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ROMA PAPALE
Conclusione
Una descrizione completa di Roma papale, tal quale essa è, formerebbe un’ opera di molti volumi, e l’ indole del nostro secolo non soffre opere voluminose. Ci siam dovuti perciò restringere a dare degli abbozzi, ed a salti, come portava l’ indole del libro che abbiamo scritto. Il nostro scopo non è stato di parlar di Roma sotto il punto di vista politico, nè sotto l’ aspetto finanziario, o militare, o commerciale; ma solo abbiamo voluto dare un’ idea di Roma sotto il punto di vista ecclesiastico.

Roma fin dalla sua fondazione fu una città religiosa per eccellenza; il suo secondo re Numa Pompilio avea dei quotidiani segreti colloqui colle divinità pagane. Quando essa si costituì ad impero, il suo sovrano era il pontefice massimo. Dal dominio del pontefice massimo dei Gentili, ella passò al dominio del papa, che anche egli si fe’ chiamare pontefice massimo. Ma la Roma antica dei Gentili era la prima città dell’ universo, era la meraviglia del mondo, era l’ emporio di tutte le ricchezze mondiali, era popolatissima, era pontentissima; ma, passata sotto i pontefici cristiani, è divenuta un deserto, e delle antiche grandezze non ne ha che una memoria nella storia.

Il popolo romano senza aver domandato nè accettato il dominio dei papi, ma anzi essendoglisi ribellato, ed avendolo scacciato dalle sue mura tutte le volte che ne ha avuto il destro, pure ha dovuto e deve subirlo per la prepotente volontà dell’ Europa cattolica, che condanna il popolo romano a non avere nè patria, nè governo proprio.

Il despotismo papale è il più assoluto fra tutti i despotismi, e può star solo al pari del despotismo turco: i poteri legislativi, esecutivi e giudiciari, sono unificati, confusi, amalgamati nelle mani di un vecchio prete, il quale pretendesi santissimo, infallibile, Vice-Dio, in guisachè la sua bontà incontrollabile è la legge suprema pei sudditi del papa. Egli associa al governo temporale cardinali, prelati, vescovi, canonici, preti; i quali, facendo un impuro amalgama di religione, di politica, di amministrazione, con la stessa mano confermano col crisma i garzoncelli, e stabiliscono magistrati nei tribunali; ordinano suddiaconi, ed arresti; benedicono agonizzanti, e mandano al patibolo innocenti; spacciano indulgenze, ed istruiscono soldati alla guerra; assolvono dai peccati, e rubano nelle amministrazioni. Questi uomini, estranei sovente al paese, quasi sempre agli affari e sempre alla vita di famiglia, che è il perno della società, senza altre cognizioni che un poco di teologia, senza famiglia, per cui non curano l’ avvenire, è impossibile che possano essere buoni governanti, e che il popolo ad essi soggetto non sia il più infelice e il più mal governato di tutti i popoli della terra.

Le miserie di Roma, sotto qualunque punto di vista vogliansi considerare, esse non sono che una conseguenza legittima, anzi, direm meglio, l’ opera del governo dei papi. La campagna romana è la più fertile e la più atta all’ agricoltura di qualunque altro paese, ma la campagna romana è un deserto per il mal governo dei papi. La mal’ aria istessa è importazione dei papi. Essa proviene da terreni paludosi che con poco potrebbersi asciugare, proviene dai terreni incolti e feraci che producendo spontanei materie vegetali s’ infradiciano e s’ accatastano sulla superficie producendo quei miasmi.

