00 04/09/2011 15:51
Lettera diciassettesima
Lettera diciassettesima

Il Processo

Enrico ad Eugenio

Roma, Maggio 1849.

Mio caro Eugenio,

Erano cinquanta giorni che gemevo in quel sepolcro di viventi senza aver veduto altra sembianza umana che quella poco simpatica del mio carceriere. Una mattina sentii aprire la porta della prigione in un’ ora straordinaria, e credea di essere chiamato ai tanto desiderati esami, ma invece era il carceriere il quale messe sossopra la mia prigione per bene spazzarla; poscia bruciò sopra uno scaldino alcune bacche di lauro ed altre erbe per disinfettarne l’ aria, tolse lo sgabello di legno, ed in quella vece portò due decenti sedie di paglia. Io era attonito per tali straordinarie attenzioni e ne domandai la ragione; mi fu detto che fra poco avrei ricevuta una visita, di persona rispettabilissima. Puoi immaginare qual fosse la mia consolazione nel sentirmi annunziare una visita: ma per quanto facessi, non mi riuscì di poter sapere chi fosse la rispettabile persona che era per visitarmi. Io attendeva con grande ansietà, e la mia mente vagava su tutte le mie conoscenze, faceva mille congetture, ma la più probabile mi pareva che quella visita dovesse essere una visita del Padre Commissario. Verso le dieci, sento di nuovo aprire la porta, e l’ingrata voce del carceriere mi annunziò la visita dell’ abate Pallotta (Nota 1 - Santi contemporanei: l'abate Pallotta).

L’ abate Pallotta è un prete che gode in Roma fama di grande santità. Piccolissimo di statura, macilente nel viso, gracile nella persona, calvo nella testa, coperto di un abito di panno grossolano, legato al fianco con una cintura della stessa stoffa, affetta 1’ aria di uno di quei santi che si veggono dipinti sugli altari. Egli gode in Roma tutta la stima e la venerazione specialmente del popolo basso.

Quest’uomo è il confessore ordinario dei prigionieri dell’ Inquisizione (Nota 2 - Confessore del S. Uffizio. - Evasione), ed era stato mandato da me per convertirmi. Appena entrato nella mia prigione, trasse da una delle vaste saccoccie del suo abito un Crocifisso di ottone, un libro, ed una stola violacea; poscia trasse da una manica del suo abito un’ immagine della Vergine in basso rilievo sul rame: adattò il Crocifisso sulla tavola poggiandolo al muro in modo che restasse ritto, e pose ai piedi di esso la immagine della Vergine, si pose al collo la stola e si prostrò avanti a quelle immagini a pregare. Dopo alcuni minuti di preghiera, si assise, e m’ invitò ad inginocchiarmi ai suoi piedi per fare la mia confessione. Io risposi che Dio solo rimette i peccati, e che la mia confessione l’ aveva fatta a Dio, la faceva ogni giorno a Dio, e perciò non poteva farla ad un uomo; tanto meno a lui che non conosceva punto, e che sapea di certo non avergli mai fatta alcuna ingiuria per cui dovessi domandargliene perdono.

Mentre io parlava così, il povero abate si faceva segni di croce, si levò da sedere tutto spaventato, ed allontanandosi da me, mi disse che io era posseduto dal demonio, e che voleva esorcizzarmi (Nota 3 - Esorcismi), ed afferrato il libro degli esorcismi si accingeva a farlo, ma io, levandogli il libro dalle mani, gli dissi che i posseduti dal demonio sono coloro che perseguitano così barbaramente gl’ innocenti, e quindi se avea voglia di esorcizzare qualcuno, andasse ad esorcizzare i Padri Inquisitori e il mio carceriere.

Queste parole fecero su di lui l’ effetto della scossa elettrica. Cadde genuflesso innanzi a me, trasse di tasca una disciplina di ferro, e, movendo non so quale ordigno, si aprì il suo abito dietro le spalle che rimasero nude, in quello stato incominciò con quanta forza aveva a disciplinarsi gridando: "Signore, misericordia" (Nota 4 - Disciplina. - Esercizi di Ponterotto).

Quest’ azione mi scosse fortemente, non sapea cosa pensare di quell’ uomo. Pochi istanti passarono in quello stupore; ma, quando vidi le sue spalle insanguinate, mi scossi, mi gettai sopra lui, e gli strappai violentemente la disciplina di mano. Avrei desiderato di avere con me il sig. Pasquali, affinchè, col suo sangue freddo e con la sua conoscenza biblica, avesse fatto conoscere a quell’ uomo il suo fanatismo religioso: ma egli levatosi in piedi mi disse in tuono amorevole: "Figlio mio, voi che temete tanto pochi colpi di disciplina, cosa farete nei tormenti indescrivibili dell’ inferno, nei quali fra poco cadrete, se ricusate il perdono che oggi Iddio vi offre nella sua misericordia?"

