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Lettera sedicesima

Lettera Sedicesima

L'Imprigionamento

Enrico ad Eugenio

Roma, Maggio 1849.

Mio caro Eugenio,

Eccomi in una città assediata dalle truppe francesi. Non puoi farti una idea del danno che ha fatto al Cattolicismo questa falsa condotta del papa e della Francia (Nota 1 - I Francesi in Roma. - P. Ventura): io penso che il papismo abbia da tale falso modo di agire ricevuto un colpo tale, che mai più non si rileverà, almeno moralmente. È un funesto spettacolo di vedere i preti, che dovrebbero essere i ministri del Dio della pace; che, come Cristo, dovrebbero piangere sui mali della patria, e pregare per lei; vederli, dico, tripudiare alla rovina del paese natio, e cospirare con lo straniero contro di esso (Nota 2 - Preti cospiratori). Ma tiriamo un velo sopra tante sciagure.

Non temere che ora voglia prendere occasione di parlarti di politica: no, caro amico, il mio proponimento è fissato: la politica non è il mio elemento, e tu sai quali sieno gl’ insegnamenti che su tal punto ho ricevuto dal mio buon genitore (Nota 3 - I preti e la politica). D’altronde tutto quello che riguarda gli avvenimenti politici tu lo sai dai giornali.

Come tu vedi dalla data di questa mia, io sono ancora in Roma, perchè aspetto fra pochi giorni il ritorno del mio caro amico Pasquali, che torna da un viaggio in Oriente con gli altri due amici. Quando essi saranno tornati, partiremo insieme.

Ti promisi nell’ ultima mia di darti un racconto del mio imprigionamento; ed eccomi a mantenerti la parola.

Era il 5 aprile, il lunedì dopo la Pasqua: io era solo e tranquillo nella mia camera a studiare, quando circa le nove della sera due uomini mi si presentano, assai ben vestiti, che sembravano due gentiluomini. Uno di essi era alto e robusto, il quale dopo entrato richiuse dietro a sè la porta, e si fermò ritto come a custodirla. L’altro era piccolo di statura, tarchiato, piuttosto vecchio; ma di una fisionomia cosi sinistra che m’incuteva spavento. Costui si avanzò verso di me, facendomi delle riverenze, e quando mi fu vicino mi disse:

"È lei il signor Abate Enrico N. di Ginevra?" "Sono io per l’ appunto," risposi. "In questo caso riprese l’uomo

dalla triste figura, farà grazia di venir con noi;" e traendo di tasca una carta la aprì e me la pose dinnanzi. Io vidi il suggello del S. Uffizio, e mi si levò il lume dagli occhi, dimodochè non potei leggerla: le mie ginocchia per un moto nervoso si urtavano fortemente fra loro, per cui era impossibile levarmi da sedere. Un freddo sudore sentiva che mi scorreva sulla fronte.

"Non tema di nulla, diceva quell’ uomo ripiegando e rimettendosi in tasca il mandato: noi siamo due galantuomini, tutte le cose andranno bene, il santo tribunale è misericordioso: abbasso abbiamo la carrozza;" e seguitava a parlare con grande volubilità; ma le sue parole non mi giungevano alle orecchie che come suoni indistinti

Dopo alcuni minuti, vidi entrare nella mia camera il superiore del convento ove io aveva stanza, pallido e tremante. Ritornato alquanto in me, mi levai da sedere per seguire i due birri, che tali erano; ma essi aprirono la finestra della mia camera, per vedere se da essa vi potesse essere comunicazione alcuna, ed assicuratisi che non ve ne era, osservarono bene se oltre la porta vi potesse essere altro mezzo di penetrare dentro la stanza, ed assicuratisi anche di questo, chiusero la porta con la chiave che consegnarono al superiore involtata in un foglio, e suggellato quello col suggello del S. Uffizio. Poscia con una lista di pergamena che avevano portata, e sulla quale era scritto S. Uffizio, biffarono la porta, suggellando quella lista col suggello del S. Uffizio. Ciò

fatto alla presenza del superiore e di un altro frate, che fecero sottoscrivere all’ atto (Nota 4 - Formalità usate nel carcerare un eretico), i due birri m’ invitarono gentilmente a scendere la scala, e montammo tutti e tre nella carrozza che ci attendeva (Nota 5 - Carrozze del S.Uffizio).