Il famoso Tevere era altra volta navigato fino a Perugia, ed ora, per il malgoverno dei papi, è a mala pena navigabile fino a Roma, ed in Roma diviene la cloaca di tutta la città, in esso si gettano tutte le spazzature delle case e delle vie, e così è ammorbato, e così ogni anno la bella città è inondata. La campagna romana è così fertile, che senza ingrasso rende il quindici per uno di frumento; i campi incolti senza aiuto di opera umana si convertono da loro stessi in pascoli abbondantissimi. La canape, la vite, il gelso, allignano ovunque; i colli ed i monti sono lieti di oliveti; gli armenti stanziano nelle vaste pianure nell’ inverno senza stalle e senza ricovero, e su pei monti nella state vi prosperano meravigliosamente. Se un po’ di cultura ragionata si adoprasse attorno a quelle terre, esse sarebbero il paradiso terrestre d’ Europa, ma sono condannate invece a gemere sotto il malgoverno dei preti, ed a presentare al forestiero che si avvicina alla città eterna il triste spettacolo di un deserto maladetto.

Ma entriamo nella Roma dei papi, e diamo un colpo d’occhio a quel popolo che altra volta ha dato leggi all’ universo, e vediamolo a qual punto è ridotto dal malgoverno dei papi.

Le celebri iniziali S.P.Q.R., che erano l’insegna dell’ antica Roma, si leggono ancora oggi per derisione sul Campidoglio. L’ eguaglianza degli uomini è condannata come un’ eresia dai papi, sebbene sia sanzionata dal Vangelo. In Roma sono legalmente riconosciute tre classi di uomini, la nobiltà, il ceto medio, ed il popolo (per popolo s’ intende in Roma l’ infima plebe). I chierici appartengono ad una classe privilegiata che non è nessuna delle tre. Fra il nobile e l’ uomo di ceto medio vi è un abisso; un altro abisso si apre fra l’ uomo di ceto medio ed il plebeo: queste quattro classi di uomini formano delle caste nè più nè meno come nelle Indie, ed il popolo appartiene ai Paria. Le caste si suddividono fra di loro; per esempio, la nobiltà è divisa in principi romani, in nobiltà di secondo grado, in nobilta antica, e in nobiltà moderna.

Parliamo prima del popolo, ossia della plebe. La plebe romana ritiene ancora tutto il tipo della sua origine, gran cuore, grande generosità, robustezza di corpo, prontezza di spirito, coraggio e valore indomabile sono il carattere del popolano romano; ma queste belle qualità, sebbene non sieno state potute togliere dal malgoverno dei papi, pure essi han cercato di pervertirle. Il popolo è educato ad ignoranza. Quando il papa non ha potuto fare a meno di aprir delle scuole per il popolo, le ha affidate agli Ignorantelli, affinché insegnassero appena a leggere, ed educassero il popolo a quell’ educazione che essi sogliono dare. I parrochi si occupano di istruire i figli del popolo nel catechismo, e questo dicono bastare per la salvezza delle anime loro.

Il governo papale cerca di abbindolare quel popolo generoso per tenerlo lontano dal pensare a politica, e occupazione del governo è di provvedere al popolo, panem et circenses, non gli lascia mancare giuochi e divertimenti, e nelle occasioni, per mezzo dei parrochi e della commissione dei sussidi, di cui fra poco parleremo, gli fa distribuire anche pane.

Una passione, dalla quale egli trae guadagno, ha saputo il governo del papa ispirare al basso popolo, ed é la passione del giuoco dei lotti, che in nessun paese del mondo è più sviluppata che a Roma. I Cappuccini ed i Zoccolanti van per le case e portano numeri; degli uomini stipendiati dal governo, chiamati dal popolo maghi, fanno cabale e dàn numeri per il lotto. Devoti e devote insegnano al popolo novene, tridui e pratiche divote per avere un terno al lotto, e vedi quasi ogni notte processioni di ragazze scalze andar recitando litanie, altre andare al punto di mezzanotte a pregare sulla sepoltura degli appiccati; altri, e specialmente donne, le vedi ogni giorno salire colle ginocchia la lunga gradinata di Ara Coeli alta di centoventi scalini, per avere il loro terno. Di tutte queste cose i preti si fregano le mani; e non pretendono altro dal popolo se non che siano buoni cristiani a lor modo, vale a dire che s’ inchinino ai preti, che si confessino, eppoi la polizia chiude un occhio sui loro delitti, ma guai per essi se osassero pensare o parlare contro un abuso del governo papale. Il popolo romano è di tal pasta che si potrebbe fare di esso un popolo di eroi, ma il governo del papa, non avendo potuto annientarlo, lo ha avvilito.

