G.nni Cantoni - Alleanza cattolica
[Dal quinto capitolo. N.B.: i riferimenti bibliografici incompleti si riferiscono a testi citati nei capitoli precedenti]
V
"Il Corano teorizza chiaramente il valore della deterrenza" e il "terrorismo islamico"Prima di venire a conclusione — o, più semplicemente e seriamente, a chiusura —, tocco un ultimo punto, che non è difficile collegare al cosiddetto "terrorismo islamico", un termine il cui uso riesce faticoso per chi la religione — non solo la propria religione, ma il fatto religioso in quanto tale — situa senza incertezze e nella totalità delle sue espressioni nel regno della positività e della moralità. Quindi leggo la sura VIII, "Al-’Anfâl" (Il Bottino), del Corano, versetti 55-60: "Di fronte ad Allah non ci sono bestie peggiori di coloro che sono miscredenti e che non crederanno mai;
"coloro con i quali stipulasti un patto e che continuamente lo violano e non sono timorati [di Allah].
"Se quindi li incontri in guerra, sbaragliali facendone un esempio per quelli che li seguono, affinché riflettano.
"E se veramente temi il tradimento da parte di un popolo, denunciane l’alleanza in tutta lealtà, ché veramente Allah non ama i traditori.
"E non credano di vincere, i miscredenti. Non potranno ridurCi all’impotenza.
"Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere] e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce. Tutto quello che spenderete per la causa di Allah vi sarà restituito e non sarete danneggiati".
Come nel caso di altri testi citati, la lettera coranica suona difficile da sopportare per la sensibilità occidentale e cristiana, culturalmente propensa a una lettura mediata, a un’interpretazione non solo letterale, ma anche allegorica o morale oppure anagogica. Ma il tempo trascorso nell’attesa o nella ricerca di tale lettura viene subito dichiarato scaduto, quando il commento autorizzato recita inequivocabilmente: ""Preparate... per terrorizzare...": il Corano teorizza chiaramente il valore della deterrenza" (1).
La problematica che emerge urta frontalmente la concezione della religione corrente in Occidente, concezione che ne fa di suo una "realtà buona", associata a idee di benevolenza, a servizi resi alla società e a opere buone. Per certo questa concezione "buonista" della religione, giunta a costituire motore di una sorta di meccanismo psicologico, trova il suo fondamento nei benefici elargiti erga omnes dal cristianesimo nel corso di duemila anni, merito riconosciuto, generalmente e genericamente, anche dai suoi oppositori e che ha trovato espressione nella formula secondo cui "[...] non possiamo non dirci "cristiani"" (2), ma che concorre, per dire il meno, con una concezione funzionale del fatto religioso stesso, che non esclude l’approccio morale a tale fatto, ma non lo ritiene costitutivo di esso, bensì da esso conseguente.
Così, affrontando un tema sociologicamente minoritario, quello dei tugh — insieme movimento religioso e organizzazione criminale, attiva in India dal Medioevo al secolo XIX —, e in una prospettiva settoriale, quella del dibattito in tema di "sette", il sociologo delle religioni Massimo Introvigne nota: "Il dibattito è oggi vivace in materia di "sette", e alcuni introducono l’aggettivo "pseudo-religiose" per designare le "sette" che violano sistematicamente norme del comune diritto penale. L’aggettivo sembra mal scelto, e favorisce un certo relativismo per cui — una volta squalificate come pseudo-religioni le esperienze moralmente inaccettabili — tutte le esperienze che rimangono nel campo del religioso sembrano di uguale valore, o ugualmente "buone". In realtà — come la storia dei thug ricorda — la vera distinzione non è quella, troppo facile, fra "religioni", tutte buone, e "pseudo-religioni", tutte cattive; ma fra esperienze religiose autentiche e non autentiche, legittime e non legittime, conformi e non conformi all’ordine morale naturale. Nei lacci dei thug — che pongono sulla religione un quesito estremo, che sfugge a ogni forma di riduzionismo — s’impiglia così, ancora oggi, il relativismo culturale che vorrebbe eliminare dalla storia delle religioni ogni forma di giudizio di valore e di quesito etico" (3).
Una prospettiva analoga sostanzia, in genere, una riflessione esposta dal card. Joseph Ratzinger a proposito de "La diversità delle religioni e i loro pericoli", allo scopo di denunciare la pericolosità del relativismo nella versione secondo cui tutte le religioni sono diverse e tuttavia uguali (4). Il prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede afferma: "Esistono [...] forme religiose degenerate e corrotte, che non edificano l’uomo, ma lo alienano. E anche religioni cui va riconosciuta una dimensione morale e una giusta collocazione sulla via della verità possono corrompersi [...]. Questo vuol dire che la religione richiede una distinzione, distinzione fra forme religiose e distinzione in seno alla religione stessa" (5).