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CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Aspetti in ombra della legge sociale dell'islam. 4

Ultimo Aggiornamento: 11/01/2009 19:07
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G.nni Cantoni - Alleanza cattolica

[Dal quarto capitolo. N.B.: i riferimenti bibliografici incompleti si riferiscono a testi citati nei capitoli precedenti]


IV
Qualche aspetto particolare della legge sociale islamica

Dopo aver evocato aspetti di grandissimo spessore della realtà islamica, faccio osservare come la problematica a essi corrispondente abbia rilevanza pure in settori subordinati, in quanto contenuti come un meno nel più che ho ricordato grosso modo: per esempio, anche se in modo non esclusivo, relativamente alla gestione della cosa pubblica e alla libertà religiosa, cioè alla vita religiosa dei non musulmani e alla possibilità per i musulmani di lasciare l’islam. Si tratta di problemi che trovano rispettivamente il fondamento della loro soluzione islamicamente corretta, per esempio, nella sura IX, «At-Tawba» (Il Pentimento o la Disapprovazione), versetto 29; nella sura II, «Al-Baqara» (La Giovenca), versetti 190-193; e nelle sure III, «Âl-‘Imrân» (La famiglia di Imran), versetti 86-91, IV, «An-Nisâ’» (Le Donne), versetto 89, e XVI, «An-Nahl» (Le Api), versetti 106-107, integrate dal quattordicesimo dei Quaranta hadith, selezionato da an-Nawawî dalle raccolte dei due maggiori tradizionisti, al-Bukhârî e Muslim (1).



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1. La posizione politica del non musulmano in paesi islamici

Quanto alla posizione politica del non musulmano in paesi islamici, nella sura IX, «At-Tawba» (Il Pentimento o la Disapprovazione), versetto 29, del Corano si legge: «Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati».

Nell’edizione del Corano di cui mi servo, il passo relativo al tributo è commentato nei termini seguenti: «"il tributo" (jizya): è il tributo di capitolazione con il quale giudei e cristiani riconoscevano lo Stato islamico. Il pagamento della "jizya" conferiva loro lo status di "dhimmiy" (protetti) e con il quale ottenevano il diritto di vivere in pace e in sicurezza nello Stato islamico. Non si tratta certo di una forma di discriminazione, infatti, essi erano esentati dalla decima, che per le sue caratteristiche è riservata ai credenti, e dal servizio militare. Se lo assolvevano non pagavano il tributo in quel periodo» (2).

A maggior chiarimento, merita di essere riportato quanto, nell’appendice 9 della stessa edizione del Corano, intitolata «A proposito del concetto di "jihâd"», si afferma, con un’allure meno storica ma decisamente normativa, confermata dall’uso del verbo al tempo presente: «Quando la guerra si conclude con la conquista da parte dei musulmani di un territorio abitato da gente appartenente ad una delle religioni del Libro, la condizione dei cittadini non musulmani in uno Stato retto dalla legge islamica è quella di dhimmiy (protetti). Essendo esentati dalla zakât (la decima) essi sono sottoposti al pagamento della "jizya" (l’imposta di protezione) e possono vivere indisturbati partecipando alla vita sociale e amministrativa dello Stato» (3). Com’è detto con straordinaria precisione e come s’intende bene, è ipotizzata la partecipazione alla gestione della cosa pubblica, non alle decisioni relative a essa, cioè alla «vita sociale e amministrativa» ma non alla vita politica.

Sintetizzando il quadro storico, nei paesi conquistati all’islam la società comprendeva in primo luogo i musulmani cittadini a pieno titolo, che normalmente dovevano avere posti di comando; quindi la «gente del Libro», che godeva dello statuto di dhimmi, di «protetti» (4); veniva, infine, il gruppo degli «associatori», i mushrikîn, che non professano il puro monoteismo e adorano assieme a Dio altre divinità a lui associate. Nel 1988 padre Jomier nota: «È assai difficile valutare la situazione delle minoranze cristiane in terra d’Islam perché esteriormente tutti diranno che tutto va bene e che nessuno desidera che degli stranieri s’immischino dei loro affari. Di fatto esistono vari settori delicati, come quello della nomina a posti di rilievo, prima di tutto» (5).