Il ceto medio forma in ogni paese la forza dello Stato; al ceto medio è affidato il commercio, il sapere e le ricchezze; ma il governo papale non cerca altro che di opprimere e di avvilire quel ceto in Roma: tutti i pesi sono sopra di lui, senza che abbia parte ai vantaggi che quel ceto gode negli altri Stati; il commercio è inceppato e ridotto al nulla, talchè la borsa in Roma non è aperta che una volta la settimana.

La scienza stessa è usufruttuata dai prelati e dai cardinali alle spese del ceto medio. Un giovane prelato appena uscito di collegio occupa una suprema magistratura, o il governo di una provincia; egli è ignorante, ma comparisce dotto per le sentenze del suo uditore o segretario, firmate da lui, e stampate poscia a raccolta da lui, col suo nome, come se fosser cose proprie.

Il grado più elevato in Roma, dopo i chierici, è la nobiltà. La nobiltà romana è distinta in tre principali categorie; la prima è quella che pretende ad una stragrande antichità: il Muti, per esempio si dice discendente da Muzio Scevola: il Massimo inalbera la divisa di Fabio Massimo cunctando restituit, da cui si dice discendente. Il Santa Croce si dice discendente di Valerio Publicola, e così codeste bolle di sapone si gonfiano della loro aria, ed il governo li seconda acciò non pensino a politica.

La seconda categoria dei nobili è di origine pontificale, ed è chiamata dai Romani i miracoli di S. Pietro; sono i discendenti delle famiglie dei papi, i Borghesi, i Barberini, i Doria, i Chigi, i Corsini, i Rospigliosi, i Braschi ecc.

L’ ultima classe dei nobili comprende i più ricchi, ma i più moderni, come i Torlonia di origine merciajoli, i Ruspoli banchieri, gli Antonelli……, i Macchi mugnai, i Grazioli fornai, i Feraioli mercanti di tabacco.

La nobiltà romana cerca generalmente di tenersi affezionata la plebe con feste che dà ad essa nelle sue ville, ma essa è ignorante e superba. Da giovanetti ricevono l’ educazione dai Gesuiti, e vedete ogni giorno i figli dei nobili romani, guidati dai Gesuiti, passeggiare in lunga fila, due a due, in abito nero, cravatta bianca, calzoni neri stretti ed affibbiati al ginocchio, calze di seta nera e scarpini. Alcuni pochissimi che non ricevono l’ educazione di collegio non hanno altro maestro che un prete, al quale la mattina debbono servire la messa, e dal quale sono sempre accompagnati. Giunti all’ età maggiore, sono già scritti a molte congregazioni spirituali dirette dai Gesuiti, ed a questo modo è educata la popolazione romana, dalle paterne cure del governo pontificio.

Sopra a tale popolazione regna il papa come despota, nè le rivoluzioni, nè le rappresentanze delle potenze, nè le promesse fatte dai papi, hanno per nulla moderato nè modereranno giammai il suo dispotismo. La costituzione del 1848 fu data per timore e subito lacerata; il motuproprio di Gaeta, dato per pegno onde rientrare in Roma, è stato intieramente eluso e giammai eseguito; le alte magistrature sono sempre riserbate ai prelati; gli impieghi superiori negati sempre ai laici; il papa cassa quando vuole le sentenze dei tribunali: il segretario di Stato amministra tutto a suo piacere, ed oggi come nei più bei tempi del despotismo il papa è tutto. I moti del 1846 e 1847 mostrano quale sian l’ indole e i desideri del popolo romano: esso incoraggiava il papa a toglier gli abusi, a stabilire ordine di governo, a migliorar la finanza, a incoraggiare il commercio. Il popolo romano accoglierebbe a braccia aperte un despota, purché riformasse gli abusi: egli non cerca dominare il principe, ma cerca di esser governato, non derubato.

