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CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro dell’ESODO

Ultimo Aggiornamento: 21/04/2011 19:50
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21/04/2011 19:47
 
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CAPITOLO 15
Capitolo 15
Questo capitolo si apre col magnifico canto di trionfo di Israele, in riva al Mar Rosso, quando vide «la gran potenza che l’Eterno aveva spiegata contro gli Egiziani». Gli Israeliti avevano visto la liberazione dell’Eterno; per questo cantano la sua lode e raccontano le sue potenti opere. «Allora Mosè e i figliuoli di Israele cantarono questo cantico all’Eterno» (v. 1). Fino ad ora non abbiamo udito nessun canto di lode, neppure una nota. Abbiamo udito il grido di profonda angoscia del popolo, oppresso dal pesante lavoro delle fornaci di mattoni in Egitto; abbiamo udito il grido della incredulità quando, come popolo salvato, tutta l’assemblea riscattata si vede circondata dalle prove della liberazione di Dio, prorompe in canto di trionfo. Soltanto quando gli Israeliti uscirono dal loro battesimo «nella nuvola e nel mare» e poterono contemplare sulle rive gli Egiziani morti (cap. 14:30), seicentomila voci cantarono il canto della vittoria. Le acque del Mar Rosso scorrevano tra loro e l’Egitto, ed essi erano, sulla riva, un popolo liberato: per questo potevano celebrare l’Eterno.

In questo, come in ogni caso, erano figure per noi. Anche noi dobbiamo sapere d’essere salvati, nella potenza della morte e della risurrezione, prima di poter offrire a Dio un culto puro e intelligente. Se no, ci sarà sempre, nell’anima, riserva ed esitazione, provenienti, certamente, da incapacità ad afferrare il valore della redenzione compiuta che è in Cristo Gesù. Può darsi che si riconosca che la salvezza è in Cristo, e in nessun altro; ma è ben altra cosa afferrare per fede il vero carattere e il fondamento della salvezza e realizzarla come nostra. Lo Spirito di Dio rivela nella Scrittura, con una perfetta chiarezza, che la Chiesa è unita a Cristo nella morte e nella risurrezione; e, inoltre, che la misura e la garanzia dell’accettazione della Chiesa è in Cristo risuscitato alla destra di Dio. Quando si crede questo, l’anima è trasportata oltre i confini del dubbio e dell’incertezza. Come può un cristiano dubitare quando sa che un avvocato, cioè «Cristo il giusto», lo rappresenta continuamente davanti al trono di Dio? (1 Giovanni 2:1). Il più debole dei membri della Chiesa di Dio ha il privilegio di sapere che è stato rappresentato da Cristo sulla croce e che tutti i suoi peccati sono stati confessati, portati, giudicati, espiati su quella croce. È una realtà divina che, afferrata per fede, dà la pace: per darla ci vuole niente meno che questa realtà. Si potranno osservare piamente e devotamente tutti gli ordinamenti, i doveri, le formalità della religione; ma il solo mezzo di liberare interamente la coscienza dal sentimento del peccato, è vedere il peccato giudicato nella persona di Cristo, elevato come sacrificio per il peccato, sul legno maledetto (Confr. Ebrei 9:26; 10:1-18). Se il peccato è stato giudicato là «una volta per sempre», il credente può considerare l’argomento del peccato divinamente chiuso, eternamente regolato. E ciò che dimostra che il peccato è stato così giudicato è la risurrezione del nostro Garante. «Io ho riconosciuto che tutto quello che Dio fa è per sempre; niente v’è da aggiungervi, niente da togliervi; e che Dio fa così perché gli uomini lo temano» (Ecclesiaste 3:14).

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Tuttavia, sebbene questo venga generalmente accettato come vero, molte persone stentano a farne l’applicazione per loro stessi; sono pronte a dire come il salmista: «Certo, Iddio è buono verso Israele, verso quelli che sono puri di cuore. Ma, quanto a me...!» (Salmo 73:1). Molti guardano a loro stessi invece che a Cristo, nella morte e nella risurrezione. Sono occupati più di come applicare Cristo a loro stessi che di Cristo stesso. Pensano alla loro capacità più che ai privilegi che hanno, e così sono ritenuti in un deplorevole stato di incertezza e non possono, di conseguenza, occupare il posto di adoratori felici e intelligenti. Pregano per domandare la salvezza, invece di godere del possesso cosciente della salvezza. Guardano alle loro opere imperfette, invece di considerare la perfetta espiazione di Cristo.

