, guai a lui se non lo fa! L’incredulità può mettere in dubbio che Dio abbia parlato e la superstizione può porre un’autorità umana fra la mia coscienza e ciò che Dio ha detto; tanto l’una come l’altra ci privano della Parola e di conseguenza della felicità benedetta che accompagna l’obbedienza a questa Parola.

Ogni atto d’obbedienza racchiude una benedizione: ma dal momento che l’anima esita, il nemico prende il sopravvento su di lei e se ne serve per allontanarla sempre più da Dio. Così il nemico, nel capitolo che meditiamo, aggiunge subito alla sua domanda «Come! ha Iddio detto» la seguente affermazione: «Voi non morrete affatto!» (vers. 4). Prima mette in dubbio che Dio abbia parlato, poi contraddice apertamente ciò che Dio ha detto. Questo fatto solenne è più che sufficiente per provare quanto sia pericoloso ammettere nel cuore un dubbio riguardo alla pienezza e alla integrità di una divina rivelazione.

Il razionalismo raffinato s’avvicina molto all’incredulità aperta; e l’incredulità che osa giudicare la Parola di Dio non è lontana dall’ateismo che nega l’esistenza di Dio. Se Eva non fosse già caduta nel rilassamento e nella indifferenza riguardo alla Parola di Dio, mai avrebbe dato ascolto a chi si permetteva di contraddire Dio. Essa pure ebbe le sue fasi di fede, come si usa dire oggi, o piuttosto le sue fasi d’incredulità. Tollerò che una creatura contraddicesse Dio, perché la Parola di Dio aveva perso la sua vera autorità sul suo cuore, sulla sua coscienza e sulla sua intelligenza. Il suo esempio fornisce un insegnamento solenne a tutti quelli che sono in pericolo di essere irretiti dall’empietà del razionalismo. Non vi è nessuna vera sicurezza per l’anima al di fuori di una fede profonda nella piena ispirazione e nella suprema autorità di tutta la Scrittura. Chi possiede questa fede avrà una risposta vittoriosa ad ogni obiezione sollevata contro questa Parola, da qualunque parte essa provenga. «Non vi è nulla di nuovo sotto il sole». Il male che nei nostri giorni corrompe fino alle sorgenti il pensiero e il sentimento religioso è lo stesso che raggiunse il cuore di Eva in Eden e la perdette. Eva porse l’orecchio alla domanda: «Come! Dio ha detto?» e questo primo passo la trascinò nella rovina; e, da allora, discese passo passo, chinò il capo davanti al serpente e lo riconobbe come suo dio, come sorgente di verità.

Lettore, il serpente prese il posto di Dio e la sua menzogna il posto della verità. Così fu per l’uomo caduto e così è anche per la sua progenie. La parola di Dio non trova posto nel cuore dell’uomo non rigenerato; ma questo cuore è in uno stato tale che accoglie la menzogna di Satana e rigetta la verità di Dio. Perciò il Signore dice a Nicodemo: «Bisogna che nasciate di nuovo».

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:43
  3.3 Diffidenza riguardo all’amore di Dio

È anche importante notare il mezzo adoperato da Satana per scuotere la fiducia di Eva nella verità di Dio e porla sotto la potenza d’un empio razionalismo. Satana vi giunge insinuando ad Eva che l’affermazione divina non era fondata sull’amore, poiché, dice egli: «Iddio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri s’apriranno e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male» (vers. 5). In altre parole, vi è un gran guadagno per voi a mangiare del frutto di cui Dio vuoi privarvi; perché dunque credereste la sua parola? Non potete porre la vostra fiducia in chi evidentemente non vi ama; poiché se vi amasse, non vi vieterebbe di godere d’un privilegio sicuro.

Se Eva si fosse riposata semplicemente sulla infinita bontà di Dio, sarebbe stata al riparo ed avrebbe resistito all’influenza di tutto questo ragionamento; avrebbe risposto al serpente: «Ho piena fiducia nella bontà di Dio quindi non credo che mi vieterebbe qualcosa che fosse veramente buona per me. Se questo frutto fosse buono per me, Egli me lo darebbe certamente, ma il fatto che me lo vieta mi prova che il mangiarlo mi sarebbe sicuramente nocivo; sono convinta dell’amore e della verità di Dio, e ritengo che tu sia un malvagio venuto per distogliere il mio cuore dalla fonte di ogni bontà e di ogni verità. Vattene via da me, Satana». Questa sarebbe stata una nobile risposta; ma non fu data: la sua fiducia nell’amore e nella verità di Dio venne meno, e tutto fu perduto. Il cuore dell’uomo scaduto non ha più posto per l’amore e per la verità di Dio; è estraneo tanto all’uno come all’altra, finché non è rigenerato dallo Spirito Santo.

È ora interessante passare dalla menzogna di Satana riguardo l’amore di Dio e la sua verità, alla missione del Signore Gesù, che venne dal seno del Padre per rivelare ciò che Dio è veramente. «La grazia e la verità», le due cose che l’uomo ha perduto per mezzo della caduta, «sono venute per mezzo di Gesù Cristo» (Giov. 1:17). Gesù è stato il testimone fedele di ciò che Dio è (Apoc. 1:5). La verità rivela Dio come Egli è, ma questa verità è unita alla rivelazione della grazia perfetta. Il peccatore trova così, con indicibile gioia, che la rivelazione di ciò che Dio è, invece di essere la causa della sua perdizione, diviene un fondamento della sua eterna salvezza. «Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Giov. 17:3). È impossibile conoscere Dio e non aver la vita. La perdita della conoscenza di Dio portò l’uomo alla morte; ma la conoscenza di Dio lo porta alla vita. Questo pone la vita interamente al di fuori di noi, e la fa dipendere da ciò che Dio è, qualunque sia il grado di conoscenza che ognuno ha di se stesso. Non è detto: Questa è la vita eterna: che conoscano loro stessi; sebbene la conoscenza di Dio e la conoscenza di se stessi siano, sotto molti rapporti, legate l’una all’altra. Ma la vita eterna dipende dalla prima di queste cose e non dalla seconda. Conoscere Dio come Egli è significa vita; e tutti «coloro che non conoscono Dio e non ubbidiscono al vangelo del nostro Signore Gesù saranno puniti di eterna distruzione, respinti dalla presenza del Signore e dalla gloria della sua potenza» (2 Tess. 1:9).

È della massima importanza riconoscere che ciò che costituisce realmente la condizione dell’uomo e la sua posizione, è la conoscenza o l’ignoranza che ha di Dio. Questo contrassegna il suo carattere quaggiù e stabilisce il suo destino futuro. Se l’uomo è malvagio nei suoi pensieri, nelle sue parole e nei suoi atti, ciò proviene dal fatto che non conosce Dio; se, d’altra parte, è puro in pensieri, santo nella condotta, pieno di grazia nelle opere, tutto ciò non è che il risultato pratico della conoscenza che ha di Dio. Così pure sarà nel futuro; conoscere Dio è il solido fondamento d’una felicità infinita e d’una gloria eterna; non conoscerlo significa eterna perdizione. Cosicché, la conoscenza di Dio è tutto. Essa vivifica l’anima, purifica il cuore, tranquillizza la coscienza, eleva le affezioni, e santifica interamente il carattere e la condotta.

Non c’è dunque da stupirsi che il gran disegno di Satana sia stato di spogliare la creatura della conoscenza del solo vero Dio. Satana dà una falsa idea di Dio suggerendo ad Eva che Dio non è buono: questo fu la sorgente segreta di ogni male. Non importa quale forma abbia preso in seguito il peccato, per quali vie sia poi proceduto, sotto quale capo si sia posto o quale apparenza abbia rivestito; tutto procede sempre dalla sola e unica sorgente: l’ignoranza di Dio. Il più raffinato e colto moralista, il filantropo più benevolo, l’uomo più devoto, se non conoscono Dio, sono tanto lontani dalla vita e dalla vera santità quanto un pubblicano o una donna peccatrice. Il figliuol prodigo era tanto peccatore e lontano da suo padre quando varcava la soglia della casa paterna, come quando pasceva i porci nel paese lontano (Luca 15:13-15). Fu lo stesso di Eva. Dal momento che si sottrasse alla mano di Dio, all’assoluta dipendenza da lui e alla sottomissione alla sua Parola, si abbandonò al dominio della concupiscenza, e Satana ne approfittò per rovinarla completamente.

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:44
 3.4 Tentazione di Adamo, tentazione di Gesù

Il versetto 6 del nostro capitolo ci presenta tre cose: «La concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita» (1 Giov. 2:16), tre cose che, come dichiara l’apostolo Giovanni, comprendono «tutto ciò che è nel mondo». Dal momento in cui Dio fu escluso, queste cose dominarono il mondo. Se non dimoriamo nella beata certezza dell’amore e della verità di Dio, della sua grazia e della sua fedeltà, ci sottoporremo ad uno di questi principi e forse anche a tutti e tre; in altri termini ci sottoporremo al governo di Satana. Non esiste, strettamente parlando, libero arbitrio per l’uomo. L’uomo che si governa da sè è di fatto governato da Satana; altrimenti è Dio che lo governa. I tre grandi agenti coi quali Satana opera nel mondo sono la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e l’orgoglio della vita. Sono le tre cose che Satana presentò al Signore nella tentazione. Il diavolo incominciò a tentare «l’ultimo Adamo» inducendolo a sottrarsi alla posizione di assoluta dipendenza da Dio: «Se tu sei Figiluol di Dio, di’ che queste pietre divengan pani». Non chiese a Gesù di fare come il primo uomo, di innalzare se stesso al disopra di quel che era, ma gli domanda di dare una prova di ciò che era. In seguito offre a Gesù tutti i regni del mondo e la loro gloria e infine lo trasporta sul pinnacolo dei tempio e lo incita a darsi improvvisamente e miracolosamente in spettacolo all’ammirazione del popolo radunato ai piedi del tempio (confr. Matteo 4:1-11 e Luca 4:1-15). Lo scopo evidente di ognuna di queste tentazioni era d’indurre il Signore a deviare dalla posizione d’intera dipendenza in cui si trovava e dalla perfetta sottomissione alla volontà di Dio; ma tutto fu inutile. «Sta scritto»: tale fu la risposta invariabile del solo uomo dipendente, del solo uomo spoglio di se stesso, del solo uomo veramente perfetto. Altri potevano scegliere la loro propria via; ma la sua via era di fare soltanto la volontà di Dio (Ebrei 10:7). Quale esempio per il fedele, in ogni circostanza! Gesù si tenne fermamente stretto alla Scrittura e vinse; senz’altra arma che «la spada dello Spirito», sostenne la lotta e riportò un glorioso trionfo. Che contrasto tra Lui e il primo Adamo! Adamo possedeva il giardino con tutte le sue delizie; Gesù era in un deserto con tutte le sue privazioni; il primo mise la propria fiducia in Satana, il secondo confidò interamente in Dio; il primo fu completamente vinto, il secondo completamente vittorioso. Benedetto sia l’Iddio di ogni grazia che ha posto la nostra sorte fra le mani di Colui che è potente per vincere e potente per salvare!

3.5 La coscienza

Vediamo ora fino a che punto Adamo ed Eva entrano nel godimento del privilegio che Satana aveva loro promesso. Questo esame metterà in luce un punto molto importante in rapporto con la caduta dell’uomo. L’Eterno Iddio aveva tutto disposto affinché nella caduta e per mezzo della caduta l’uomo acquistasse una cosa che non possedeva prima: una coscienza: la conoscenza del bene e del male. È evidente che prima della caduta l’uomo non poteva essere dotato di questa conoscenza. Non poteva avere alcuna idea del male, fintantoché il male non era presente per essere conosciuto: era in uno stato d’innocenza, cioè d’ignoranza del male. Nella caduta e per mezzo della caduta, l’uomo acquistò una coscienza; e vediamo che il primo effetto di questa coscienza fu di turbarlo, spaventarlo e renderlo vile. Satana aveva ingannato la donna. Le aveva detto: gli occhi vostri saranno aperti e sarete come Dio, avendo conoscenza del bene e del male, ma aveva omesso una parte importante della verità, cioè che avrebbero conosciuto il male senza poterlo evitare. E il tentativo fatto da Adamo ed Eva per innalzarsi sulla scala dell’esistenza morale non fece che privarli della vera elevazione; l’uomo divenne un essere degradato, debole, tormentato dalla paura, perseguitato dalla propria coscienza: uno schiavo di Satana. «I loro occhi furono aperti», ma solo per vedere la propria nudità, la loro triste condizione. Erano «infelici, miserabili, poveri, ciechi e nudi», triste frutto dell’albero della conoscenza! Adamo ed Eva non acquistarono alcuna conoscenza nuova della bontà di Dio, alcun nuovo raggio della luce divina; il primo risultato della loro disubbidienza e della ricerca della conoscenza, fu la scoperta che erano nudi.

È bene che comprendiamo questo; che sappiamo quale è l’azione della coscienza sull’anima che può solo fare di noi degli esseri timorosi, in quanto ci dà il sentimento di ciò che siamo. Molti sbagliano a questo riguardo e credono che la coscienza conduca a Dio. L’ha forse fatto nel caso di Adamo ed Eva? No di certo e non lo farà per nessun peccatore. E come potrebbe farlo? Come potrebbe condurmi a Dio nel sentimento di ciò che sono, se questo sentimento non è accompagnato dalla fede in ciò che Dio è? Il sentimento di ciò che sono produrrà onta, rimorso, angoscia; potrà determinare da parte mia certi sforzi per rimediare alla condizione che ormai conosco, ma questi sforzi stessi, invece di condurmi a Dio, me lo nasconderanno.

Così per Adamo ed Eva, la scoperta della loro nudità fu seguita da uno sforzo da parte loro per nasconderla. «Cucirono delle foglie di fico, e se ne fecero delle cinture» (vers. 7). Questa è la prima menzione d’un tentativo fatto dall’uomo per rimediare al suo stato con mezzi di sua propria invenzione. E se consideriamo attentamente questo fatto, ne ricaveremo una profonda istruzione sul vero carattere della religione dell’uomo in tutte le epoche. Prima di tutto vediamo che il primo sforzo dell’uomo per rimediare alla sua condizione proviene dal sentimento della sua nudità; è nudo incontestabilmente e tutte le sue opere sono il risultato di ciò che egli è; tutti i suoi sforzi non lo trarranno mai da questa condizione. Devo sapere di essere vestito prima di poter fare qualche cosa di accettevole a Dio, e in questo sta la differenza fra il vero cristianesimo e la religione dell’uomo. Il cristianesimo è fondato sul fatto che l’uomo è vestito, le religioni umane sul fatto che l’uomo è ignudo. Il cristianesima ha per punto di partenza ciò che costituisce lo scopo della religione umana. Tutto ciò che il vero cristiano fa, lo fa perché è vestito, perfettamente vestito; e tutto ciò che fa l’uomo naturale religioso, lo fa per essere vestito. La differenza è immensa.

Più esamineremo la natura della religione umana in tutte le sue fasi, meglio vedremo l’assoluta incapacità di essa a rimediare allo stato dell’uomo, e anche a soddisfare al sentimento che egli stesso ha del proprio stato. La religione dell’uomo può bastare per un tempo, può essere sufficiente fin tanto che la morte, il giudizio e la collera di Dio, sono considerati a distanza, se pur avviene che vi si pensi; ma quando si giunge a vedere in faccia queste terribili realtà, si realizza in verità che la religione dell’uomo è un letto troppo corto per distendervisi, una coperta troppo stretta per avvilupparsi.

Non appena Adamo udì la voce dell’Eterno Iddio nel giardino, «temette» perché, come egli stesso confessa, «era nudo»; nudo malgrado il vestito con cui si era coperto. Quel vestito non soddisfaceva nemmeno la sua coscienza, poiché se la sua coscienza fosse stata divinamente soddisfatta non avrebbe avuto paura. «Se il cuor nostro non ci condanna, noi abbiamo confidenza dinanzi a Dio» (1 Giov. 3:21). Ma se nemmeno la coscienza umana può trovare riposo negli sforzi della religione dell’uomo, quanto meno lo potrà la santità di Dio! La cintura di Adamo non poteva nasconderlo agli occhi di Dio, ed egli non poteva comparire nudo nella sua presenza; perciò fugge e sì nasconde. Ecco quel che fa la coscienza in ogni tempo; conduce l’uomo a nascondersi dalla presenza di Dio, e tutto ciò che la religione dell’uomo può dargli non è che una coperta per nasconderlo agli sguardi di Dio; un povero rifugio poiché l’uomo deve incontrare Iddio un giorno o l’altro, e se non possiede altro che il sentimento di ciò che egli è, non può essere che spaventato e terribilmente infelice.

In verità, manca solo l’inferno, per completare il tormento di chi, sapendo di doversi incontrare con Dio, non conosce che la propria incapacità di comparire alla sua presenza. Se Adamo avesse conosciuto il perfetto amore di Dio, non avrebbe temuto, poiché «Nell’amore non c’è paura; anzi, l’amore perfetto caccia via la paura, perché la paura implica apprensione di castigo, e chi ha paura non è perfetto nell’amore» (1 Giov. 4:18). Adamo non conosceva questo perché aveva creduto alla menzogna di Satana. Egli pensava che Dio fosse tutto fuorché amore; e perciò mai si sarebbe avventurato alla sua presenza. Ciò d’altronde era impossibile; Dio e il peccato non possono incontrarsi e fin tanto che vi è del peccato sulla coscienza, vi è la chiara sensazione di essere lontani da Dio. Dio «ha gli occhi troppo puri per sopportare la vista del male» (Abac. 1:13). Il peccato, ovunque si trovi, non può incontrare altro che la collera di Dio.

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:45
3.6 «Dove sei?»
[La rivelazione di ciò che Dio è]

Ma non vi è soltanto la coscienza di ciò che io sono; vi è pure, sia ringraziato Dio, la rivelazione di ciò che Dio è; ed è la caduta dell’uomo che ha dato luogo a questa sublime rivelazione. Dio non aveva rivelato pienamente Se stesso nella creazione; aveva manifestato per mezzo di essa «la sua eterna potenza e divinità» (*) (Rom. 1:20), ma non aveva rivelato, nella loro profondità, tutti i segreti della sua natura e del suo carattere; perciò Satana sbagliò completamente ingerendosi nella creazione di Dio e divenne, egli stesso, strumento della sua propria rovina e della sua eterna confusione: «La sua malizia gli ritornerà sul capo, e la sua violenza gli scenderà sulla testa» (Salmo 7:16). La menzogna di Satana diede occasione alla piena manifestazione della verità riguardo a Dio. Il creato solo non avrebbe mai potuto manifestare ciò che Dio è. Vi era, in Dio, infinitamente più che saviezza e potenza; vi era amore, misericordia, santità, giustizia, bontà, tenerezza, longanimità. Dove avrebbero potuto manifestarsi tutte queste cose se non in un mondo di peccatori?

_____________________
(*) Un pensiero di profonda interesse suggerisce il confronto fra i termini «teiotes» e «teotes». In Romani 1:20 è «teiotes», divinità. In Colossesi 2:9 è «teotes», deità. I pagani potevano vedere qualche cosa di sovrumano e divino nella creazione; ma la deità pura, essenziale, incomprensibile, abitava corporalmente solo nella persone adorabile del Figliuolo.
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

Dapprima Dio discese per creare; in seguito, dopo che Satana ebbe la presunzione di ingerirsi nel creato, Dio discese per salvare. È quello che ci rivelano le prime parole dell’Eterno Iddio dopo la caduta dell’uomo: «E l’Eterno Dio chiamò Adamo e gli disse: Dove sei?» (vers. 9). Questa domanda provava due cose: che l’uomo era perduto e che Dio era venuto a cercarlo; provava da una parte il peccato dell’uomo, e dall’altra la grazia di Dio. «Dove sei?» che fedeltà, che grazia meravigliosa in questa parola! Essa rivela la triste realtà della condizione dell’uomo caduto e il vero carattere di Dio e la sua disposizione verso di lui. L’uomo era perduto, ma Dio è disceso per cercarlo, per farlo uscire dal luogo dove si era nascosto fra gli alberi del giardino, e fargli trovare, nella beata fiducia della fede, un luogo di rifugio in Lui stesso. Questo era la grazia. Per creare l’uomo dalla polvere della terra bastava la potenza, ma per cercare l’uomo nel suo stato di perdizione ci voleva la grazia. Chi potrebbe esprimere tutto ciò che è racchiuso nell’idea di Dio che cerca un peccatore? Che cosa poteva aver visto nell’uomo l’Iddio beato per essere indotto a cercarlo? Ha visto in lui ciò che il pastore vedeva nella pecora smarrita, ciò che la donna vedeva nella dramma perduta, ciò che il padre del figliuol prodigo vedeva nel figliuolo (Luca 15). Il peccatore ha del valore agli occhi di Dio!

3.7 L’uomo davanti a Dio

Ma come rispose il peccatore alla fedeltà e alla grazia dell’Iddio che lo chiamava a sè dicendogli «Dove sei?». Ahimè! la risposta di Adamo non fa che rivelare la profondità del male in cui era caduto. Ed egli rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino e ho avuto paura perché ero ignudo e mi sono nascosto». E Dio disse: «Chi ti ha mostrato che eri ignudo? Hai tu mangiato del frutto dell’albero del quale io t’avevo comandato di non mangiare?». L’uomo rispose: «La donna che m’hai messo accanto, è lei che m’ha dato del frutto dell’albero e io ne ho mangiato». E l’Eterno Iddio disse alla donna: «Perché hai fatto questo»? E la donna rispose: «Il serpente mi ha sedotta ed io ne ho mangiato» (vers. 10-13). Vediamo così Adamo far ricadere la responsabilità della sua vergognosa caduta sulle circostanze in cui Dio l’aveva posto, e, indirettamente, su Dio stesso. È sempre avvenuto così dell’uomo scaduto: accusa tutti e tutto piuttosto che se stesso. L’anima veramente umile usa tutt’altro linguaggio e dice: «Son io che ho peccato, son io che ho agito iniquamente» (2 Sam. 24:17). Ma Adamo non conosceva né se stesso né Dio; perciò, invece di accusarsi, rigetta la colpa su Dio.

Tale era la terribile condizione dell’uomo. Aveva perso tutto: dominio, felicità, dignità, innocenza, purezza, pace e, peggio ancora, accusava Dio di essere la causa della sua miseria. (*) Era là, peccatore perduto e colpevole, eppure giustificava se stesso accusando Dio.

