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Privilegî economici e fiscali della Chiesa cattolica romana

Ultimo Aggiornamento: 04/01/2009 16:21
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Privilegî economici e fiscali della Chiesa cattolica

Relazione di Silvio Manzati al convegno nazionale sulla laicità

tenuto a Verona il 14 ottobre 2006



È difficile trovare qualcuno che non sia d’accordo con la laicità dello Stato.

Nell’incontro dello sorso anno tra Ciampi e Ratzinger, il Presidente della Repubblica

aveva riaffermato la laicità della Repubblica italiana e Ratzinger, poco diplomaticamente,

gli aveva precisato che doveva trattarsi di sana laicità.

Naturalmente, a stabilire quando la laicità sia sana sarebbe compito del papa cattolico,

perchè la distinzione tra laicità e sana laicità è tutta nella testa di Ratzinger e non ha

riscontro nella cultura giuridica e politica moderna.

Un’altra distinzione che appare continuamente nella stampa e nei discorsi cattolici è

quella tra laicità e laicismo. Tutto ciò che non corrisponde ai desideri ed agli interessi della

chiesa cattolica sarebbe laicismo e non laicità. Insomma, i laicisti sarebbero i laici cattivi.

C’è una grande nostalgia per quando vigeva una religione di Stato, che lo Stato doveva

prediligere, difendere, aiutare e incentivare.

Sulla stampa cattolica molto spesso abbiamo letto frasi come questa: “Laicità non

significa che per lo Stato una religione valga l’altra”.

Il problema non è questo. Lo Stato laico non entra nel merito delle religioni, non giudica

se una religione valga più di un’altra, come non giudica se le favole dei fratelli Grimm

sono da preferire a quelle di Andersen o di Perrault.

Allo Stato laico non deve interessare che i cittadini siano atei o religiosi. Non deve

favorire né la diffusione dell’ateismo né la diffusione della religione, di qualsiasi religione.

Lo Stato laico non deve né favorire né ostacolare questa o quella concezione del mondo.

In modo particolare i soldi dello Stato non devono andare per propagandare concezioni

del mondo.

Nella nostra Costituzione sta scritto: “Stato e chiesa cattolica sono ciascuno, nel proprio

ordine, indipendenti e sovrani”. Indipendenti, anche dal punto di vista economico.

Lo Stato laico chiede soldi ai propri cittadini per perseguire i propri scopi, tra i quali non

ci sono quelli religiosi, che appartengono all’altro ordine. La chiesa cattolica chiede soldi ai

propri fedeli per perseguire i propri fini siano essi religiosi o di altro tipo.

Non è lo Stato laico che deve dare soldi alla chiesa cattolica. Noi diciamo questo perché

siamo laici e non anticlericali.

Clericali sono coloro che pretendono e coloro che favoriscono che un fiume di denaro

pubblico, alimentato da mille piccoli e grandi affluenti, vada direttamente o

indirettamente alla chiesa cattolica.

Lo Stato laico non deve fare l’elemosiniere per conto della chiesa cattolica. Non deve

togliere soldi ai cittadini per darli alla chiesa cattolica. O li lascia ai cittadini o li impiega

per i propri scopi, tra i quali non rientrano quelli religiosi.

Noi queste cose possiamo affermarle con forza perché non ci presentiamo alle elezioni e

non rincorriamo il voto dei cattolici e la benevolenza delle gerarchie ecclesiastiche.

Non ci si dica che il nostro è qualunquismo. Noi comprendiamo la necessità dei partiti di

chiedere i voti su un programma politico complessivo e di evitare prese di posizione che


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04/01/2009 16:13
 
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possano allontanare i voti, ma l’UAAR non ha di queste necessità. Ecco perché l’UAAR

difende la sua apartiticità e non aderisce a questo o a quello schieramento politico, pur

annoverando tra i propri iscritti molti aderenti a diversi partiti.

Sui privilegî economici e tributari della chiesa cattolica in Italia c’è un diffuso silenzio.

Non solo non vengono denunciati questi privilegi, ma proprio non se ne parla. Non ci

sono studi sistematici. Non ci sono approfondimenti giornalistici. Mamma Rai, che tanto

spazio dà al Papa, ai cardinali e ai vescovi, non dedica trasmissioni al fiume di soldi che

dalle finanze pubbliche travasa nelle casse della chiesa cattolica.

L’argomento, forse, di cui si sa di più è quello dell’8 per mille, ma anche qui la chiarezza

è poco diffusa. Con l’8 per mille lo Stato italiano regala alla chiesa cattolica circa un

miliardo di euro all’anno. Qualcuno crede che questi soldi vadano allo Stato Città del

Vaticano. Come tutti voi sapete, invece, quel miliardo di euro va alla Cei, alla Conferenza

episcopale italiana, cioè alla chiesa cattolica italiana.

Non bisogna confondere lo Stato Città del Vaticano con la chiesa cattolca italiana, anche

se la chiesa cattolica italiana è rigidamente subordinata allo Stato Città del Vativano.

Credo che la Conferenza episcopale italiana sia l’unica conferenza episcopale nazionale

che non elegge il proprio presidente, che è invece nominato dal Papa.

I due Patti lateranensi hanno funzioni diverse: Il Trattato regola i rapporti tra Stato

italiano e Stato Città del Vaticano. Il Concordato regola i rapporti tra Stato italiano e chiesa

cattolica italiana, rappresentata dalla Cei, Conferenza episcopale italiana.

Il Concordato è la base dei privilegî di cui gode la chiesa cattolica italiana e in modo

particolare dei privilegî economici e tributari.

Ma vi sono miliardi di euro che la finanza pubblica passa alla chiesa cattolica

indipendentemente dal Concordato, cioè per scelta politica di forze politiche che si

collocano prevalentemente nel centro-destra ma anche di forze politiche che si collocano

nel centro-sinistra.

L’UAAR è per l’abolizione del Concordato, pur nella consapevolezza che si tratta di un

obiettivo di non breve periodo. Vi sono molti stati nel mondo, liberi e liberali, che non

hanno il concordato, dalla Francia agli Stati Uniti d’America.