Ora, meditando le diverse note di questo cantico, non ne troviamo una che concerna l’io, le proprie azioni, le parole, i propri sentimenti o i frutti della propria attività; tutto parla dell’Eterno, dal principio alla fine. Mosè incomincia così: «Io canterò all’Eterno, perché si è sommamente esaltato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere». Queste parole sono un saggio di tutto il cantico. Da un capo all’altro parla degli attributi e delle opere dell’Eterno. Al cap. 14 il cuore del popolo era angustiato dal peso eccessivo delle circostanze; ma al cap. 15 il fardello è tolto e il cuore del popolo si abbandona liberamente a un dolce canto di lode.

L’io è dimenticato; le circostanze sono perse di vista. Si vede un oggetto solo: il Signore stesso nel suo carattere e nelle sue vie, Israele poteva dire: «O Eterno, tu m’hai sollevato col tuo operare; io celebro con giubilo le opere delle tue mani» (Salmo 92:4). Ecco il vero culto. Quando perdiamo di vista il nostro misero io con tutto ciò che vi si riferisce, e Cristo solo riempie i nostri cuori, possiamo offrire a Dio il culto che si conviene.

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Gli sforzi d’un pietismo carnale non sono necessari per risvegliare nell’animo sentimenti di devozione; non c’è per nulla bisogno di pretesi soccorsi d’una religione, così chiamata, per accendere nell’anima la fiamma d’un culto gradito a Dio. Sia il cuore occupato soltanto della persona di Cristo; e canti di lode s’innalzeranno naturalmente. È impossibile, quando gli sguardi sono fissi su Lui, che lo spirito non s’inchini in santa adorazione. Se contempliamo il culto delle miriadi che circondano il trono di Dio e dell’Agnello, vedremo che esso è sempre prodotto da qualche tratto speciale della perfezione divina o delle sue vie. Dovrebbe essere così della Chiesa sulla terra; e quando così non è, è perché ci siamo lasciati invaghire dalle cose che non hanno alcun posto nelle regioni della pura luce e della perfetta felicità. In ogni vero culto Dio ne è l’oggetto, il soggetto e la potenza.

Così il capitolo che ci occupa è un bell’esempio di cantico di lode. È un linguaggio di un popolo riscattato che celebra la lode di Colui che l’ha riscattato. «L’Eterno è la mia forza e l’oggetto del mio cantico; egli è stato la mia salvezza. Questo è il mio Dio, io lo glorificherò; è l’Iddio di mio padre, io lo esalterò. L’Eterno è un guerriero, il suo nome è l’Eterno — La tua destra, o Eterno, è mirabile per la sua forza, la tua destra o Eterno schiaccia i nemici — Chi è pari a te fra gli dei, o Eterno? Chi è pari a te, mirabile nella tua santità, tremendo anche a chi ti loda, operator di prodigi? — Tu hai condotto con la tua benignità il popolo che hai riscattato; l’hai guidato con la tua forza verso la tua santa dimora. — L’Eterno regnerà per sempre, in perpetuo» (vv. 2 e 3, 6, 11, 13, 18).

Che sfera estesa abbraccia questo cantico! Esso incomincia con la redenzione e finisce con la gloria. Incomincia con la croce e finisce col regno. Rassomiglia ad un arcobaleno che ha un’estremità immersa nelle sofferenze, e l’altra nelle glorie che dovevano seguire (1 Pietro 1:11).

Tutto concerne l’Eterno. È un’effusione dell’anima, prodotta da una contemplazione dell’Iddio di misericordia e di gloria e delle sue opere meravigliose. Il cantico fa pure menzione del compimento presente del disegno di Dio: «Tu l’hai condotto con la tua forza verso la tua santa dimora» (vers. 13). I figliuoli d’Israele potevano parlare così, benché avessero soltanto messo il piede sul confine del deserto. Il loro cantico non era l’espressione di una vaga esperienza. No; quando l’anima è occupata di Dio può abbandonarsi nella pienezza della sua grazia, riscaldarsi alla luce della sua faccia e rallegrarsi nelle abbondanti ricchezze della sua misericordia e della sua bontà.