_____________________
(*) L’uomo non soltanto accusa Dio della sua caduta, ma addirittura rimprovera Dio di lasciarlo in un tale stato. C’è della gente che dice di non poter credere se Dio non lo accorda loro; anche, che non possono essere salvati se non sono gli oggetto degli eterni decreti di Dio. Indubbiamente, nessuno può credere all’Evangelo se non per la potenza dello Spirito Santo; ed è altrettanto vero che chi crede così all’Evangelo è il beato oggetto dei consigli eterni di Dio. Ma tutto ciò mette forse da parte la responsabilità dell’uomo di credere alla testimonianza chiara e semplice che la Scrittura pone dinanzi a lui? No, certamente; al contrario, tutto manifesta la malvagità del cuore dell’uomo che lo porta a rigettare la testimonianza di Dio, che è chiaramente rivelata, e ad addurre a pretesto, per giustificare questo rigettamento, il decreto di Dio, mistero profondo conosciuto da lui solo. Questa scusa non gioverà ad alcuno, perché è scritto in 2 Tess. 1:8-9 che «coloro che non ubbidiscono al Vangelo del nostro Signore Gesù... saranno puniti di eterna distruzione». Gli uomini hanno la responsabilità di credere all’Evangelo, e saranno puniti se non crederanno. Non saranno responsabili di conoscere ciò che, nei consigli di Dio, non è stato rivelato, e nessuno può essere considerato colpevole se è ignorante a questo riguardo. L’apostolo poteva dire ai Tessalonicesi: «Conoscendo, fratelli amati da Dio, la vostra elezione». E come la conosceva? Era forse perché aveva potuto leggere le pagine dei segreti di Dio e dei suoi eterni disegni? No, affatto! Ma «poiché il nostro Evangelo non vi è stato annunziato soltanto con parole ma anche con potenza» (1 Tess. 1:4-5). Ecco ciò che fa riconoscere gli eletti: l’Evangelo che è annunziato in potenza, prova evidente dell’elezione di Dio. Chi fa dei consigli di Dio un pretesto per rigettare la Sua testimonianza, non fa altro che cercare una miserabile giustificazione per continuare a vivere nel peccato. Infatti non si cura di Dio, e sarebbe più sincero se lo confessasse francamente piuttosto che addurre un tale pretesto.
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

Ma proprio quando l’uomo fu giunto a questo punto Dio incominciò a rivelare Se stesso e a spiegare i disegni del suo amore redentore; in questo sta il vero fondamento della pace e della felicità dell’uomo. È solo quando l’uomo non ha più nessuna fiducia in se stesso che Dio può manifestare ciò che Egli è, e non prima. Bisogna che l’uomo sparisca completamente dalla scena con tutte le sue vane pretese, la sua vana gloria e i suoi ragionamenti blasfemi, prima che Dio possa o voglia rivelarsi. Così è per Adamo; mentre è nascosto tra gli alberi del giardino, Dio sviluppa il piano meraviglioso della redenzione per mezzo della progenie «ferita» della donna, e impariamo qui ciò che soltanto può condurre l’uomo a Dio in pace e sicurezza. Abbiamo già visto l’incapacità della coscienza a questo riguardo. La coscienza condusse Adamo dietro gli alberi del giardino. La rivelazione di Dio lo conduce nella sua presenza. La coscienza di ciò che egli era lo riempie di spavento; la rivelazione di ciò che Dio è lo traquillizza. Questo è davvero consolante per un cuore oppresso sotto il peso del peccato. La realtà di ciò che è Dio, è posta di fronte alla realtà di quel che io sono: in questo consiste la salvezza. Bisogna che Dio e l’uomo s’incontrino, sia in grazia, sia in giudizio, e li punto d’incontro si trova là dove Dio e l’uomo sono rivelati quali essi sono. Beati coloro che giungono a quel punto per la grazia; guai a quelli che dovranno incontrare Iddio in giudizio!

Iddio si occupa di noi e agisce a nostro riguardo secondo ciò che siamo; e le sue vie verso noi derivano da ciò che Egli è. Alla croce, Dio discende in grazia nelle profondità, non solo della nostra condizione negativa, ma della nostra condizione positiva, come peccatori; ed Egli ci dà, in tal modo, una pace perfetta. Se Dio è venuto a trovarmi nella vera posizione in cui mi trovo, ed ha preparato Lui stesso un rimedio che è all’altezza del male in cui sono immerso, tutto, per me, è per sempre regolato. Ma tutti quelli che non vedono così Dio nella croce, si incontreranno ben presto con Lui in giudizio, per essere trattati secondo ciò che Egli è, e secondo ciò che essi sono. Da quando un’anima è condotta a conoscere il suo vero stato, non ha riposo finché non ho trovato Dio alla croce, e allora può riposarsi in Lui.

Dio è il riposo e il rifugio dell’anima fedele; sia benedetto il suo santo Nome! Le opere e la giustizia dell’uomo sono così messe una volta per sempre al loro vero posto. Quelli che si riposano sulle loro opere e la loro giustizia, lo si può dire con certezza, non sono ancora giunti alla vera conoscenza di loro stessi; è assolutamente impossibile. Una coscienza risvegliata dalla potenza divina, non può trovare riposo altrove che nel perfetto sacrificio del Figliuolo di Dio. Tutti gli sforzi dell’uomo per stabilire la propria giustizia, provengono dall’ignoranza della giustizia di Dio. Adamo poteva imparare, nella dichiarazione riguardo alla progenie della donna, l’insufficienza della sua cintura di foglie. La grandezza dell’opera che doveva essere compiuta, metteva in evidenza l’impotenza dell’uomo per compierla.

— Bisognava che il peccato fosse tolto: l’uomo poteva forse compiere quest’opera? Certamente no, poiché è per mezzo suo che il peccato è entrato nel mondo. — Bisognava schiacciare il capo al serpente: l’uomo era forse capace? Certamente no, poiché era diventato lo schiavo di Satana. — Bisognava soddisfare alle esigenze di Dio: l’uomo poteva farlo? Non era possibile! Le aveva già calpestate. — Bisognava distruggere la morte: l’uomo ne aveva forse il potere? No, poiché egli stesso, per mezzo del peccato, l’aveva introdotta e le aveva dato il suo terribile «dardo». Così, da qualunque lato ci volgiamo vediamo la completa impotenza del peccatore, e, di conseguenza, la presuntuosa follia di quelli che pensano di poter aiutare Dio nell’opera prodigiosa della redenzione, di quelli che pensano di essere salvati altrimenti che «per la grazia, per la fede». Tuttavia, benché Adamo avesse veduto e, per grazia, fosse stato reso cosciente della propria impotenza per adempiere a tutto ciò che doveva essere fatto, Iddio gli rivelò che stava per compiere tutto Lui, per mezzo della progenie della donna. In una parola, Dio prende in mano tutta l’opera da farsi; liquida la questione fra il serpente e Se stesso; poiché, benché l’uomo e la donna dovessero, individualmente e in diverse maniere, raccogliere i frutti amari del loro peccato, tuttavia è al serpente che Dio dice: «Perché hai fatto questo?» (vers. 14). Il serpente fu la causa della caduta e della miseria dell’uomo, e la progenie della donna doveva essere la sorgente della redenzione.

Adamo udì e credette queste cose, e, nell’energia della sua fede, chiamò sua moglie «la madre di tutti i viventi» (vers. 20). Dal punto di vista della natura, Eva poteva essere chiamata «la madre di tutti quelli che muoiono», ma, per la rivelazione di Dio, la fede vedeva in essa la madre di tutti i viventi. Così pure Rachele morente pose nome a suo figlio Ben-Oni (figlio del mio dolore), ma suo padre lo chiamò Beniamino (figlio della mia destra) (Genesi 35:18).

Fu per l’energia della fede che Adamo sopportò le terribili conseguenze del suo peccato; e fu nella sua misericordia infinita che Dio gli concesse di udire quello che disse al serpente prima di parlare con lui. Se non fosse stato così, Adamo sarebbe caduto nella disperazione. Non vi è infatti per noi altro che la disperazione se siamo chiamati a considerare noi stessi, quali siamo, senza poter, nello stesso tempo, contemplare Dio quale Egli è, rivelato alla croce per la nostra salvezza. Nessun figliuolo d’Adamo può sopportare la realtà di ciò che è e di ciò che ha fatto, senza cadere nella disperazione, a meno che possa trovare il proprio rifugio alla croce. Perciò nessuna speranza può avvicinarsi al luogo in cui coloro che rigettano Cristo dovranno essere confinati. Là gli uomini avranno gli occhi aperti alla realtà di ciò che sono e di ciò che hanno fatto, senza aver la capacità né la possibilità di cercare sollievo e asilo in Dio. Allora ciò che Dio è significherà per loro perdizione senza speranza, così come ciò che Egli è implica, per il credente, salvezza eterna. La santità di Dio sarà allora eternamente contro di loro, come attualmente è motivo di gioia di tutti quelli che credono. Più realizziamo ora la santità di Dio, più realizziamo che siamo al sicuro; ma per i riprovati, questa santità stessa sarà la ratifica della loro eterna condanna!

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:45
  3.8 Le tuniche di pelle
[la giustizia di Dio]

Consideriamo ora brevemente la verità simboleggiata dalle tuniche con cui Iddio rivestì Adamo ed Eva. «E l’Eterno Iddio fece ad Adamo e alla sua moglie delle tuniche di pelle e li vestì». Abbiamo qui, in figura, la grande dottrina della giustizia di Dio. La tunica di cui Dio rivestì Adamo era un vero vestito, perché Dio stesso l’aveva preparato, mentre la cintura di foglie di fico era un abito inefficace e inutile perché era opera dell’uomo. Oltre a ciò, il vestito con cui Dio coprì la nudità dell’uomo aveva per origine la morte; il sangue d’una vittima era stato sparso. Non era così della cintura di Adamo.

Nello stesso modo, la giustizia di Dio è manifestata ora alla croce, mentre la giustizia dell’uomo si manifesta nelle opere delle sue mani, opere contaminate dal peccato. Vestito della sua tunica di pelle, Adamo non poteva dire come prima, sotto gli alberi del giardino, «ero nudo», e non sentiva più alcun bisogno di nascondersi. Il peccatore può essere perfettamente tranquillo, quando per fede sa che Iddio l’ha vestito; ma fino a quel momento, essere tranquillo non può essere che il risultato di presunzione o di ignoranza. Sapere che il vestito che porto e nel quale mi trovo davanti a Dio mi è stato preparato da lui stesso deve porre il mio cuore in un perfetto riposo. Non vi può essere riposo vero e permanente in nessun’altra cosa.

3.9 Fuori del giardino

Gli ultimi versetti del nostro capitolo sono molto istruttivi.

L’uomo caduto non deve mangiare del frutto del l’albero della vita; ciò gli cagionerebbe una miseria senza fine in questo mondo. Mangiare di quel frutto e vivere eternamente nella nostra attuale condizione, sarebbe l’infelicità completa e totale. Non si può aver parte all’albero della vita se non in risurrezione. Vivere per sempre in una fragile tenda, in un corpo di peccato e di morte, sarebbe insopportabile. Perciò «l’Eterno Iddio mandò via l’uomo dal giardino di Eden», lo scacciò in un mondo che, ovunque, presentava alla sua vista i tristi risultati della sua caduta. I cherubini colla spada fiammeggiante erano là per impedire all’uomo caduto l’accesso all’albero della vita mentre la rivelazione di Dio gli mostrava la morte e la risurrezione nella progenie della donna come sorgente di vita per lui, d’una vita al di fuori della potenza della morte. In tal modo Adamo era più felice e al sicuro fuori del paradiso, che non nel paradiso stesso, poiché, se fosse rimasto nell’Eden, la sua vita sarebbe dipesa da lui, mentre fuori del giardino, la sua vita dipendeva da un altro, dal Cristo promesso, progenie della donna; e quando lo sguardo di Adamo incontrava i cherubini e la spada fiammeggiante, egli poteva benedire la mano che li aveva posti là, poiché la stessa mano gli aveva aperto una via, più sicura e più felice verso quell’albero.

Se i cherubini e la spada fiammeggiante hanno chiuso la via del paradiso, il Signore Gesù ha aperto «una via recente e vivente» che conduce al Padre, nel luogo santissimo. Gesù disse «Io sono la via, la verità e la vita, nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (confr.: Giov. 14:6; Ebrei 10:20). È nella conoscenza di queste cose che il credente cammina ora attraverso un mondo maledetto, dove le conseguenze del peccato sono ovunque visibili, avendo trovato, per fede, la via che conduce nel seno del Padre; e mentre può riposarsi quivi in segreto, è rallegrato dalla beata certezza che il suo Salvatore è andato a preparargli un posto nella casa del Padre, da dove presto tornerà per prenderlo e introdurlo con Se nella gloria del regno del Padre suo. Così il credente trova fin d’ora nel seno, nella casa e nel regno del Padre, la sua parte, la sua dimora futura e la sua gloriosa ricompensa.


4. Capitolo 4: Caino e Abele

4.1 L’uomo religioso e l’uomo di fede

Man mano che una nuova sezione del libro della Genesi si apre davanti a noi, ci sono date nuove prove che stiamo percorrendo, come in «embrione», tutta la storia dell’uomo.

Caino e Abele ci presentano i primi tipi dell’uomo religioso del mondo e del vero credente. Nati tutti e due fuori del paradiso, figli di un Adamo caduto, non avevano nulla, nella loro natura, che potesse stabilire una differenza essenziale fra loro. Tutti e due erano peccatori, tutti e due avevano una natura scaduta; né l’uno né l’altro erano innocenti. È importante discernere bene questo punto per poter anche discernere ciò che sono la grazia divina e la fede. Se la differenza fra Caino e Abele fosse dipesa dalla loro natura, ciò significherebbe che essi non condividevano la natura scaduta del padre loro e non partecipavano alle conseguenze della caduta sua: per cui l’azione della grazia non avrebbe avuto motivo di spiegarsi in loro e neanche l’esercizio della fede.

Si è voluto dire che l’uomo nasce con delle qualità e delle capacità che, ben adoperate e sviluppate, lo metterebbero nella condizione di potersi aprire una via verso Dio. Ma la Scrittura ci insegna che Caino e Abele erano nati non dentro il paradiso, ma fuori: erano figli non di Adamo innocente, ma di Adamo caduto. Sono entrati nel mondo partecipi della natura del loro padre, e sotto qualsiasi apparenza questa natura si fosse manifestata, era sempre la natura scaduta e peccatrice. Ciò che è nato dalla carne non solo è carnale, ma «è carne»; e ciò che è nato dallo Spirito non solo è spirituale, ma «è spirito» (Giov. 3:6).

Nessuna epoca diede mai occasione più favorevole per la manifestazione delle qualità, delle capacità, delle risorse e delle tendenze distintive della natura umana, quanto i tempi di Caino e di Abele. Se, per natura, l’uomo avesse posseduto qualcosa che gli avesse fatto ricuperare l’innocenza perduta e l’avesse ricondotto nel paradiso, aveva allora l’occasione di darne la prova: ma Caino e Abele erano perduti; erano «carne»; non erano innocenti, poiché Adamo perdette la sua innocenza e non la ricuperò mai più. Adamo non era che il capo scaduto di una razza scaduta; «per la disubbidienza di un solo uomo molti sono stati costituiti peccatori» (Rom. 5:19). Adamo divenne, per ciò che lo riguarda personalmente, la sorgente corrotta di una umanità scaduta, colpevole e corrotta, il tronco morto di tutti i rami di una umanità moralmente e spiritualmente morta. È vero, come l’abbiamo visto prima, che Adamo divenne un oggetto della grazia e dimostrò una fede vivente in un Salvatore promesso; ma questa fede non era attinente alla sua natura. Non era nemmeno in potere della natura il comunicarla; non era per nulla ereditaria; ma era in lui il frutto dell’amore divino, era stata impiantata in lui dalla potenza divina. Adamo poteva comunicare, secondo le vie naturali, tutto ciò che era naturale ma nulla di più. E poiché come padre era un uomo scaduto, suo figlio non poteva essere in uno stato diverso, e partecipava necessariamente alla natura di suo padre. Quale è colui che genera, tali sono coloro che sono generati da lui (parag. 1 Giov. 5:1). Quale il terreno, tali sono anche i terreni (1 Cor. 15:48).

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:46
 4.2 Adamo e Cristo, due capostipiti della razza

È importantissimo comprendere la dottrina dei due capostipiti della razza. Se il lettore vuoi soffermarsi un momento su Rom. 5:12-21 vedrà che l’apostolo ispirato considera l’intera razza umana sotto due capi. Non intendo fermarmi su quel passo, ma soltanto riferirmi ad esso a proposito dell’argomento in corso. Il cap. 15 della 1 epist. ai Corinzi ci presenta delle istruzioni analoghe nei versetti 44 e seguenti. Nel primo uomo abbiamo davanti a noi il peccato, la disubbidienza e la morte; nel secondo uomo abbiamo la giustizia, l’obbedienza e la vita. Come ereditiamo per nascita la natura del primo, così ereditiamo con la nuova nascita la natura del secondo. Senza dubbio, ognuna di queste nature spiegherà e manifesterà, in ogni individuo e in ogni caso particolare, le forze e le facoltà che le sono proprie; tuttavia vi è il vero possesso d’una natura reale e positiva. Ora, come per nascita secondo la carne ereditiamo la natura del primo uomo, nello stesso modo, con la nuova nascita, ereditiamo la natura del secondo uomo. Il neonato, benché incapace di compiere l’atto che ridusse Adamo allo stato di creatura scaduta, non è per questo meno partecipe della natura d’Adamo; ne è lo stesso dell’uomo nato da Dio. L’anima rigenerata, benché del tutto estranea all’adempimento della perfetta opera d’obbedienza dell’«Uomo Cristo Gesù», non è per questo meno partecipe della sua natura. Senza dubbio, il peccato del primo uomo non si è fermato su Adamo solo, ma è passato a tutta la sua progenie; così la giustizia non si è fermata sul secondo uomo, ma è abbondata sopra molti. Comunque, vi è una partecipazione vera e attuale a una natura reale qualunque ne siano i caratteri. La prima natura è secondo la volontà dell’uomo (Giov. 1:13); la seconda natura è secondo la volontà di Dio come Giacomo pure ci dice: «Egli ci ha, di sua volontà, generati mediante la parola di verità» (epist. Giacomo 1:18).

4.3 Due sacrifici

Risulta, da tutto ciò che abbiamo detto, che per natura e per le circostanze nelle quali viveva, Abele non era diverso da suo fratello Caino: a questo riguardo, «non v’è distinzione» (Rom. 3:22): eppure differivano l’uno dall’altro e questa differenza consisteva soltanto nei loro sacrifici. Ciò rende molto semplice l’insegnamento che Iddio vuol far trovare qui per ogni peccatore convinto di peccato e per chiunque sente realmente che non soltanto partecipa alla natura scaduta del primo uomo, ma che egli stesso è peccatore. La storia di Abele ci insegna infatti per quale via un peccatore può avvicinarsi a Dio, e su quale fondamento può stare nella sua presenza e aver comunione con Lui; ci insegna chiaramente che ciò non può avvenire che al di fuori di se stesso; è nella persona e nell’opera di un altro che egli deve cercare il vero ed eterno fondamento della sua relazione col giusto, santo e solo vero Dio. Il cap. 11 dell’epistola agli Ebrei sviluppa questo soggetto nel modo più chiaro possibile. «Per fede Abele offerse a Dio un sacrificio più eccellente di quello di Caino; per mezzo di esso, gli fu resa testimonianza ch’egli era giusto, quando Dio attestò di gradire le sue offerte; e per mezzo d’esso, benché morto, egli parla ancora». Non è di Abele che si tratta qui, ma del suo sacrificio; non è della persona che apportava l’offerta, ma dell’offerta stessa; ed è riguardo all’offerta che vi è una grande differenza fra Caino e Abele. Il mio lettore non potrà essere mai troppo penetrato dell’importanza di questo punto, poiché tutta la verità che concerne la posizione di un peccatore davanti a Dio è qui racchiusa.

4.4 Il sacrificio di Caino

Vediamo quali erano le offerte: «E avvenne di lì a qualche tempo, che Caino fece una offerta di frutti della terra all’Eterno; e Abele offerse anch’egli dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso. E l’Eterno guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e l’offerta sua» (Gen. 4:3-5). Caino offerse all’Eterno i frutti di una terra maledetta, e li offerse senza effusione di sangue per togliere la maledizione; offerse un «sacrificio incruento» perché non aveva la fede. Se avesse avuto la fede, questo principio divino gli avrebbe insegnato, anche in quei primi giorni della storia dell’uomo decaduto, che «senza spargimento di sangue non c’è remissione» (Ebrei 9:22). È questa una verità di somma importanza. «Il salario del peccato è la morte». Caino era peccatore, e come tale la morte lo separava da Dio. Ma nella sua offerta, Caino non ne tiene alcun conto; non offre il sacrificio di una vita per soddisfare alle esigenze della santità divina e rispondere alla sua condizione di peccatore. Agisce verso Dio come se Dio fosse simile a lui e come se Dio potesse accettare il frutto contaminato di una terra maledetta. Il sacrificio «non cruento» di Caino implica tutto ciò e molto di più ancora. La ragione dirà senza dubbio: «ma quale sacrificio più accettevole potrebbe offrire l’uomo di quello acquistato col proprio lavoro e col sudore della propria fronte?». Infatti la ragione e anche lo spirito religioso dell’uomo naturale possono pensare così; ma Dio la pensa diversamente, e la fede si accorda sempre con i pensieri di Dio. Dio insegna, e la fede lo crede, che è necessario il sacrificio di una vita perché l’uomo possa avvicinarsi a Dio. Così, quando consideriamo il ministerio del Signore Gesù, ben presto vediamo che se egli non fosse morto sulla croce, tutto il suo servizio sarebbe stato inutile per stabilire le nostre relazioni con Dio. Gesù è andato di luogo in luogo facendo del bene durante tutta la sua vita, questo è vero; ma solo la sua morte poteva strappare la cortina (Matteo 27:51) e nessun’altra cosa avrebbe potuto farlo. Se Gesù avesse continuato ad andare di luogo in luogo facendo il bene fino ad oggi, la cortina sarebbe rimasta intatta per precludere all’adoratore l’accesso al «luogo santissimo», cioè alla presenza immediata di Dio.

Vediamo in tal modo come era falso il fondamento sul quale Caino si presentava davanti a Dio come adoratore e sacerdote: un peccatore non perdonato che si presenta davanti all’Eterno per porgergli un sacrificio «non cruento» non poteva essere considerato che come un peccatore colpevole d’una presunzione inconcepibile. Senza dubbio, la sua offerta era il frutto del suo penoso lavoro; ma che importa? Il lavoro di un peccatore poteva forse togliere la maledizione del peccato e farne sparire la contaminazione? Poteva soddisfare alle esigenze di un Dio infinitamente santo? Poteva fornire al peccatore quello che gli era necessario per essere ricevuto da Dio? Poteva annullare il castigo dovuto al peccato? Poteva togliere alla morte il suo dardo e al sepolcro la sua vittoria? Poteva forse fare questo del tutto o anche in parte? — No, poiché «senza spargimento di sangue, non vi è remissione di peccato». Il sacrificio non cruento di Caino, come qualsiasi sacrificio non cruento, era non solo senza valore, ma addirittura abominevole agli occhi di Dio; dimostrava inoltre l’ignoranza completa di Caino riguardo al carattere di Dio. «Dio non è servito da mani d’uomini, come se avesse bisogno di alcuna cosa» (Atti 17:25). Caino pensava che ci si potesse avvicinare a Dio in questa maniera; ed ogni uomo che non ha altro che una religione umana, pensa lo stesso. Di secolo in secolo Caino ha avuto delle migliaia di discepoli. Il culto di Caino è sempre abbondato nel mondo: è il culto di ogni anima inconvertita; è il culto che mantengono tutti i falsi sistemi di religione che esistono sotto il sole.