C’è un fiume di denaro pubblico che va alla chiesa cattolica italiana, ma qualche regaluccio

viene anche fatto allo Stato Città del Vaticano. Vorrei ricordare la questione delle acque

pulite e delle acque sporche di questo Stato e non in senso metaforico. L’ articolo 6, 1°

comma, del Trattato del Laterano del 1929 stabiliva: “L’Italia provvederà a mezzo degli

accordi occorrenti con gli enti interessati che alla Città del Vaticano sia assicurata

un’adeguata dotazione di acque in proprietà”. Il comma non precisa se gratuitamente o a

pagamento.

Naturalmente, la Santa Sede e gli inginnocchiati governi italiani hanno dato

l’interpretazione della gratuità. Nel 2000 il settimanale
L’Espresso (numero del 2/11/2000)

informava che «la Santa Sede non ha mai pagato una lira per il consumo annuo di circa 5

milioni di metri cubi di acqua. Una quantità sufficiente per dissetare 60 mila persone, ma

utilizzata in gran parte per innaffiare i lussureggianti giardini vaticani».

Nel 1929, quando Mussolini e il cardinal Gasparri firmarono il Trattato del Laterano, non

si parlò dell’eliminazione delle acque di scarico, che fino agli anni Settanta confluivano nel


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04/01/2009 16:14
 
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evere senza alcun trattamento preliminare. Poi, il Comune di Roma costruì le vasche di

depurazione. Lo Stato Città del Vaticano si avvalse di questo servizio, senza mai pagare le

bollette al comune di Roma. Gli arretrati avevano raggiunto nel 1999 la somma di 44

miliardi di lire. Quando l’azienda municipalizzata di Roma, l’Acea, è stata quotata in

Borsa, gli azionisti hanno reclamato il pagamento delle «bollette arretrate». La Santa Sede

fece orecchie da mercante. Il ministero dell’Economia si assunse l’onere di saldare il debito

della Santa Sede, ottenendo in cambio la garanzia – per il futuro – del pagamento regolare

da parte del Vaticano del servizio di smaltimento delle acque di scarico, il cui costo era di

circa 2 milioni di euro l’ anno (secondo l’agenzia
Adista, 22/11/2003).

Il Vaticano, però non pagò niente. Intervenne l’uomo di turno della divina provvidenza

nella persona dal senatore di Forza Italia Mario Ferrara il quale propose un emendamento

alla legge finanziaria 2004, che divenne un comma dell’art. 3. Questa norma ad ecclesiam

prevedeva lo stanziamento di «25 milioni di euro per l’anno 2004 e di 4 milioni di euro a

decorrere dall’anno 2005» per dotare il Vaticano di un sistema di acque proprio. Da notare

che lo Stato Città del Vaticano è molto ricco di valori mobiliari e immobiliari e non avrebbe

bisogno di questi regali promossi da Forza Vaticano.

Ogni anno nella legge finanziaria c’è qualche norma
ad ecclesiam. Come ricorderete l’anno

scorso ci fu quella per l’Ici.

L’Ici è l’imposta comunale sugli immobili.

Il problema che si pose l’anno scorso era questo: la chiesa cattolica deve pagare l’Ici per

gli immobili nei quali svolge attività commerciale? Il problema venne alla ribalta grazie al

comune di Ancona e alle suore Zelatrici del Sacro Cuore del medesimo comune.

Le Suore Zelatrici del Sacro Cuore di Ancona hanno degli immobili nei quali svolgono a

pagamento attività sanitaria (casa di cura) e attività ricettiva (pensionato per donne

anziane e studentesse universitarie), cioè esercitano attività commerciali.

Le Suore Zelatrici non sono molto zelanti con il fisco e non hanno mai presentato al

comune di Ancona la denuncia ai fini dell’Ici perché ritengono (in armonia e in fedele

obbedienza a quanto dice la Cei) che le attività che vi svolgono siano incluse tra quelle

esenti dall’imposta perché loro sono un ente ecclesiastico. Nel 1995 il comune notifica un

avviso di accertamento Ici e reclama il versamento dell’imposta per tutti gli anni compresi

tra il 1993 e il 1998. L’istituto religioso ricorre alla Commissione Tributaria Provinciale, che

gli dà torto. Contro la decisione di prima istanza l’ente religioso ricorre in secondo grado,

dove pure gli viene dato torto. Le Suore Zelatrici del Sacro Cuore ricorrono alla Corte di

cassazione, che decide la vertenza con quattro sentenze nel marzo del 2004 (cf Sentenza

4573, 4642, 4644 e 4645). La Cassazione dice che le suore devono pagare l’Ici per gli

immobili nei quali svolgono attività commerciale.

Succede il finimondo. Cei, diocesi, stampa cattolica nazionale e diocesana insorgono

contro questa eresia fiscale, che farebbe pagare gli enti ecclesiastici centinaia di milioni o

miliardi di euro (con gli arretrati) ai comuni.

L’interpretazione data alla legge fiscale dal comune di Ancona, dalle commissioni

tributarie e dalla cassazione non sarebbe canonica, non sarebbe ortodossa. La retta dottrina

è stata finora seguita dalla generalità dei comuni, tant’è che i casi di controversia sono più

unici che rari, dice la Cei. Secondo la Cei, preti, frati, suore, diocesi, parrocchie,


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04/01/2009 16:15
 
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gregazioni religiose et similia dovrebbero pagare l’Ici soltanto per gli immobili che

danno in affitto a terzi. Sul restante immenso patrimonio immobiliare, niente.

C’è un libraio che esercita l’attività in suo immobile; a trecento metri c’è la libreria delle

suore paoline. La chiesa cattolica pretende che il libraio paghi l’Ici e che le suore paoline ne

siano esenti. In una provincia c’è una casa di cura di proprietà di una Spa o di una Srl e c’è

un ospedale del Sacro Cuore che fa capo alla congregazione dei Poveri servi della Divina

Provvidenza. Le due strutture sanitarie hanno le stesse tariffe e le stesse convenzioni con

la regione. La chiesa cattolica pretende che la casa di cura che fa capo alla società paghi

l’Ici e che l’ospedale che fa capo alla congregazione religiosa ne sia esente.