Mentre eravamo soli nella carrozza, i due birri che mi conducevano si mostrarono per quello che essi erano. Non vi erano più parole melate, che erano in essi una vera ipocrisia: incominciarono a parlare fra loro con un certo gergo grossolano che io non comprendeva, e ridevano sgangheratamente. Sebbene però non comprendessi tutto quello che dicevano, pure, dai loro gesti e dal modo come mi guardavano, capii che si burlavano di me; ed io taceva. Poscia incominciarono apertamente e senza gergo ad insultarmi. Quegl’ insulti mi scossero da quella specie d’abbattimento in cui era, e la mia dignità offesa si rilevò alla presenza di tanta viltà: guardai dignitosamente nel viso quegli sgherri; ma non perciò cessarono dall’ insultarmi.

Era circa mezz'ora ora che camminavamo nella carrozza; le tendine degli sportelli erano calate per cui non vedeva nulla di quello che accadeva nelle strade per le quali passava. Finalmente un rumore cupo mi avvertì che la carrozza era entrata sotto una volta, e mi avvidi dal fermarsi di essa che eravamo giunti al terribile palazzo dell’Inquisizione. Entrata appena la carrozza, sentii chiudere il ferrato portone; fu poscia aperto uno sportello e mi fu ordinato di scendere. Un uomo di aspetto truce con una lanterna in una mano ed un mazzo di grosse chiavi nell’ altra mi ordinò di seguirlo: egli andava innanzi, io lo seguiva ed i due birri mi erano ai due fianchi. Io era talmente confuso che non ricordo quali scale salissi nè quali corridoi dovessi traversare, solo ricordo che, giunto innanzi ad una prigione la cui porta era aperta, la mia guida si fermò, mi disse di entrare ed entrato che fui sentii chiudere dietro di me la porta della prigione e sentii assicurarla con un grosso chiavistello al di fuori. Era nella più profonda oscurità: non sapeva ove mi fossi: restai per un momento immobile, ma poi mi diedi a cercare a tentone per orizzontarmi in qualche modo. Io pensava che sarei restato così fino alla mattina, ma m'ingannai. Poco tempo dopo, sento aprire la mia prigione, e vedo entrare in essa un frate Domenicano di una corporatura atletica; insieme con lui vi era un prete con carta, calamaio e tutto l’ occorrente per scrivere (Nota 6 - Il verbale di carcerazione): appresso venivano coloro che mi avevano arrestato e il carceriere.

Coloro che mi avevano carcerato raccontarono tutta la storia della mia carcerazione, ed il prete scrisse tutto poscia voleva che io avessi firmato quello scritto, ma mi ricusai, ed egli scrisse il mio rifiuto, e quell’ atto fu firmato dai due birri. Fatto ciò, mi spogliarono intieramente fino alla camicia, presero tutto quello che aveva nelle tasche, esaminarono minutamente tutti i miei abiti per vedere se vi era nulla di nascosto, staccarono da' miei calzoni gli straccali, mi tolsero il collare, i lacci delle mie brache e perfino un fazzoletto da naso, poi mi restituirono i miei panni acciò gl’ indossassi. Questa maniera di agire mi sembrò così indecente, così barbara che non potei fare a meno di lagnarmene fortemente (Nota 7 - Denudamento del carcerato). Il Padre Domenicano allora con ipocrita dolcezza mi disse che ciò si faceva per il mio bene; perchè poteva accadere che istigato dal Diavolo avessi attentato alla mia vita: ma soggiunse, se mi fossi condotto bene, non solo mi sarebbe stato tutto restituito, ma che sarei stato trattato con molti riguardi.

Nel tempo di questa oscena operazione, io mi era un poco orizzontato: coll’ aiuto del lume avea osservata la mia prigione, ed avea fatto un inventario di tutta la mobilia. La prigione era una camera quadrata piccola come una camera da Cappuccino; al lato della porta vi era un sacco pieno di paglia con sopra una coperta di lana grigia; in un altro angolo vi era un rozzo vaso di terra con acqua e vicino ad esso un vaso da notte di terra grossolana: un piccolo sgabello bollo di legno ed una tavoletta infissa nel muro, formavano tutto il mobilio della prigione. Finito che ebbe il prete di scrivere, il Domenicano rivoltosi al carceriere gli disse con tuono solenne: "Questo prigioniero vi è consegnato: voi ne renderete conto al santo tribunale." Il carceriere fece una profonda riverenza, tutti uscirono, e sentii mettere il chiavistello e chiudere con gran forza a chiave: così restai solo e nella più fitta oscurità ritto in piè nel mezzo della mia prigione.