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La prospettiva che le si apre davanti è priva d’ogni nube; ponendosi sulla rocca eterna dove l’amore di un Iddio Salvatore l’ha messa, unita a un Cristo risuscitato, essa percorre l’immenso spazio dei disegni di Dio e ferma lo sguardo sul supremo splendore di questa gloria che Dio ha preparato per tutti quelli che hanno lavato e imbiancato le loro vesti nel sangue dell’Agnello.

Questo spiega il carattere così pieno, brillante, elevato, dei canti di lode che incontriamo nella Santa Scrittura. La creatura è messa da parte; Dio è l’unico oggetto e riempie da solo tutta la sfera della visione dell’anima. Non c’è niente dell’uomo, dei suoi sentimenti o delle sue esperienze; per questo la lode può echeggiare incessantemente. Come sono diversi questi cantici da quelli che così spesso udiamo nelle assemblee cristiane, così pieni delle espressioni delle nostre mancanze, delle nostre debolezze, della nostra insufficienza! È chiaro che non possiamo mai cantare con forza e intelligenza spirituale, finché guardiamo a noi stessi. Scopriremo in noi sempre qualcosa che ostacolerà il nostro culto. Molti sembrano credere che uno stato continuo di dubbio e di titubanza sia una grazia cristiana; di conseguenza i loro inni portano l’impronta del loro stato spirituale. Queste persone, per quanto pie e sincere, non hanno ancora compreso il vero terreno del culto, nell’esperienza reale dell’anima loro. Non l’hanno ancora fatta finita con loro stessi: non hanno ancora attraversato il mare per prendere posto sulla riva come popolo battezzato con un battesimo spirituale, nella potenza della risurrezione; sono ancora, in un modo o nell’altro, occupati di loro stessi; non considerano l’io come crocifisso, una cosa con cui Dio non ha più nulla a che fare, per sempre.

Possa lo Spirito Santo dare a tutti i figliuoli di Dio un’intelligenza più completa e più degna della loro posizione e dei loro privilegi, facendo loro capire che, lavati dai peccati nel sangue di Cristo, sono davanti a Dio nel favore infinito e perfetto nel quale Cristo stesso si trova, come capo risuscitato e glorificato della sua Chiesa.

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I dubbi e i timori non si addicono ai figliuoli di Dio in quanto il loro divino garante non ha lasciato neppure l’ombra di fondamento a dubbi e timori. Il loro posto è dentro la cortina. Essi hanno «libertà di entrare nel santuario in virtù del sangue di Gesù» (Ebrei 10:19). Vi è forse, nel santuario, qualche dubbio o qualche paura? Non è forse chiaro che colui che dubita mette in forse la perfezione dell’opera di Cristo, quest’opera alla quale Dio ha reso testimonianza di fronte a ogni intelligenza creata, per mezzo della risurrezione di Cristo dai morti? Cristo non avrebbe potuto lasciare la tomba prima di togliere ogni motivo di dubbio o di timore per il suo popolo. È dunque il dolce privilegio del cristiano di rallegrarsi sempre in una perfetta salvezza. Essendo Dio stesso diventato «la sua salvezza», non ha altro da fare che godere dei frutti dell’opera che Dio ha compiuto per lui e vivere per la sua gloria, aspettando il tempo in cui «l’Eterno regnerà per sempre, in perpetuo» (v. 18).

Ma c’è nel cantico di Mosè e dei figliuoli di Israele un passo sul quale vorrei attirare l’attenzione dei miei lettori. «Questo è il mio Dio, io gli preparerò una dimora» (*). È bello notare che, quando il cuore trabocca della gioia della redenzione, esprime il desiderio di costruire una «casa» per Dio. Lettore cristiano, meditate bene questo. Il pensiero che Dio abiti con l’uomo si trova dovunque nella Scrittura, dal cap. 15 dell’Esodo all’Apocalisse. Udite il linguaggio di un cuore devoto: «Certo, non entrerò nella tenda della mia casa, né salirò sul letto ove mi corico, non darò sonno ai miei occhi, né riposo alle mie palpebre, finché abbia trovato un luogo per l’Eterno, una dimora per il Potente di Giacobbe» (Salmo 132:3-5). E ancora: «Lo zelo della tua casa mi ha roso» (Salmo 69:9; Giovanni 2:17).