La laicità dello Stato, che comporta la non discriminazione in base alla professione

religiosa, vorrebbe che libraio e suore paoline pagassero o non pagassero l’Ici alla stessa

maniera, che l’ospedale della spa e quello dei Poveri servi della Divina Providenza

pagassero o non pagassero l’Ici alla stessa maniera. La chiesa cattolica, invece, è contro la

laicità dello Stato.

Dalla Cei veniamo a sapere che gli enti religiosi non facevano la denuncia dell’Ici per gli

immobili in cui svolgevano l’attività commerciale e che la generalità dei comuni non

faceva alcun accertamento. Il comune di Ancona costituiva un’eccezione, una mosca

bianca, retto probabilmente da persecutori della chiesa cattolica, alla caccia di martiri

fiscali.

Con la sentenza della Cassazione si era aperta una breccia pericolosa per la chiesa

cattolica e così il governo Berlusconi viene piamente sollecitato a fare qualche cosa. Il

governo emana un decreto legge sulle infrastrutture (il 163/2005) e vi inserisce un articolo

6 che con le infrastrutture non ha nulla a che vedere, ma parecchio con gli interessi della

chiesa cattolica. Nel caso specifico il governo intendeva chiarire la portata di una delle

norme di esenzione previste dall’articolo 7 del decreto legislativo 504 del 1992 – quello

istitutivo dell’ICI – affermando che tale norma “si intende applicabile anche nei casi di

immobili utilizzati per le attività di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e

cultura di cui all’articolo 16, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1985, n. 222,

pur se svolte in forma commerciale se connesse a finalità di religione o di culto”. E chi è

che decide se vi è connessione con finalità di religione o di culto? Naturalmente la chiesa

cattolica.

Per questo attentato alla laicità dello Stato si è ricorsi al decreto legge. La Costituzione

stabilisce che il decreto legge è uno strumento per emanare norme giuridiche in casi

eccezionali di necessità e urgenza. Una persona sana di mente pensa che non vi sia

nessuna necessità e urgenza di ampliare i privilegî della chiesa cattolica e che,

eventualmente, vi sia necessità e urgenza di far pagare le tasse a preti, frati, suore, vescovi,

come avviene per tutti gli altri cittadini.

Nel mese di ottobre dello scorso anno una parte dell’opinione pubblica e della stampa

reagì scandalizzata. La chiesa cattolica, candidamente, rispondeva che in fondo la norma

del decreto legge era soltanto l’interpretazione autentica di un’esenzione in vigore da

dodici anni. Il decreto legge fu convertito dal Senato con una maggioranza che andava ben

oltre quella berlusconiana. Il provvedimento, poi, non fu presentato alla Camera e

decadde. Poco dopo, la stessa norma fu inserita nella legge finanziaria e il regalo alla

chiesa cattolica fu confezionato.


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Il mancato gettito annuale per i comuni é stato calcolato nell’ordine dei 300 milioni di

euro (
la Repubblica, 8/10/2005). In realtà, se la chiesa cattolica pagasse l’Ici ai comuni come

una qualsiasi spa per il suo immenso patrimonio immobiliare, dovrebbe pagare alcuni

miliardi di euro. Ma c’è di mezzo il concordato.

Che cosa dice il concordato in campo tributario? In materia, dispone il terzo comma

dell’art. 7: “Agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come

pure le attività dirette a tali scopo, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di

istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici,

sono soggette, nel rispetto della struttura e delle finalità di tali enti, alle leggi dello Stato

concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime”.

Osservava acutamente Pietro Bellini, professore emerito di Storia del diritto canonico

all’Università “La Sapienza” di Roma, che il provvedimento che estendeva l’esenzione Ici

per la chiesa cattolica innovava «la disciplina concordataria per quello che riguarda il

regime tributario». Osservava il prof. Bellini che la norma in questione «paradossalmente

va proprio contro il sistema concordatario. Dico paradossalmente perché c’è una modifica

del Concordato da parte dello Stato, peraltro in favore della Chiesa, che avviene nelle

forme non previste dallo stesso Concordato. Il quale, essendo “protetto” dalla

Costituzione, non può essere modificato se non nelle forme previste dalla Costituzione

stessa, cioè attraverso un accordo tra le parti» (
Ansa, 7/10/2005; Adista, 7/10/2005).

La Cei obietta che a godere dell’esenzione saranno anche le organizzazioni no-profit e

tutte le Chiese con cui lo Stato ha stretto un’intesa: Chiesa cattolica, Tavola valdese,

Unione delle Chiese avventiste del settimo giorno, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle

comunità ebraiche in Italia, Unione cristiana evangelica battista d’Italia e Chiesa

evangelica luterana in Italia, ma si tratta in realtà della foglia di fico che serve a coprire

questa scandalosa esenzione per gli immobili della chiesa cattolica.

In Italia ci sono centinaia e centinaia di conventi un tempo pieni di preti, frati e suore, che

sono stati trasformati in esercizi ricettivi, alberghi, pensionati, ostelli o comunque siano

chiamati, sempre a pagamento. Svolgono attività commerciale e sono esenti dall’Ici.

Oppure pensiamo alla conclamata centralità della famiglia. La casa dove abitano le

famiglie é soggetta all’Ici, la casa dove abita il parroco pretendono che sia esente, con la

motivazione che è una pertinenza dell’edificio di culto. Laicità vorrebbe che il parroco

pagasse l’Ici come qualsiasi altro single.

Ogni anno nella legge finanziaria troviamo norme ad ecclesiam con le quali si regalano fior

di milioni a strutture cattoliche. Ad esempio, la Finanziaria 2004 prevedeva uno

stanziamento di 20 milioni di euro per il 2004 e 30 milioni per il 2005 da destinare

all’Università Campus Bio-Medico. L’Università Campus Bio-Medico si autodefinisce

“opera apostolica della Prelatura dell’Opus Dei”, che “intende operare in piena fedeltà al

Magistero della Chiesa Cattolica, che è garante del valido fondamento del sapere umano,

poiché l’autentico progresso scientifico non può mai entrare in opposizione con la Fede,

giacché la ragione (che ha la capacità di riconoscere la verità) e la fede hanno origine nello

stesso Dio, fonte di ogni verità”.