L’uomo sarebbe felice di fare di Dio il proprio debitore, ma Dio vuole misericordia e non sacrificio, «poiché, più felice cosa è il dare che il ricevere» (Atti 20:35) e per certo, il primo posto in questo, come in tutto, appartiene a Dio, e, «senza contraddizione, l’inferiore è benedetto dal superiore» (Ebrei 7:7). «Chi gli ha dato per primo?» (Romani 11:35). Iddio accetta la più piccola offerta d’un cuore che ha imparato a dire come Davide: «tutto viene da Te e noi t’abbiam dato quello che dalla tua mano abbiamo ricevuto» (1 Cronache 29:14). Ma dal momento che l’uomo ha la pretesa di essere «primo donatore», Dio risponde: «Se avessi fame, non te lo direi» (Salmo 50:12) poiché «Dio non è servito dalle mani degli uomini, come se avesse bisogno di qualche cosa, Egli che dà a tutti la vita, il fiato ed ogni cosa» (Atti 17:25). Il gran Donatore di «ogni cosa» non può e «aver bisogno d’alcuna cosa». La lode è tutto quello che possiamo offrire a Dio, e non possiamo offrirgliela se non in rapporto a quanto comprendiamo che i nostri peccati sono stati cancellati; e questo ancora lo sappiamo solo per la fede nella virtù d’una espiazione compiuta.

4.5 Il sacrificio di Abele

Dal sacrificio di Caino passiamo ora a quello di Abele. «E Abele offerse anch’egli dei primogeniti del suo gregge e dei loro grasso» (vers. 4). In altri termini, egli afferrò, per fede, la gloriosa verità che l’uomo può avvicinarsi a Dio per mezzo d’un sacrificio, che il peccatore può porre la morte di un altro fra se stesso e le conseguenze del suo peccato: che può soddisfare alle esigenze della natura di Dio e agli attributi del suo carattere, per mezzo del sangue d’una vittima senza macchia, d’una vittima offerta per rispondere sia a quello che Dio domanda, sia ai profondi bisogni del peccatore. Questa è, in riassunto, la dottrina della croce. Ogni uomo divinamente convinto di peccato, sente che la morte e il giudizio sono la giusta ricompensa dei suoi misfatti (ved. Luca 23:41) e che non è in suo potere, qualunque cosa faccia, di cambiare questo destino. Può lavorare ed affaticarsi; può, col sudore della sua fronte, procurarsi una offerta; può fare voti e prendere buone risoluzioni, cambiare il suo modo di vivere, riformare il suo carattere; può essere morale, retto e, secondo il significato umano della parola, religioso; può, senza aver la fede, pregare, leggere la Parola di Dio o udire sermoni; fare tutto ciò che rientra nel dominio della capacità dell’uomo e, malgrado ciò, non aver davanti a sè che la morte e il giudizio, senza alcuna capacità per dileguare le dense nubi che oscurano il suo orizzonte. Esse sono là, e lungi dal poterle allontanare per mezzo delle sue opere, vive nell’anticipazione continua del momento in cui la tempesta scoppierà sul suo capo colpevole.

È impossibile che un peccatore si trasporti dall’altro lato della «morte e del giudizio», nella vita e nella gloria per mezzo delle sue proprie opere; opere ch’egli compie in vista di prepararsi, se possibile ad incontrare queste spaventevoli realtà che gli stanno davanti. Ma è proprio quando il peccatore è giunto a questo punto, che gli è presentata la croce: essa gli fa vedere che Dio ha provveduto a tutto quello che necessitava alla sua colpevolezza e alla sua miseria. Alla croce, il peccatore può vedere la morte e il giudizio cedere il posto alla vita e alla gloria. Cristo ha fatto sparire dalla scena la morte e il giudizio, per quello che concerne il vero credente e ha sostituito ad essi, la vita, la giustizia e la gloria. «Egli ha distrutto la morte ed ha prodotto in luce, la vita e l’immortalità mediante l’evangelo» (2 Tim. 1:10). Egli ha glorificato Dio togliendo quello che ci avrebbe tenuto per sempre lontani dalla sua santa e beata presenza: «Ha annullato il peccato col suo sacrificio» (Ebrei 9:26).

Tutto ciò è rappresentato in figura dal «più eccellente sacrificio» di Abele. Abele non tenta di annullare la verità della sua posizione di peccatore, non cerca di spostare la spada fiammeggiante e di forzare la via all’albero della vita; non presenta presuntuosamente un sacrificio «non cruento» e nemmeno presenta all’Eterno i frutti d’una terra maledetta; prende il posto che si addice ad un peccatore e, come tale, pone la morte d’una vittima fra sè e i propri peccati e fra i suoi peccati e la santità di un Dio che odia il peccato. Abele meritava la morte e il giudizio, ma trova un sostituto.

È lo stesso per un povero peccatore accusato e condannato dalla propria coscienza. Cristo è il suo sostituto, il suo riscatto, il suo «più eccellente sacrificio», il suo «tutto». Come Abele, sente che il frutto della terra non potrà mai essergli di alcun profitto; sente che, se anche presentasse a Dio i più bei frutti della terra, la sua coscienza rimarrebbe sempre contaminata dal peccato, visto che «senza spargimento di sangue, non v’è remissione di peccato». È solo il perfetto sacrificio del Figlio di Dio che può mettere il cuore e la coscienza a loro agio, e tutti quelli che per la fede afferrano questa divina realtà, godranno d’una pace che il mondo non può né dare né togliere. È la fede che fin d’ora mette l’anima in possesso di questa pace.

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:47
4.6 La fede e i sentimenti

«Giustificati dunque per fede, abbiam pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore» (Rom. 5:1). «Per fede, Abele offerse a Dio un sacrificio più eccellente di quello di Caino». Qui non è questione di sentimento, come molti pensano, ma di fede in un fatto compiuto, di fede prodotta nell’anima di un peccatore per la potenza dello Spirito Santo.

Questa fede è tutt’altra cosa che un sentimento del cuore o una adesione dell’intelligenza. Il sentimento non è fede e l’adesione dell’intelligenza neppure; checché se ne dica, la fede non è cosa d’un giorno, e che il giorno dopo può non esservi più: è un principio imperituro che emana da una sorgente eterna, cioè da Dio stesso. Essa afferra la verità di Dio e pone l’anima nella sua presenza. Ciò che è solo sentimento non può mai elevarsi al di sopra della propria sorgente, e questa sorgente è l’io; ma la fede ha Dio e la Parola eterna per oggetti; è un legame vivente che unisce il cuore che la possiede a Dio che la dà. I sentimenti umani, per quanto intensi e raffinati, non possono mai unire l’anima a Dio. Non sono né divini né eterni, ma umani e passeggeri; sono come il ricino di Giona, che crebbe in una notte e in una notte seccò. La fede non è così; è un principio che partecipa a tutto il valore, a tutta la potenza e la realtà della sorgente da cui emana e dell’oggetto sul quale agisce. Per la fede, l’uomo è giustificato (Rom. 5:1). Essa purifica il cuore (Atti 15:9), opera per mezzo dell’amore (Gal. 5:6), vince il mondo (1 Giov. 5:4). Il sentimento appartiene alla natura e alla terra, la fede è di Dio e del cielo; il sentimento si occupa dell’io e delle cose di quaggiù; la fede si occupa di Cristo e porta gli sguardi sulle cose del cielo; il sentimento lascia l’anima nell’oscurità e nel dubbio, e la occupa del suo proprio stato; la fede introduce l’anima nella luce e nel riposo e la occupa della verità immutabile di Dio e del sacrificio di Cristo. La fede senza dubbio produce dei sentimenti e dei pensieri, dei sentimenti spirituali e dei pensieri veri, ma non bisogna mai confondere i frutti della fede con la fede stessa. Non sono giustificato per mezzo dei miei sentimenti e nemmeno per la fede e i sentimenti insieme; ma unicamente per la fede. Perché? — Perché la fede crede e tiene per vero quello che Dio dice e afferra Dio come si è rivelato nella persona e nell’opera del Signore Gesù Cristo. In questo sono la vita, la giustizia e la pace. Conoscere Dio quale Egli è, è la somma di ogni felicità presente ed eterna.

L’anima che ha trovato Dio ha trovato tutto ciò di cui potrà aver bisogno nel presente e nell’avvenire; ma Dio non può essere conosciuto che per mezzo della sua rivelazione e della fede che egli comunica e che ha sempre la rivelazione divina per oggetto.

Così possiamo comprendere, in una certa misura, la forza e il significato di queste parole: «Per fede Abele offerse un sacrificio più eccellente che Caino». Caino non aveva la fede; quindi offerse un sacrificio non cruento. Abele aveva la fede, perciò offerse «il sangue e il grasso» che in figura rappresentava l’offerta della vita di Cristo e l’eccellenza inerente alla sua persona. Il sangue rappresentava la vita; «il grasso», l’eccellenza della persona, perciò la legge mosaica proibiva di mangiare il sangue e il grasso. Il sangue è la vita; tuttavia il capitolo 6 dell’evangelo di Giovanni ci insegna che se non beviamo il sangue del Figliuolo dell’uomo non abbiamo la vita in noi stessi.

Cristo è la vita; non esiste una scintilla di vita al di fuori di Lui; fuori di Cristo, tutto è morte. «In Lui era la vita» e in nessun altro. Alla croce, egli lasciò la sua vita; ed è a questa vita che, per imputazione, il peccato è stato legato, allorquando Gesù fu inchiodato sul legno maledetto. Così, lasciando la sua vita, Cristo lasciò con essa il peccato che le era unito e, in tal modo, ha effettivamente tolto il peccato, avendola lasciato nella tomba; da essa poi è uscito trionfante, nella potenza d’una nuova vita, alla quale la giustizia si riallaccia in modo tanto efficace quanto il peccato era annesso all’altra vita lasciata alla croce. «La vita della carne è nel sangue: per questo vi ho ordinato di porlo sull’altare per far l’espiazione per le vostre persone» (Levitico 17:11). Tutto questo merita la nostra più seria attenzione, e rende più profondo nelle nostre anime la coscienza che la morte di Cristo ha perfettamente e completamente tolto il peccato. Tutto quello che rende più profonda l’intelligenza e il sentimento che abbiamo di questa gloriosa realtà, racchiude necessariamente la nostra pace e ci rende capaci di propagare più efficacemente la gloria di Cristo, per quanto questa gloria è legata alla nostra testimonianza e al nostro servizio.

4.7 Il valore del sacrificio stesso
[identificazione del uomo con la sua offerta]

La storia di Caino e d’Abele, mette in rilievo un punto molto importante, che abbiamo già toccato prima, cioè l’identificazione di questi due uomini con l’offerta che presentano. Per l’uno come per l’altro, era il carattere dell’offerta, e non la persona di colui che offriva, che era considerato. Perciò leggiamo di Abele, che Dio rese testimonianza alla sua offerta. Dio non rese testimonianza ad Abele, ma al suo sacrificio; e per mezzo di questo sacrificio Abele ricevette la testimonianza di essere giusto (Ebrei 11:4). Questo dimostra chiaramente quale è il vero fondamento della pace del credente e della sua accettazione davanti a Dio. Vi è nel nostro cuore una tendenza continua a fare dipendere la nostra pace e la nostra accettazione da qualche cosa che sia in noi o che viene da noi, benché ammettiamo che questo «qualche cosa» sia un frutto dello Spirito Santo. Da ciò il nostro continuo guardare in noi, mentre lo Spirito Santo vorrebbe sempre farci guardare fuori di noi. La posizione del credente non dipende da ciò che egli è, ma da ciò che Cristo è. Essendosi avvicinato a Dio «nel nome di Gesù» è identificato con lui e accettato nel suo nome, e non può essere rigettato, come non può esserlo Gesù nel nome del quale egli si è avvicinato a Dio. Prima di poter toccare anche il più debole dei credenti, bisogna aver a che fare con Cristo stesso, di modo che la sicurezza del credente posa su un fondamento irremovibile. Povero indegno peccatore quanto a se stesso, il credente s’è avvicinato a Dio nel nome di Cristo; è stato identificato con Cristo, accettato in Lui e come Lui, e associato a Lui nella sua vita. Dio rende testimonianza non al credente, ma al suo dono, e il suo dono è Cristo. Che pace, che perfetta consolazione! È nostro privilegio ora poter rimandare ogni fiducia della fede, ogni accusa ed ogni accusatore a Cristo e alla espiazione compiuta da Lui. Tutto, per noi, deriva da lui. Possiamo gloriarci in Lui continuamente. Non abbiamo nessuna fiducia in noi stessi, ma in Colui che ha compiuto ogni cosa per noi. Ci attacchiamo al Suo Nome, confidiamo nella sua opera, contempliamo la sua persona e aspettiamo la sua venuta.

4.8 L’omicida

Ma il cuore carnale manifesta ben presto tutta la inimicizia contro quest’ordine di verità che rallegra e soddisfa il cuore del fedele. Caino ne è l’esempio: «E Caino ne fu molto irritato, e il suo viso ne fu abbattuto». Ciò che riempie Abele di pace, riempie Caino di sdegno. Incredulo, sprezza il solo mezzo per il quale un peccatore può avvicinarsi a Dio. Invece di offrire il sangue senza il quale non vi è remissione, offre a Dio il frutto delle sue opere; poi non vedendosi gradito nei suoi peccati, mentre Abele è ricevuto grazie alla sua offerta, «è molto irritato e il suo volto ne fu abbattuto». Eppure, come poteva essere altrimenti? Dio non poteva riceverlo con i suoi peccati, e non volendo egli portare il sangue, che solo poteva farne l’espiazione, è stato respinto, ed essendo respinto, dà a conoscere, per mezzo delle sue opere, i frutti d’una religione corrotta. Egli perseguita ed uccide il testimone fedele, l’uomo gradito e giustificato, l’uomo di fede e diviene così il modello e il precursore di tutti quelli che in tutti i tempi hanno fatto una falsa professione di pietà.

In ogni tempo e in ogni luogo, l’uomo si è dimostrato più disposto a perseguitare il suo simile per i principi religiosi che per ogni altra ragione: così fu per Caino. La giustificazione piena, perfetta, senza riserva, che si ha per mezzo della fede sola, fa di Dio tutto e dell’uomo nulla. Ma all’uomo non piace essere tenuto per nulla, se ne irrita, e il suo viso ne è abbattuto: non già che abbia qualche ragione di irritarsi poiché, come abbiamo visto, non era questione dell’uomo in se stesso, ma del principio sul quale l’uomo si presentava a Dio. Se Dio avesse ricevuto Abele in virtù di qualche cosa che fosse inerente alla sua persona, Caino avrebbe avuto ragione di irritarsi ed essere sdegnato; ma dal momento che Abele era ricevuto a causa della sua offerta, e non fu a lui ma ai suoi doni che il Signore rendeva testimonianza, la collera di Caino era totalmente priva di fondamento. È ciò che dimostra la parola del Signore a Caino: «Se fai bene, non sarai tu gradito?». Questo «se fai bene» si riferisce all’offerta. Abele fece bene, cercando riparo dietro un sacrificio accettevole a Dio; Caino fece male offrendo un sacrificio non cruento; e tutta la sua ulteriore condotta non fu che la conseguenza naturale del suo falso culto.

«E Caino disse ad Abele suo fratello: Usciamo fuori ai campi. Ed avvenne che, quando furono nei campi Caino si levò contro Abele suo fratello e l’uccise» (vers. 8). In ogni tempo i Caino hanno perseguitato e ucciso gli Abele. In tutti i tempi, l’uomo e la sua religione sono gli stessi, come pure la fede e la religione della fede. E ovunque la religione dell’uomo e la religione della fede si incontrano, vi è lotta. Il crimine di Caino, come l’abbiamo notato, non era che la conseguenza naturale del suo falso culto: il fondamento di questo culto era cattivo, e tutto ciò che era edificato sopra, era anche cattivo. Caino non si fermò all’omicidio di Abele; avendo udito il giudizio che Dio pronunciò su di lui, disperando di essere perdonato, perché non conosceva Dio, «si partì dal cospetto dell’Eterno» (vers. 16).

4.9 Caino e la sua discendenza

Poi Caino edificò una città e diede origine a una famiglia in cui si coltivavano le arti e le scienze: agricoltori, musicisti, lavoratori in metalli. Non conoscendo il carattere di Dio, Caino giudicava che il suo peccato fosse troppo grande per essere perdonato; non che ne conoscesse veramente la gravità: non conosceva Dio! Il pensiero stesso di Caino riguardo a Dio è uno dei frutti spaventevoli della caduta. Non si preoccupa di essere perdonato perché non si preoccupa di Dio. Non conosce la sua vera condizione e non desidera affatto di avere a che fare con Dio, non ha nessuna vera intelligenza del principio in virtù del quale un peccatore può avvicinarsi a Lui. È radicalmente corrotto, fondamentalmente malvagio; e tutto quello che desidera è di uscire dalla presenza del Signore e di perdersi nel mondo e nelle sue imprese; pensa di poter vivere benissimo senza Dio, perciò si accinge ad abbellire il mondo meglio che può per stabilirvisi onorabilmente e rendersi rispettabile, benché agli occhi di Dio fosse sotto maledizione, fuggiasco e vagabondo.

Tale era «la via di Caino», quella via larga nella quale migliaia di persone si incamminano oggi. Non voglio dire che queste persone siano sprovviste di ogni sentimento religioso; credono anzi giusto presentare a Dio il frutto del loro lavoro, ma non conoscono né loro stessi né Dio; e cosi fanno diligenti sforzi per migliorare il mondo, rendere la vita piacevole, ornarla con ogni sorta di mezzi. Il divino mezzo di purificazione è rigettato e lo sforzo dell’uomo per migliorare il mondo lo sostituisce. Questa è veramente «la via di Caino» (ved. Giuda 11).

Come ai giorni di Caino i suoni piacevoli degli strumenti musicali impedivano che il grido del sangue di Abele si facesse udire all’uomo, nello stesso modo oggi altri suoni incantatori soffocano la voce del sangue del Calvario e altri oggetti, che non un Cristo crocifisso, attirano gli sguardi. L’uomo impegna tutte le risorse del suo genio per fare di questo mondo una serra nella quale si sviluppano tutti i frutti che la carne desidera con tanto ardore. E a questo aggiunge molta «pretesa» religiosa, poiché si è costretti a riconoscere che molto di ciò che va sotto il nome di religione, non è che uno degli elementi della grande macchina che è stata costruita per la comodità e l’esaltazione dell’uomo. All’uomo non piace essere senza religione; non sarebbe onorevole, e perciò consacra alla religione un giorno alla settimana, o almeno alcune ore; professa di dedicare del tempo ai suoi interessi eterni, per dare poi tutto il resto ai suoi interessi temporali; ma, che lavori per il tempo o per l’eternità, in realtà lavora sempre per se stesso.

Tale è «la via di Caino». Ponderate bene questo, lettore, e vedrete dove incomincia, dove tende e dove finisce una tale vita! Quanto è diversa dalla via dell’uomo di fede! Abele sente e riconosce la maledizione, vede la contaminazione del peccato e, nell’energia della sua fede, offre un sacrificio che risponde a tutto ciò e vi risponde perfettamente. Egli cerca e trova un rifugio in Dio stesso e, invece di edificare una città sulla terra, non vi trova che un sepolcro. La terra che alla superfice manifestava l’inventiva e l’energia di Caino e delle sua famiglia, era contaminata dal sangue d’un giusto. Possano ricordarsene l’uomo del mondo, il cristiano mondano e anche l’uomo di Dio: la terra sulla quale camminiamo è macchiata dal sangue del Figliuolo di Dio! Questo sangue giustifica la Chiesa, ma condanna il mondo; solo l’occhio della fede discerne, sotto le belle apparenze e lo splendore di questo effimero mondo, le tetre ombre della croce di Cristo. «La figura di questo mondo passa» (1 Cor 7: 31). La via di Caino sarà seguita «dai traviamenti di Balaam», nella sua forma completa, poi verrà «la ribellione di Core» e, dopo, l’abisso aprirà le sue fauci per ricevere i malvagi e rinchiuderli per sempre «nella caligine delle tenebre in eterno» (Giuda 11-13).

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:48
 5. Capitolo 5: Le generazioni di Set a Noè

5.1 La vita e la morte — la morte e la vita

A piena conferma di ciò che abbiamo detto prima, diamo uno sguardo sul contenuto del capitolo 5 che ci trasmette l’umiliante testimonianza della debolezza umana e del suo assoggettamento al potere della morte. L’uomo infatti può vivere per secoli e generare figliuoli e figliuole; ma alla fine deve pur essere detto di lui: «poi morì». «La morte regnò da Adamo fino a Mosè» e ancora: «È stabilito che gli uomini muoiano una volta» (Rom. 5:14; Ebrei 9:27).

L’uomo non può sfuggire alla morte. Non può toglierle il suo terribile dardo, con nessuna delle risorse del suo genio. Saprà trovare il mezzo di aumentare e propagare il benessere e i piaceri della vita, ma tutta la sua energia non è capace di annullare la sentenza della morte.

Da dove, dunque, è venuta la morte, questa cosa strana e spaventosa? L’apostolo Paolo ce lo insegna: «Per mezzo d’un solo uomo, il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato v’è entrata la morte» (Rom. 5:12). Tale è l’origine della morte: è venuta per mezzo del peccato. Il peccato ha rotto il legame che univa l’uomo all’Iddio vivente, ha sottoposto l’uomo all’imperio della morte senza che egli possa in nessun modo sottrarvisi. Non vi può essere comunione fra Dio e l’uomo se non nella potenza della vita. Ma l’uomo è sotto la potenza della morte e non può, per conseguenza, avere alcuna comunione con Dio nel suo stato naturale. La vita non può avere comunione con la morte più che la luce con le tenebre, o la santità di Dio col peccato. È necessario che l’uomo si avvicini a Dio sopra un fondamento, un principio del tutto nuovo: la fede; essa lo rende capace di riconoscere la sua vera posizione di uomo «venduto al peccato» e pertanto sottoposto alla morte, e gli fa conoscere, nello stesso tempo, Iddio come dispensatore d’una vita nuova, d’una vita che è al di fuori della potenza della morte e del Nemico, e che non possiamo perdere. È questo che fa la certezza del credente. Cristo è la sua vita; Cristo risorto e glorificato, Cristo vittorioso di tutto ciò che poteva esserci contrario. La vita di Adamo dipendeva dalla sua obbedienza; perciò, peccando, la perse. Ma Cristo, avendo la vita in se stesso, scese quaggiù, soddisfò a tutte le conseguenze del peccato dell’uomo, sottoponendosi alla morte, distruggendo colui che ne aveva l’imperio e diventando, in risurrezione, vita e giustizia a tutti quelli che credono nel suo Nome. D’ora innanzi, Satana non può toccare questa vita, né nella sua sorgente, né nel suo canale, né nella sua potenza, né nella sua sfera, né nella sua durata. Dio è la sorgente. Cristo risuscitato il canale, lo Spirito Santo la potenza, il cielo la sfera, l’eternità la durata. Tutto è cambiato per chi possiede questa vita meravigliosa; e benché in un certo senso, si possa dire che «in mezzo alla vita siamo nella morte», possiamo dire anche che «in mezzo alla morte siamo nella vita». Là dove il Cristo risuscitato introduce il suo popolo, la morte non esiste più. Non l’ha egli abolita? La Parola di Dio ce lo dichiara. Cristo ha fatto sparire la morte dalla scena e vi ha introdotto la vita; non è dunque la morte che il credente ha davanti a sè, ma la gloria, una gloria senza nubi. Può darsi che il credente si addormenti in Gesù; ma addormentarsi in Gesù non è la morte, ma la vita nella sua realtà. La possibile evenienza di lasciare questo mondo per essere con Cristo, non cambia la speranza del credente, che è quella di essere rapito ad incontrare il Signore nell’aria, per essere per sempre con lui e come lui.