Ma, qual’è la sorte degli sconfitti che non siano «gente del Libro», ma «associatori»? Di essi è fatto stato nella stessa sura IX, «At-Tawba» (Il Pentimento o la Disapprovazione), ai versetti 3, 4 e 5: «Ecco da parte di Allah e del Suo Messaggero, un proclama alle genti nel giorno del Pellegrinaggio: "Allah e il Suo Messaggero disconoscono i politeisti. Se vi pentite, sarà meglio per voi; se invece volgerete le spalle, sappiate che non potrete ridurre Allah all’impotenza". Annuncia, a coloro che non credono, un doloroso castigo.
«Fanno eccezione quei politeisti con i quali concludeste un patto, che non lo violarono in nulla e non aiutarono nessuno contro di voi: rispettate il patto fino alla sua scadenza. Allah ama coloro che [Lo] temono.
«Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi associatori ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati»
.
«Con questo versetto — si legge nel commento — viene definitivamente interdetta la pacifica convivenza con i politeisti» (6).

Se quanto esposto dice relazione allo jus conditum, meritano attenzione indicazioni relative allo jus condendum. Ne ricavo una dall’edizione del 18 agosto 1975 del quotidiano libanese «Al-Safîr», portavoce ufficiale della dirigenza musulmana e del governo della Repubblica Araba Siriana, che pubblica un articolo dal titolo «‘An al-sîghah wa-l-khawf wa-l-musâwât», «Della forma, della paura e dell’uguaglianza». Lo scritto porta la firma di Husayn ‘Abd al-Râziq Quwatli (1931-1993), che ha studiato Lettere a Il Cairo e Filosofia all’Université Saint-Joseph di Beirut, città nella quale ha poi insegnato precisamente quest’ultima materia all’Université Libanaise, e che, all’epoca, era gran muftî di Beirut — carica ricoperta dal 1968 al 1991 —, cioè direttore generale della principale istituzione sunnita nel Paese dei Cedri, Dar El-Fatwa, la «Casa del decreto», sede di servizi relativi agl’interessi in materia di gestione civile e religiosa della comunità appunto sunnita. Nell’articolo in questione l’autore espone a grandi linee i princìpi della dottrina islamica in tema di potere: «Vi è una posizione chiara in Islam: il musulmano non può avere un atteggiamento indifferente di fronte allo Stato e, ipso facto, ammettere le mezze soluzioni a proposito di chi dirige e del potere. O chi dirige è musulmano e il potere anche, allora è soddisfatto e lo approva; oppure chi dirige non è musulmano e il potere non è islamico, allora lo rifiuta, gli si oppone e opera per sopprimerlo con la dolcezza o con la forza, apertamente o in segreto. Questo atteggiamento deriva da un principio fondamentale dell’islam. Quindi è un fondamento ideologico dottrinale del musulmano e ogni concessione, anche parziale, significa per forza una concessione al suo islam [...]. I musulmani non hanno ricevuto questa dottrina in eredità dai loro genitori per poterla trasformare ma credono sia stata loro dettata dal Profeta [...]. Senza lo Stato islamico, la dottrina del musulmano è incompleta e l’è pure la giustizia islamica: amputare la mano del ladro, lapidare l’adultera, uccidere l’assassino, versare la zakât (l’elemosina), intraprendere il djihad, tutti questi doveri non possono essere compiuti completamente senza lo Stato islamico e il governo dei musulmani» (7).

Il documento permette di verificare perfettamente il carattere utopistico dell’ummah grazie all’affermazione secondo cui la perfezione nell’adempimento della legge è condizionata dall’instaurazione dello Stato islamico (8). Da questo carattere deriva il fatto che, nel Regno dell’Arabia Saudita, l’islam è la «religione unica», in altri paesi «religione di Stato», in pressoché tutti la sharî‘a è «la fonte della legge» o almeno «una fonte della legge» ed è formalmente previsto che il capo dello Stato sia musulmano, talora espressamente figlio legittimo di genitori musulmani (9). Inoltre, nel Modello di Costituzione Islamica elaborato da un gruppo di «saggi» sotto l’egida del Consiglio Islamico d’Europa nel 1983, fra I fondamenti del potere e le basi della società è rubricato il «[...] compiere l’obbligo di trasmettere il Messaggio coranico e d’invitare ad abbracciare l’islam» (10).