La Finanziaria del 2005 prevedeva inoltre un finanziamento di 15 milioni di euro per il

Centro San Raffaele del Monte Tabor di don Luigi Verzè, detto Sua Sanità, «in


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nsiderazione del rilievo nazionale e internazionale nella sperimentazione sanitaria di

elevata specializzazione e nella cura delle più rilevanti patologie». Poi non ci sono soldi

per la ricerca nelle università statali e molti giovani ricercatori sono costretti a chiedere

asilo scientifico all’estero.

Una legge
ad ecclesiam è stata la n. 293 del (23 ottobre) 2003, con la quale il parlamento

aveva conferito riconoscimento legislativo all’Istituto di studi politici San Pio V e ne

approvava il finanziamento per una cifra pari a 1,5 milioni di euro annui. L’istituto ha

sede a Roma in piazza Navona e ha promosso la creazione della Libera università degli

studi San Pio V controllata, insieme all’Ateneo pontificio Regina Apostolorum, dalla

Congregazione dei Legionari di Cristo (
Adista, 22/11/2003). Alla cerimonia per

l’inaugurazione dell’università – il 14 ottobre 2004 – hanno partecipato sia il

sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, sia il governatore della Banca

d’Italia Antonio Fazio.

Nella finanziaria 2005 al comma 206 spunta un finanziamento di 1 milione di euro «allo

scopo di promuovere il potenziamento della strumentazione tecnologica e

l’aggiornamento della tecnologia impiegata nel settore della radiofonia». Rispetto ai

soggetti che possono usufruire del contributo si rimanda al comma 190 della Finanziaria

dell’anno precedente. Le uniche due emittenti che, guarda caso, rispondono all’identikit

previsto dalla legge sono Radio Padania Libera, la radio della Lega Nord, e Radio Maria.

È mai possibile che tu giri in auto l’Italia e ovunque capti Radio Maria e hai difficoltà

spesso a ricevere radio Rai 3?

E non parliamo della Rai. Alle volte c’è da chiedersi se siamo sintonizzati sulla

radiotelevisione vaticana o sulla radiotelevisione italiana. Abbiamo assistito l’anno scorso

all’orgia mediatica dell’agonia, morte, funerale ed elezione papale. Quest’orgia mediatica è

stata una delle cause che hanno portato al raddoppio, anzi quasi a triplicare le iscrizioni

all’UAAR. Ciò non significa che noi ci auguriamo che ogni anno ci sia l’agonia, la morte, il

funerale e l’elezione del papa. Il problema è la sovraesposizione mediatica di tutti gli

eventi che riguardano la chiesa cattolica. Anche questa è una questione di laicità.

Per chi non ne fa parte, la chiesa cattolica appare come una grossa macchina per il

reclutamento e il mantenimento dei propri aderenti. La chiesa cattolica impiega grandi

risorse umane e materiali per autoriprodursi. A noi che siamo all’esterno, anche i suoi

servizi sociali e umanitari appaiono strumentali a questo fine.

Nonostante i grandi sforzi impiegati, la presa della chiesa cattolica diminuisce

progressivamente: calo delle c.d. vocazioni, aumento dei matrimoni civili, percentuale dei

praticanti sempre più bassa, diminuzione di coloro che si avvalgono dell’insegnamento

dell’ora di religione.

Prendiamo atto di questi fenomeni, ai quali corrispondono sempre maggiori

spettacolarizzazioni di massa, magari a spese pubbliche, come avviene a Verona per il

convegno ecclesiale nazionale.

Laicità vorrebbe che l’opera di indottrinamento e di reclutamento da parte di una

confessione religiosa non avvenisse a spese dello Stato. Per attenuare e addolcire, si parla

di educazione o di formazione religiosa. Ma quando siamo di fronte a bambini e a giovani

appare più realistico parlare di indottrinamento e reclutamento.


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04/01/2009 16:17
 
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In Italia, in base al famigerato Concordato, abbiamo l’insegnamento della religione

cattolica nelle scuole pubbliche con insegnanti scelti dai vescovi e pagati dallo Stato. Gli

insegnanti di religione cattolica sono di fatto funzionari della chiesa cattolica, anche se

giuridicamente sono funzionari dello Stato, anzi messi in ruolo con una corsia

preferenziale. La legge per l’immissione in ruolo degli insegnanti di religione è stata

approvata nell’agosto del 2003 durante il governo Berlusconi, con l’appoggio di

Margherita e Udeur.

È un altro 8 per mille che lo Stato dà alla chiesa cattolica, anzi di più dell’8 per mille. L’8

per mille dato alla chiesa cattolica corrisponde a circa un miliardo di euro. Lo stipendio

diretto e indiretto per i 35.000 insegnanti di religione passa di molto il miliardo di euro

all’anno. Lo stipendio ai professori di religione è un regalo indiretto alla chiesa cattolica.

Lasciamo da parte, poi, i diritti degli insegnanti di religione che non devono essere

divorziati o madri nubili o essere in analoghe situazioni peccaminose.

Il mantenimento pubblico di questo esercito di propagandisti della fede non basta. In Italia

c’è, poi, il finanziamento pubblico della scuola cattolica, pardon, scuola privata. Ma in

Italia dire scuola privata significa dire scuola cattolica. La stragrande maggioranza delle

scuole private italiane, infatti, o é direttamente gestita da un qualche ordine religioso o si

ispira comunque all’educazione cattolica. In materia l’articolo 33 della nostra Costituzione

è diventato carta straccia. Ricordate? “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed

istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Alla scuola privata italiana arriva un

fiume di denaro appartenente ai contribuenti attraverso mille rigagnoli il cui percorso è

arduo seguire: contributi statali, finanziamenti a singoli progetti, buoni scuola alle

famiglie, sussidi regionali e di altri enti locali.

