CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Io sono colui che sono

Ultimo Aggiornamento: 07/01/2009 21:05
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07/01/2009 21:05
 
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Io sono colui che sono

G. Ravasi


Dio, presentandosi all'uomo, si rivela in un verbo - cioè in una forma dinamica che sfugge le definizioni riduttive - per sottolineare che il suo nome, quindi la sua essenza, non può essere manovrato dall'uomo per i propri fini ed interessi.

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Il tempio di Gerusalemme era bersaglio delle frecce e dei proiettili delle legioni romane, il sangue delle vittime sacrificali si mescolava a quello dei sacerdoti uccisi, la resistenza ebraica era ormai disperata. Dopo tre mesi di assedio il Tempio fu invaso: era l'autunno del 63 a.C., a Roma era console M. Tullio Cicerone. In quel giorno Pompeo, anticipando il gesto di Tito nella distruzione definitiva di Gerusalemme del 70 d.C., decise di penetrare nel Santissimo del Tempio, il luogo valicabile solo dal Sommo Sacerdote una sola volta l'anno: tutto il mondo ebraico a quella notizia si fermò con sgomento e raccapriccio. Scrisse lo storico ebreo Giuseppe Flavio, contemporaneo di Paolo: "Fra tante sciagure quella che colpì maggiormente la nazione fu che il Tempio, fino a quel momento sottratto alla vista, fu svelato agli stranieri" (La guerra giudaica I, 7, 6). Sollevando il "velo" che celava questo tempietto interno, il romano Pompeo, religiosamente grossolano, credeva di incontrare qualche mostruoso simulacro orientale e invece, nota Tacito (Historiae V, 9), trovò "una sede priva di alcuna effigie divina e un santuario inutile".

 Il Dio vivente, il Signore del cielo e della terra non aveva bisogno di un elemento magico per farsi rappresentare nel dialogo col suo popolo. Un Dio senza status e senza nome. Infatti ancor oggi l'ebreo, quando incontra le quattro lettere sacre Jhwh del nome divino, non pronuncia che un termine generico “Adonai”, “Signore”. Solo nella solennità del Kippur, l'Espiazione, sulle labbra del Sommo Sacerdote, entrato nel Santo dei Santi, affiorava la parola impronunciabile, mentre all'esterno le trombe dei Leviti suonavano con forza per impedire che neppure vagamente un orecchio umano potesse captare quel tetragramma sacro pronunciato. Che significato ha, allora, quel termine Jahweh con cui noi cristiani abbiamo letto le quattro consonanti sacre? 

Leggiamo un brano dell'Esodo: "Mosè disse a Dio: "Gli Israeliti mi chiederanno: Come si chiama il Dio che ti manda e io che cosa risponderò loro?”. Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono! Dirai agli Israeliti: Io Sono mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione. (cf 3, 13-15). In tutto il mondo semitico il nome di una realtà è la realtà stessa, è la sua presenza e la sua energia. La conoscenza del nome di una persona comporta una specie di potere sull'essere di cui si conosce così l'essenza. Nelle religioni magiche conquistare il nome della divinità significava avere la possibilità di manipolare e di nominare a proprio vantaggio la potenza di Dio riducendolo così a un frammento in balìa dell'uomo. L'interpretazione di questo brano dell'Esodo si rivela, allora, estremamente rischiosa.

Un nome pieno di significato

Dio, però, si rivela innanzitutto non in un sostantivo, ma in un verbo, cioè in una forma dinamica e non statica e inerte come avveniva per l'idolo. Ora, la frase "Io sono colui che sono", legata al verbo "essere", può essere interpretata come una definizione di Dio. Le spiegazioni offerte sono state molteplici: la filosofia cristiana vi ha intuito l'Essere perfettissimo di Dio; altri vi hanno visto una polemica contro gli idoli, essendo Dio "colui che veramente è, mentre gli dèi sono nulla" (cf 1 Cor 10, 19); altri ancora hanno pensato a "colui che è sempre lo stesso", cioè il fedele per eccellenza alle promesse fatte a Israele; certe versioni protestanti, traducendo "eterno", suggeriscono la resa "Colui che sempre è". 

Ma da quanto abbiamo detto a proposito della mentalità semitica dovremmo piuttosto optare per una risposta negativa da parte di Dio. Il vero Dio si rifiuta di svelare l'inconoscibile sua essenza. Come nella lotta notturna con Giacobbe (Gen 31, 30: "Giacobbe gli chiese: "Dimmi il tuo nome!Ó Gli rispose: "Perché mi chiedi il nome?"). Jahweh è, perciò, un termine abbreviato che allude al grande incontro con Mosè al Sinai, all'inizio della liberazione. Il nome di Dio, e quindi la sua realtà personale, non può essere manovrato dall'uomo nell'ambito dell'orizzonte terrestre secondo fini e interessi umani.