In proposito, merita particolare attenzione la classificazione proposta da Abdelfattah Amor — professore emerito presso la facoltà di Scienze Giuridiche, Politiche e Sociali dell’università di Tunisi, nonché relatore speciale alla Commissione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite sull’intolleranza religiosa —, fra «Stati subordinati alla religione», «Stati padroni della religione» e «Stati affrancati dalla religione» (11): le prime due categorie sono felicemente atte a descrivere non tanto tesi normative quanto, piuttosto, ipotesi circa l’ondeggiamento storico fra il potere politico al servizio della religione, quando non asservito a essa, e l’autorità religiosa al servizio del potere politico, quando non — a sua volta — asservita a esso; la terza categoria indica le difficili vie verso la regolamentazione, prima dottrinale che istituzionale, fra i due aspetti dell’unica, indivisa e indivisibile, realtà umana.

«Per Stati subordinati alla religione — scrive lo studioso tunisino — si pensa agli Stati che sono l’espressione strumentale della religione. [...]
«Lo Stato è, quindi, lo Stato della religione, condizione fondamentalmente diversa, addirittura opposta a quella della religione ridotta semplicemente alla religione di Stato»: esempi ne sarebbero gli Stati del Sudan, del Pakistan, del Bahrein e, soprattutto, dell’Arabia Saudita e dell’Iran (12).

Quanto agli «Stati padroni della religione», «l’Islam riconosciuto dallo Stato, tutelato dallo Stato, non sfuggirà allo Stato e non avrà abbastanza mezzi per contestarlo o combatterlo»: esempi ne sarebbero gli Stati d’Algeria, Gibuti, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Giordania, Kuwait, Marocco, Mauritania, Qatar, Somalia e Tunisia (13).

Infine, la categoria degli «Stati affrancati dalla religione» può essere suddivisa in tre sotto-categorie: nella prima si pongono gli Stati che si astengono dal riconoscere uno statuto costituzionale all’islam, come quelli della Guinea, della Guinea Bissau e, soprattutto, d’Indonesia; nella seconda gli Stati che raccomandano la separazione fra lo Stato e la religione, come nel Niger; nella terza quelli che si proclamano apertamente laici, come nel Burkina Faso, nel Camerun, nel Gambia, nel Mali, nel Senegal, nel Ciad e in Turchia (14).


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1. La posizione politica del non musulmano in paesi islamici

Quanto alla posizione politica del non musulmano in paesi islamici, nella sura IX, «At-Tawba» (Il Pentimento o la Disapprovazione), versetto 29, del Corano si legge: «Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati».

Nell’edizione del Corano di cui mi servo, il passo relativo al tributo è commentato nei termini seguenti: «"il tributo" (jizya): è il tributo di capitolazione con il quale giudei e cristiani riconoscevano lo Stato islamico. Il pagamento della "jizya" conferiva loro lo status di "dhimmiy" (protetti) e con il quale ottenevano il diritto di vivere in pace e in sicurezza nello Stato islamico. Non si tratta certo di una forma di discriminazione, infatti, essi erano esentati dalla decima, che per le sue caratteristiche è riservata ai credenti, e dal servizio militare. Se lo assolvevano non pagavano il tributo in quel periodo» (2).

A maggior chiarimento, merita di essere riportato quanto, nell’appendice 9 della stessa edizione del Corano, intitolata «A proposito del concetto di "jihâd"», si afferma, con un’allure meno storica ma decisamente normativa, confermata dall’uso del verbo al tempo presente: «Quando la guerra si conclude con la conquista da parte dei musulmani di un territorio abitato da gente appartenente ad una delle religioni del Libro, la condizione dei cittadini non musulmani in uno Stato retto dalla legge islamica è quella di dhimmiy (protetti). Essendo esentati dalla zakât (la decima) essi sono sottoposti al pagamento della "jizya" (l’imposta di protezione) e possono vivere indisturbati partecipando alla vita sociale e amministrativa dello Stato» (3). Com’è detto con straordinaria precisione e come s’intende bene, è ipotizzata la partecipazione alla gestione della cosa pubblica, non alle decisioni relative a essa, cioè alla «vita sociale e amministrativa» ma non alla vita politica.

Sintetizzando il quadro storico, nei paesi conquistati all’islam la società comprendeva in primo luogo i musulmani cittadini a pieno titolo, che normalmente dovevano avere posti di comando; quindi la «gente del Libro», che godeva dello statuto di dhimmi, di «protetti» (4); veniva, infine, il gruppo degli «associatori», i mushrikîn, che non professano il puro monoteismo e adorano assieme a Dio altre divinità a lui associate. Nel 1988 padre Jomier nota: «È assai difficile valutare la situazione delle minoranze cristiane in terra d’Islam perché esteriormente tutti diranno che tutto va bene e che nessuno desidera che degli stranieri s’immischino dei loro affari. Di fatto esistono vari settori delicati, come quello della nomina a posti di rilievo, prima di tutto» (5).