5.2 Enoc

Enoc è qui un tipo magnifico; solo lui fa eccezione alla regola generale del cap. 5: «poi morì». Infatti «Egli non passò per la morte»; ecco l’eccezione. «Per fede Enoc fu trasportato perché non vedesse la morte; e non fu più trovato, perché Dio l’aveva trasportato; poiché avanti che fosse trasportato fu di lui testimoniato che era piaciuto a Dio» (Ebrei 11:5). Enoc fu il «settimo uomo da Adamo» e Iddio non permise che la morte riportasse la vittoria sul «settimo uomo»; Dio intervenne e fece di lui il trofeo della sua gloriosa vittoria su tutta la potenza della morte.

È un fatto di alto interesse. Dopo aver udito sei volte questa sentenza «poi morì», il cuore è rallegrato nel trovare un settimo uomo che non morì. E come scampò alla morte? — Per fede. «Enoc camminò con Dio trecento anni»: questo cammino con Dio per la fede lo separava da tutto ciò che lo circondava, poiché camminare con Dio porta necessariamente fuori dalla sfera e dal pensieri di questo mondo; già allora, come ai giorni nostri, lo spirito del mondo era opposto a tutto ciò che era di Dio. L’uomo di fede sentiva che non aveva nulla a che fare col mondo, nel quale non era che un testimone paziente della grazia di Dio e del giudizio futuro. I figliuoli di Caino potevano adoperare la loro intelligenza e spendere la loro forza nella vana speranza di migliorare un mondo malvagio; Enoc aveva trovato un mondo migliore e visse nella potenza di questo mondo futuro. Non aveva ricevuto la fede per migliorare il mondo, ma per camminare con Dio.

«Enoc camminò con Dio»! Quante cose implicano queste tre parole!

È evidente che Enoc non conosceva nulla del sistema, così comune, purtroppo, di trarre il maggior profitto possibile dai due mondi, dal mondo e dal cielo. Per lui non v’era che un mondo, in questo senso: cioè il cielo. Dovrebbe essere così anche per noi! «Camminare con Dio»; che separazione e che rinuncia implica! Quale santità e quale purezza morale! Quale grazia e quale dolcezza! Quale umiltà e quale tenerezza, ma anche quale zelo e quale energia! e nello stesso tempo quale fedeltà, fermezza e decisione! Camminare con Dio non vuol dire soltanto camminare secondo certe regole, oppure formare piani o prendere risoluzioni d’andare qui o là, di fare questo o quello; camminare con Dio vuol dire infinitamente più di tutto ciò, vuol dire vivere con Dio nella conoscenza del suo carattere, come ci è stato rivelato, e con l’intelligenza delle relazioni nelle quali ci troviamo con Lui. Questa vita ci condurrà, talvolta, proprio all’opposto dei pensieri degli uomini e anche di quelli dei nostri fratelli, se questi non camminano con Dio, e potrà sollevare contro noi l’opposizione di tutti: saremo accusati di fare troppo o troppo poco: ma la fede che rende capaci di camminare con Dio, insegna anche a non dare ai pensieri degli uomini più valore di quanto ne hanno.

La vita di Abele ci fornisce, come l’abbiamo visto, un prezioso insegnamento riguardo al sacrificio sul quale la fede riposa, e riguardo alla prospettiva che la speranza anticipa fin d’ora; mentre il camminare con Dio ci fa abbracciare tutti i dettagli della vita della fede. «L’Eterno darà grazia e gloria» (Salmo 84:11); e, fra la grazia che è stata rivelata e la gloria che lo sarà, vi è la beata certezza che «Egli non ricuserà alcun bene a quelli che camminano nell’integrità» (Salmo 84:11). La croce e il ritorno del Signore, sono i due punti estremi dell’esistenza della Chiesa in questo mondo, e questi due punti estremi sono raffigurati nel sacrificio di Abele e nel «trasporto» di Enoc. La Chiesa sa di essere perfettamente giustificata, per mezzo della morte e della risurrezione di Cristo, e vive nell’attesa del giorno in cui Egli verrà per prenderla presso di sè. «È in Spirito e per fede che aspettiamo la speranza della giustizia» (Gal. 5:5): la Chiesa non aspetta la giustizia poiché, per grazia, la possiede già ma aspetta la speranza che appartiene proprio alla condizione nella quale è stata introdotta.

È importante essere bene al chiaro su questo punto. Alcuni interpreti della verità profetica sono caduti in gravi errori per non aver compreso quali sono la posizione, la parte e la speranza della Chiesa. Hanno circondato «la stella lucente del mattino», che è la speranza propria della Chiesa, di tanta oscurità e di nubi così fitte, che molti credenti sembrano incapaci di elevarsi al di sopra della speranza d’un pio residuo d’Israele, e che consiste nel vedere levarsi il sole della giustizia che porta «la guarigione nelle sue ali» (Malachia 4:2). E non è tutto: molti credenti hanno perso la forza morale della speranza dell’apparizione di Cristo, per essere stati ammaestrati ad aspettare diversi avvenimenti prima della manifestazione di Cristo alla Chiesa; si è loro insegnato, contrariamente alle numerose ed esplicite dichiarazioni del Nuovo Testamento, che il ristabilimento dei Giudei, lo sviluppo della Statua di Nebucadnetsar e la rivelazione dell’uomo di peccato debbono precedere il ritorno di Cristo. La Chiesa, come Enoc, sarà tolta dalla presenza del male che la circonda e da quello a venire. Enoc non fu lasciato sulla terra per vedere l’apogeo del male e il giudizio che doveva cadere su di essa. Egli non vide «tutte le fonti del grande abisso scoppiare e le cataratte del cielo aprirsi»; fu tolto prima di questi terribili avvenimenti; e per l’occhio della fede, egli è così un tipo ammirevole di quelli che non s’addormenteranno ma che saranno mutati in un batter d’occhio (1 Cor. 15:51-52). Enoc non è passato per la morte, ma è stato mutato: e la Chiesa è chiamata ad «aspettare il Figlio di Dio dai cieli» (1 Tess. 1:10). Questa è la sua speranza, l’oggetto della sua attesa. Il credente più semplice, il meno istruito, può comprendere queste cose e goderne; può, in una certa misura, realizzarne la potenza. Se non può fare uno studio approfondito della profezia, può, Dio ne sia benedetto, gustare la felicità, la realtà, la potenza e la virtù santificante di questa speranza celeste che gli appartiene di diritto, come membro di questo corpo celeste che è la Chiesa; la speranza di cui gode non si limita all’attesa di veder levare «il sole di giustizia», per quanto buona possa essere questa speranza, ma a quella di veder brillare «la stella mattutina» (Apoc. 2:28). E, come nel mondo fisico la stella mattutina appare, a quelli che vegliano, prima del levarsi del sole, nello stesso modo Cristo apparirà alla Chiesa prima che il residuo d’Israele contempli i raggi del Sole di giustizia.

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:49
6. Capitoli da 6 a 9: Il diluvio

6.1 L’unione di ciò che è santo con ciò che è profano

Siamo giunti ora ad una delle parti più notevoli della Genesi. Enoc è sparito dalla scena: la sua vita di straniero e pellegrino sulla terra si è chiusa con la sua traslazione al cielo; è stato tolto prima che il male fosse giunto al colmo e che il giudizio di Dio fosse caduto sugli abitanti della terra.

I due primi versetti del cap. 6 ci rivelano la poca influenza che avevano esercitato sul mondo, la vita e il rapimento di Enoc. «Or quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla faccia della terra e furono loro nate delle figliuole, avvenne che i figliuoli di Dio videro che le figliuole degli uomini erano belle, e presero per mogli quelle che si scelsero fra tutte». La mescolanza di ciò che è da Dio con ciò che è dell’uomo è una forma speciale di male. Questa mescolanza è un potente mezzo nelle mani del Nemico per guastare la testimonianza di Cristo sulla terra: essa riveste facilmente una bella apparenza; la si prenderebbe volentieri per un’espressione più grande di ciò che è di Dio, per un’operazione più potente e più completa dello Spirito, qualcosa atto a rallegrare piuttosto che da deplorare. Ma il nostro giudizio sarà ben diverso se ci poniamo alla luce della presenza di Dio; poiché, davanti a Dio, non potremo pensare che vi sia un guadagno per il suo popolo nel mescolarsi con i figliuoli del mondo, oppure nel corrompere la verità di Dio con alleanze umane. Tale non è il mezzo di cui Dio si serve per diffondere la verità, oppure per favorire gli interessi di quelli che son chiamati ad essere sulla terra i testimoni di Dio. Il principio di Dio è la separazione dal male e se lo si infrange la verità ne subisce un grave danno.

Il passo della Scrittura, che ci occupa, ci fa vedere quali disastrose conseguenze fecero seguito all’unione dei figliuoli di Dio con le figliuole degli uomini.

A giudizio umano, il frutto di questa unione sembrava molto bello, poiché leggiamo al vers. 4: «Sono gli uomini potenti che fin dai tempi antichi sono stati famosi». Ma Dio giudica diversamente; non vede come vede l’uomo e i suoi pensieri non sono i nostri. «E l’Eterno vide che la malvagità dell’uomo era grande sulla terra e che tutti i disegni dei pensieri dei loro cuori non erano altro che male in ogni tempo». Tale era la condizione dell’uomo davanti a Dio; non era che male, «male in ogni tempo» e l’unione di ciò che è santo con ciò che è profano, non condurrà mai ad altro risultato. Se la progenie santa non si conserva pura, tutto è perduto, quanto ad una testimonianza sulla terra. Il primo sforzo di Satana fu di rendere vano il disegno di Dio, mettendo a morte la progenie santa; non riuscendo in questo senso, egli cercò di corromperla.

È della massima importanza che comprendiamo bene lo scopo, il carattere e il risultato di questa unione fra i figliuoli di Dio e le figliuole degli uomini. Ai giorni nostri, vi è gran pericolo di compromettere la verità per amore di unione, ma non si ottiene mai una vera unione a spese della verità. Mantenere la verità ad ogni costo; tale deve essere la divisa del cristiano. Se, su questa base, potete promuovere l’unione, va benissimo, ma anzitutto mantenete la verità. Il principio degli accomodamenti dice invece: «Promuovete l’unione ad ogni costo; e se potete mantenere la verità, tanto meglio; ma procacciate l’unione». Non dovremmo mai dimenticare che «la sapienza che è da alto, prima è pura poi pacifica» (Giacomo 3:17). La sapienza che è della terra vorrebbe essere prima pacifica e perciò non potrà mai essere pura.

Non vi è vera testimonianza laddove la verità è compromessa: così vediamo che nel mondo antidiluviano, l’unione impura di ciò che era santo con ciò che era pro fano, di ciò che era divino con ciò che era umano, ebbe per unico effetto di portare il male al suo colmo, e il giudizio di Dio cadde sul mondo. «E l’Eterno disse: Io sterminerò di sulla faccia della terra l’uomo che ho creato»! Nientemeno che la distruzione di tutto ciò che aveva corrotto la via di Dio sulla terra, è stata necessaria. «Nei miei decreti, la fine d’ogni carne è giunta». Dio non parla solo d’una parte, ma di ogni carne, poiché tutto era interamente corrotto agli occhi dell’Eterno, tutto irrimediabilmente cattivo. La «carne« era stata pesata e trovata malvagia. Allora l’Eterno fece conoscere a Noè il mezzo di salvezza che Egli aveva preparato per lui: «Fàtti un’arca di legno di gofer» (vers. 13-14).

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:50
[SM=g7345]  6.2 Noè trova grazia agli occhi dell’Eterno
Noè è cosi costituito depositario dei pensieri di Dio riguardo la scena che lo circonda. La parola dell’Eterno aveva l’effetto di mettere interamente a nudo tutte le cose sulle quali lo sguardo dell’uomo poteva posarsi con soddisfazione. Il cuore dell’uomo poteva gonfiarsi d’orgoglio e palpitare d’emozione, mentre l’occhio si compiaceva ammirando la brillante schiera degli «uomini potenti» e «famosi»! Il suono dell’arpa e del flauto poteva produrre un fremito nell’anima, mentre l’agricoltura provvedeva in abbondanza a tutti i bisogni della vita: tutto sembrava bandire il pensiero di un prossimo giudizio. Ma Dio dice: «io sterminerò», e queste solenni parole proiettano un’ombra lugubre su tutta la scena. Ma troverà forse, il genio dell’uomo, il mezzo di sfuggire? «L’uomo potente» si libererà egli con la sua grande forza? Ahimè! no; non vi è che un solo modo di scampare, e questo modo è rivelato alla fede e non alla vista, né alla ragione, né all’immaginazione. «Per fede Noè divinamente avvertito delle cose che non si vedevano ancora, mosso da pio timore costruì un’arca per la conservazione della propria famiglia; e per essa fede, condannò il mondo e fu fatto erede della giustizia che si ha mediante la fede» (Ebrei 11:7).

La parola di Dio spande la sua luce su tutte le cose che ingannano il cuore dell’uomo; essa toglie il velo dorato con cui Satana ricopre questo mondo effimero, vano e ingannatore sul quale è sospesa la spada del giudizio di Dio. Ma la fede sola riceve «l’avvertimento di Dio quando le cose che Egli annuncia «non si vedono ancora». La natura umana è governata da ciò che vede, da ciò che apprezza per mezzo dei sensi. La fede invece è diretta dalla sola Parola di Dio, tesoro inestimabile in un mondo di tenebre! È la fede in questa Parola che dà fermezza, qualunque sia l’apparenza esterna delle cose che la circondano.

6.3 Fede nella parola di Dio

Quando Dio parlò a Noè d’un prossimo giudizio, nessun segno lo preannunciava. Il giudizio «non si vedeva ancora»; ma la parola di Dio ne fece una realtà attuale per il cuore in cui questa parola «era ricevuta per fede». La fede non aspetta di vedere per credere poiché: «la fede vien dall’udire e l’udire si ha per mezzo della Parola di Dio» (Rom. 10:17). Tutto ciò che è necessario all’uomo di fede è il sapere che Dio ha parlato. Il «così ha detto il Signore» è sufficiente per comunicare all’anima sua una perfetta certezza. Una sola riga della Scrittura basta per rispondere a tutti i ragionamenti e a tutte le immaginazioni dello spirito umano; e colui le cui convinzioni sono fondate sulla Parola di Dio, può resistere contro la fiumana delle opinioni, dei giudizi e dei pregiudizi umani. Fu per mezzo della Parola di Dio che Noè fu sostenuto durante tutto il tempo del suo lungo servizio; ed è per mezzo di questa stessa Parola che migliaia di credenti sono stati sostenuti dai giorni di Noè infino ad ora, di fronte all’opposizione e alla contraddizione del mondo. Non si potrebbe quindi stimare troppo la Parola di Dio. Senza di essa tutto è incertezza; con essa, tutto è pace e luce. Dovunque risplende, traccia all’uomo di Dio un sentiero sicuro e benedetto, mentre dove non riluce, l’uomo erra senza guida fra gli sconcertanti labirinti delle umane tradizioni. Come avrebbe potuto Noè predicare la giustizia per centovent’anni, se la Parola di Dio non fosse stato il fondamento della sua predicazione? Come avrebbe potuto resistere agli scherni e al disprezzo di un mondo empio? Come avrebbe potuto perseverare nel proclamare l’avvicinarsi di un «giudizio futuro», quando nessuna nube appariva all’orizzonte del mondo? La Parola di Dio era il fondamento sul quale si appoggiava, e «lo Spirito di Cristo» lo rendeva capace di rimanere, con santa fermezza, sul fondamento irremovibile.

E noi, caro lettore, cosa possediamo per rimanere fermi nel nostro servizio per Cristo negli attuali giorni malvagi? Nulla, assolutamente nulla, fuorché la Parola di Dio e lo Spirito Santo per il quale solo questa Parola può essere compresa, applicata e messa in pratica; sono tutto quanto ci abbisogna per essere perfettamente «compiuti per ogni buona opera» (2 Tim. 3:16-17). Che riposo per il cuore! Che liberazione da tutti gli inganni del Diavolo e della immaginazione umana! Al loro posto, la Parola di Dio, pura, incorruttibile, eterna. Ci sia dato di rendere grazie a Dio per questo tesoro inestimabile! «I pensieri del cuore umano non erano che male in ogni tempo»; ma Noè trovava il rifugio e il perfetto riposo del suo cuore nella Parola di Dio.
pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:50
6.4 Il modo della salvezza

«E Dio disse a Noè: la fine d’ogni carne è giunta... Fàtti un’arca di legno di gofer». Queste parole ci dicono, da una parte, lo stato di rovina dell’uomo, e dall’altra il mezzo di salvezza procurato da Dio. Dio aveva permesso che l’uomo proseguisse nella propria via fino all’estremo limite, affinché i suoi principi e le sue vie giugessero a maturità. Il lievito aveva lavorato e aveva fatto lievitare tutta la pasta. Il male aveva raggiunto il suo apogeo. «Ogni carne aveva corrotta la propria via» e la corruzione era giunta ai suoi estremi limiti, di modo che non rimaneva altra risorsa per Dio che distruggere «ogni carne» e, nello stesso tempo, salvare tutti quelli che secondo i suoi consigli eterni erano uniti all’«ottavo» e solo uomo giusto esistente allora. Questo fa risaltare in modo sorprendente la dottrina della croce: da una parte, il giudizio di Dio sulla natura umana e su tutta la sua perversità; dall’altra, la rivelazione della grazia salutare in tutta la sua pienezza e la sua perfetta applicazione a coloro che sono realmente giunti al punto più basso della loro condizione morale come Iddio la vede. «L’Aurora dall’alto ci ha visitati» (Luca 1:78). E dove? Proprio dove ci trovavamo come peccatori. Dio è disceso «nelle parti più basse della terra». La luce dell’Aurora da alto è penetrata fin nelle profondità tenebrose del peccato e ci ha così rivelato il nostro vero carattere. La luce giudica tutto ciò che non è in accordo con essa, ma, mentre giudica il male, dà anche conoscenza della salvezza per la remissione dei peccati.

La croce, rivelando il giudizio di Dio sopra «ogni carne», rivela anche la salvezza del peccatore colpevole e perduto. Il peccato è perfettamente giudicato, il peccatore perfettamente salvato e Dio perfettamente rivelato e glorificato alla croce. Se il lettore apre la 1a epist. di Pietro vi troverà degli insegnamenti preziosi su questo soggetto. Al cap. 3:18-22, leggiamo: «Poiché Cristo ha sofferto una volta per i peccati, egli giusto per gl’ingiusti, per condurci a Dio, essendo stato messo a morte quanto alla carne, ma vivificato quanto allo spirito; e in esso andò anche a predicare agli spiriti ritenuti in carcere, i quali un tempo furono ribelli, quando la pazienza di Dio aspettava, ai giorni di Noè, mentre si preparava l’arca; nella quale poche anime furono salvate tra mezzo all’acqua. Alla qual figura corrisponde il battesimo, non il nettamento delle sozzure della carne, ma la richiesta d’una buona coscienza fatta a Dio, il quale salva anche voi, mediante la risurrezione di Gesù Cristo, che, essendo andato in cielo, è alla destra di Dio, dove angeli, podestà e potenze gli sono sottoposti» (*). Questo passo è della massima importanza e proietta una gran luce sulla dottrina dell’arca e la sua relazione con la morte di Cristo. Come nel diluvio, così nella morte di Cristo tutte le onde e i flutti del giudizio di Dio passarono su ciò che, in sè, era senza peccato. Il creato fu seppellito sotto i flutti della giusta ira di Dio, e lo Spirito di Cristo grida nel salmo 42:7: «Tutte le tue onde e i tuoi flutti mi sono passati addosso»! Tutte le onde e i flutti della collera divina sono passati sulla persona pura e senza macchia del Signore Gesù, quando era appeso al legno; di conseguenza nessuna di queste onde passerà su colui che crede. Al calvario, vediamo veramente «le fonti del grande abbisso rotte e le cataratte del cielo aperte». «Un abisso chiama un altro abisso al rumore delle tue cascate» (Salmo 42:7). Cristo bevette il calice e subì la collera di Dio contro al peccato in modo perfetto. Prese giudiziariamente su di sè tutto il peso della responsabilità del suo popolo e vi soddisfece gloriosamente. L’anima del fedele trova quivi una pace sicura poiché, se il Signore Gesù ha affrontato tutto quello che poteva essere contro noi, se ha abbattuto tutti gli ostacoli, se ha tolto il peccato, se ha vuotato il calice della collera e del giudizio per noi, se ha fatto scomparire tutte le nubi dal nostro orizzonte, noi godiamo d’una sicura pace. La pace è la nostra parte inalienabile. È al credente che appartengono la profonda e inesprimibile felicità e la santa certezza che l’amore redentore può dare con giustizia in virtù dell’opera perfettamente compiuta di Cristo.