Mi sarebbe impossibile dirti ora quale tempesta di pensieri passasse nella mia mente, quali turbini agitassero il mio cuore; solo mi rammento che sentiva una mano pesante come di un incubo gravarsi sopra il mio cuore, che non mi lasciava neppure respirare liberamente. Non ti so dire per quanto tempo restassi in quello stato di annientamento, solo mi ricordo che un pensiero benefico mi scosse da quel letargo. Io in quel momento non cercava Dio, ma Dio cercava me. Mi vennero in mente quelle parole del Vangelo che Gesù è stato mandato per annunziare la buona Novella ai poveri, per guarire i contriti di cuore, per bandire liberazione ai prigionieri, e per mandare in libertà i fiaccati (Luc. IV, 18, 19). Queste parole furono un balsamo al mio dolore: mi gettai in ginocchio, e pregai con tutta l’effusione del mio cuore sebbene il mio spirito fosse turbato, un torrente di lagrime sgorgò dai miei occhi, e mi sentii sollevato. Poscia mi coricai sul mio sacco di paglia e mi addormentai.

La mia prigione era esposta a levante, un raggio di sole venne di buon mattino a percuotermi gli occhi e mi destai. Tu non sai, caro Eugenio, quale terribile impressione faccia la prigione allo svegliarsi del primo giorno! Allora si vede tutto l’orrore di essa e si sente il prezzo inestimabile della perduta libertà.

Incominciai a passeggiare nella mia prigione; ma essa non avea che tre passi di lunghezza, per cui il continuo volgermi e rivolgermi mi produsse in poco tempo un giramento di testa che mi costrinse di nuovo a gettarmi sul mio sacco. Voleva aprire la finestra per cambiare un poco quell’ aria mefitica che mi soffogava, ma essa era troppo alta e mi era impossibile giungervi. Attendeva impazientemente il carceriere; ed ogni quarto d’ora che sentiva suonare all’ orologio di S. Pietro mi parea fosse un secolo. Non sentiva attorno di me nessun rumore: quell’ edificio pareva abitato dai morti. Finalmente sentii suonare il mezzogiorno, e nessuno ancora si era lasciato vedere.

L' abbattimento, il dolore, la solitudine, la fame, aveano in tal modo turbata la mia immaginazione, che io credeva di essere stato là rinchiuso come il conte Ugolino per morire dalla fame. Qualche momento dopo sentii un rumore di chiavi; la mia porta fu aperta ed entrò il carceriere con un paniere dal quale trasse fuori la mia razione di quel giorno:

essa consisteva in un poco di cattiva minestra dentro una scodella di piombo, ed un pezzetto di carne bollita che poteva essere tre once, nella stessa scodella insieme colla minestra un pane nero che potea pesare una libbra: ecco tutta la mia razione. Non cucchiaio, non forchetta, non coltello, non bicchiere, non piatti, non salvietta, che tali cose sono reputate di lusso per i prigionieri dell’ Inquisizione (Nota 8 - Vitto dell'inquisizione). Il carceriere lasciando la mia provvisione mi disse che fino al giorno seguente alla stessa ora egli non sarebbe tornato, e richiudendo con gran cura la porta mi lasciò solo.

In questo modo passarono otto lunghissimi giorni nei quali non vedeva che una volta al giorno l'antipatica faccia del mio carceriere, il quale mentre io mangiava vuotava il mio vaso da notte e dava una superficiale spazzata alla prigione. Dopo l'ottavo giorno, dissi al carceriere che avea biso gno di parlare con qualcuno dei Padri Inquisitori. Il carceriere accolse la mia domanda con riso sardonico. "E da quando in qua, mi disse, i carcerati sono divenuti i padroni in questo locale? I Reverendi Padri non sono i vostri servitori: quand’ essi vi vorranno, vi faranno chiamare, ma siate certo che essi non obbediranno alla vostra chiamata" (Nota 9 - Diverso trattamento de' carcerati).