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(*) La versione Riveduta non rende il significato del testo con esattezza e traduce «io lo glorificherò».
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21/04/2011 19:49
 
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Non intendo proseguire questo argomento, ma vorrei poter interessare il cuore del lettore perché lui stesso lo approfondisca, con preghiera, dalla prima menzione che ne è fatta nella Scrittura fino a questa beata e consolante dichiarazione: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini; ed egli abiterà con loro, ed essi saranno suo popolo, e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio; e asciugherà ogni lagrima dagli occhi loro» (Apocalisse 21:3-4).

«Poi Mosè fece partire gli Israeliti dal mar Rosso, ed essi si diressero verso il deserto di Shur; camminarono tre giorni nel deserto e non trovarono acqua» (v. 22). Quando entriamo nella vita pratica del deserto, siamo messi alla prova, perché si veda fino a che punto conosciamo Dio e il nostro cuore. Il principio della carriera cristiana è accompagnato da una freschezza e da un’esuberanza di gioia che è moderata subito dal vento secco del deserto; allora, a meno che il sentimento profondo di ciò che Dio è per noi non domini ogni altro pensiero, siamo propensi a lasciarci abbattere e a rivolgere i nostri cuori all’Egitto (Atti 7:39). La disciplina del deserto è necessaria, non per acquistarci un posto in Canaan, ma per insegnarci a conoscere Dio e il nostro cuore, metterci in condizioni di afferrare la potenza delle nostre relazioni con Dio e renderci più capaci di godere di Canaan, una volta che vi saremo realmente entrati (vedere Deuteronomio 8:2-5).

La fresca e lussureggiante vegetazione di primavera, con la sua classica, incantevole bellezza, scompare presto di fronte all’ardore del caldo estivo; ma questo calore che distrugge la giovane e fresca veste primaverile, produce con la sua benefica azione i dolci e maturi frutti dell’autunno. Nella vita cristiana è lo stesso; poiché, come si sa, c’è una sorprendente e istruttiva analogia tra i principi del regno della natura e quelli del regno della grazia, essendo ambedue opera del medesimo Dio.

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21/04/2011 19:49
 
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Possiamo contemplare gli Israeliti in tre posizioni differenti: in Egitto, nel deserto e nel paese di Canaan. In ognuna di esse, vi sono figure allegoriche di noi; ma noi ci troviamo in tutte tre, contemporaneamente. Può sembrare paradossale ma è la verità. In effetti noi siamo in Egitto, circondati dalle cose della natura che si adattano perfettamente al cuore naturale; ma poiché, per grazia, Dio ci ha chiamati alla comunione del suo Figliuolo e ad essere in accordo con gli affetti e i sentimenti della nuova natura che abbiamo ricevuto da lui, abbiamo necessariamente il nostro posto al di fuori di tutto ciò che appartiene all’Egitto (*), al mondo nel suo stato naturale; ed ecco che sperimentiamo il deserto; ovvero, in altre parole, siamo posti sperimentalmente nel deserto. La natura divina brama con ardore un altro ordine di cose, un’atmosfera più pura di quella che ci avvolge e ci fa così sentire che l’Egitto è, moralmente, un deserto.

