evere senza alcun trattamento preliminare. Poi, il Comune di Roma costruì le vasche di
depurazione. Lo Stato Città del Vaticano si avvalse di questo servizio, senza mai pagare le
bollette al comune di Roma. Gli arretrati avevano raggiunto nel 1999 la somma di 44
miliardi di lire. Quando l’azienda municipalizzata di Roma, l’Acea, è stata quotata in
Borsa, gli azionisti hanno reclamato il pagamento delle «bollette arretrate». La Santa Sede
fece orecchie da mercante. Il ministero dell’Economia si assunse l’onere di saldare il debito
della Santa Sede, ottenendo in cambio la garanzia – per il futuro – del pagamento regolare
da parte del Vaticano del servizio di smaltimento delle acque di scarico, il cui costo era di
circa 2 milioni di euro l’ anno (secondo l’agenzia Adista, 22/11/2003). Il Vaticano, però non pagò niente. Intervenne l’uomo di turno della divina provvidenza
nella persona dal senatore di Forza Italia Mario Ferrara il quale propose un emendamento
alla legge finanziaria 2004, che divenne un comma dell’art. 3. Questa norma ad ecclesiam
prevedeva lo stanziamento di «25 milioni di euro per l’anno 2004 e di 4 milioni di euro a
decorrere dall’anno 2005» per dotare il Vaticano di un sistema di acque proprio. Da notare
che lo Stato Città del Vaticano è molto ricco di valori mobiliari e immobiliari e non avrebbe
bisogno di questi regali promossi da Forza Vaticano.
Ogni anno nella legge finanziaria c’è qualche norma ad ecclesiam. Come ricorderete l’anno scorso ci fu quella per l’Ici.
L’Ici è l’imposta comunale sugli immobili.
Il problema che si pose l’anno scorso era questo: la chiesa cattolica deve pagare l’Ici per
gli immobili nei quali svolge attività commerciale? Il problema venne alla ribalta grazie al
comune di Ancona e alle suore Zelatrici del Sacro Cuore del medesimo comune.
Le Suore Zelatrici del Sacro Cuore di Ancona hanno degli immobili nei quali svolgono a
pagamento attività sanitaria (casa di cura) e attività ricettiva (pensionato per donne
anziane e studentesse universitarie), cioè esercitano attività commerciali.
Le Suore Zelatrici non sono molto zelanti con il fisco e non hanno mai presentato al
comune di Ancona la denuncia ai fini dell’Ici perché ritengono (in armonia e in fedele
obbedienza a quanto dice la Cei) che le attività che vi svolgono siano incluse tra quelle
esenti dall’imposta perché loro sono un ente ecclesiastico. Nel 1995 il comune notifica un
avviso di accertamento Ici e reclama il versamento dell’imposta per tutti gli anni compresi
tra il 1993 e il 1998. L’istituto religioso ricorre alla Commissione Tributaria Provinciale, che
gli dà torto. Contro la decisione di prima istanza l’ente religioso ricorre in secondo grado,
dove pure gli viene dato torto. Le Suore Zelatrici del Sacro Cuore ricorrono alla Corte di
cassazione, che decide la vertenza con quattro sentenze nel marzo del 2004 (cf Sentenza
4573, 4642, 4644 e 4645). La Cassazione dice che le suore devono pagare l’Ici per gli
immobili nei quali svolgono attività commerciale.
Succede il finimondo. Cei, diocesi, stampa cattolica nazionale e diocesana insorgono
contro questa eresia fiscale, che farebbe pagare gli enti ecclesiastici centinaia di milioni o
miliardi di euro (con gli arretrati) ai comuni.
L’interpretazione data alla legge fiscale dal comune di Ancona, dalle commissioni
tributarie e dalla cassazione non sarebbe canonica, non sarebbe ortodossa. La retta dottrina
è stata finora seguita dalla generalità dei comuni, tant’è che i casi di controversia sono più
unici che rari, dice la Cei. Secondo la Cei, preti, frati, suore, diocesi, parrocchie,