Ma, qual’è la sorte degli sconfitti che non siano «gente del Libro», ma «associatori»? Di essi è fatto stato nella stessa sura IX, «At-Tawba» (Il Pentimento o la Disapprovazione), ai versetti 3, 4 e 5: «Ecco da parte di Allah e del Suo Messaggero, un proclama alle genti nel giorno del Pellegrinaggio: "Allah e il Suo Messaggero disconoscono i politeisti. Se vi pentite, sarà meglio per voi; se invece volgerete le spalle, sappiate che non potrete ridurre Allah all’impotenza". Annuncia, a coloro che non credono, un doloroso castigo.
«Fanno eccezione quei politeisti con i quali concludeste un patto, che non lo violarono in nulla e non aiutarono nessuno contro di voi: rispettate il patto fino alla sua scadenza. Allah ama coloro che [Lo] temono.
«Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi associatori ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati»
.
«Con questo versetto — si legge nel commento — viene definitivamente interdetta la pacifica convivenza con i politeisti» (6).

Se quanto esposto dice relazione allo jus conditum, meritano attenzione indicazioni relative allo jus condendum. Ne ricavo una dall’edizione del 18 agosto 1975 del quotidiano libanese «Al-Safîr», portavoce ufficiale della dirigenza musulmana e del governo della Repubblica Araba Siriana, che pubblica un articolo dal titolo «‘An al-sîghah wa-l-khawf wa-l-musâwât», «Della forma, della paura e dell’uguaglianza». Lo scritto porta la firma di Husayn ‘Abd al-Râziq Quwatli (1931-1993), che ha studiato Lettere a Il Cairo e Filosofia all’Université Saint-Joseph di Beirut, città nella quale ha poi insegnato precisamente quest’ultima materia all’Université Libanaise, e che, all’epoca, era gran muftî di Beirut — carica ricoperta dal 1968 al 1991 —, cioè direttore generale della principale istituzione sunnita nel Paese dei Cedri, Dar El-Fatwa, la «Casa del decreto», sede di servizi relativi agl’interessi in materia di gestione civile e religiosa della comunità appunto sunnita. Nell’articolo in questione l’autore espone a grandi linee i princìpi della dottrina islamica in tema di potere: «Vi è una posizione chiara in Islam: il musulmano non può avere un atteggiamento indifferente di fronte allo Stato e, ipso facto, ammettere le mezze soluzioni a proposito di chi dirige e del potere. O chi dirige è musulmano e il potere anche, allora è soddisfatto e lo approva; oppure chi dirige non è musulmano e il potere non è islamico, allora lo rifiuta, gli si oppone e opera per sopprimerlo con la dolcezza o con la forza, apertamente o in segreto. Questo atteggiamento deriva da un principio fondamentale dell’islam. Quindi è un fondamento ideologico dottrinale del musulmano e ogni concessione, anche parziale, significa per forza una concessione al suo islam [...]. I musulmani non hanno ricevuto questa dottrina in eredità dai loro genitori per poterla trasformare ma credono sia stata loro dettata dal Profeta [...]. Senza lo Stato islamico, la dottrina del musulmano è incompleta e l’è pure la giustizia islamica: amputare la mano del ladro, lapidare l’adultera, uccidere l’assassino, versare la zakât (l’elemosina), intraprendere il djihad, tutti questi doveri non possono essere compiuti completamente senza lo Stato islamico e il governo dei musulmani» (7).

Il documento permette di verificare perfettamente il carattere utopistico dell’ummah grazie all’affermazione secondo cui la perfezione nell’adempimento della legge è condizionata dall’instaurazione dello Stato islamico (8). Da questo carattere deriva il fatto che, nel Regno dell’Arabia Saudita, l’islam è la «religione unica», in altri paesi «religione di Stato», in pressoché tutti la sharî‘a è «la fonte della legge» o almeno «una fonte della legge» ed è formalmente previsto che il capo dello Stato sia musulmano, talora espressamente figlio legittimo di genitori musulmani (9). Inoltre, nel Modello di Costituzione Islamica elaborato da un gruppo di «saggi» sotto l’egida del Consiglio Islamico d’Europa nel 1983, fra I fondamenti del potere e le basi della società è rubricato il «[...] compiere l’obbligo di trasmettere il Messaggio coranico e d’invitare ad abbracciare l’islam» (10).