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(*) Tra l’Egitto e Babilonia c’è un’immensa differenza morale che è bene comprendere l’Egitto è il luogo da cui Israele è uscito; Babilonia il luogo dove fu deportato, più tardi (confr. Amos 5:25-27 e Atti 7:42-43). L’Egitto è l’espressione di ciò che l’uomo ha fatto del mondo; Babilonia è l’espressione di ciò che Satana ha fatto, fa e farà della Chiesa professante. Così noi siamo circondati dalle circostanze d’Egitto ma anche dai princìpi morali di Babilonia.
Questo rende i nostri tempi dei «tempi difficili», come li chiama lo Spirito Santo in 2 Timoteo 3:1. Ci vuole una speciale energia dello Spirito di Dio e una completa sottomissione all’autorità della Scrittura per far fronte alla potenza delle realtà d’Egitto da un lato e dello spirito e dei princìpi di Babilonia dall’altro. I primi rispondono a desideri naturali del cuore mentre gli altri si rivolgono alla religiosità naturale, avendo così una gran presa sui cuori. L’uomo è un essere religioso e particolarmente sensibile all’influenza della musica, della pittura, della scultura e della pompa dei riti e delle cerimonie religiose. Quando queste cose fanno alleanza, nel mondo, con tutto ciò che può soddisfare i bisogni naturali dell’uomo o, più ancora, con tutti gli agi e la sontuosità della vita, soltanto la Parola di Dio con la sua potenza e lo Spirito di Dio possono preservare il credente mantenendolo fedele al Signore.
Fra il destino futuro dell’Egitto e di Babilonia c’è pure una grandissima differenza. Il cap. 19 di Isaia ci parla della benedizioni future d’Egitto e finisce così: «Così l’Eterno colpirà gli Egiziani; li colpirà e li guarirà; ed essi si convertiranno all’Eterno che s’arrenderà alle loro supplicazioni e li guarirà. In quel giorno vi sarà una strada dall’Egitto in Assiria; gli Assiri andranno in Egitto e gli Egiziani in Assiria, e gli Egiziani serviranno l’Eterno con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà terzo con l’Egitto e con l’Assiria e tutti e tre saranno una benedizione in mezzo alla terra. L’Eterno degli eserciti li benedirà dicendo: Benedetti siano l’Egitto mio popolo, l’Assiria opera delle mie mani e Israele mia eredità» (vers. 22-25).
La fine della storia di Babilonia è molto differente sia che la si consideri alla lettera, come una città, sia che le si attribuisca un significato spirituale. «Ne farò il dominio del porcospino, un luogo di paludi, la spazzerò con la scopa della distruzione, dice l’Eterno degli eserciti» (Isaia 14:23). «Essa non sarà mai più abitata, d’età in età nessuno vi si stabilirà più; l’Arabo non vi pianterà più la sua tenda, né i pastori vi faran più riposare i loro greggi» (Isaia 13:20). Ecco ciò che concerne la Babilonia letterale. Considerata da un punto di vista mistico ne troviamo la descrizione al cap. 18 dell’Apocalisse. La fine di questa Babilonia è annunciata con queste parole: «Poi un potente Angelo sollevò una pietra grossa come una gran macina e la gettò nel mare, dicendo: Così sarà con impeto gettata via Babilonia, la gran città, e non sarà più ritrovata» (v. 21).
Con quale solennità queste parole dovrebbero colpire quelli che, in un modo o nell’altro, sono uniti a Babilonia, la falsa chiesa professante! «Uscite da essa, o popolo mio, affinché non siate partecipi dei suoi peccati e non abbiate parte alle sue piaghe!» (Apocalisse 18:4). La potenza dello Spirito Santo deve, per forza, produrre una «forma» particolare, ma lo scopo del Nemico è sempre stato quello di spogliare la chiesa professante della potenza, spingendola a ritenere solo la forma, a stereotiparla, mentre lo spirito e la vita sono scomparsi. È così ch’egli costruisce la Babilonia spirituale. Le pietre che la compongono sono professanti privi di vita e il cemento che li unisce è una «forma di pietà senza potenza».
Mio caro lettore, studiamoci di comprendere queste cose pienamente, chiaramente, efficacemente!
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21/04/2011 19:50
 
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Tuttavia, essendo davanti a Dio eternamente associati a Colui che è entrato trionfalmente nei luoghi celesti e si è posto alla destra della Maestà, è nostro beato privilegio sapere che, per fede, siamo seduti con Lui (Efesini 2:6). Dunque, benché coi corpi siamo in Egitto, tuttavia, quanto alla nostra esperienza, ci troviamo nel deserto; ma nello stesso tempo la fede ci fa entrare in ispirito in Canaan e ci rende capaci di nutrirci del vecchio «grano del paese», cioè di Cristo; non soltanto, infatti, Cristo è sceso in terra, ma è risalito in cielo e siede là nella gloria. (Confr. 1 Timoteo 3:16).

Gli ultimi versetti del cap. 15 ci fanno vedere Israele nel deserto. Fin qui, tutto poteva sembrare facile. Giudizi terribili erano piombati sull’Egitto mentre Israele era stato risparmiato, l’esercito egizio era morto sulla riva e Israele trionfava. Tutto andava benissimo; ma ahimè! le cose cambiano ben presto aspetto; i canti di lode fecero posto a parole di lamento. «E quando giunsero a Mara, non potevano bere l’acqua di Mara, perché era amara; perciò quel luogo fu chiamato Mara. E il popolo mormorò contro Mosè, dicendo: Che berremo?» (vers. 23-24). E ancora: «E tutta la raunanza dei figliuoli d’Israele mormorò contro Mosè e contro Aaronne nel deserto. I figliuoli d’Israele dissero loro: Oh, fossimo pur morti per mano dell’Eterno nel paese d’Egitto, quando sedevamo presso le pignatte della carne e mangiavamo del pane a sazietà! Poiché voi ci avete menati in questo deserto per far morire di fame tutta questa raunanza» (cap. 16:2-3).