In Roma vi son tre papi: il papa bianco, che presta il nome; il papa rosso, ch’ è il segretario di Stato, che governa tutto lo Stato; il papa nero, che è il generale dei Gesuiti, che governa nelle cose ecclesiastiche e miste.

Il papa nero è sempre nascosto ed agisce misteriosamente; il papa rosso agisce alla scorperta come un dittatore di seconda mano, e si copre sempre col nome e colla irresponsabilità del papa bianco.

Ma, per conoscere meglio il disordine che deve necessariamente regnare nel governo pontificio, bisogna conoscere che il segretario di Stato è impossibile che giunga ad essere papa. Non vi erano uomini più qualificati per il papato che un Consalvi ed un Lambruschini; quest’ ultimo avea teso così bene le sue fila, avea la promessa di quasi tutti i cardinali, eppure non riuscì, perché è impossibile che i cardinali elettori acconsentano ad eleggere l’ uomo che è già abituato a comandarli. Di più il segretario di Stato non può sperare neppure di essere dal nuovo papa confermato nell’ impiego, ma deve aspettarsi un’ inevitabile caduta, dalla quale più non si rialzerà. Quindi, nel tempo del suo potere, egli cerca di arricchire con tutti i mezzi possibili sè stesso ed i suoi parenti, sapendo per cosa sicura che il giorno che il suo padrone morrà, egli sarà inevitabilmente caduto. Neppure lo rattiene dal malfare il timore di un rendiconto, imperciocchè, come cardinale, è inviolabile; e se il sacro collegio ammettesse una volta che un cardinale potesse essere chiamato al rendiconto, il sacro collegio sarebbe finito. Il vecchio cardinal Pacca, che era pure uomo liberale quanto può esserlo un cardinale, diceva che i cardinali non sarebbero più nulla se si fosse loro tolto di agire arbitrariamente. Su tali basi sono governati i Romani, ed è veramente un miracolo se si lasciano ancora loro gli occhi per piangere le loro miserie.

Chi è il cardinale Antonelli che da tanti anni governa Roma e guida per il naso Pio IX? Egli è un montanaro di Sonnino, paese quasi esclusivamente di briganti, molti dei suoi parenti avea veduti egli stesso appiccar per la gola come briganti, il suo padre non andava invero a mano armata nella campagna ad assalire i viandanti, ma restava in Sonnino per riscuotere le taglie imposte dai briganti suoi congiuuti, e specialmente dal famigerato Gasperone.

Il nostro Giacomo Antonelli vide ben tosto che la vita del brigante di campagna aveva i suoi pericoli, ne scelse una migliore che potesse essere, secondo lui, più lucrosa, meno faticosa, e senza pericoli: entrò nel seminario romano, ed a forza di strisciare e di adulare giunse ai primi gradi della prelatura, fino a che sotto Gregorio XVI giunse al posto di tesoriere allora chiamò attorno a sè i suoi fratelli, li arricchì delle rendite dello Stato, diede ad essi tutti gli appalti col guadagno del cinquanta per cento, ed in poco tempo egli ed i suoi fratelli ammassarono ricchezze immense. Si vuole che egli fosse l’ autore dei disordini del 16 novembre 1848, ordinando agli Svizzeri di trarre sul popolo disarmato, per aver così l’ occasione di condurre via da Roma il papa, e di menarlo a Gaeta. Fu in Gaeta che egli isolò Pio IX e si fece padrone assoluto del suo animo.

Il cardinale Antonelli ha attualmente cinquantanove anni, essendo nato nel 1806; egli però sembra più giovane; è di corpo snello e robusto, di quella robustezza dei montanari, ha sguardo vivo e penetrante, carnagione bruna, lunghi denti; due pesanti mandibole e le grosse labbra esprimono i più grossolani e più selvaggi appetiti; egli non ha che un popolo solo in Roma, come suol dirsi, cioè il popolo di coloro che lo detestano. Le sue avventure galanti non sono un mistero per alcuno, egli è sempre in timore di essere ucciso, e la polizia ha grandissime occupazioni per rassicurare i timori di S. Eminenza.