_____________________
(*) Non si apprezzerà mai abbastanza la saggezza con la quale lo Spirito Santo tratta l’ordinamento del battesimo nel passo citato più sopra. Sappiamo quale abuso si sia fatto del battesimo e quale falso posto quella istituzione occupi nel pensiero di molti; sappiamo che si è attribuita all’acqua del battesimo l’efficacia che appartiene solo al sangue di Cristo e alla grazia rigeneratrice dello Spirito Santo. Così non possiamo non essere colpiti dal modo con cui lo Spirito di Dio salvaguarda questa verità, stabilendo che non si tratta dello spogliamento dalle sozzure della carne, come per l’acqua, bensì «la richesta d’una buona coscienza fatta a Dio», richiesta in cui entriamo non per mezzo del battesimo, per quanto importante esso sia al suo posto, ma «mediante la risurrezione di Gesù Cristo» (1 Pietro 3:20-21) «il quale è stato dato a cagione delle nostre offese, ed è risuscitato a cagione della nostra giustificazione» (Rom 4:25). È superfluo dire che, come istituzione divina, e quando si lascia ad esso il posto che Dio gli ha assegnato, il battesimo è molto importante e profondamente significativo; ma quando si vede che gli uomni sostituiscono, in un modo o in un altro, la sostanza con l’immagine, siamo obbligati a mettere a nudo l’opera di Satana, con la luce della Parola di Dio.
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:51
6.5 Perfetta sicurezza nell’arca

Noè aveva forse qualche timore delle acque del giudizio di Dio? No di certo. Sapeva che erano state tutte esaurite, mentre lui stesso era portato su, da quelle stesse acque, fuori dalla portata del giudizio. L’arca sua galleggiava in pace al disopra di quei flutti dai quali «ogni carne» era stata distrutta. Dio stesso l’aveva posto al sicuro. Avrebbe potuto dire anche lui nel linguaggio trionfante dell’apostolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rom. 8:31). Iddio stesso l’aveva invitato ad entrare nell’arca: «Entra tu e tutta la tua casa nell’arca!» (Genesi 7:1). Poi quando vi ebbe preso posto, «l’Eterno chiuse l’arca sopra lui». L’arca era un asilo sicuro per quelli che Dio aveva chiamati. L’Eterno faceva la guardia alla porta; senza Lui nessuno poteva entrare né uscire. Vi era una porta e una finestra nell’arca. Il Signore chiuse sicuramente la porta con la sua mano onnipotente e lasciò a Noè l’uso della finestra dalla quale poteva guardare in alto, donde era uscito il giudizio e vedere che era passato, per lui. La famiglia salvata poteva guardare solo in sù, poiché la finestra era collocata in alto (6:16), Noè e i suoi non potevano vedere le acque del giudizio, né la morte, né la desolazione causata da esse. La salvezza di Dio, il «legno di gofer», era posta fra loro e tutte quelle cose. Non potevano guardare che in alto e vedere un cielo senza nuvole, dimora eterna di Colui che aveva condannato il mondo e aveva salvato loro.

Nulla esprime meglio di queste parole la sicurezza perfetta di colui che crede in Cristo: «L’Eterno chiuse la porta su di lui». Chi potrebbe aprire quando Dio chiude? La famiglia di Noè era in una sicurezza perfetta come Dio solo può dare; nessuna potenza angelica, umana o satanica, sarebbe stata capace di forzare la porta dell’arca per farvi entrare le acque del giudizio. La porta era stata chiusa dalla stessa mano che aveva aperto «le fonti del grande abisso e le cateratte del cielo». Così leggiamo di Cristo che e colui che «ha la chiave di Davide, colui che apre e nessuno chiude, colui che chiude e nessuno apre» (Apoc. 3:7), e che «tiene le chiavi della morte e dell’Ades» (il soggiorno dei morti) (Apoc. 1:18). Nessuno può, senza lui, varcare le porte del sepolcro per entrare o uscire. «Ogni autorità mi è stata data nei cieli e sulla terra» (Matt. 28:18); ed è «capo supremo alla Chiesa»; in Lui il credente è in perfetta sicurezza (Efesi 1:21). Chi poteva toccare Noè? Quale onda poteva penetrare in quell’arca ricoperta com’era di pece dentro e fuori? Ed ora chi potrebbe toccare coloro che si sono, per la fede, rifugiati all’ombra della croce? Ogni nemico è stato vinto e ridotto al silenzio per sempre. La morte di Cristo ha risposto trionfalmente a tutte le difficoltà, mentre la sua risurrezione è la testimonianza della perfetta soddisfazione che Dio ha trovato in quest’opera, in virtù della quale la sua giustizia può riceverci ed essere il fondamento della nostra fiducia per avvicinarci a Lui.

Essendo dunque «la porta» dell’arca assicurata dalla mano stessa di Dio, a noi non rimane che godere della «finestra» ossia camminare in una felice e santa comunione con Colui che ci ha salvati dall’ira a venire e ci ha fatti eredi della gloria futura che aspettiamo. L’apostolo Pietro parla di quelli che sono ciechi, hanno la vista corta avendo dimenticato il purgamento dei loro vecchi peccati (2 Pietro 1:3). Misera condizione! È la parte di coloro che trascurano di mantenere con spirito di preghiera una comunione abituale con Colui che li ha rinchiusi in Cristo per l’eternità.

6.6 Una porta chiusa

Prima di procedere nella storia di Noè, gettiamo uno sguardo non più su quelli che erano nell’arca, ma su quelli ai quali egli ha, per lungo tempo, predicato la giustizia e che tuttavia sono rimasti fuori dell’arca. Senza dubbio più d’uno sguardo ansioso è stato rivolto a quel vascello di misericordia man mano che s’innalzava con le acquee, ma, ahimè!, «la porta era chiusa», il giorno della grazia era passato, il tempo della testimonianza aveva preso fine per essi. La stessa mano che aveva chiuso la porta su Noè ne escludeva coloro che erano rimasti fuori. Quelli rimasti fuori dell’arca erano irrimediabilmente perduti; gli altri, veramente salvati. La lunga pazienza di Dio, come la testimonianza del suo servitore, erano state sprezzate dagli uomini, assorbiti come erano dalle cose presenti: «si mangiava, si beveva, si prendeva moglie, s’andava a marito fino al giorno che Noè entrò nell’arca, e venne il diluvio che li fece tutti perire» (Luca 17:26-27). Tutte queste cose non erano cattive in loro stesse, e il male non era nelle cose fatte ma in coloro che le facevano. Ognuno degli atti menzionati poteva essere compiuto nel timore del Signore e alla gloria del suo santo Nome, mediante la fede. Ma ahimè, la fede mancava, la Parola di Dio era stata rigettata. Dio parlava del giudizio e gli uomini non credevano; Dio parlava di peccato e di caduta e gli uomini non ne erano convinti; Dio parlava di salvezza ma essi non vi facevano càso e proseguivano i loro piani e le loro speculazioni, senza curarsi di Dio. Agivano come se la terra appartenesse loro per contratto perpetuo, dimenticando che il contratto conteneva una clausola di restituzione. Dimenticavano questa parola solenne «infino a che»... Dio era escluso. «Tutta l’immaginazione dei pensieri del loro cuore non era che male in ogni tempo» perciò erano incapaci di fare il loro bene. Pensavano, parlavano e agivano a piacer loro, dimenticando Dio.

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:52
 6.7 Così sarà alla venuta del Figlio dell’uomo

Lettore, ricordatevi di queste parole del Signore Gesù: «Come avvenne ai giorni di Noè, così pure avverrà ai giorni del Figliuol dell’uomo»; oppure come è detto in Matteo: «Alla venuta del Figliuol dell’uomo» (Luca 17:26; Matteo 24:37). Ci si vorrebbe persuadere che prima dell’apparizione del Figliuol dell’uomo nelle nuvole del cielo, la giustizia coprirà la terra da un polo all’altro, e che dobbiamo vivere nell’attesa di un regno di giustizia e di pace, prodotto dagli strumenti attualmente all’opera; ma il breve passo or ora citato taglia alla radice tutte queste speranze vane e illusorie. La giustizia copriva forse la terra ai giorni di Noè? La verità di Dio dominava forse su essa? La terra era forse ripiena della conoscenza dell’Eterno come il fondo del mare delle acque che lo coprono? La Scrittura ci risponde che «la terra era ripiena di violenza», che «ogni carne aveva corrotta la propria via sulla terra» e che «la terra anche era corrotta davanti a Dio». Ebbene, sarà così all’avvenimento del Figliuol dell’uomo! La giustizia e la violenza non si rassomigliano affatto, come neanche la malvagità universale e la pace universale. Abbiamo bisogno di un cuore sottomesso alla Parola di Dio e spogliato dalle opinioni preconcette, per comprendere il vero carattere dei giorni che precederanno immediatamente «l’avvenimento del Figliuol dell’uomo». Il lettore non si lasci ingannare, ma si chini con rispetto di fronte alla Scrittura; consideri quale era la condizione del mondo «nei giorni precedenti al diluvio» e si ricordi che com’era allora, così ancora sarà la fine del periodo attuale. L’uomo ai giorni di Noè spiegava effettivamente una potente energia per fare del mondo un soggiorno comodo e piacevole; ma non pensava a farne un luogo degno di Dio, il che sarebbe stato ben diverso. Nello stesso modo ora l’uomo si impegna a spianare in ogni modo il sentiero della vita umana e a renderlo più facile possibile; ma questo non corrisponde a: «preparate nel deserto la via dell’Eterno, appianate nei luoghi aridi una strada per il nostro Dio, affinché ogni carne veda la gloria dell’Eterno» (Isaia 40:3-5).

La civilizzazione domina, ma la civilizzazione non è la giustizia. Si lavora con lo scopo di «spazzare e ornare la casa», ma per renderla adatta a ricevere l’Anticristo e non Cristo. L’uomo usa la propria sapienza per nascondere, negli anfratti delle proprie opere, le macchie e le miserie dell’umanità; ma per quanto nascoste, queste macchie non sono tolte e ben presto riappariranno più odiose che mai. Fra poco le dighe con le quali l’uomo cerca, con tanta perseveranza, di arrestare il torrente della miseria umana, cederanno alla potenza schiacciante del male; si vedranno naufragare gli sforzi dell’uomo per rinchiudere, nei limiti che la carità umana ha inventato, la degradazione fisica, mentale e morale della progenie di Adamo.

Dio ha detto: «La fine di ogni cosa è venuta davanti a me»; non è venuta davanti all’uomo, ma davanti a Dio; e quantunque la voce degli schernitori si elevi per dire: «Dov’è la promessa della sua venuta? perché dal giorno in cui i padri si sono addormentati, tutte le cose continuano nel medesimo stato come dal principio della creazione» (2 Pietro 3:4), il momento s’avvicina rapidamente in cui gli schernitori avranno la loro risposta: «Il giorno del Signore verrà come un ladro; in esso i cieli passeranno stridendo e gli elementi infiammati si dissolveranno, e la terra e le opere che sono in essa saranno arse» (2 Pietro 3:4-10).

Tale è la risposta di Dio alle beffe degli intelligenti di questo mondo, ma non alle affezioni e all’attesa spirituale dei figliuoli di Dio. Questi ultimi, Dio ne sia benedetto, hanno una prospettiva ben diversa. Aspettano di andarsene incontro allo Sposo, nell’aria, prima che il male sia giunto al colmo e che il giudizio di Dio cada su esso. L’attesa della Chiesa non è di vedere il mondo distrutto dal fuoco, ma il levarsi della «lucente stella mattutina» (Apoc. 22:16).

6.8 Siate riconciliati con Dio

Da qualunque lato e sotto qualunque punto di vista consideriamo l’avvenire, qualunque sia l’oggetto che si presenta alla nostra vista spirituale, la Chiesa nella gloria o il mondo nelle fiamme, la venuta dello Sposo o quella inattesa, del ladro nella notte, la stella del mattino o il sole cocente del mezzogiorno, il rapimento della Chiesa o il giudizio, dobbiamo sentire quanto sia necessario che ci atteniamo alla testimonianza di Dio in grazia verso i poveri peccatori. «Eccolo ora il tempo accettevole; eccolo ora il giorno della salvezza!» «Dio era in Cristo quando riconciliava il mondo a sè» (2 Cor. 6:2; 5:19). Ora Dio riconcilia; ben presto giudicherà. Ora tutto è grazia; allora non ci sarà altro che ira; ora Dio perdona il peccato per mezzo della croce; allora lo punirà con le pene eterne. Ora Dio fa pubblicare un messaggio di grazia, della più pura, più abbondante e più gratuita grazia; parla ai peccatori di una redenzione compiuta per mezzo del prezioso sacrificio di Cristo; dichiara che tutto è compiuto; aspetta per poter ancora far grazia: «La lunga pazienza del Signore è salvezza»; «Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come alcuni reputano che faccia; ma egli è paziente verso voi, non volendo che alcuni periscano, ma che tutti giungano a ravvedersi» (2 Pietro 3:9-15). Come tutto ciò rende il tempo attuale solenne! Una grazia sovrana e pura è annunziata, ma il giudizio sospeso è pronto ad eseguirsi!

Se Dio ci ha resi attenti a queste cose, con quale interesse dovremmo seguire lo sviluppo dei suoi disegni! La Scrittura spande la sua luce su tutte le cose; per mezzo di essa non siamo ridotti a considerare gli avvenimenti che si succedono con lo stupore di quelli che non sanno né dove sono né dove vanno; possiamo e dovremmo avere una conoscenza esatta della nostra situazione; dovremmo ben conoscere la tendenza esatta di tutti i principi che sono attualmente in gioco, nel turbine vorticoso verso il quale si precipitano attualmente tutte le correnti. Gli uomini sognano un’età col pensiero che «il giorno di domani sarà come questo, anzi sarà più grandioso ancora!» (Isaia 56:12). Ma, ahimè! quanto sono vani tutti questi pensieri, tutti questi sogni, tutte queste speranze! La fede può vedere invece accumularsi minacciose nubi all’orizzonte del mondo. Il giudizio si avvicina; il giorno dell’ira si affretta; la porta della grazia sta per chiudersi; «l’efficacia d’errore» (2 Tess. 2:11) sta per incominciare! E in vista di tutte queste cose non dobbiamo, noi credenti, elevare una voce d’avvertimento e cercare di bilanciare, con una testimonianza fedele, il disgraziato autocompiacimento dell’uomo? Senza dubbio come Achab accusava Micaiah, il mondo ci accuserà di non profetizzare che del male, ma che importa? Profetizziamo ciò che profetizza la Parola di Dio e facciamolo con l’unico scopo di persuadere gli uomini (2 Cor. 5:11). Solo la Parola di Dio potrà porre i nostri piedi sopra un fondamento immutabile ed eterno. Essa sola potrà toglierci la «canna rotta» e «una speranza fallace» per darci «la Rocca dei secoli» e «una speranza che non confonde» (Rom. 5:5). L’amore vero, l’amor di Dio, non grida: «Pace, pace! mentre pace non v’è» (Geremia 6:14; 8:11) non «intonaca il muro di malta che non regge» (Ezech. 13:10). Dio vuole che il peccatore riposi in pace nell’arca dell’eterna sicurezza, godendo fin d’ora della sua comunione e nutrendo la speranza di godere con Lui del riposo eterno, in una creazione rinnovata, allorché la rovina, la desolazione e il giudizio saranno passati per sempre.

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:53
6.9 Le acque diminuiscono

Ritorniamo ora alla storia di Noè, e consideriamolo nella sua nuova posizione. L’abbiamo visto costruire l’arca e l’abbiamo visto nell’arca; ora lo vedremo uscire dall’arca e prendere il suo posto in un nuovo mondo (*).

_____________________
(*) Vorrei indicare qui, chiedendo ai miei lettori di meditarlo con uno spirito di preghiera, un pensiero ben compreso da tutti coloro che si sono applicati allo studio della verità dal punto di vista delle dispensazioni o economie. Questo pensiero riguarda Enoc e Noè. Il primo fu trasportato, come l’abbiamo visto, prima dell’esecuzione del giudizio; mentre l’ultimo, pur essendo salvato, dovette, in un certo modo, attraversare il giudizio. Ora si pensa che in ciò Enoc sia una figura dell’assemblea, che sarà tolta prima che il male quaggiù sia giunto al colmo, e prima che il giudizio di Dio cada sui malvagi. D’altro canto, Noè sarebbe una figura del residuo di Israele, che dovrà attraversare le acque profonde della tribolazione ed il fuoco del giudizio, per essere portato al pieno godimento delle benedizioni millenarie, in virtù dell’alleanza eterna di Dio. Devo aggiungere che condivido interamente questo pensiero relativamente a questi due Padri del Antico Testamento; considero che esso sia in armonia perfetta con il piano generale e l’analogia delle Sante Scritture. (Nota che non è stata tradotta nell’edizione italiana)
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

«E Dio si ricordò di Noè». L’opera, strana per Dio, del giudizio era terminata; la famiglia, salvata con tutto ciò che le è associato, è rimessa in memoria davanti a Dio. «E Dio fece passare un vento sulla terra e le acque si calmarono, le fonti dell’abbisso e le cataratte del cielo furono chiuse, e cessò la pioggia dal cielo» (Gen. 8:2). Allora i raggi del sole incominciarono a vivificare un mondo che era stato battezzato d’un battesimo di giudizio. Il giudizio è «l’opera strana di Dio», e per quanto Dio si sia glorificato per mezzo del giudizio, non vi prende piacere. Egli è sempre pronto a lasciare il giudizio per fare misericordia.

E accadde che «in capo a quaranta giorni, Noè aprì la finestra che aveva fatta nell’arca, e mandò fuori il corvo, il quale uscì, andando e tornando, finché le acque furono asciugate sulla terra» (vers. 6-7). L’uccello impuro fuggì e trovò probabilmente un rifugio su qualche cadavere galleggiante e non ritornò più nell’arca: «Ma la colomba non trovò dove posare la pianta del suo piede, e tornò a lui nell’arca, perché c’erano delle acque sulla superficie di tutta la terra... poi mandò di nuovo la colomba fuori dell’arca, e la colomba tornò a lui, verso sera, ed ecco, essa aveva nel becco una foglia fresca d’ulivo» (vers. 8-11). Non è forse questa una bella immagine dello spirito rinnovato che, in mezzo alle desolazioni da cui è circondato, cerca e trova il suo riposo e la sua parte in Cristo? E non solo questo, ma ancora afferra l’arra dell’eredità, dimostrando così che il giudizio è passato e che una terra rinnovata incomincia ad apparire. Lo spirito carnale invece può riposarsi su qualunque cosa, eccetto che in Cristo: può nutrirsi di ogni sorta d’immondizia; la foglia d’ulivo non ha nessuna attrazione per esso; trova tutto quello che gli abbisogna in una scena di morte, e per conseguenza non si occupa del nuovo mondo. Ma il cuore ammaestrato ed esercitato dallo spirito di Dio, non può riposarsi e rallegrarsi che in quello in cui Dio trova il suo riposo e la sua gioia; si riposa nell’arca della salvezza «fino al momento del ristabilimento di tutte le cose»

Possa essere così di voi e di me, caro lettore! Il Signore rimanga il riposo e la parte dei nostri cuori, affinché non cerchiamo queste cose nel mondo che è sotto il giudizio di Dio! La colomba ritornò a Noè nell’arca ed aspettò il momento del suo riposo; e noi dovremmo sempre trovare il nostro posto in Cristo fino al tempo della sua esaltazione e della sua gloria nei secoli avvenire! «Colui che deve venire, verrà e non tarderà». Ci abbisogna solo un po’ di pazienza.

6.10 Noè esce dall’arca

«E Dio parlò a Noè dicendo: Esci dall’arca». Il medesimo Dio che aveva detto: «Fatti un’arca» e «entra nell’arca», gli dice ora: «Esci dall’arca»; «E Noè uscì... ed edificò un altare all’Eterno» (vers. 15 e seg.).

Noè non ha altro da fare che obbedire: e l’obbedienza della fede e il culto della fede vanno insieme: un altare edificato nel luogo stesso dove era passata la scena del giudizio. L’arca aveva portato Noè e la sua famiglia sani e salvi al disopra delle acque del giudizio, e li aveva fatti passare dal vecchio al nuovo mondo, dove Noè prende ora posto come adoratore (*). E, dobbiamo notarlo, è all’Eterno che edifica un altare. La superstizione avrebbe adorato l’arca, come essendo stato il mezzo di salvezza. Il cuore umano è sempre portato a mettere gli ordinamenti al posto di Dio. E l’arca era un ordinamento manifesto. Ma la fede di Noè si eleva dall’arca all’Iddio dell’arca; perciò lasciandola, invece di esitare e gettare uno sguardo indietro e considerare l’arca come un oggetto di culto o di venerazione, egli edifica un altare all’Eterno e adora l’Eterno. E dell’arca non è più fatta menzione.

_____________________
(*) È interessante considerare il soggetto dell’arca e del diluvio in rapporto al battesimo. Il battesimo è paragonato dal vecchio al nuovo mondo, in ispirito, in principio e per la fede. Il vecchio uomo è stato sepolto sotto le acque e non ha parte alla nuova natura; la carne con tutto ciò che dipende da essa, i peccati, le iniquità, le sue responsabilità, è come sotterrata nella tomba di Cristo e non può mai più ricomparire agli occhi di Dio. Ma, come Cristo risuscitò dai morti nella potenza di una nuova vita, avendo tolto completamente i nostri peccati, così l’uomo battezzato esce dall’acqua proclamendo, per così dire, che, per la grazia di Dio e per la morte di Cristo, è messo in pieno possesso di una nuova vita alla quale la giustizia di Dio è inseparabilmente unita. «Essendo stati con lui sepolti nel battesimo nel quale siete anche stati risuscitati con lui mediante la fede nella potenza di Dio che ha risuscitato lui dai morti» (confr. Rom. 6 e Col. 2 come pure 1 Pietro 3:18-22).
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

Tutto questo contiene un insegnamento molto semplice e molto pratico. Dal momento che l’anima abbandona la realtà di Dio stesso, non v’è più limiti al decadimento. È sulla via che conduce alla più grossolana idolatria. Per la fede un ordinamento ha solo valore in quanto è il mezzo per il quale Iddio si fa conoscere all’anima in potenza vivente; la fede, cioè, può godere di Cristo nell’ordinamento secondo l’istituzione di Dio stesso. Al di fuori di ciò, un ordinamento non ha nessun valore; e se esso viene a insinuarsi, fosse anche nella più piccola misura, fra il cuore dell’adoratore e l’opera e la persona gloriosa di Cristo, cessa di essere un ordinamento di Dio e diventa uno strumento di Satana. Per la superstizione l’ordinamento è tutto, e Dio è escluso; il nome di Dio non serve che per esaltare l’ordinamento e dargli presa sul cuore e una influenza potente sullo spirito dell’uomo. È così che gli Israeliti adorarono il serpente di rame, il quale pure, per un tempo, fu un mezzo di benedizione per essi; ma divenne un oggetto di venerazione superstiziosa dal momento che i loro cuori si furono ritratti dall’Eterno; e fu necessario che Ezechia lo facessi a pezzi come «un pezzo di rame». In sè quel serpente non era che un pezzo di rame ma, come strumento di Dia, era stato un mezzo di grande benedizione. Ora, la fede lo riconosceva utile per lo scopo che la rivelazione di Dio gli aveva assegnato, ma la superstizione, gettando a mare la rivelazione, perse di vista il disegno reale di Dio, e dello strumento, che per se stesso era senza alcun valore, ne fece un Dio (vedere 2 Re 18:4).