Qui nacque fra noi una discussione: io diceva che non solo non ricusava il perdono di Dio, ma che lo avea di già ricevuto nella sua misericordia. "Eresia, ostinazione, diceva il prete: il perdono di Dio non si riceve che per nostro mezzo." Non ti starò qui a rapportare quella discussione che durò per circa mezz’ ora, solo ti dirò che a tutti i passi del Vangelo che io citava per dimostrare che il perdono dei peccati ci viene gratuitamente da Dio alla sola condizione di credere in Gesù Cristo, egli rispondeva baciando l’immagine della Vergine, e pregandola che mi liberasse dal demonio dell’eresia. Voleva che anch’ io baciassi quell’ immagine e mi prostrassi con lui solo per dire un’ Ave Maria, promettendomi che la Vergine avrebbe operata la mia conversione. Io mi ricusai positivamente, e recitai con solennità le parole del secondo comandamento di Dio (Nota 5 - Secondo Comandamento). Allora l’abate Pallotta rimise in tasca le sue immagini, e uscì dalla prigione dicendo: "Questo genere di demoni non si scaccia che con l’orazione e col digiuno."

La maniera di agire di quest’ uomo mi turbò: passai il resto di quella giornata agitato da pensieri e dubbi, tanto più che mi avvidi che la mia condotta avea dovuto portare un gran turbamento in tutti gl’ impiegati dell’ Inquisizione. Difatti poco dopo uscito 1’ abate Pallotta dal mio carcere, vi entrò il carceriere con un prete che asperse con acqua benedetta tutta la prigione, e ne gettò una quantità sopra la mia persona. Le sedie mi furono tolte e riposto al suo luogo lo sgabello. In luogo del solito desinare, non ebbi che una scarsa porzione di pane nero. Il carceriere ogni volta che entrava nella mia prigione si faceva segni di croce, non mi parlava più, e se io lo interrogava non rispondeva. Passarono in questa guisa nove giorni.

Il decimo giorno era talmente estenuato dal digiuno che appena potea reggermi in piedi: fu allora che fui chiamato al mio primo esame. Condotto dal carceriere nella camera degli esami, vidi quel Padre Domenicano che avea veduto nella mia prigione la sera del mio arresto; egli era seduto sopra un seggiolone dinnanzi ad una tavola, sopra la quale era posato ritto un gran Crocifisso nero, ed un cartone sul quale era stampato il principio dell’ Evangelio di S. Giovanni a grosse lettere. Al lato sinistro della tavola, era seduto un prete notaio con tutto l’occorrente per scrivere. Il Padre Domenicano avea innanzi a sè una quantità di carte legate assieme, che poi seppi essere il mio processo. Io mi fermai in piedi innanzi alla tavola, ed il carceriere era alla mia sinistra alquanto indietro. Mi fu ordinato di giurare sul Vangelo di dire la verità anche contro me stesso (Nota 6 - Giuramento all'inquisito. - Procedura del S. Uffizio). Io giurai, perchè realmente era mia intenzione di dire tutta la verità anche contro me stesso, purchè non compromettessi altri. Dopo giurato, mi fu ordinato di sedere sopra una piccola panca di legno.

Il Padre Domenicano che era il giudice istruttore incominciò allora 1’ interrogatorio. Incominciò a domandarmi il nome, il cognome, la patria, l’ età, il nome dei miei parenti, il motivo per cui era venuto in Roma, e tante e tante altre cose che mi pareva non avessero che far nulla col mio processo. Ma è meglio che io ti scriva questo interrogatorio per domande e risposte, come mi fu fatto, e come ho procurato tenerlo a memoria.

D. Sapete voi dove vi trovate ?
R. Nelle prigioni del S. Uffizio.
D. Per qual motivo siete in queste prigioni?
R. Ella lo sa meglio di me.
D. Ma voi lo sapete?
R. Non lo so.
D. Però potrete immaginare il perché vi siete?
R. Credo che sia per aver parlato con dei Protestanti.
D. Per qual ragione credete voi così?
R. Perchè il Padre P. Gesuita mi avea minacciato del S. Uffizio, se io non lasciava la conversazione di quei Protestanti; e tengo per certo, che egli mi abbia accusato.
D. Chi erano quei Protestanti coi quali avete conversato, e come li avete conosciuti?
Io dissi allora il nome dei miei tre amici, e raccontai a lungo il come ed il perchè mi era trattenuto con loro.
D. Quali discorsi avete tenuti con quei Protestanti?
Raccontai distesamente e con tutta sincerità tutto quello che mi ricordava delle nostre conversazioni.



continua
Pedro