Se il papa si contentasse di essere capo della religione ed imponesse a tutti i Cattolici, per il suo mantenimento, la tenue imposta di un soldo all’ anno, su centocinquantamilioni di Cattolici, egli avrebbe una rendita annua di sette milioni e mezzo, più che sufficiente per un vescovo, e niente gravosa per i popoli; ma disgraziatamente egli vuol essere re, ed oltre a mungere il cattolicismo, col così detto obolo di S. Pietro, con le spese, di dispense, di bolle, di brevi, munge eziandio i poveri suoi sudditi, e li induce a miseria per le imposte e per il malgoverno.

Secondo tutti i buoni statisti, tre sono le sorgenti della pubblica ricchezza, agricoltura, industria e commercio. Ogni buon governante che pensa ai propri interessi cerca di alimentare queste fonti; ogni papa invece cerca di sfruttarle, e la ragione ne è evidente: egli non pensa ai suoi successori che non sono suoi figli nè sua famiglia, pensa ad arricchire, durante il corto suo regno, i suoi nepoti che non saran più nulla dopo la sua morte.

Quindi nel governo papale l’ industria è inceppata dai privilegi, perché il privilegio si paga ed entra nelle casse del pontefice; le più piccole industrie in Roma sono privilegiate, perfino le cestelle dei venditori di frutta sono fabbricate per privilegio.

Il commercio è inceppato per il monopolio di alcuni privilegiati, e specialmente degli Antonelli, è impedito per la mancanza di comunicazioni e per la sicurezza delle vie, è vietato per una malintesa malizia di dogana.

Nel 1847 si formò una società di commercianti in Roma per profittare della deserta campagne romana con piantagioni di barbebietole, onde estrarne lo zucchero. Si fecero i saggi, e quelle feraci campagni produceano barbebietole di enorme grandezza e di ottima qualità. Dopo estratto lo zucchero, si presentò al papa, si domandò il permesso per la piantagione obbligandosi la compagnia di fornire lo zucchero per il consumo dello Stato a baiocchi quattro per libbra, appunto la metà di quello che pagavasi il più cattivo zucchero che veniva dall’ estero. Cosa incredibile ma vera, il governo pontificio non accordò il permesso di quella piantagione, perché producendosi lo zucchero nello Stato non avrebbe più introitato le gabelle dello zucchero estero.

Ma se l’ industria e il commercio non sono incoraggiati, l’ agricoltura negli Stati pontifici è letteralmente oppressa; il povero agricoltore è costretto ad abbandonare il suo terreno, perché sebbene fertilissimo, non gli rende tanto da pagare le imposte. Il marchese Pepoli, nel suo libro del debito pubblico degli Stati romani, ha dimostrato che le proprietà rurali debbono pagare centosessanta lire d’ imposta, per ogni cento lire di rendita imponibile.

Quando l’ uva era attaccata dalla malattia, ogni governo cercava sollevare i proprietari sventurati; ma il governo papale invece aggravò l’ imposte sulle uve.

Il grano è una delle migliori raccolte dell’ agro romano; ebbene, il grano paga un’ imposta di due scudi e venti baiocchi per rubbio, che calcolato il rubbio al massimo prezzo di dieci scudi, porta un ventidue per cento d’ imposta, e questo oltre l’imposta fondiaria sul terreno.

Il bestiame è sottomesso a tasse enormi e vessatorie: i cavalli, per esempio, pagano il cinque per cento del loro valore ogni volta che sono venduti; un cavallo venduto venti volte, rende al governo tanto profitto quanto al padrone; eppure questa tassa non figura per nulla sul bilancio attivo, essa è un piccolo incerto che appartiene al cardinal datario.

Un’ altra piaga dell’ agricoltura sono le mani morte. I grandi terreni nei dintorni di Roma appartengono ai conventi. Ogni amministratore di convento non dura più di tre anni nella sua amministrazione, egli cerca d’ incassare quanto più può, e di spendere il meno possibile; in conseguenza i terreni non sono mai migliorati, ma sfruttati. Codesti grandi terreni si affittano, ma la legge proibisce di fittarli per più di tre anni, per cui il fittaiolo non può neppure nel suo interesse migliorare il terreno.