Questo racchiude un’istruzione profonda riguardo al presente secolo. Viviamo in un secolo d’ordinamenti; l’atmosfera che avviluppa la Chiesa professante è impregnata degli elementi di una religione tradizionale che spoglia l’anima di Cristo e della sua salvezza. Non che le tradizioni umane neghino audacemente l’esistenza della persona e della croce di Cristo: poiché, se le negassero, gli occhi di parecchi si aprirebbero, forse; ma il male riveste un carattere infinitamente più perfido e pericoloso: si aggiungono gli ordinamenti a Cristo e alla sua opera: il peccatore non è più salvato da Cristo solo, ma da Cristo e dagli ordinamenti. Così il peccatore è spogliato interamente di Cristo; poiché si vedrà, in fin dei conti, che Cristo con gli ordinamenti diventeranno ordinamenti senza Cristo. «Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla!» (Gal. 5:2). Dobbiamo avere Cristo soltanto e interamente, altrimenti non abbiamo nulla di Lui. Il diavolo persuade gli uomini che osservando i suoi ordinamenti e facendone molto caso, onorano Cristo, mentre sa benissimo che, facendo così, mettono Cristo da parte e deificano l’ordinanza. La superstizione fa dell’ordinanza il tutto, l’incredulità e il misticismo non ne fanno nulla; la fede ne fa uso secondo l’istituzione divina.

Mi sono dilungato, più di quanto prevedevo, su questa parte del nostro studio; la concluderò, ora, con un breve sguardo sul cap. 9.

Troviamo in esso il nuovo patto sotto il quale il Creato fu posto dopo il diluvio, e anche il segno di questo nuovo patto. «E Dio benedisse Noè e i suoi figliuoli, e disse loro: Crescete e moltiplicate, e riempite la terra. E avranno timore e spavento di voi tutti gli animali della terra e tutti gli uccelli del cielo».

L’ordine dato da Dio all’uomo al momento del suo ingresso nella terra ristorata è stato di riempire la terra, tutta la terra. La sua volontà era che gli uomini fossero dispersi su tutta la superficie della terra; e che non facessero conto sulle loro forze concentrate, come hanno tentato di fare e come ce lo riferisce il cap. 11.

Dopo il diluvio, il timore dell’uomo è posto nell’anima di ogni creatura inferiore di modo che il servizio reso all’uomo è il risultato necessario del timore e della paura. La vita come la morte degli animali inferiori deve essere al servizio dell’uomo.

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:54
6.11 L’arco di Dio nella nuvola

Il creato è liberato dal timore d’un secondo diluvio, dal patto che Dio ha stipulato con esso; il giudizio non rivestira mai più la forma sotto la quale è stato eseguito allora. «Il mondo d’allora, sommerso dall’acqua perì: mentre i cieli d’adesso e la terra, per la medesima Parola, son custoditi, essendo riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della distruzione degli uomini empi» (2 Pietro 3:6-7). La terra che è stata una volta purificata coll’acqua, sarà ancora un’altra volta purificata col fuoco; ma allora scamperanno solo quelli che si sono rifugiati presso Colui che è passato per le acque profonde della morte e che ha attraversato il fuoco del giudizio di Dio.

«E Dio disse: Ecco il segno del patto che io fo tra me e voi e tutti gli esseri viventi che sono con voi, per tutte le generazioni avvenire. Io pongo il mio arco nella nuvola, e servirà di segno del patto fra me e la terra, ... e io mi ricorderò del mio patto» (vers. 12 e seg.). Tutto il creato riposa sulla stabilità eterna del patto di Dio di cui l’arcobaleno è il segno nella nuvola; l’occhio di Dio riposa su esso, di modo che la sicurezza dell’uomo dipende non dalla sua memoria imperfetta, incerta, ma dalla memoria di Dio. «Io mi ricorderò», ha detto Dio. È dolce pensare a ciò di cui Dio vuole o non vuole ricordarsi; si ricorderà del suo patto, ma non si ricorderà dei peccati del suo popolo. La croce che ratifica il primo, toglie gli ultimi; e la fede ne afferra il valore, dà la pace all’anima turbata e alla coscienza agitata.

«E avverrà che quando avrò raccolto delle nuvole al di sopra della terra, l’arco apparirà nelle nuvole, e io mi ricorderò del mio patto fra me e voi». Non è forse questa una bella e significativa immagine? I raggi del sole riflessi da ciò che minaccia di giudizio e resi più gloriosi dalle nuvole stesse che si accumulano davanti a loro, tranquillizzano il cuore e ricordano il patto di Dio, la salvezza di Dio. L’arco nella nuvola ricorda il Calvario; quivi vediamo una tetra nuvola, una nuvola di giudizio, scaricarsi sul capo sacro dell’Agnello di Dio, nuvola così densa che in pieno giorno, «si fecero tenebre per tutto il paese» (Luca 23:44). Ma, Dio ne sia benedetto, i raggi dell’amore divino ed eterno attraversano le tenebre, e la fede discerne, in quella nuvola nera, l’arco più bello e più glorioso che mai sia apparso e ode questa parola «è compiuto» uscire dal seno dell’oscurità; e in questa parola riconosce la ratifica perfetta del patto eterno di Dio, non solo col creato ma con le tribù d’Israele e con la Chiesa di Dio.

6.12 Noè s’inebria

L’ultima parte di questo capitolo ci presenta uno spettacolo umiliante. Colui che è stato fatto signore del Creato non sa governare se stesso. «Or Noè, ch’era agricoltore, cominciò a piantar la vigna; e bevve del vino e s’inebriò e si scoperse in mezzo alla sua tenda» (vers. 20 e seg.). Che condizione per Noè, il solo uomo giusto, il predicatore di giustizia! Che cosa è l’uomo! In qualunque posizione lo consideriamo, lo vediamo sempre fallire. Fallisce in Eden, fallisce nella terra restaurata, fallisce in Canaan, fallisce nella Chiesa, fallisce anche in presenza della gloria e della felicità millenaria. Fallisce ovunque e in tutto: in lui non esiste alcun bene. Per quanto grandi ed estesi siano stati i suoi privilegi, per quanto bella sia la sua posizione, egli non sa produrre che falli e peccati.

Tuttavia dobbiamo considerare Noè sotto due punti di vista, come tipo e come uomo. Ora, mentre il tipo è pieno di bellezza e di significato, l’uomo è pieno di peccato e di follia. Eppure lo spirito di Dio ha scritto queste parole: «Noè fu uomo giusto e integro» e «Noè camminò con Dio» (Genesi 6:9). La grazia divina aveva coperto tutti i suoi peccati e l’aveva vestito d’una veste di giustizia immacolata: aveva «trovato grazia agli occhi dell’Eterno» (Genesi 6:8). E benché Noè scoprisse la propria nudità, Dio non la vide, poiché non guardava alla debolezza della sua condizione naturale, ma alla potenza della giustizia divina ed eterna. Questo ci fa comprendere quanto errava Cam e quanto era lontano da Dio e dai suoi pensieri, nel suo modo di agire. Non conosceva evidentemente nulla della felicità dell’uomo «la cui trasgressione è rimessa e il cui peccato è coperto» (Salmo 32:1). Invece Sem e Jafet, ci forniscono un bell’esempio del modo in cui Dio considera la nudità dell’uomo e agisce a suo riguardo, per cui essi ereditano una benedizione, mentre Cam una maledizione.

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:55
 7. Capitoli 10 e 11: Di Noè a Abramo

7.1 Babilonia

Questo capitolo descrive la posterità dei figliuoli di Noè, e fa specialmente menzione di Nimrod, fondatore del regno di Babel ossia di Babilonia, il cui nome occupa un posto particolare nelle pagine del santo libro di Dio.

Babilonia è un nome e un principio ben conosciuto. Dal cap. 10 della Genesi al cap. 18 dell’Apocalisse, Babilonia appare del continuo sulla scena e sempre come nemica di quelli che son chiamati a rendere a Dio una testimonianza pubblica sulla terra: non si deve da ciò dedurre che la Babilonia dell’Antico Testamento sia la stessa di quella del Nuovo Testamento. La prima senza dubbio, è una città, l’ultima è un sistema; l’una e l’altra esercitano una potente influenza, ostile al popolo di Dio.

Israele era appena entrato in guerra con i popoli di Canaan, che «un mantello di Scinear», introdusse la contaminazione e il turbamento, la disfatta e la confusione nell’esercito (ved. Giosuè 7). È il racconto più autentico e più antico che abbiamo dell’influenza perniciosa di Babilonia sul popolo di Dio. Ogni lettore attento delle Scritture sa, d’altronde, quale posto questa occupi nella storia del popolo d’Israele.

Senza menzionare tutti i passi che parlano di Babilonia, faremo notare che ogni volta che Dio ha un corpo di testimoni sulla terra, Satana ha una Babilonia per corrompere e guastare la testimonianza. Quando Dio unisce il suo Nome a una città del mondo, Babilonia prende la forma d’una città. Quando Dio unisce il suo Nome alla Chiesa, Babilonia prende la forma d’un sistema religioso corrotto, chiamato «la grande meretrice», «la madre delle meretrici e delle abominazioni» (Apoc. 17:1-6 e seguenti). In altri termini, la Babilonia di Satana appare sempre come strumento forgiato dalla sua mano allo scopo d’intralciare l’opera di Dio, sia anticamente in Israele, sia ora nella Chiesa. Da un capo all’altro dell’Antico Testamento, si vedono Israele e Babilonia opposti l’uno all’altro: quando uno sale, l’altro scende. Così quando Israele ha completamente fallito come testomonio dell’Eterno, «il re di Babilonia le ha frantumato le ossa» (Geremia 50 17) e lo ha divorato; e i vasi della casa di Dio, che dovevano rimanere nella città di Gerusalemme, sono trasportati nella città di Babilonia. Ma Isaia, nella sublime profezia del cap. 14 del suo libro, ci trasporta di fronte ad uno stato di cose del tutto opposto, e ci fa vedere, in un magnifico quadro, la stella d’Israele crescente e gloriosa e Babilonia rovesciata. «E il giorno che l’Eterno t’avrà dato requie dal tuo affanno, dalle tue agitazioni e dalla dura schiavitù alla quale eri stato assoggettato, tu pronunzierai questo canto sul re di Babilonia e dirai: Come! l’oppressore ha finito? Ha finito l’esattrice d’oro? L’Eterno ha spezzato il bastone degli empi, lo scettro dei despoti;... da che sei atterrato, essi dicono, il boscaiolo non sale più contro di noi» (Isaia 14:3-8).

Ecco ciò che riguarda la Babilonia dell’Antico Testamento. In quanto a quella dell’Apocalisse, il lettore può leggere i capitoli 17 e 18 per conoscerne il carattere e vedere quale ne è la fine; essa appare in un contrasto sorprendente con la Sposa, la moglie dell’Agnello; è gettata nel mare come una gran macina; poi si celebrano le nozze dell’Agnello con tutta la felicità e la gloria.

«E Cus generò Nimrod, che cominciò ad essere potente sulla terra; egli fu un potente cacciatore nel cospetto dell’Eterno; perciò si dice: come Nimrod il potente cacciatore... E il principio del suo regno fu Babel, Erec, Accad e Calne nel paese di Scinear» (vers. 8-10). Ecco il carattere del fondatore di Babilonia. Egli «fu potente sulla terra», «un potente cacciatore nel cospetto dell’Eterno»; e il carattere di Babilonia, da un capo all’altro della Scrittura, corrisponde in modo notevole alla sua origine. Babilonia appare sempre con un’influenza potente sulla terra, in lotta contro tutto ciò che è di origine celeste; solo quando è distrutta si innalza nel cielo, in mezzo alla gran moltitudine, il grido: «Alleluia! poiché il Signore Iddio nostro l’Onnipotente, ha preso a regnare» (Apoc. 19:6). Babilonia allora prende fine: tutta la sua potenza e la sua gloria, tutto il suo orgoglio e le sue ricchezze, tutto il suo splendore. il suo incantesimo e la sua vasta influenza cesseranno per sempre; sarà spazzata via e immersa nelle tenebre, negli orrori e nella desolazione d’una notte senza fine.

«O Eterno, fino a quando?»

7.2 La torre di Babele

Il contenuto del capitolo 11 è del massimo interesse per la mente spirituale; riferisce due grandi fatti; la costruzione di Babele e la chiamata di Abramo; in altri termini, lo sforzo dell’uomo per bastare a se stesso, e la rivelazione fatta alla fede di ciò che Dio ha in serbo per essa; il tentativo dell’uomo per stabilirsi sulla terra e l’appello di Dio all’uomo per farvelo uscire e fargli trovare la sua parte e la sua dimora nel cielo.

«Or tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole. E avvenne che, essendo partiti verso l’oriente, gli uomini trovarono una pianura nel paese di Scinear e quivi si stanziarono. E dissero l’uno all’altro: Orsù, edifichiamoci una città e una torre di cui la cima giunga fino al cielo, e acquistiamoci fama, onde non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra» (vers. 1-4). Il cuore umano cerca sempre di farsi un nome, un centro; vuole possedere qualcosa sulla terra. Le sue aspirazioni non sono rivolte al cielo, all’Iddio del cielo, alla gloria del cielo; ma sempre a un oggetto sulla terra. Quando è lasciato a se stesso, l’uomo «edifica» sempre sotto il cielo; ci vuole l’appello di Dio, la rivelazione di Dio e la potenza di Dio per elevarlo al disopra del mondo contingente.

Nella scena che abbiamo sotto gli occhi, Dio non è né riconosciuto né ricercato; il cuore dell’uomo non si preoccupa di preparare un luogo dove Dio possa fare la sua dimora, né di radunare materiali per edificargli un tempio. Il nome di Dio non è neppure menzionato. L’uomo nella pianura di Scinear s’adoperava per acquistarsi una reputazione, e da allora ha sempre fatto così; nella pianura di Scinear come sulle rive del Tigri, lo vediamo sempre ricercare se stesso, esaltare se stesso, escludendo Dio ovunque e in tutte le cose; e, fra i suoi disegni, i suoi principi e le sue vie, vi è una triste coerenza.

Ora, qualunque sia il punto di vista sotto il quale consideriamo questa associazione Babilonese, è molto istruttivo vedervi lo spiegamento precoce del genio e delle facoltà dell’uomo. Seguendo il corso della storia del mondo, ritroveremo ovunque, negli uomini, questa tendenza a costituire delle associazioni e delle confederazioni: è in gran parte con questo mezzo che essi cercano di giungere alla realizzazione dei loro disegni: si tratti di filantropia, di religione o di politica, nulla si fa senza un’associazione regolarmente organizzata. È bene porre attenzione su questo principio, e vederne i primi accenni a la prima applicazione nella pianura di Scinear: la Scrittura ci insegna il piano, lo scopo e la prova stessa di questa associazione e anche la sua rovina. Se nel momento attuale guardiamo attorno a noi, ovunque incontriamo delle associazioni. Ma è importante notare che la prima di tutte fu quella della pianura di Scinear, costituita allo scopo di assicurare gli interessi dell’umanità e di esaltare il nome dell’uomo, scopo che, il nostro secolo di luce e di civiltà non rinnegherebbe di certo. Ma la fede discerne un grave difetto in tutte queste associazioni: Dio è escluso. Voler elevare l’uomo senza Dio, significa elevarlo ad una altezza vertiginosa donde scivolerà e cadrà in una confusione disperata e in una irrimediabile rovina.

Il credente non dovrebbe conoscere altra associazione che quella della Chiesa dell’Iddio vivente, costituita, in un solo corpo, dallo Spirito Santo disceso dal cielo come testimone della glorificazione di Cristo per battezzare in un solo corpo tutti i credenti e farne l’abitazione di Dio.

Babilonia è, sotto ogni aspetto, il contrario di ciò che è la Chiesa; e alla fine, diventa «albergo di demoni», come ce lo insegna il cap. 18 dell’Apocalisse.

«E l’Eterno disse: Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti il medesimo linguaggio; e questo è il principio del loro lavoro; ora nulla li impedirà di condurre a termine ciò che disegnano di fare. Orsù scendiamo e confondiamo quivi il loro linguaggio, sicché l’uno non capisca il parlare dell’altro: così l’Eterno li disperse di là sulla faccia di tutta la terra, ed essi cessarono di edificare la città» (vers 6 a 8). Tale fu la sorte della prima associazione d’uomini e ne sarà così fino alla fine. «Popoli, alleatevi e sarete frantumati... equipaggiatevi e sarete frantumati, fate pure dei piani e saranno sventati « (Isaia 8:9).

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:56
7.3 Dispersione e riunione

Ma come tutto è diverso quando è Dio che unisce gli uomini fra loro! Vediamo al cap. 2 del libro degli Atti, l’Iddio benedetto scendere nella sua infinita grazia, scendere fino all’uomo, in mezzo alle circostanze in cui il peccato l’ha posto. I messaggeri della grazia, per la potenza dello Spirito Santo, sono dotati per annunciare la buona novella nella lingua di tutti coloro a cui s’indirizzavano, poiché Dio desiderava raggiungere il cuore di tutti gli uomini col dolce messaggio della grazia. Non così fu promulgata la legge sulla montagna in fiamme: quando Dio dichiarava ciò che l’uomo doveva essere, parlava una sola lingua; ma quando rivela ciò che Egli è in Se stesso, si esprime in più linguaggi. La grazia rovescia le barriere che l’orgoglio e la follia dell’uomo hanno innalzate affinché ogni uomo possa comprendere il buon annunzio della salvezza, «le cose magnifiche di Dio» (Atti 2:11). Perché questo? Per associare gli uomini secondo i principi divini, attorno a Dio come centro, con lo scopo di dar loro un medesimo linguaggio, un medesimo centro, un medesimo oggetto, una medesima speranza, una medesima vita; in vista di radunarli in modo tale che non siano mai più dispersi e confusi; vuole dare loro un nome e una dimora che duri eternamente, ed edificar loro una città e una torre che non solo giungano fino al cielo, ma le cui fondamenta imperiture siano poste nei cieli dalla onnipotente mano di Dio stesso; riunirli intorno alla gloriosa persona di Cristo risuscitato e glorificato, affinché tutti insieme lo magnifichino e l’adorino.

Legga il mio lettore il versetto 9 del cap. 7 dell’Apocalisse; vi troverà una gran folla «di tutte le nazioni e tribù e popoli e lingue che sta davanti all’Agnello» e tutti, a gran voce, gridano: «La salvezza appartiene all’Iddio nostro».

Nelle tre parti della Scrittura che ci hanno occupato c’è un parallelismo istruttivo e interessante. Al cap. 11 della Genesi, le diverse lingue sono l’espressione del giudizio di Dio; al cap. 2 degli Atti, sono il dono della sua grazia e al cap. 7 dell’Apocalisse sono tutte riunite attorno all’Agnello per dargli gloria. L’associazione di Dio finisce nella gloria, quella degli uomini nella confusione. La prima è introdotta per mezzo dello Spirito Santo, e ha per oggetto l’esaltazione di Cristo, la seconda lo è per mezzo della energia profana dell’uomo scaduto e ha per oggetto la propria esaltazione.

Ci faccia Iddio considerare e comprendere tutte queste cose nella potenza della fede, poiché è soltanto così che le nostre anime possono trarre del profitto. Le dottrine più interessanti, come pure la conoscenza più approfondita delle Scritture, possono lasciare il cuore sterile e freddo: è Cristo che bisogna cercare e trovare nella Scrittura; e quando l’abbiamo trovato, dobbiamo nutrirci di Lui per la fede, affinché ne riceviamo la freschezza, l’unzione, la potenza di vita di cui abbiamo tanto bisogno in questi giorni di freddo formalismo.

Di quale profitto può essere una fredda ortodossia priva di un Cristo vivente, conosciuto in tutta la potenza e l’eccellenza della sua persona? La sana dottrina è, indubbiamente, d’immensa importanza, e ogni fedele servitore di Cristo si sentirà imperiosamente chiamato ad «attenersi al modello delle sane parole» che Paolo raccomandava a Timoteo di custodire (2 Tim. 11:13). Ma, dopo tutto, è un Cristo vivente che è l’anima e la vita, l’essenza e la sostanza della sana dottrina. Ci sia dato, nella potenza dello Spirito Santo, di vedere più bellezza e più eccellenza in Cristo, per essere liberati dallo spirito e dai principi di Babilonia!


8. Capitolo 12: Abramo

8.1 L’appello di Dio

La storia di sette uomini occupa gran parte del libro della Genesi: sono Abele, Enoc, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe. Sono persuaso che la storia di ciascuno di essi rappresenti una verità particolare. Così, per esempio, in Abele troviamo, in figura, la rivelazione della verità fondamentale che l’uomo può avvicinarsi a Dio per mezzo dell’espiazione. Enoc ci fa vedere quale è la parte e la speranza della famiglia celeste, mentre Noè c’insegna quale è il destino della famiglia terrestre; Enoc fu trasportato in cielo prima del giudizio, Noè invece fu portato sulla terra restaurata attraverso il giudizio. Ognuno di questi uomini ci raffigura una verità distinta, e di conseguenza, una fase distinta della fede. Il lettore può proseguire lo studio di questo soggetto in tutta la sua estensione nel cap. 11 dell’epistola agli Ebrei, e questo lavoro sarà per lui profittevole e del massimo interesse.

Occupiamoci ora di Abramo.

Paragonando i versetti 1 del cap. 12 e 31 del cap. 11 con i vers. 2-4 del cap. 7 del libro degli Atti, scopriamo una verità di immenso valore pratico per l’anima. «Or l’Eterno disse ad Abramo: Vattene dal tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò» (vers. 1). Tale è la comunicazione che Dio fece ad Abramo, comunicazione chiaramente definita, e per la quale Dio voleva agire sul cuore e sulla coscienza di colui a cui era indirizzata. «L’Iddio di gloria apparve ad Abramo nostro padre, mentr’egli era in Mesopotamia prima che abitasse in Caran... e di là, dopo che suo padre fu morto, lo fece venire in questo paese, che ora voi abitate» (Atti 7:2-4). Il risultato di questa comunicazione si trova al versetto 31 del cap. 11 della Genesi: «E Terah prese Abramo, suo figliuolo, e Lot, figliuolo di Haran, cioè figliuolo del suo figliuolo, e Sarai sua nuora, moglie d’Abramo suo figliuolo, e uscirono insieme da Ur dei Caldei, per andare nel paese di Canaan; e, giunti a Caran, dimorarono quivi... e Terah morì in Caran». Da questi passi, presi insieme, impariamo che i legami naturali impedirono ad Abramo di rispondere pienamente all’appello di Dio. Per quanto chiamato ad andarsene in Canaan, si fermò in Caran finché la morte non ruppe i legami naturali che lo trattenevano presso il padre; solo allora proseguì, senza più lasciarsi fermare, e arrivò nel luogo ove «l’Iddio di gloria» l’aveva chiamato.

Tutto questo è molto significativo. Le influenze della natura, sono sempre contrarie alla piena realizzazione e alla potenza pratica della «vocazione di Dio». Siamo purtroppo propensi ad accontentarci d’una parte inferiore a quella che l’appello di Dio pone davanti a noi. Ci vuole una fede semplice e integra perché l’anima possa innalzarsi all’altezza dei pensieri di Dio e prendere possesso delle cose che Egli ci rivela.