Sono queste le prove del deserto: cosa mangeremo e cosa berremo? Le acque di Mara hanno messo alla prova il cuore del popolo manifestando il suo spirito mormoratore, ma l’Eterno gli ha fatto vedere che non c’era nessuna amarezza che, per le risorse della sua grazia, non potesse addolcirsi. «E l’Eterno gli mostrò un legno ch’egli gettò nelle acque e le acque divennero dolci; quivi l’Eterno dette al popolo una legge e una prescrizione e lo mise alla prova». Che bella immagine è questo legno di Colui che per infinita grazia fu gettato nelle acque amare della morte, affinché diventassero dolci per noi per sempre. Possiamo dire davvero: l’amarezza della morte è sparita, non rimangono «per noi» che le dolcezze eterne della risurrezione.

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21/04/2011 19:50
 
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Il vers. 26 ci parla di tutto ciò che v’è di veramente serio nel primo periodo della carriera dei riscattati dell’Eterno. In questo periodo, si corre il rischio di lasciarsi andare a sentimenti d’agitazione, di impazienza e di mormorio. Il solo mezzo di preservarsi da un tale spirito è d’avere gli occhi su Gesù, «riguardando a Gesù» (Ebrei 12:1). Benedetto sia il suo nome, Egli si manifesta sempre in modo appropriato ai bisogni del suo popolo: e i suoi, invece di lamentarsi nelle circostanze nelle quali si trovano, dovrebbero approfittare per rivolgergli sempre delle nuove preghiere.

Il deserto serve così a farci fare l’esperienza di chi è Dio. È una scuola in cui impariamo a conoscere la sua paziente grazia e le sue abbondanti risorse. «E per lo spazio di circa quarant’anni sopportò i loro modi nel deserto» (Atti 13:18). L’uomo spirituale riconoscerà sempre che vale la pena incontrare le acque amare che Dio addolcisce; «ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l’afflizione produce pazienza, e la pazienza esperienza, e l’esperienza speranza. Ora la speranza non rende confusi perché l’amor di Dio è stato sparso nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci è stato dato» (Romani 5:3-5).

Tuttavia il deserto ha i suoi «Elim», oltre i «Mara», le sue fontane e le sue palme così come le sue acque amare: «Poi giunsero ad Elim, dov’erano dodici sorgenti d’acqua e settanta palme; e si accamparono quivi presso le acque». Il Signore nella sua grazia e nella sua tenerezza prepara luoghi verdeggianti sul cammino del suo popolo che viaggia nel deserto; e sebbene si tratti solo di oasi, esse rinfrescano lo spirito e rianimano il cuore. Il soggiorno di Elim era adatto a calmare il cuore degli Israeliti e a far tacere i loro mormorii. L’ombra deliziosa delle sue palme e le fresche acque delle sue fonti venivano a proposito dopo la prova di Mara, e ci presentano, in figura, le virtù eccellenti del ministero spirituale di cui Dio provvede il suo popolo quaggiù. Dodici e settanta sono numeri che hanno intimo rapporto col ministero (Luca 10:1 e 17; 6:13).

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21/04/2011 19:50
 
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Ma Elim non era Canaan. Le fonti e le palme di Elim erano soltanto degli anticipi del paese beato, posto al di là dei limiti del deserto sterile, nel quale i riscattati erano entrati da poco. Israele poteva senza dubbio abbeverarsi e trovarsi un fresco riparo, ma le acque e l’ombra erano tuttavia quelle del deserto; erano solo per un momento, per rianimare e fortificare il popolo, in vista del cammino per Canaan. Lo stesso è del ministero nella chiesa: è una risorsa per i nostri bisogni che deve servire a dissetarci, a fortificarci e a incoraggiarci «finché tutti siamo arrivati all’altezza della statura perfetta di Cristo» (Efesini 4:13).

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