I sudditi del papa sono condannati ad essere poveri, acciò i preti sieno arricchiti. Ma i giornali clericali vanno esclamando che il piccolo Stato del papa è il più felice, perché i suoi sudditi pagano minori imposte. Vero ragionamento da preti! Io vorrei pagare piuttosto che una lira diecimila lire d’ imposta, perché sarebbe il segno che avrei di che pagarle: gli Inglesi pagano molte imposte e ne son contenti: ma il governo romano ha diseccate le fonti della ricchezza, industria, commercio, agricoltura, e poi si dà il bugiardo vanto che i suoi sudditi non pagano che in ragione di nove lire per ciascuno. Sebbene non sia punto vero che a tanto poco ascendano le imposte papali. Ma lasciamo tali cose a coloro che si occupano di economia politica, e volgiamo piuttosto un breve sguardo al ramo amministrativo e giudiciario. Le imposte sono messe a capriccio, e sono spese senza controllo. Pio IX per soddisfare alle esigenze d’ Europa dovè nel 1849 stabilire una consulta di Stato per le finanze. Ei la stabilì il 12 settembre 1849, ma la stabilì in un modo illusorio. I consiglieri non dovevano essere eletti dal popolo, ma da lui; il voto di essi non dovea essere che meramente consultivo, lasciando al papa la libertà di agire dispoticamente. Ciononostante questa larva di consulta finanziaria, istituita nel 1849, non cominciò a dar segni di vita che nel 1853. Gli uomini eletti a quella consulta, sebbene attaccatissimi al governo papale, pure domandarono di vedere i conti, ma i conti non gli furon mai dati; furono consultati sopra varie operazioni finanziarie, ed il governo ha operato sempre tutto al contrario del consiglio di quegli uomini.

Gli impieghi sono affidati per la maggior parte ai preti; ogni impiego che produce potenza o profitto, appartiene prima al papa, poi ai cardinali, finalmente ai prelati e preti; e quello che ad essi avanza è gettato ai laici come si gettano le ossa al cane.

L’ amministrazione della giustizia è quanto mai può dirsi pessima. I magistrati sono tutt’ altro che in dipendenti; l’ impegno di un cardinale, di una persona influente, di una bella donna sono mezzi sicurissimi per far vincere la lite la più disperata. I giudici non anelano che a promozione, i giudici inferiori sono pagati pochissimo, quindi han bisogno d’ incerti per vivere.

La procedura è talmente intrigata che le liti durano cinquanta, sessanta anni ed anche più; in una stessa causa si pronunciano perfino quindici o venti sentenze senza che essa sia giammai finita. Quando una causa è condotta innanzi al tribunale supremo della Rota romana, e che questa dà la sua decisione, si agita di nuovo la causa per sapere se quella sentenza è definitiva, ovvero se si ammette un’ altra volta a discussione innanzi lo stesso tribunale. Non mai avviene che il tribunale della Rota dopo la prima sua decisione dichiari la causa finita; perciò la stessa causa si riproduce tante volte dinanzi lo stesso tribunale.

Esiste un codice, ma anch’ esso illusorio. Pochi anni sono, esisteva ancora l’ uso che l’uditore del papa richiamava a sè qualunque causa già decisa e passata in cosa giudicata, per deciderla di nuovo egli solo. Tale enormità fece gridare l’ Europa civile, ed il papa fu costretto a togliere tale facoltà al suo uditore. Ma non perciò le cose migliorarono, che anzi divennero peggiori. Si adottò allora il sistema delle declaratorie. Ecco cos’ è questo sistema.