A livello statale i principali canali attraverso cui le scuole «non statali» ricevono denaro

pubblico sono: i sussidi diretti alle scuole sotto forma di contributi per la gestione delle

scuole (dell’infanzia e primarie) e di finanziamenti di progetti «finalizzati all’elevazione di

qualità ed efficacia delle offerte formative» (per le scuole medie e superiori) e i contributi

alle famiglie (i cosiddetti buoni scuola) per le scuole di ogni ordine e grado.

Nel finanziamento alla scuola privata, cioè cattolica, non c’è da fare molta distinzione a

seconda dell’orientamento politico, di centro-destra o di centro-sinistra.

Nel 1999 l’allora ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer, emanava due

decreti (dm 261/98 e dm 279/99) poi coordinati in un unico testo che aveva per esplicito

oggetto la «concessione di contributi alle scuole secondarie legalmente riconosciute e

pareggiate».

Con l’approvazione della legge sulla parità scolastica, la n. 62 del 2000 (siamo all’epoca

del governo D’Alema) le scuole private entrano a far parte a pieno titolo del sistema di

istruzione nazionale e pertanto da questo momento in poi devono essere trattate «alla

pari», anche sul piano economico. La legge istituiva di fatto i buoni scuola statali, per i

quali stanziava 300 miliardi annui di vecchie lire a decorrere dal 2001.

Il dm 27/2005 della ministra Letizia Brichetto in Moratti non parla più di «concessione di

contributi» ma esplicitamente di «partecipazione alle spese delle scuole secondarie

paritarie».

Per il 2005 i «contributi alle scuole non statali» (circolare ministeriale n. 38 del 22 marzo

2005) ammontano complessivamente a poco meno di 500 milioni e 500 mila euro. Come se

non bastasse per il 2005 sono stati finanziati con un milione di euro progetti di

«formazione del personale preposto alla direzione delle scuole paritarie» (circolare n. 77

del 14 ottobre 2005).

I cosiddetti buoni scuola sono dei contributi destinati alle famiglie a parziale o totale

copertura delle spese di iscrizione dei figli alle scuole. Il buono scuola statale per il 2005 è

stato di 353 euro per l’iscrizione alle scuole primarie paritarie, 420 euro per l’iscrizione alle

scuole medie paritarie e di 564 per l’iscrizione al prima anno delle scuole superiori

paritarie.

Le iscrizioni alle scuole cattoliche che, almeno qui nel Veneto, stavano subendo una

progressiva diminuzione, grazie ai buoni scuola hanno invertito la tendenza. I buoni

scuola costituiscono un finanziamento indiretto delle scuole cattoliche.

Poiché la legge sulla parità scolastica non fa alcun cenno all’eventuale incompatibilità dei

buoni scuola statali con quelli regionali, si è creato un sistema a doppio regime: nelle

regioni che lo prevedono, le famiglie possono ricevere sia il buono scuola nazionale che

quello regionale. È il caso, per esempio, del Veneto, regione antesignana in fatto di buoni

scuola. Con la legge regionale n. 1 del 2001 il Veneto ha istituito i buoni scuola da

destinare alle famiglie degli studenti iscritti alle scuole statali e paritarie. La regione

stabilisce però che «il contributo può essere concesso solo qualora la spesa sostenuta sia

uguale o superiore a euro 200».

Poiché le tasse di iscrizione alle scuole statali non superavano di solito quella cifra,

l’intero ammontare del fondo messo a disposizione dalla regione andava di fatto nelle

tasche delle famiglie che decidevano di iscrivere i propri figli alle scuole private, che

ricevono, a seconda del reddito e del tipo di scuola, dai 310 ai 1.300 euro cumulabili con il

buono statale.

Gli oratorî parrocchiali sono sempre stati uno strumento per il reclutamento infantile e

giovanile. Alcuni o molti di noi, da piccoli, hanno frequentato l’oratorio. L’oratorio era

percepito come un luogo in cui si andava a giocare e dove si incontravano altri bambini. Il

periodo era quello delle elementari, qualche volta si prolungava alle medie. Poi, per lo più,

alle superiori c’era la fuga dalla parrocchia. Qualche volta appariva in cortile il prete che

faceva interrompere il gioco perché c’era una qualche riunione, che iniziava con la

preghiera e un coro che parlava del Bianco Padre che da Roma ci guidava e finiva con “al

tuo cenno, alla tua voce un esercito all’altar”. L’oratorio non era un servizio per i bambini

o per le famiglie, era uno strumento per il reclutamento infantile. Le cose sono sempre

state chiare. Poi, è intervenuta l’ipocrisia della legge.

Nella passata legislatura venne fatta addirittura una legge per gli oratorî, non tanto per

disciplinarli, che non è compito dello Stato, quanto per foraggiarli, che non sarebbe

neppure un compito dello Stato laico. Il 1° agosto del 2003 venne approvata la legge sugli

oratorî, sul modello di alcune leggi regionali già introdotte dalle giunte di centro-destra di

Lazio, Lombardia, Abruzzo, Piemonte e Calabria. Attraverso questa legge «lo Stato

riconosce e incentiva la funzione educativa e sociale svolta nella comunità locale, mediante

le attività di oratorio o attività similari, dalle parrocchie e dagli enti ecclesiastici della

Chiesa Cattolica, nonché dagli enti delle altre confessioni religiose con le quali lo Stato ha


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04/01/2009 16:18
 
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stipulato un’intesa». Si aggiungono sempre le altre confessioni religiose come foglia di fico

per coprire questo scandaloso privilegio costruito per la chiesa cattolica.

Questo riconoscimento implica innanzitutto che lo Stato, le regioni e gli enti locali

possano concedere in comodato (cioè a titolo completamente gratuito) beni mobili e

immobili di loro proprietà. Inoltre la legge prevede 1’esenzione dall’Ici dei locali

dell’oratorio quali «opere di urbanizzazione secondaria». Il mancato introito da parte dei

comuni di questi fondi, calcolato dalla legge pari a 2,5 milioni di euro annui, viene coperto

dallo Stato. Ulteriori e più specifiche agevolazioni o finanziamenti da prevedere ai fini del

riconoscimento delle attività dell’oratorio sono rimandati dalla legge nazionale alle

Regioni.