Allora vidi che era necessario rendermi amico il carceriere e gli dissi che quello che volevo dai Padri poteva forse farmelo egli stesso: che io non voleva altro che una prigione un poco più grande, perchè mi era impossibile vivere respirando un’ aria così mefitica; che desiderava avere qualche libro per potere passare quelle lunghissime giornate. "In quanto alla prigione, mi rispose, è inutile parlarne: sono assai poche le prigioni disponibili per i Dogmatizzanti (Nota 10 - Prigioni pe' dommatizzanti), e sono tutte piene; in quanto ai libri, non vi bisogno di incomodare i Padri: posso darvene io, se volete."

Io non poteva conciliare questa gentile esibizione del carceriere colla sua aria truce e con quello che avea sentito dire dei rigori dell' Inquisizione, perciò restai attonito a tale proposta. Il carceriere vedendo il mio stupore mi spiegò la sua esibizione e mi disse: "Non crediate che noi carcerieri siamo tanto cattivi nè che l’ Inquisizione sia così crudele come la dicono i libertini. I Reverendi Padri non possono autorizzare nessun sollievo ai prigionieri, perchè sarebbe contro le regole del santo tribunale; ma essi si fidano di noi, perchè sanno che siamo buoni Cristiani, e noi forniamo ai carcerati tutto quello che gli può essere aggradevole, sempre però nei limiti del nostro dovere; sicchè, continuò egli, voi non avete che dirmi ciò che volete ed io vi farò tutto quello che sarà giusto ed onesto, solo vi avverto che anche noi dobbiamo vivere e perciò se volete qui scrivere un ordine al Reverendo Sig. Notaio di darmi qualche cosa sui vostri danari io vi servirò in tutto" (Nota 11 - Potenza del denaro). Trasse fuori di tasca un foglio sul quale io scrissi con la matita che egli mi prestò l’ordine domandato; e mi restrinsi per ora a pregare il carceriere di aprirmi ogni mattina la piccola finestra e di fornirmi di un qualche libro.

La mattina dopo il carceriere venne di buon’ ora, aprì la finestra e lasciò un grosso libro sul mio tavolo. Alla vista di quel libro mi parve essere rinato; salto su dal mio sacco, corro alla tavola e vedo che quel libro era il Leggendario dei Santi. L’avrei volentieri stracciato, ma troppa era in me l’avidità di leggere per togliermi la noia dell’ozio. Leggeva, leggeva, ma la lettura di quelle storie apocrife mi eccitava sdegno, dimodochè dopo tre giorni domandai al carceriere che mi cambiasse il libro e mi dasse invece una Bibbia. Il carceriere fece un salto all’indietro come se fosse stato punto da un serpente, e spalancando due occhi da spiritato, ‘‘Una Bibbia! esclamò: non ci vorrebbe altro per far ritornare il diavolo nel S. Uffizio (Nota 12 - Diavolo nel S. Uffizio). Io non capiva i timori del povero carceriere, gliene domandai spiegazione, ma non mi volle rispondere: prese il Leggendario e promise di portarmi altro libro: mi propose qualche romanzo che io ricusai, e mi portò le prediche del Padre Segneri.

Era un mese che dimorava in quella prigione, e non aveva veduto che la poco simpatica faccia del carceriere.

Egli mi presentò una carta acciò la firmassi: era una nota esagerata dei servizi straordinari che mi avea prestati in quel mese: egli non avea fatto altro che aprirmi e chiudermi la finestra e prestarmi qualche vecchio libro, e per venti giorni di questi servizi mi avea fatto un conto di sei scudi, che dovei necessariamente pagare, per non soffrire maggiori strapazzi. Fortuna per me che aveva un poco di danaro, e che poteva trarne dal Console Svizzero, altrimenti sarei dovuto morire soffogato e non avrei potuto avere un libro.

Tre mesi dopo la mia carcerazione, fui per la prima volta chiamato all’esame; e posso dire che da quel momento incominciò la serie dei miei patimenti. Ma in altra mia ti parlerò del mio esame. Credimi sempre

Il tuo affezionatissimo
Enrico
Pedro