In proposito, merita particolare attenzione la classificazione proposta da Abdelfattah Amor — professore emerito presso la facoltà di Scienze Giuridiche, Politiche e Sociali dell’università di Tunisi, nonché relatore speciale alla Commissione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite sull’intolleranza religiosa —, fra «Stati subordinati alla religione», «Stati padroni della religione» e «Stati affrancati dalla religione» (11): le prime due categorie sono felicemente atte a descrivere non tanto tesi normative quanto, piuttosto, ipotesi circa l’ondeggiamento storico fra il potere politico al servizio della religione, quando non asservito a essa, e l’autorità religiosa al servizio del potere politico, quando non — a sua volta — asservita a esso; la terza categoria indica le difficili vie verso la regolamentazione, prima dottrinale che istituzionale, fra i due aspetti dell’unica, indivisa e indivisibile, realtà umana.

«Per Stati subordinati alla religione — scrive lo studioso tunisino — si pensa agli Stati che sono l’espressione strumentale della religione. [...]
«Lo Stato è, quindi, lo Stato della religione, condizione fondamentalmente diversa, addirittura opposta a quella della religione ridotta semplicemente alla religione di Stato»: esempi ne sarebbero gli Stati del Sudan, del Pakistan, del Bahrein e, soprattutto, dell’Arabia Saudita e dell’Iran (12).

Quanto agli «Stati padroni della religione», «l’Islam riconosciuto dallo Stato, tutelato dallo Stato, non sfuggirà allo Stato e non avrà abbastanza mezzi per contestarlo o combatterlo»: esempi ne sarebbero gli Stati d’Algeria, Gibuti, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Giordania, Kuwait, Marocco, Mauritania, Qatar, Somalia e Tunisia (13).

Infine, la categoria degli «Stati affrancati dalla religione» può essere suddivisa in tre sotto-categorie: nella prima si pongono gli Stati che si astengono dal riconoscere uno statuto costituzionale all’islam, come quelli della Guinea, della Guinea Bissau e, soprattutto, d’Indonesia; nella seconda gli Stati che raccomandano la separazione fra lo Stato e la religione, come nel Niger; nella terza quelli che si proclamano apertamente laici, come nel Burkina Faso, nel Camerun, nel Gambia, nel Mali, nel Senegal, nel Ciad e in Turchia (14).


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2. La vita religiosa dei non musulmani in terra d’Islam

Quanto alla vita religiosa dei non musulmani in terra d’Islam, nella sura II, «Al-Baqara» (La Giovenca), versetti 190-193, del Corano si legge: «Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, ché Allah non ama coloro che eccedono.
«Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti. Se però cessano, allora Allah è perdonatore, misericordioso.
«Combatteteli finché non ci sia più persecuzione e il culto sia [reso solo] ad Allah. Se desistono non ci sia ostilità, a parte contro coloro che prevaricano»
.

Perciò, proseguendo nell’elencazione e nell’esame delle difficoltà dopo quella costituita dallo statuto di dhimmi, padre Jomier scrive: «Il secondo punto è quello della costruzione delle chiese. Nel 1972, vi furono scontri in Egitto tra copti e musulmani» (15) appunto in relazione agli edifici di culto; padre Borrmans si esprime però in termini meno circostanziati, cioè va oltre i rapporti fra copti e musulmani, e più generalmente afferma: «[...] costruire una nuova chiesa si ritiene, in tale contesto, una cosa quasi impossibile» (16). E questa quasi completa impossibilità di costruire nuovi edifici di culto costituisce rappresentazione emblematica, versione per così dire «fisica», «architettonica», dell’impossibililità di svolgere apostolato, di essere missionari, dunque di tentare l’implantatio Ecclesiae, la «costruzione della Chiesa». Come logica conseguenza, uno degli esiti maggiori di quest’ultima impossibiltà è costituito dall’etnicizzazione del fatto religioso: per esempio, l’«essere cristiano perché libanese», un’affermazione che ha suscitato e continua a suscitare «scandalo» fra i soggetti dotati di «pie orecchie», ma della quale raramente ci si è sforzati e ci si sforza d’identificare la causa. Ebbene, poiché nel mondo islamico è impossibile proporre, e perciò eventualmente accettare, un «padre secondo lo spirito», cioè riconoscersi «figli di Dio»; ancora, proporre, e perciò eventualmente accettare, una dipendenza da Dio secondo una prospettiva diversa da quella appunto islamica, l’unica paternità possibile, l’unica relazione possibile con Dio coincide, e rimane, quella ricevuta «secondo la carne». Quindi, non solo si nasce appartenti a una religione, ricevendola come dono dai genitori, da coloro che danno la vita fisica, ma in tale religione si deve vivere, certamente con la possibilità di crescere e di maturare in essa, cioè con la possibilità che — per dirla con linguaggio cristiano, anche se spesso abusato — la fede possa divenire «adulta» dopo esser stata vagliata attraverso l’attività critica del pensiero (17); senza però che tale crescita e tale maturazione possano avere, in modo tematico, un esito giuridicamente rilevante, perciò non solo vivibile ma con sbocco missionario, diverso da quello previsto dal regime religioso vigente: infatti, viene concessa un’unica possibiltà di crescita e di maturazione, quindi di cambiamento, che è quella di diventare musulmani.