La preghiera dell’apostolo Paolo, che troviamo in Efesi 1:15-22, ci insegna in che misura egli si rendeva conto delle difficoltà contro le quali la Chiesa avrebbe dovuto lottare per afferrare «la speranza alla quale li aveva chiamati» e quale fosse «la ricchezza della gloria della sua eredità nei santi». È evidente che non possiamo camminare «in modo degno» di questa vocazione se non la comprendiamo. Dobbiamo sapere dove siamo chiamati prima di poterci recare là. Se Abramo fosse stato penetrato dalla potenza di questa verità, cioè che era in Canaan che «Dio lo chiamava», che là era la sua eredità, non si sarebbe fermato in Caran. La stessa cosa è per noi. Se lo Spirito Santo ci fa comprendere che la vocazione alla quale siamo stati chiamati è una vocazione celeste, che la nostra dimora, la nostra parte, la nostra speranza, la nostra eredità sono «ove Cristo è seduto alla destra di Dio», non cercheremo mai di farci una posizione in questo mondo, né ricercheremo la reputazione, né ci accumuleremo tesori sulla terra. La chiamata celeste non è un vano dogma o una teoria senza potenza: se non è una realtà divina, non è assolutamente nulla. La chiamata di Abramo era forse una semplice speculazione dello spirito, sulla quale egli poteva ragionare o discutere, pur rimanendo in Caran? No di certo: era una verità divina, potente, pratica. Abramo era chiamato in Canaan ed era impossibile che Dio potesse approvarlo mentre restava in Caran. E come lo era per Abramo, così ancora è per noi: se desideriamo avere l’approvazione e godere la presenza di Dio, dobbiamo tendere ad arrivare in esperienza, in pratica e in carattere morale, a ciò a cui Dio ci chiama, cioè a una piena comunione col suo unigenito Figliuolo: comunione con lui nella sua reiezione quaggiù, comunione con lui nella sua accettazione nel cielo.

Ma come per Abramo fu la morte a rompere il legame che lo tratteneva a Caran, così per noi è la morte che rompe il legame col quale la natura ci lega al presente secolo. Dobbiamo realizzare che siamo morti in Cristo nostro capo e nostro rappresentante; che il nostro posto, nella natura e nel mondo, è fra le cose che erano: che la croce di Cristo è per noi ciò che fu il Mar Rosso per Israele, quello che ci separa per sempre dal paese della morte e del giudizio. È soltanto così che potremo camminare in qualche misura «in modo degno della vocazione che ci è stata rivolta» (Efesi 4:1), vocazione elevata, santa, celeste: la «vocazione di Dio in Cristo Gesù».

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:57
  8.2 La croce ci mette a parte dal mondo (*)

_____________________
(*) Questa parte non è stata tradotta nell’edizione italiana originale. Ma si trova nel Messaggero Cristiano (Luglio 1985).
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

Fermiamoci un istante per contemplare la croce di Cristo sotto i suoi due lati essenziali: come fondamento del nostro culto e come fondamento del nostro servizio; quindi anche della nostra pace e della nostra testimonianza; dei nostri rapporti con Dio e dei nostri rapporti con il mondo.

Se, convinto di peccato, guardo la croce del Signore Gesù, vedo in essa il fondamento eterno della mia pace; vedo che il «mio peccato» è stato tolto quanto al suo principio ed alla sua radice, e vedo che i «miei peccati» sono stati portati da Lui; vedo che Dio è veramente «per me», che è per me nella posizione in cui io mi vedo quando la mia coscienza è stata svegliata: quella di peccatore. La croce rivela Dio come l’amico del peccatore; lo rivela nel suo carattere meraviglioso di giusto giustificatore del peccatore più empio. La creazione e la provvidenza erano impotenti. In esse, senza dubbio, posso imparare a conoscere la potenza di Dio, la sua maestà e la sua sapienza. Ma queste cose sono tutte contro di me, perché sono un peccatore, e la potenza, la maestà e la saggezza non possono togliere il mio peccato, né fare sì Dio sia giusto ricevendomi. Alla croce, invece, vedo Dio che fa i conti con il peccato, in modo tale che glorifica se stesso infinitamente. Vedo la manifestazione gloriosa e la perfetta armonia di tutti gli attributi divini; vedo l’amore, un amore tale che attrae e persuade il mio cuore, fortificandolo e distaccandolo da ogni altro oggetto man mano che esso realizza questo amore. Vedo la sapienza, una sapienza che confonde i demoni e stupisce gli angeli. Vedo la potenza, una potenza che abbatte tutti gli ostacoli. Vedo la santità, una santità che respinge il peccato fino ai limiti più lontani dell’universo morale, e che è l’espressione la più forte che potesse essere data dell’orrore di Dio per il peccato. E vedo la grazia, una grazia che pone il peccatore nella presenza stessa di Dio, — anzi di più, nel cuore di Dio! Dove potrei vedere queste cose altrove che alla croce? Guardate ovunque; non troverete nulla che possa mettere insieme in modo pieno e glorioso queste due grandi cose: «Gloria a Dio nei luoghi altissimi» e «pace in terra» (Luca 2:14).

Che grande valore ha dunque la croce da questo primo punto di vista: come fondamento della pace del credente, della sua adorazione e della sua relazione eterna con quel Dio che essa rivela in modo tanto glorioso! Che valore ha per Dio, come base su cui Egli può, con giustizia, spiegare per intero tutte le sue incomparabili perfezioni, e agire riguardo al peccatore secondo tutta la distesa della sua grazia! La croce ha per Dio un tale valore che, come ha detto uno scrittore, «tutto ciò che Dio ha detto, tutto ciò che ha fatto fin dal principio prova che la croce occupava il primo posto nel suo cuore. E c’è forse da stupirsene, quando sappiamo che il Figlio diletto di Dio doveva essere inchiodato su questa croce e là essere l’oggetto della onta e di tutte le sofferenze che gli uomini e i demoni potevano accumulare su di Lui, perché trovava piacere a fare la volontà del Padre suo e a riscattare i figli della sua grazia? La croce sarà il grande centro di attrazione, come espressione perfetta del suo amore per tutta l’eternità».

Ma anche come base del nostro servizio attivo e della nostra testimonianza, la croce richiede da parte nostra la più seria attenzione. È forse necessario dire che, anche da questo punto di vista la croce è tanto perfetta come lo è dal punto di vista precedente? La croce, che mi mette in relazione con Dio, m’ha separato dal mondo. Un morto non ha più nulla a che fare con il mondo, e il credente, essendo morto in Cristo, è crocifisso per il mondo ed il mondo, per lui, è crucifisso (Gal. 6:14); e essendo risuscitato con Cristo, è unito a lui nella potenza d’una vita e d’una natura nuove. Inseparabilmente unito a Cristo, il credente partecipa necessariamente alla Sua accettazione presso Dio e al Suo rigettamento da parte del mondo. Queste due cose vanno assieme: la prima ci costituisce adoratori e cittadini del cielo, la seconda ci fa testimoni e stranieri sulla terra. La prima ci introduce al di là della cortina, nel luogo santissimo (Ebrei 10:19), la seconda ci fa uscire fuori del campo (Ebrei 13:13). E l’una è tanto perfetta quanto l’altra. Se la croce si è posta fra me e i miei peccati, e mi ha messo in pace con Dio, si è posta anche fra me e il mondo, e mi associa a un Cristo rigettato dagli uomini, facendo di me un oggetto della loro inimicizia, pur costituendomi umile e paziente testimone di questa grazia preziosa, inscrutabile ed eterna, che è stata in essa rivelata.

Il credente dovrebbe comprendere bene questi due aspetti della croce di Cristo, ed essere in grado di distinguerli. Non dovrebbe professare di godere delle benedizioni dell’uno, rifiutando di entrare nelle condizioni dell’altro. Se ha l’orecchio aperto per udire la voce di Cristo «dentro la cortina», dovrebbe pure averlo aperto per udire questa voce «fuori del campo». Se afferra l’espiazione che è stata compiuta sulla croce, dovrebbe anche rendersi conto di fatto del rigettamento da cui essa è necessariamente accompagnata. Il nostro beato privilegio è non solo di non avere più nulla a che fare con il peccato, ma anche di non avere più nulla a che fare con il mondo. Tutto è compreso nella dottrina della croce; perciò l’apostolo Paolo ha potuto dire: «Ma quanto a me, non sia mai che io mi vanti di altro che della croce del nostro Signore Gesù Cristo, mediante la quale il mondo, per me, è stato crucifisso e io sono stato crocifisso per il mondo» (Gal. 6:14). Paolo considerava il mondo come una cosa che doveva essere inchiodata alla croce; e il mondo, crocifiggendo Cristo, aveva crocifisso tutti coloro che gli appartengono. Meditiamo seriamente queste cose! Meditiamole sinceramente e con preghiera, e che lo Spirito Santo ce ne faccia realizzare la potenza pratica.

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:57
   8.3 L’obbedienza

Ritorniamo ora al nostro soggetto. Non è detto quanto tempo Abramo si sia fermato in Caran: tuttavia Dio attese il suo servitore fino a che, libero da ogni intralcio, obbedisse in pieno al suo comandamento. Non vi fu, e non vi poteva essere, nessun accomodamento fra l’ordine di Dio e le circostanze nelle quali si trovava Abramo secondo la natura. Dio ama troppo i suoi servitori per privarli della felicità che accompagna sempre l’obbedienza.

È bene notare che Abramo non ricevette nessuna nuova rivelazione durante il suo soggiorno in Caran. Perché Dio ci dia nuova luce, dobbiamo camminare in rapporto con la luce che Egli ci ha dato prima. «A chi ha sarà dato». Questo è il principio divino. Ricordiamoci tuttavia che Dio non ci trascinerà mai nel sentiero dell’obbedienza e del vero servizio; agire in quel modo, comprometterebbe l’eccellenza morale che caratterizza tutte le sue vie. Dio non trascina, ma attira, e ci fa camminare così nella via che conduce alla felicità ineffabile che è in Lui. Se non comprendiamo che è nel nostro interesse rovesciare tutti gli ostacoli che le relazioni umane vorrebbero porre davanti a noi per impedirci di rispondere all’appello di Dio, veniamo meno alla grazia che ci è stata fatta. Ma, ahimè, i nostri cuori penetrano poco in queste cose. Incominciamo a far calcoli intorno ai sacrifici, agli impedimenti, alle difficoltà, invece di correre nel cammino dell’obbedienza pieni di ardore perché conosciamo e amiamo Colui che ci ha chiamati.

Ogni passo compiuto nel cammino dell’obbedienza è contrassegnato da benedizioni reali, perché l’obbedienza è frutto della fede, e la fede ci associa a Dio e ci introduce in una comunione vivente con Lui. Considerando l’obbedienza sotto questo aspetto, vedremo facilmente quanto differisce dal legalismo in ogni suo carattere. Il principio legale pone l’uomo, carico di tutto il peso dei suoi peccati, sul sentiero del servizio, nell’osservanza della legge di Dio: ne risulta, per l’anima, un continuo tormento e ben lungi dal correre nel cammino dell’obbedienza, essa non vi è neppure ancora entrata. La vera obbedienza, invece, non è che la manifestazione o il frutto di una nuova natura comunicata per grazia. Dio, nella sua bontà, dà a questa nuova natura dei precetti per guidarla; ed è certissimo che la natura divina guidata da precetti divini non produce mai il legalismo. Ciò che lo produce, è la vecchia natura che cerca di seguire i precetti divini; ora, provare a dirigere la natura scaduta dell’uomo per mezzo della pura e santa legge di Dio, è tanto vano quanto assurdo. Come potrebbe la natura scaduta respirare un’aria così pura? Bisogna che ambedue, la natura e l’aria che essa respira, siano divine.

Ma Dio non soltanto comunica una natura divina al credente e lo guida per mezzo di principi divini; pone anche davanti a lui delle speranze conformi a questa natura. Così per quello che concerne Abramo «l’Iddio di gloria gli apparve»; a che scopo? Dio voleva porre davanti a lui un oggetto desiderabile: «il paese che ti farò vedere»; non c’era costrizione; Dio attirava l’anima. Secondo la valutazione della nuova natura e della fede, il paese dell’Eterno era di gran lunga migliore del paese di Ur o di Caran, e quantunque Abramo non l’avesse visto, la fede ne apprezzava la bellezza e il valore, e stimava che, per possederlo, valeva la pena abbandonare le cose presenti. Perciò leggiamo che «per fede Abramo essendo chiamato, obbedì, per andarsene in un luogo che egli aveva da ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava»; camminò «per fede e non per visione». Benché non avesse veduto con gli occhi credette col cuore e la fede divenne il movente dell’anima sua. La fede riposa sopra un fondamento ben più solido dell’evidenza dei nostri sensi, e questo fondamento è la Parola di Dio: i nostri sensi possono ingannarci, la Parola di Dio non inganna mai.

Il sistema legale getta a mare tutta la dottrina della nuova natura, come pure i precetti che la guidano e le speranze che la animano; insegna che bisogna rinunciare alla terra per ottenere il cielo. Ma come potrebbe la natura dell’uomo abbandonare ciò a cui è legata? Come potrebbe essere attirata da ciò in cui non vede nulla di attraente? Il cielo non ha nulla di desiderabile per la natura; è l’ultimo posto in cui le piacerebbe trovarsi. Essa non ha gusto né per il cielo, né per ciò che occupa il cielo, né per gli abitanti del cielo. Se le fosse possibile entrare nel cielo si troverebbe completamente a disagio e infelice. È incapace a rinunciare alla terra, è incapace a desiderare il cielo. È vero che sarebbe felice di sfuggire all’inferno e ai suoi tormenti indescrivibili; ma il desiderio di sfuggire all’inferno e quello di ottenere il cielo, derivano da due sorgenti molto diverse. Il primo è insito nella vecchia natura, ma il secondo non si trova che nella nuova. Se non vi fossero nell’inferno lo «stagno di fuoco», né il «verme che non muore», né «stridor di denti», la natura non lo temerebbe. E questo principio è vero per tutti i desideri e per tutto ciò che la natura procaccia.

Il sistema legale insegna che dobbiamo abbandonare il peccato; e, quanto alla giustizia, essa l’abborre esplicitamente. È vero che le piacerebbe una certa misura di pietà, ma solo nel pensiero, e con la speranza che la pietà la preserverà dal fuoco dell’inferno: la natura dell’uomo non ama il cristianesimo, perché introduce l’anima nel godimento attuale di Dio e delle sue vie.

Ma «l’evangelo della gloria dell’Iddio Beato» quanto è diverso, sotto ogni aspetto, da tutto il sistema legale! Questo evangelo rivela Dio che scende in grazia, che toglie il peccato nel modo più assoluto per mezzo del sacrificio della croce, sul fondamento d’una giustizia eterna, avendo Cristo sofferto per il peccato ed essendo stato fatto peccato per noi. E non solo Dio toglie il peccato, ma comunica una vita nuova, una vita di risurrezione che è la vita del suo stesso Figliuolo, risuscitato e glorificato; una vita che ogni vero credente possiede in virtù del fatto che, nel consiglio eterno di Dio, è unito a Colui che fu inchiodato alla croce, ma che ora è sul trono della maestà nel cielo. Questa nuova natura, l’abbiamo già fatto notare, è guidata da Dio, nella sua bontà, per mezzo dei precetti della sua santa Parola, applicata dallo Spirito Santo. Egli la incoraggia pure, presentandole delle speranze indistruttibili; le rivela a distanza «la speranza della gloria», «una città che ha i veri fondamenti», «una patria migliore» cioè una «patria celeste», «le molte dimore» della casa del Padre, «un regno che non può essere smosso» un’eterna unione con Lui in quelle regioni di felicità e di luce, ove il dolore e le tenebre non possono entrare, il favore inesprimibile di essere condotti, durante l’eternità, «lungo le acque chete e i paschi erbosi» dell’amore redentore. Come tutto ciò è diverso dalle idee legali! Invece di chiamarmi ad abbandonare le cose della terra che amo per ottenere il cielo che odio, a sviluppare e a governare una natura scaduta, Dio, nella sua grazia infinita, e in virtù del sacrificio di Cristo, mi comunica una natura capace di godere e mi dà un cielo di cui questa natura può gioire; e non solo un cielo, ma Lui stesso, sorgente inesauribile di tutta la gioia del cielo.

Queste sono le vie meravigliose di Dio. L’Iddio di gloria fece vedere ad Abramo un paese migliore di quello di Ur e di Caran, fece vedere a Saulo da Tarso una gloria così risplendente che i suoi occhi furono chiusi a tutti gli splendori della terra, in modo che, da allora, li stimasse come «tante spazzature» per guadagnare il Cristo che gli era apparso e la cui voce gli era penetrata nel più profondo dell’anima. Saulo da Tarso vedeva un Cristo celeste nella gloria e per tutto il corso della sua carriera quaggiù, nonostante la debolezza del «vaso di terra», questo Cristo celeste e questa gloria celeste riempirono l’anima sua.

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:58
8.4 La tenda e l’altare

«E Abramo traversò il paese fino al luogo di Sichem, fino alla quercia di Moreh. Or in quel tempo i Cananei erano nel paese» (vers. 6). La presenza dei Cananei nel paese dell’Eterno doveva essere una prova per Abramo, un richiamo alla sua fede e alla sua speranza, un esercizio di cuore e una prova di pazienza. Aveva lasciato dietro a sè Ur e Caran per recarsi nel paese di cui «l’Iddio di gloria» gli aveva parlato; qui trova «i Cananei», ma vi trova pure l’Eterno.

E l’Eterno apparve ad Abramo e gli disse: «Io darò questo paese alla tua progenie» (vers. 7). La connessione di queste due dichiarazioni è di una commovente bellezza. «I Cananei erano nel paese»; e affinché l’occhio di Abramo non si fermasse troppo sul Cananeo, attuale possessore del paese, l’Eterno gli apparve come colui che avrebbe dato questo paese a lui e alla sua progenie per sempre. I pensieri di Abramo erano così rivolti verso l’Eterno e non verso i Cananei: e vi è qui un’istruzione preziosa per noi. I Cananei nel paese sono l’espressione della potenza di Satana; ma, invece di occuparci della potenza di Satana, che ci terrebbe lontani dal paese della nostra eredità, siamo chiamati ad afferrare la potenza di Cristo che ci ha introdotti in esso. «Il combattimento nostro, non è contro sangue... ma contro le forze spirituali della malvagità che sono nei luoghi celesti» (Efesi 6:12). La sfera stessa a cui siamo chiamati è la scena delle nostre lotte. Dovremmo forse essere spaventati? No, poiché Cristo è là per noi; Cristo vittorioso nel quale siamo «più che vincitori». Perciò invece di abbandonarci a uno spirito di timore, coltiviamo uno spirito di adorazione.

«Abramo edificò quivi un altare all’Eterno che gli era apparso. E di là, si trasferì verso la montagna, a oriente di Bethel e piantò le sue tende avendo Bethel a Occidente e Ai a Oriente» (vers. 7-8).

L’altare e la tenda ci rivelano i due caratteri distintivi di Abramo: adoratore di Dio e straniero in questo mondo. Dio non gli diede alcuna eredità nel paese, «neppure un palmo di terra» (Atti 7:5); ma possedeva Dio e ciò gli bastava.

8.5 La prova: une carestia — soggiorno in Egitto

Ma se Dio risponde alla fede, egli la mette anche alla prova. La fede ha dunque le sue prove. Non dobbiamo pensare che il credente abbia da percorrere un cammino facile e piano: tutt’altro; egli incontra invece continuamente mari burrascosi e cieli tempestosi; ma Dio vuole che egli faccia, così, una più profonda e più matura esperienza di ciò che Dio è per il cuore che si confida in Lui. Se il cielo fosse sempre sereno, e la via sempre piana, il credente non conoscerebbe così bene l’Iddio col quale ha a che fare; sappiamo quanto il cuore è propenso a considerare la pace esterna come se fosse la pace di Dio! Quando tutto va bene per noi, quando i nostri beni sono al sicuro, i nostri affari prosperano, i nostri figliuoli si comportano bene, la nostra abitazione è piacevole e godiamo una buona salute, quando, insomma, tutto risponde a quello che possiamo desiderare, come siamo facilmente disposti a confondere la pace che riposa su un tale stato di cose, con quella che deriva dalla presenza sentita di Cristo! Il Signore lo sa; perciò, quando ci adagiamo sulle nostre circostanze invece di riposarci su lui, Egli ci visita e, in un modo o nell’altro, sconvolge i nostri falsi appoggi.

Ma vi è di più; siamo facilmente portati a credere che una via sia diritta perché esente da prove e viceversa. È un grande errore. Il sentiero dell’obbedienza è sovente quello che è più duro per la carne e il sangue. Così, Abramo non fu soltanto chiamato ad incontrare i Cananei nel paese in cui Dio l’aveva chiamato, ma ancora: «avvenne nel paese una carestia» (vers. 10). Doveva egli forse concludere, da questo, che non era al suo posto? No, certamente, poiché allora avrebbe giudicato secondo la sua propria vista, ciò che la fede non fa mai. Era senza dubbio una prova penosa per il suo Cuore, qualcosa d’incomprensibile per la sua natura; ma, per la fede, tutto era chiaro e facile.

Quando Paolo fu chiamato in Macedonia, la prigione di Filippi fu una delle prime cose che incontrò. Un cuore che non fosse stato in comunione con Dio, avrebbe visto, in questa prova, un colpo mortale inferto alla sua missione. Ma Paolo non mise mai in dubbio di essere nella giusta posizione, e fu reso capace «di cantare le lodi di Dio» nel seno stesso della prigione, rassicurato, come era, che tutto quello che succedeva era esattamente quella che doveva succedere. E Paolo aveva ragione; poiché la prigione di Filippi conteneva un vaso di misericordia che, umanamente parlando, non avrebbe mai udito l’Evangelo se coloro che l’annunciavano non fossero stati gettati nel luogo stesso dove egli si trovava. A dispetto di se stesso, il Diavolo fu lo strumento di cui Dio si è servito per far giungere l’evangelo agli orecchi del carceriere, uno dei suoi eletti.

Abramo avrebbe dovuto pensare, riguardo la carestia, come Paolo ha pensato riguardo la sua prigione. Si trovava nella posizione in cui Dio l’aveva posto, e non ricevette alcun ordine di uscirne. È ben vero che la fame era nel paese; e oltre a ciò l’Egitto era vicino ed offriva una facile liberazione; ma il sentiero del servitore di Dio era chiaro. Meglio morire di fame in Canaan, se è necessario, che vivere nell’abbondanza in Egitto. Meglio soffrire nel sentiero di Dio che essere a proprio agio in quello di Satana. Meglio essere povero con Cristo che ricco senza lui. Abramo in Egitto «ebbe pecore, buoi, asini, servi e serve, asine e cammelli» prova evidente, dirà il cuore naturale, che Abramo ebbe ragione di scendere in Egitto; ma, ahimè! non ebbe in Egitto né altare, né comunione con Dio. Il paese del Faraone non era il luogo della presenza dell’Eterno, e Abramo, scendendovi, ebbe più perdita che guadagno.