 Tuttavia il nome di Jahweh non resta un vuoto appellativo: esso viene riempito di significato perché rievoca l'intervento di Dio nella storia di Israele in un momento cruciale. Come scrive un esegeta, J. Plastaras, "a Mosè che domanda: "qual è il tuo nome?" Dio risponde, ma la sua risposta asserisce che l'uomo non può impadronirsi di Jahweh o avere un controllo su di lui. Dio sarà presente a Israele con la sua forza salvifica, non perché Israele avrà conosciuto il suo nome segreto con le tecniche atte ad asservirlo, ma soltanto perché nella sua misericordia Jahweh avrà voluto rivelare la sua presenza a Israele". Con la rivelazione di un nome che non è un nome in senso stretto si esalta, perciò, da un lato, la vicinanza, l'intimità, l'amore di un Dio personale che non è simile a un gorgo oscuro e tempestoso, come lo sarà il Fato dei Greci. D'altro lato, però, Dio rimane misterioso e trascendente. 

Significativa è un'altra scena che ha ancora per protagonista Mosè nella stessa cornice del Sinai e che è narrata dal medesimo libro dell'Esodo: "Mosè disse al Signore: "Mostrami la tua Gloria!" [É] Il Signore rispose: "Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restar vivo. Tu starai sopra una rupe; quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere" (cf 33, 18-23). La patetica domanda di Mosè resta in pratica senza risposta: l'uomo non potrà mai penetrare completamente la Gloria, cioè il mistero di quel Dio con cui pure ha parlato, ha rischiato e vissuto. L'uomo Mosè coglie solo un riflesso, un barbaglio dell'essenza divina («le spalle»).

Un Dio che si rivela

Ma dalla pagina dell'Esodo dedicata al nome Jahweh (cap. 3) possiamo dedurre una riflessione di ordine generale e forse un po' difficile. Sappiamo già che la Bibbia non è una raccolta di tesi teologiche ineccepibili e astratte. é, invece, la storia di un lento e progressivo svelarsi di Dio, passando attraverso momenti intermedi di oscurità e fasi di illuminazione-rivelazione.

 Pensiamo, a esempio, alle pagine violente che costellano le Scritture e che riflettono la vicenda umana spesso tormentata e striata dal sangue, dall'odio e dalla guerra. Anche per la rivelazione della realtà di Dio si assiste a una specie di lunga lezione che è offerta a Israele proprio dal Signore, passo per passo, transitando attraverso forme primitive di religiosità. Per giungere a una visione pura di Dio, Israele ha percorso un lungo itinerario in cui Dio stesso è stato Padre e Maestro.

 Dal politeismo mesopotamico i patriarchi sono stati condotti a percepire un Dio collegato strettamente alle loro vicende e ai loro santuari ("Dio dei nostri Padri", "Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe", "Dio di Betel" ecc.); era quello che tecnicamente viene definito enoteismo. In questa forma d religiosità si prescinde da eventuali divinità esteriori e straniere per centrare la propria fede in un Dio vicino all'esperienza immediata, quella vissuta da Israele col proprio Dio. Gli altri dèi, perciò, non sono esclusi ma ignorati. Al Sinai emergerà una più limpida scelta monoteistica («Non avrai altri dèi fuori di me»). Ma è al roveto ardente nel deserto di Madian che si apre lo Jahvismo, cioè la scoperta di un Dio personale in dialogo con l'uomo. Un Dio-persona e non più un essere misterioso, un Dio col quale dialogare, un Dio da amare. Una nota finale. 

La rivelazione esodica di Dio come "Io sono colui che sono" scheggia anche nei Vangeli con un ulteriore segno di avvicinamento all'umanità, anzi con la celebrazione di un vero e proprio abbraccio tra la divinità e l'umanità. Infatti, Giovanni nel suo Vangelo usa la stessa formula esodica «Io sono» per descrivere l'incarnazione della Gloria divina nel Cristo. In Gesù si attua in forma “carnea” la rivelazione piena e finale del divino. Giunta l’“Ora”, cioè l'evento salvifico della morte e della glorificazione, a quanti sono venuti per arrestarlo Gesù domanda:« “Chi cercate?”. Gli risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Io sono!” Appena disse “Io sono”, indietreggiarono e caddero a terra». (cf Gv 18, 4.6).


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