Quando una persona potente ha una lite nella quale ha torto marcio; quando non è riuscita a farsi dar ragione dai tribunali, allora per mezzo di Monsignor fiscale generale ricorre al papa domandando, che col suo oracolo santissimo dichiari se quell’ articolo del Codice che fa contro di lui sia da intendersi nel modo che i giudici lo hanno inteso. Monsignor fiscale fa fare al papa la declaratoria, dichiarando l’ articolo di legge male applicato, e con questo non solo annulla tutte le sentenze, ma dà ragione ai ricorrenti. Almeno in Turchia il pascià decide nella stessa maniera, ma più speditamente, senza depauperare i litiganti.

La giustizia criminale non è meglio amministrata: nelle nostre note abbiamo dato dei cenni sul modo di agire della polizia e della giustizia criminale di Roma, non vogliamo ripetere ciò che abbiamo già detto, solo riporteremo un fatto di cui fummo testimoni. Una giovane popolana bellissima uccise con due colpi di coltello un’ altra giovane. Il delitto era stato commesso in pieno giorno, in mezzo alla piazza Navona, per cui era evidente. Ma la giovane popolana avea la protezione del parroco, il quale la nascose in luogo immune, poi assicuratosi della protezione dei giudici fece fare il processo. Il giorno della discussione fe’ comparire la giovane in tribunale dopo averle ottenuto un salvacondotto. La giovane con la sua presenza e con le sue moine mandò in sollucchero i giovani prelati che la giudicarono, per cui ammisero tutte le cause attenuanti della difesa, e la condannarono solo ad un anno di prigionia. Ma il parroco suo protettore tanto seppe fare, che fe’ commutare quella prigionia in un anno di reclusione in un monastero di monache, e dopo tre mesi ottenne il condono del resto della pena, e la sua protetta fu restituita a libertà.

Il conte Alberti fu carcerato sotto imputazione di truffa e di falso: egli era innocente, ma i suoi accusatori erano potentissimi, per cui prima che fosse chiarita la sua innocenza dovè passare dieci anni in carcere.

Quando poi si tratta di cause politiche, i rigori sono immensi, e non vi è nessuna garanzia per la innocenza: molti volumi son pieni di tali storie così inique, così barbare da disgradarne la giustizia dei Turchi.

È delitto politico in Roma parlare con qualche critica degli atti del governo, per cui è invalso il proverbio fra i Romani, che di Dio deve parlarsene poco, del papa nulla. È vero però che non tutti coloro che maledicono il governo pontificio sono in prigione; se ciò dovesse essere, si dovrebbero chiudere le porte di Roma, e dividere la città tra i prigionieri ed i giudici: però nessuna parola detta contro il governo va perduta in Roma, tanti sono i delatori dei preti; ed allora i mal cauti parlatori sono sorvegliati dagli stessi delatori, ed il Governo li punisce, come egli dice, in via economica, senza formalità di processo. È un impiegato, per esempio, si trova un pretesto e si mette fuori d’ impiego; è un negoziante, si cerca d’ intralciargli i suoi affari; è un uomo indipendente, si cerca di fargli tutti i dispetti possibili; per esempio, negargli il passaporto se deve andare per suoi affari all’ estero, gli si nega la licenza di andare alla caccia o cose simili; si condannano a venti anni di galera tre giovanetti per avere acceso un fuoco di bengala.

In quanto agli altri delitti, la bisogna cammina diversamente. Il primo dovere del papa egli crede esser quello di essere capo della Chiesa cattolica, e di avere centocinquantamilioni di sudditi compresi i re e gli imperatori; il suo secondo dovere crede esser quello di grandeggiare e mantenere con tutti i mezzi possibili la triplice corona sul suo capo; egli per sè non conosce che diritti, e si tiene al disopra di tutti i doveri: i disgraziati suoi sudditi romani si trovano imposto violentemente questo colosso sul petto, ed in faccia al papa essi non hanno diritti, ma soltanto doveri; e dall’ Europa è stato imposto loro il peso di fare le spese del lusso del papa, e del suo splendidissimo e numerosissimo stato maggiore. Che importa dunque al papa se i suoi sudditi si rubano e si ammazzano a vicenda? Ce ne resteran sempre abbastanza per pagare le imposte. Basta che non tocchino la corona papale, tutto il resto è un nonnulla.

Pedro