È sempre così; nulla potrebbe mai compensare la comunione col Signore. La liberazione da una calamità temporale e l’acquisto di maggiori beni terrestri, sono poveri equivalenti di ciò che si perde allontanandosi, fosse solo d’un millimetro, dal retto sentiero dell’obbedienza.

Quanti di noi possono aderire di cuore a questo modo di vedere? Quanti, per evitare le prove e gli esercizi che si incontrano nel sentiero di Dio, sono scivolati nella corrente del presente secolo malvagio e sono caduti in uno stato di sterilità, di aridità, di tristezza e di tenebre spirituali! Può darsi che, secondo l’espressione comune, «abbiamo fatto fortuna», abbiamo accumulato ricchezze e guadagnato il favore del mondo; ma tutte queste cose possono forse compensare la gioia in Dio, un cuore tranquillo, una coscienza pura e senza rimproveri, uno spirito di adorazione e di riconoscenza, una testimonianza vivente e un servizio efficace? Guai a chi potrebbe pensare così! Eppure, si son viste sovente tutte queste benedizioni vendute per un po’ di benessere, un po’ d’influenza, un po’ di denaro.

Vigiliamo contro la tendenza di sviarci dal sentiero della semplice e completa obbedienza; sentiero stretto ma sempre sicuro, talvolta arduo, ma sempre felice e benedetto. Procacciamo di serbare «la fede e una buona coscienza» che nulla potrebbe sostituire. Se viene la prova, invece di scendere in Egitto, contiamo su Dio, e così la prova, invece di essere un’occasione di caduta, risulterà un’occasione di obbedienza. E quando siamo tentati di scivolare nelle vie del mondo, ricordiamoci di Colui «che ha dato se stesso per i nostri peccati, affin di strapparci dal presente secolo malvagio secondo la volontà del nostro Dio e Padre» (Gal. 1:4). Se tale è stato il suo amore per noi e tale il suo giudizio sul carattere del presente secolo, che egli abbia dato se stesso per noi affin di liberarcene, lo rinnegheremo noi ritornando ad immergerci in ciò da cui la sua croce ci ha per sempre liberati? Così non sia! Voglia l’Onnipotente tenerci nel palmo della sua mano e all’ombra delle sue ali, finché vediamo Gesù, quale Egli è e siamo come Lui e con Lui per sempre!

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 19:59
 9. Capitoli 13 e 14: Abramo e Lot

9.1 Il ritorno dall’Egitto

Questo capitolo si apre con un soggetto che è di grande interesse per il cuore.

Quando, in un modo o nell’altro, lo stato spirituale del credente si è abbassato ed egli ha perso la comunione con Dio, c’è il pericolo, dal momento che la sua coscienza si è risvegliata, che egli non afferri la grazia quale essa è e non entri pienamente nella realtà del proprio ristoramento davanti a Dio. Ora, noi sappiamo che tutto ciò che Dio fa, lo fa in modo degno di se stesso; che crei o che salvi, che converta o che ristori, Egli glorifica il suo Nome in tutte le sue vie. Questo è infinitamente prezioso per noi che siamo sempre propensi a «limitare il Santo d’Israele» (Salmo 78:41) e lo facciamo soprattutto nel lavoro della sua grazia ristoratrice.

Nel caso che ci occupa, vediamo che non soltanto Abramo fu fatto uscire dall’Egitto, ma ancora ricondotto al luogo dove aveva rizzato la sua tenda al principio, al luogo dove era l’altare che egli aveva edificato prima, e quivi Abramo «invocò il Nome dell’Eterno» (vers. 3-4}.

Dio non sarà soddisfatto riguardo colui che s’è sviato o è rimasto indietro, se non quando l’avrà ricondotto nella retta via e perfettamente ristabilito nella sua comunione. I nostri cuori, sempre pieni di propria giustizia, penserebbero facilmente che si addirebbe, ad un tale uomo, un posto meno elevato di quello che ha lasciato e, infatti, sarebbe così se si trattasse dei nostri meriti e del nostro carattere; ma trattandosi unicamente di grazia, appartiene a Dio il determinare la misura del ristoramento, e questa misura ci è data nel passo seguente: «O Israele, se tu torni, dice l’Eterno, torna a me!» (Geremia 4:1). Ecco come Dio rileva. Agire altrimenti, sarebbe indegno di Lui. O non ristora affatto, o, se lo fa, lo fa in modo da esaltare e glorificare le ricchezze della sua grazia.

Quando il lebbroso era riammesso nel campo, era condotto «all’ingresso della tenda di convegno» (Levitico 14:11); quando il figliuolo prodigo ritorna alla casa paterna, il padre lo fa sedere a tavola con lui; quando Pietro fu rilevato dalla caduta, potè dire agli uomini d’Israele: «Voi rinnegaste il Santo e il Giusto», accusandoli proprio di ciò che egli stesso aveva fatto nelle circostanze più aggravanti. In ognuno di questi casi, vediamo che Dio ristora perfettamente; riconduce sempre l’anima a Se stesso, in tutta la potenza della grazia e in tutta la fiducia della fede. «Se tu torni, torna a me»; «Abramo ritornò al luogo ove da principio era stata la sua tenda».

L’effetto del ristoramento divino dell’anima è infinitamente pratico; nel suo carattere confonde il legalismo e nel suo effetto annienta l’antinomismo. L’anima ristorata avrà un sentimento profondo e reale del male da cui è stata liberata, e questo sentimento si manifesterà con uno spirito di vigilanza, di preghiera, di santità e di prudenza. Dio non ci rileva perché consideriamo il peccato con leggerezza e ricadiamo di nuovo in esso; dice: «Va e non peccar più» (Giov. 8:11). Più è profondo il sentimento della grazia di Dio che ci ha rilevati, più profondo anche sarà il sentimento della santità di questo rilevamento. È un principio stabilito e insegnato da un capo all’altro della Scrittura, ma specialmente nei due passi ben conosciuti, Salmo 23:3 e 1 Giov. 1:9: «Egli mi ristora l’anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amor del suo Nome»; e, « Se confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele e giusto da rimetterci i nostri peccati e purificarci da ogni iniquità».

Il sentiero che si addice ad un’anima ristorata è un sentiero di giustizia: parlare di grazia e vivere nell’ingiustizia significa «volgere in dissolutezza la grazia del nostro Dio» (Giuda 4). Se «la grazia regna mediante la giustizia, a vita eterna» (Rom. 5:21) si manifesta anche con opere di giustizia che sono il frutto di questa vita. La grazia che perdona i nostri peccati ci purifica da ogni iniquità. Sono due cose che non si devono mai separare; unite insieme, confondono, come abbiamo detto, il legalismo e l’antinomismo (*) del cuore umano.

_____________________
(*) O antinomianismo. Così chiamavisi una falsa dottrina che, partendo dal principio della salvezza per fede, arrivava a dedurre che non era affatto necessaria, per chi avesse creduto, una vita di santità, di giustizia, di opere buone.
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

9.2 Lot, nipote d’Abramo

Ma vi fu per Abramo una prova assai più grave della carestia che lo fece scendere in Egitto; quella che proveniva dalla compagnia di qualcuno che, evidentemente, non camminava nell’energia d’una fede personale e nemmeno nel sentimento della propria responsabilità individuale. Sembra che fin dal principio, Lot, nel suo cammino, fosse spinto dall’influenza e dall’esempio di Abramo, piuttosto che da una fede in Dio sua personale.

In questo fatto è rinchiuso un principio molto comune. Percorrendo la Sacra Scrittura, vediamo che in tutti i grandi movimenti prodotti dallo Spirito di Dio, certe persone, credenti o no, si sono associate a questi movimenti senza partecipare personalmente alla potenza che li aveva prodotti. Queste persone proseguono la loro strada per un certo tempo sia pesando come un corpo morto sulla testimonianza, sia intralciando questa in modo effettivo.

Così l’Eterno aveva chiamato Abramo a lasciare il suo parentado ma Abramo invece di lasciarlo, lo prende con sè; Terah lo ritarda nel suo cammino, fino al momento in cui è tolto dalla morte; Lot lo accompagna un po’ più avanti, ma «le cupidigie delle altre cose» (Marco 4:19) lo sopraffanno e l’abbattono totalmente.

La stessa osservazione può essere fatta nel gran movimento dell’uscita d’Israele fuori d’Egitto: «un’accozzaglia di gente raccogliticcia» seguì i Giudei e divenne per essi un motivo di corruzione, d’infiacchimento e di turbamento come lo vediamo al cap. 11 dei Numeri: «E l’accozzaglia di gente raccogliticcia ch’era tra li popolo, fu presa di concupiscenza, e anche i figliuoli d’Israele ricominciarono a piagnucolare e a dire: chi ci darà da mangiare della carne?» (Numeri 11:4). Nello stesso modo ancora, nei primi giorni della Chiesa, e da allora, in tutti i movimenti prodotti dallo Spirito di Dio, si è visto un gran numero di persone, associarsi a quei movimenti sotto influenze diverse ma che, non essendo divine, non sono state che momentanee, e ben presto tali persone si sono tratte indietro e hanno ripreso il loro posto nel mondo.

Nulla sussisterà se non ciò che è da Dio: bisogna che realizziamo il legame che ci unisce all’Iddio vivente, dobbiamo sentire che è Lui che ci ha chiamati alla posizione che occupiamo, altrimenti non avremo né fermezza né costanza in questa posizione. Non possiamo seguire la strada d’un altro, semplicemente perché quell’altro vi cammina. Dio, nella sua grazia, traccia a ciascuno di noi la via che dobbiamo seguire, dando ad ognuno una sfera d’azione e dei doveri da compiere. e dobbiamo sapere quale è la nostra vocazione e i doveri che vi si riferiscono; affinché per la grazia che ci è data ogni giorno, possiamo lavorare efficacemente alla gloria di Dio. Importa poco la misura che ci è data, purché ci sia data da Dio. Possiamo aver ricevuto «cinque talenti» oppure «uno solo»; ma se facciamo fruttare questo «solo» talento con gli occhi rivolti al Padrone, udremo certamente queste sue parole: «va bene» come se avessimo fatto fruttare i «cinque talenti».

Paolo, Pietro, Giacomo e Giovanni hanno avuto ciascuno «la propria misura», un ministerio speciale, ed è così per tutti.

Nessuno deve intromettersi nel lavoro altrui. Nulla è più futile dell’imitazione. Nel mondo fisico non ne vediamo alcun segno, ma ogni creatura riempie la propria sfera, ha le proprie funzioni; se così è nel mondo fisico, a maggior ragione lo è nel mondo spirituale. Il campo è abbastanza vasto per tutti. In una stessa casa vi sono vasi di grandezza e di forma diversi, e tutti sono necessari al padrone di casa.

Esaminiamo dunque seriamente, caro lettore, se siamo condotti da un’influenza divina o umana, se la nostra fede riposa sulla sapienza umana o sulla potenza divina, se ciò che facciamo lo facciamo perché altri l’hanno fatto, oppure perché il Signore ci chiama a farlo; se non facciamo che appoggiarci su quelli che ci circondano o se siamo sorretti da una fede personale.

È senza dubbio un gran privilegio il poter godere della comunione dei fratelli, ma se ci appoggiamo su di essi, ben presto faremo naufragio; nello stesso modo, se oltrepassiamo la nostra misura, la nostra azione sarà ostentata. È facile vedere se un uomo lavora al suo posto e nella sua misura: possiamo noi essere sempre veri e naturali! Chi si avventura in acqua profonda senza saper nuotare dovrà dibattersi. Una nave varata senza la capacità di tenere il mare e insufficientemente equipaggiata sarà costretta a ritornare al porto o andrà persa.

Lot lasciò «Ur dei Caldei», ma cadde nella pianura di Sodoma. L’appello di Dio non aveva raggiunto il suo cuore e l’occhio suo era rimasto chiuso alla gloria dell’eredità di Dio.

Vi è per ognuno dei servitori di Dio, un sentiero rischiarato dalla sua approvazione e dalla luce della sua faccia e dovrebbe essere la nostra gioia il camminarvi. La sua approvazione basta al cuore che lo conosce. Non otterremo sempre l’approvazione dei nostri fratelli, saremo sovente incompresi, ma sono cose che non si possono evitare. Il giorno metterà ogni cosa al suo posto, e il cuore fedele aspetterà con gioia l’arrivo di quel giorno, sapendo che allora «ciascuno avrà la sua lode da Dio» (1 Cor. 3:13; 4:5).

pedrodiaz
00martedì 19 aprile 2011 20:00
9.3 L’amore del mondo

Potrà essere utile esaminare più da vicino ciò che indusse Lot ad abbandonare il sentiero della testimonianza pubblica.

Vi è nella storia di ogni uomo un momento di crisi che rivela il fondamento sul quale si appoggia nel suo cammino, i motivi che lo fanno agire e gli oggetti che procaccia; e fu così di Lot: egli non morì a Caran, ma cadde in Sodoma. La causa apparente della sua caduta fu la disputa fra i pastori del suo bestiame e quelli del bestiame di Abramo: ma quando non si cammina con occhio semplice e gli affetti purificati, si inciampa facilmente in una pietra che ci fa cadere; se non è un giorno, è un altro. In un certo senso, importa poco quale sia la causa apparente che ci fa abbandonare la diritta via; la causa reale rimane nascosta, molto lontana forse dall’attenzione pubblica, nelle camere segrete delle nostre affezioni, là dove il mondo, in una forma o nell’altra, ha trovato posto. La disputa fra i pastori sarebbe stata facile da sedare, senza danno spirituale né per Lot né per Abramo. In realtà per quest’ultimo non fu che l’occasione di manifestare la magnifica potenza della fede e della elevatezza morale e celeste di cui la fede riveste colui che crede; mentre non fece che manifestare la mondanità che vi era nel cuore di Lot. Questa querela dei pastori non aumentava la mondanità nel cuore di Lot e neppure la fede nel cuore di Abramo; non fece che portare alla luce, nell’uno come nell’altro, ciò che c’era nel loro cuore.

È sempre così: controversie e dissensi si elevano nella Chiesa di Dio, e diventano per molti un’occasione di caduta facendoli ritornare al mondo, in un modo o nell’altro; costoro, poi, danno colpa alle controversie e alle divisioni e fanno ricadere su queste cose la responsabilità che toccherebbe loro, mentre in realtà queste non sono state che il mezzo per manifestare la vera condizione dell’anima e l’inclinazione del cuore.

Quando il mondo è nel cuore, in un modo o nell’altro, la cosa si manifesta. Neppure si può dire che vi sia grandezza morale nell’incolpare uomini e circostanze quando la radice del male giace in noi stessi, per quanto deplorevoli siano d’altronde le controversie e le divisioni. È triste ed umiliante vedere dei fratelli bisticciarsi in presenza dei Cananei e dei Ferezei, mentre il loro linguaggio dovrebbe sempre essere: «Deh! non ci sia contesa fra me e te... poiché siamo fratelli» (vers. 8-9).

Ma pure, perché Abramo non scelse Sodoma? Perché la lite non lo spinse nel mondo e non divenne per lui una occasione di caduta? Egli considerò la difficoltà dal punto di vista di Dio. Il suo cuore non era meno propenso ad essere attirato dalle pianure irrigate, che quello di Lot; ma non lasciò che il suo cuore scegliesse. Lasciò la scelta a Lot e volle che Dio scegliesse per lui. Tale è la sapienza che viene da alto.

La fede lascia sempre a Dio la cura di fissare la propria eredità, come pure rimette a Lui la cura di introdurvela. Può sempre dire: «La sorte è caduta per me in luoghi dilettevoli; una bella eredità mi è pur toccata» (Salmo 16:6). Poco importa dove «la sorte» è caduta; la fede giudica che è caduta «in luoghi dilettevoli» perché è Dio che l’ha posta là. Chi cammina per fede, può lasciare volentieri la scelta a chi cammina per l’esteriore; dice: «Se tu vai a sinistra io andrò a destra; e se tu vai a destra, io andrò a sinistra». Vi è qui disinteressamento ed elevatezza morale; e che sicurezza! Si può essere certi che qualunque sia la visione del cuore naturale e la parte che essa prenderà, essa non metterà mai le mani sul tesoro della fede; egli cerca la sua parte in una direzione diametralmente opposta. La fede pone il suo tesoro in un luogo che il cuore naturale non si sognerebbe mai di visitare, non potrebbe nemmeno avvicinarvisi se lo volesse, e quando lo potesse, non lo vorrebbe; di modo che la fede, lasciando la scelta alla natura, è in perfetta sicurezza come pure mirabilmente disinteressata.

Quale fu dunque la scelta di Lot, quando potè farla? Prese Sodoma per parte sua, proprio il luogo su cui il giudizio stava per cadere. Perché Lot fece una tale scelta? Perché guardò all’apparenza esteriore e non si curò del suo carattere intrinseco che ne presagiva il futuro destino. Il vero carattere di Sodoma era «la malvagità» (vers. 13); e il suo destino futuro, il «giudizio», la distruzione mediante fuoco e zolfo dal cielo. Ma si dirà: Lot ignorava tutto ciò: è possibile, e Abramo anche, probabilmente; ma Dio lo sapeva, e se Lot avesse lasciato a Dio la cura di scegliere una eredità per lui, Egli non gli avrebbe scelto certamente un luogo che stava per distruggere. Ma Lot volle scegliere da sè e giudicò che Sodoma andasse bene per lui, benché non si addicesse a Dio. I suoi occhi si fermarono sulle pianure irrigate e il suo cuore fu cattivato da esse. «E Lot andò piantando le sue tende fino a Sodoma» (vers. 10-12). Tale è la scelta che fa il cuore naturale. «Dema mi ha lasciato, avendo amato il presente secolo» (2 Tim. 4:10). Lot abbandonò Abramo per la stessa ragione; lasciò il luogo della testimonianza per passare a quello del giudizio.

9.4 Conferma delle promesse ad Abramo

«E l’Eterno disse a Abramo dopo che Lot si fu separato da lui: Alza ora gli occhi tuoi e mira, dal luogo dove sei, a settentrione, a mezzogiorno, ad oriente e a occidente. Tutto il paese che vedi, lo darò a te e alla tua progenie in perpetuo» (vers. 14-15).

La disputa e la separazione, invece di procurare un danno spirituale ad Abramo, servirono a manifestare i principi celesti che lo dirigevano e fortificarono la vita della fede nell’anima sua, rendendo anche più chiaro il suo cammino e liberandolo da una compagnia che non poteva far altro che intralciarlo. Così, ogni cosa concorse al bene di Abramo e gli procurò una abbondante messe di benedizioni.

Ricordiamoci, e questa è una verità seria e incoraggiante, che a lungo andare ognuno trova il proprio livello, se così posso esprimermi. Tutti quelli che corrono senza essere mandati cadono in un modo o nell’altro e ritornano alle cose che facevano professione di aver abbandonate. D’altro canto, tutti quelli che sono stati chiamati da Dio e s’appoggiano su Lui, sono sostenuti dalla sua grazia. «Il sentiero dei giusti è come la luce che spunta e va vie più risplendendo finché sia giorno perfetto» (Prov. 4:18). Questo pensiero dovrebbe renderci umili e perseveranti nel pregare: «Perciò, chi si pensa di stare ritto, guardi di non cadere» (1 Cor. 10:12), poiché certamente, «ve ne son degli ultimi che saranno primi e de’ primi che saranno ultimi» (Luca 13:30). «Ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato» (Matteo 10:22).

È un principio che, qualunque ne sia l’applicazione particolare, ha una portata morale molto estesa. Molte navi sono salpate fieramente, con bella manovra, con tutte le vele spiegate, fra le ovazioni e gli applausi gioiosi della folla, con pronostici d’una magnifica traversata, ma ahimè! bufere, mareggiate, bassi fondi, roccie e banchi di sabbia hanno presto cambiato l’aspetto delle cose, e il viaggio incominciato sotto gli auspici più favorevoli, è terminato con un disastro! Faccio allusione qui solo al servizio e alla testimonianza e in nessun modo all’accettazione e alla salvezza eterna dell’uomo in Cristo: questa salvezza, Dio ne sia benedetto, non dipende in alcun modo da noi, ma da Colui che ha detto delle sue pecore: «Io dò loro la vita eterna e non periranno mai e nessuno le rapirà dalla mia mano» (Giov. 10:28). Ma vediamo sovente dei cristiani entrare in un servizio speciale, sotto l’impressione di essere chiamati da Dio e, dopo un certo tempo, fare naufragio; parecchi dopo aver professato certi principi di azione particolari riguardo ai quali non erano stati ammaestrati da Dio, o di cui non avevano pesato dovutamente le conseguenze nella presenza di Dio, finiscono per violare apertamente questi stessi principi. Dobbiamo deplorare queste cose ed evitarle con cura. Bisogna che ciascuno riceva la sua missione dal Maestro stesso. Tutti quelli che Cristo chiama a un servizio particolare, saranno infallibilmente sostenuti in questo servizio, poiché mai egli manda qualcuno alla guerra a proprie spese. Ma, chi corre senza essere mandato, non solo farà l’esperienza della propria follia, ma anche la manifesterà.

Tuttavia, ciò non significa che un uomo possa erigersi a rappresentante d’un principio (*) qualsiasi, o presentarsi come modello d’un carattere speciale di servizio o di testimonianza. Iddio ce ne guardi! Sarebbe puro orgoglio e vana follia! Il compito di chi insegna è di esporre le Scritture, e quello d’un servitore è di compiere la volontà del suo signore. Ma ben compreso e ammesso tutto questo, non dimentichiamo che dobbiamo calcolare la spesa prima di edificare una torre o muover guerra (Luca 14:28). Si vedrebbe meno confusione e miseria fra noi se questo fosse più seriamente considerato.

_____________________
(*) Oppure: pretendere essere la personificazione (in inglese: impersonation) d’un principio
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

Abramo fu chiamato da Dio a lasciare Ur dei Caldei per andare in Canaan; e Dio lo condusse lungo tutto il cammino. Quando si fermò in Caran, Iddio lo attese; quando scese in Egitto, Iddio lo ricondusse; quando ebbe bisogno di guida, Egli lo guidò, quando vi fu contesa e separazione, Dio si prese cura di lui, di modo che Abramo non potè che dire: «Quant’è grande la bontà che tu riservi a quelli che ti temono!». (Salmo 31:19). Abramo non perdette nulla in seguito alla lite dei pastori; ebbe dopo, come prima, la sua tenda e il suo altare. «Allora Abramo levò le sue tende e venne ad abitare alle quercie di Mamre, che sono a Hebron, e quivi edificò un altare all’Eterno» (vers. 18). Scelga pure Lot la sua parte in Sodoma; Abramo cerca e trova il suo tutto in Dio. Non v’era nessun altare in Sodoma; tutti quelli che camminano in questa direzione, cercano tutt’altra cosa che un altare. Non è per rendere culto a Dio che vanno dalla parte di Sodoma, ma è l’amore del mondo che li conduce. E, quand’anche ottenessero l’oggetto delle loro ricerche, quale sarebbe la fine? «Egli dette loro quel che chiedevano, ma mandò loro la consunzione» (Salmo 106:15).

Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 21:44.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com