La legge ha ricevuto un consenso bipartisan da parte di tutte le forze politiche, a

eccezione di Comunisti italiani e Rifondazione. Siamo di fronte a un esempiuo tipico della

omertosa sudditanza del mondo politico nei confronti della chiesa cattolica. Alla Camera,

per la precisione, la legge è stata approvata con i voti della destra e di gran parte della

sinistra (404 voti favorevoli, 19 voti contrari di R.C. e PdC.I, 14 astenuti compreso il

gruppo dello SDI). Nell’occasione DS e Verdi hanno sottolineato come la legge «rispetti i

diversi orientamenti filosofici, culturali e religiosi della società» e il «principio di laicità

dello Stato». Il senatore della Margherita Pierluigi Petrini ha dichiarato che «il

provvedimento svolge una funzione sociale non solo nei confronti dei soggetti considerati

deboli, in grave stato di necessita ed emarginazione, ma si rivolge alla comunità nel suo

insieme, partendo dalla considerazione che ciascuno di noi può attraversare nel corso della

vita momenti difficili» (
Ansa, 15/5/2003). Secondo la deputata dei Verdi Luana Zanella si

tratta invece di «una norma innovativa per valorizzare quanti nel territorio intervengono

nella promozione umana e sociale» (
Ansa, 19/6/2003).

In Puglia i finanziamenti agli oratorî hanno dato luogo a un filone giudiziario. Durante la

campagna elettorale per le regionali del 2005 l’arcivescovo di Lecce, Cosmo Francesco

Ruppi, avrebbe offerto – secondo l’accusa – appoggio politico all’allora presidente della

Regione Puglia, Raffaele Fitto, in cambio dell’impegno di quest’ultimo a far approvare

dalla Regione Puglia il provvedimento con il quale venivano finanziati gli oratorî della

chiesa cattolica pugliese. A tal fine, la giunta Fitto approvò due delibere per complessivi 74

milioni di euro: la prima, l’11 marzo 2005, quindici giorni prima delle elezioni regionali; e

la seconda il 15 aprile 2005, due settimane dopo la sconfitta elettorale, mentre Fitto era

ancora in carica per l’ordinaria amministrazione, in attesa dell’insediamento del nuovo

presidente Nichi Vendola.

Veniamo a un altro capitolo di funzionari della chiesa cattolica stipendiati dallo Stato in

base al famigerato concordato.

L’art. 11 del concordato stabilisce al primo comma che “La Repubblica italiana assicura

che l’appartenenza alle forze armate, alla polizia, o ad altri servizi assimilati, la degenza in

ospedali, case di cura o di assistenza pubbliche, la permanenza negli istituti di

prevenzione e pena non possono dar luogo ad alcun impedimento nell’esercizio della

libertà religiosa e nell’adempimento delle pratiche di culto dei cattolici”. Fin qui niente da

ridire. Si tratta di un’esplicazione particolare della libertà religiosa garantita dalla

Costituzione, indipendentemente dal Concordato.

Sul comma secondo, però, c’è da ridire. Stabilisce: “L’assistenza spirituale ai medesimi è

assicurata da ecclesiatici nominati dalle autorità italiane competenti su designazione

dell’autorità ecclesiastica e secondo lo stato giuridico, l’organico e le modalità stabiliti

d’intesa fra tali autorità”. Siamo di fronte alla tipica ipocrisia del linguaggio di loro

eminenze. La propaganda religiosa diventa assistenza spirituale. Uno potrebbe pensare,

laicamente, che l’assistenza spirituale sia l’assistenza psicologica, ma la laurea in teologia

non è sicuramente un titolo che garantisca una preparazione specifica per aiutare nel

benessere psichico. Comunque, non è compito dello Stato laico assicurare l’assistenza

religiosa a chicchessia. La chiesa cattolica ha preteso e pretende che ci siano suoi

funzionari pagati dallo Stato perché facciano propaganda, pardon assistenza religiosa.

I cappellani sono funzionari della chiesa cattolica pagati dallo Stato italiano per

perseguire finalità proprie della chiesa cattolica.

Ci sono, poi, varie convenzioni per stabilire numero e retribuzione dei cappellani

militari, nella Polizia di Stato, nelle carceri, negli ospedali. Non so se ci siano anche per i

vigili del fuoco, per i vigili urbani e per la nettezza urbana.

Per la Polizia di Stato c’è una convenzione tra ministro dell’interno e Cei. Nella Polizia di

Stato c’è un cappellano per ogni questura. Poi ci sono cappellani presso alloggi collettivi di

servizio e presso istituti di istruzione. Al vertice si trova il cappellano coordinatore

nazionale. Il cappellano “cura la celebrazione dei riti liturgici, la catechesi, specie in

preparazione ai sacramenti, la formazione cristiana, nonché l’organizzazione di ogni

opportuna attività pastorale e culturale”, dice la convenzione tra lo Stato, che dovrebbe

essere laico, e la chiesa cattolica. In modo particolare il cappellano cura la celebrazione

annuale della festa di San Michele Arcangelo, questa fantasiosa entità che la chiesa ha

posto a protezione della Polizia di Stato.

Per le Forze armate c’è una convenzione tra ministro della difesa e Cei. I cappellani

militari sono circa 200 e fanno capo all’ordinario militare che ha il grado di vescovo.

Per le carceri c’è una convenzione tra ministro di grazia e giustizia e Cei. Alcune

centinaia sono anche i cappellani nelle carceri.

Per gli ospedali ci sono protocolli d’intesa tra il presidente della Regione o l’assessore alla

sanità e la Conferenza episcopale regionale o interregionale. Il protocollo d’intesa della

regione Lombardia, ad esempio, prevede che per ogni ente gestore (con questo termine si

intendono le «aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere e, in generale, tutte le altre

strutture sanitarie pubbliche e private accreditate») «deve essere previsto almeno un

assistente religioso». In strutture con più di 300 posti letto gli «assistenti religiosi» saranno

due. Oltre i 700 posti letto saranno uno ogni 350. Quanto alla copertura degli oneri

finanziari del servizio, l’articolo 7 comma 2 dell’Intesa afferma esplicitamente che «gli

assistenti religiosi sono assunti dall’ente gestore, su designazione dell’ordinario diocesano,

con contratto di natura indeterminata, a tempo pieno o parziale». Inoltre l’ente gestore

deve assicurare «spazi idonei per le funzioni di culto (chiesa o cappella e sacrestia), per

l’attività religiosa relativa ai servizi mortuari, ad uso ufficio, per gli assistenti religiosi ed i

loro collaboratori, con relativi arredi, attrezzature ed accessori», e mettere a disposizione

degli assistenti religiosi «un alloggio, adeguatamente arredato, di regola ubicato

all’interno della struttura di ricovero o comunque comunicante con la stessa»

(rispettivamente commi 1 e 2, art. 10). Infine, «le usuali spese di culto, nonché quelle di

conservazione degli arredi, suppellettili e attrezzature occorrenti per il funzionamento del


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izio, la manutenzione ordinaria e straordinaria degli spazi in uso, le pulizie (escluse

quelle dell’alloggio, se esterno alla struttura), nonché le spese di illuminazione e

riscaldamento di tutti i locali adibiti al servizio di assistenza religiosa, sono a carico dell’

ente gestore» (comma 4, art. 10).

A ogni legge finanziaria i comuni si lamentano per i tagli che vengono operati nei loro

confronti. Le risorse dei comuni sono sempre insufficienti rispetto ai loro compiti. Se i

comuni non fossero obbligati a fare regali alla chiesa cattolica forse le cose andrebbero

meglio. Alle volte, troppo spesso, i comuni (come pure le province e le regioni) fanno

regali per propria scelta. I soldi che vanno alla chiesa cattolica sono servizi sottratti alle

fasce più povere dela popolazione. Forse, è per questo che talora la chiesa cattolica si

definisce chiesa dei poveri.

Abbiamo visto la scandalosa esenzione dell’Ici, regalo indiretto di miliardi di euro.

Vediamo, adesso, il diretto regalo, obbligatorio per legge, di altri miliardi di euro con il

meccanismo degli oneri di urbanizzazione.

Gli oneri di urbanizzazione sono stati introdotti dalla legge legge 28 gennaio 1977, n. 10,

c.d. “legge Bucalossi”. La materia è oggi regolata dal decreto legislativo 6 giugno 2001, n.

380, contenente il
Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia.

Gli oneri di urbanizzazione sono contributi, dovuti ai Comuni, da coloro che realizzano

interventi di costruzione e di trasformazione edilizia. Il rilascio del permesso di costruire

comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di

urbanizzazione nonché al costo di costruzione. Gli oneri di urbanizzazione sono dovuti a

titolo di partecipazione alle spese che i Comuni sostengono per l´urbanizzazione del loro

territorio.

Si distinguono in oneri di urbanizzazione primaria e secondaria. Gli oneri di

urbanizzazione primaria sono relativi a questi interventi: strade residenziali, spazi di sosta

o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas,

pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato. Gli oneri di urbanizzazione secondaria

sono relativi ad altri interventi: asili nido e scuole materne, scuole dell’obbligo nonché

strutture e complessi per l’istruzione superiore all’obbligo, mercati di quartiere,

delegazioni comunali, chiese e altri edifici religiosi, impianti sportivi di quartiere, aree

verdi di quartiere, centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie.

I comuni sono obbligati a versare l’8 per cento (si badi, non l’8 per mille) degli oneri

ricevuti per l’urbanizzazione secondaria per le chiese. Cito per tutti il caso della legge

regionale lombarda n. 12 del 2005 che, in un apposito articolo, obbliga i Comuni a versare

l’8 per cento dei proventi degli oneri di urbanizzazione secondaria agli “enti

istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica”. La possibilità che

altre confessioni possano accedere ai finanziamenti previsti è limitata dalla richiesta di

«una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune» e dai criteri di

ripartizione, basati sulla «consistenza e incidenza sociale delle rispettive confessioni» (artt.

70 e 72).

L’obbligo esiste in tutte le regioni, per tutti i comuni d’Italia. Ogni anno alcuni miliardi di

euro passano dalle casse comunali a quelle della chiesa cattolica, anche là dove c’è carenza

di asili nido e di scuole materne, che pure riguardano l’urbanizzazione secondaria, mentre

non c’è carenza di chiese cattoliche, anzi c’è abbondanza. Ormai in Italia il numero delle

chiese è eccessivo rispetto al numero di cittadini che le frequentano e non c’è più bisogno

di costruirne ancora. Molte rimangono chiuse il maggior numero dei giorni della

settimana, del mese o dell’anno. Da notare che anche quelle non usate o poco usate sono

esenti dall’Ici. Alcune vengono aperte un giorno all’anno per la festa del santo al quale

sono dedicate. Basterebbe nella finanziaria un piccolo comma per disporre che

quest’obbligo è abrogato e i comuni avrebbero più disponibilità, o meno carenza, per

soddisfare bisogni collettivi veri e più importanti.

Credo che questo 8 per cento sia ben più pesante dell’8 per mille. Non mi risulta che

siano mai stati fatti i conti di quanto sia l’ammontare complessivo in Italia o che,

comunque, sia stato diffuso attraverso i mezzi di comunicazione.

L’8 per mille è stato introdotto a seguito del concordato del 1984 e frutta alla chiesa

cattolica circa un miliardo di euro all’anno; è il più noto dei canali attraverso i quali il

denaro pubblico va a finanziare questa confessione religiosa.

Più precisamente, l’8 per mille è disciplinato dalla legge 222/1985, che dà esecuzione al

concordato peggiorando gli obblighi finanziari dello Stato e migliorando i vantaggi

economici della chiesa cattolica rispetto al precedente concordato.

Prima di questa legge lo Stato pagava lo stipendio al clero diocesano cattolico. Se avesse

continuato così, diminuendo il clero (come sta di anno in anno diminuendo) sarebbe

diminuito anche il peso economico per lo Stato. Con il Concordato del 1984 si è passati dal

pagamento dello stipendio ai singoli preti al finanziamento della chiesa cattolica italiana in

quanto tale. Per stare nel concreto, della somma che la Cei riceve con l’8 per mille neppure

il 40% va per il sostentamento del clero.

La Cei fissa annualmente il reddito mensile minimo per tutti i sacerdoti diocesani. Se non

vi arrivano con i propri mezzi, la Cei integra con i proventi dell’8 per mille. Nel 1999 3.200

preti sono stati autosufficienti, solo 103 sono stati a pieno carico della Cei, 36.509 hanno

ricevuto un’integrazione. Perché ai preti cattolici deve essere garantito un reddito mensile

minimo e agli altri cittadini italiani no? È questa la sana laicità di cui parla Ratzinger?

L’otto per mille (OPM) fu ideato dalla Commissione paritetica chiamata a stilare la bozza

della legge che doveva regolamentare le questioni economiche e finanziarie fra le Parti. La

delegazione cattolica era capeggiata da mons. Nicora, poi vescovo di Verona; attualmente

è cardinale e presiede l’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), il

secondo ufficio finanziario del Vaticano. Viene dopo lo IOR, reso famoso da Marcinkus e

dai suicidi di Sindona e Calvi.

L’unico scopo dell’OPM è quello di garantire il finanziamento statale alla Chiesa cattolica

come tale. A tanto non si era spinto il Concordato del 1929 che, pur riconoscendo a questa

numerosissimi privilegî non la finanziava direttamente, ma si limitava a pagare lo

stipendio (congrua) ai preti titolari di una parrocchia.

Molti credono, con la propria firma, di dare alla chiesa cattolica l’8 per mille dell’Irpef

che pagano allo Stato. Non è così. Il singolo contribuente non dà niente alla chiesa

cattolica. Dice la legge che una quota pari all’otto per mille dell’imposta sul reddito delle

persone fisiche è “destinata, in parte, a scopo di interesse sociale o di carattere umanitario

a diretta gestione statale e, in parte, a scopo di carattere religioso a diretta gestione della

Chiesa cattolica”.

Questa legge, che cozza contro la laicità dello Stato, affida alla chiesa cattolica la gestione

di una quota di un’imposta statale. La quota è proporzionata alle scelte espresse: “In caso

di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione

alle scelte espresse”.

Con questo meccanismo abbiamo che neanche il 40 per cento dei contribuenti firma la

destinazione dell’8 per mille e tuttavia alla chiesa cattolica va più dell’88 per cento della

torta.

Di anno in anno diminuisce la quota che va allo Stato. Ed è comprensibile questa poca

fiducia nello Stato. Si fa di tutto per screditare lo Stato, evidentemente per avvantaggiare

la chiesa cattolica. Si è passati dal 14,43% delle dichiarazioni del 1997 all’8,65% di tre anni

fa. Dice la legge che lo Stato dovrebbe destinare la propria quota “per interventi

straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione

beni culturali”. Invece, non è così. Ad esempio, le cosiddette “missioni di pace” in Albania

e nel Kosovo furono finanziate coi soldi dell’8 per mille statale del 1999, 2000 e 2001. La

finanziaria 2004 ha scippato per tre anni all’8 per mille statale 80 milioni di euro annui. Nel

2004 lo Stato ha ricevuto circa 100 milioni di euro. Detraendo gli 80 milioni di euro

trasferiti al bilancio generale, rimangono 20 milioni di euro. Di questi 20 milioni di euro il

44,64%, cioè quasi la metà, è andato alla conservazione dei beni culturali legati al culto

cattolico.

Questa situazione è poco nota, ma sembra fatta apposta per dissuadère i contribuenti

laici a firmare per lo Stato. L’uso dell’8 per mille dello Stato a favore delle Confessioni

religiose, che già usufruiscono di un loro 8 per mille è irrispettoso nei confronti dei

contribuenti che hanno scelto esplicitamente lo Stato al posto, appunto, delle Confessioni

religiose.

La quota dell’8 per mille dello Stato viene destinata con decreto del Presidente del

consiglio dei ministri. Nel decreto apparso sulla Gazzetta Ufficiale del 26 gennaio 2005 era

possibile leggere, ad esempio, queste destinazioni dell’8 per mille statale: Pontificia

università Gregoriana di Roma (370 mila euro); curia generalizia Casa di Santa Brigida,

Roma (400 mila euro); seminario vescovile di Fiesole (200 mila euro); venerabile

confraternita Santa Maria della Purità, Gallipoli, Lecce (300 mila euro); Opera

preservazione della fede, Ventimiglia, Imperia (420 mila euro); Opera Pia Casa Regina

Coeli, Napoli (40 mila euro); Associazione volontari per il servizio internazionale, Forlì

(202.941 euro). L’ Avsi è un’organizzazione non governativa aderente alla Compagnia

delle opere, il «braccio economico» di Comunione e liberazione.

Otto per mille, esenzione Ici, otto per cento degli oneri di urbanizzazione secondaria,

mantenimento dei funzionari e propagandisti della chiesa cattolica sotto forma di

insegnanti di religione, cappellani militari, carcerari, ospedalieri, finanziamento degli

oratori, finanziamento della scuola cattolica sono tutti espedienti con i quali lo Stato

italiano toglie ad atei, agnostici, indifferenti religiosi, non praticanti, miliardi di euro per

regalarli alla chiesa cattolica.

Tutto in base al Concordato o a varie leggi
ad ecclesiam. Poi, vi sono migliaia e migliaia di

atti amministrativi dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni che danno altri

miliardi di euro alla chiesa cattolica. Il tutto ha la dimensione di una manovra finanziaria.


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04/01/2009 16:21
 
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Che vergogna vedere anche molte Chiese Evangeliche ricercare gli stessi privilegi!!



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