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3. La possibilità della conversione dall’islam

Con ogni evidenza, la problematica della conversione dall’islam s’inserisce all’interno di quella ormai indicata consuetamente come relativa alla libertà religiosa. In proposito, è di genere illuminante la dottrina enunciata dallo sceicco Muhammad Hamidullah, originario dell’India, collaboratore di don Massignon e di Laoust, docente all’università d’Istanbul e uno dei maître à penser dell’islam in Francia, dove è vissuto dal 1948 e dove ha animato un gruppo d’Amitié Islamo-Chrétienne: «Basandosi sulla lettera del Profeta a Eraclio, in cui lo invita ad abbracciare l’Islam, o almeno a non violare la libertà dei suoi sudditi che lo volessero fare, possiamo dire che quando non vi è né tolleranza religiosa, né libertà di coscienza in un paese non musulmano, e quando tutti i tentativi per migliorare questa situazione sono falliti, è permessa nell’Islam l’instaurazione di questa libertà con la forza delle armi» (18). Dunque, con ogni evidenza, la libertà religiosa, e la relativa libertà di coscienza, per le quali si può lottare anche con le armi, è semplicemente libertà di diventare o di essere musulmani e di praticare l’islam nei paesi non musulmani.

Quanto alla possibilità per i musulmani di lasciare l’islam — sia nei paesi musulmani che in quelli non musulmani —, cioè quanto alla possibilità della conversione dall’islam, 

a. nella sura III, «Âl-‘Imrân» (La famiglia di Imran), del Corano, ai versetti 86-91, si legge: «Potrebbe mai Allah guidare sulla retta via genti che rinnegano dopo aver creduto e testimoniato che il Messaggero è veridico e dopo averne avute le prove? Allah non guida coloro che prevaricano.


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11/01/2009 19:05
 
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«Loro ricompensa sarà la maledizione di Allah, degli angeli e di tutti gli uomini.
«[Rimarranno in essa] in perpetuo. Il castigo non sarà loro alleviato e non avranno alcuna dilazione,
«eccetto coloro che poi si pentiranno e si emenderanno, poiché Allah è perdonatore, misericordioso.
«In verità, a quelli che rinnegano dopo aver creduto e aumentano la loro miscredenza, non sarà accettato il pentimento. Essi sono coloro che si sono persi.
«Quanto ai miscredenti che muoiono nella miscredenza, quand’anche offrissero come riscatto tutto l’oro della terra, non sarà accettato. Avranno un castigo doloroso e nessuno li soccorrerà»
;
 

b. nella sura IV, «An-Nisâ’» (Le Donne), al versetto 89, è scritto: «Vorrebbero che foste miscredenti come lo sono loro e allora sareste tutti uguali. Non scegliete amici tra loro, finché non emigrano per la causa di Allah. Ma se vi volgono le spalle, allora afferrateli e uccideteli ovunque li troviate» (19); 

c. nella sura XVI, «An-Nahl» (Le Api), ai versetti 106-107, si afferma: «Quanto a chi rinnega Allah dopo aver creduto — eccetto colui che ne sia costretto mantenendo serenamente la fede in cuore — e a chi si lascia entrare in petto la miscredenza; su di loro è la collera di Allah e avranno un castigo terribile.
«Ciò perché preferirono questa vita all’altra.
«In verità, Allah non guida i miscredenti»
;
 

d. infine, l’hadîth XIV dei Quaranta hadith recita: «Non è lecito versare il sangue di un musulmano se non in tre casi: di chi, essendo sposato, commette adulterio; di chi deve pagare vita per vita; di chi rinnega la propria religione e abbandona la comunità» (20).

Perciò padre Jomier conclude: «Infine l’ultimo punto delicato è quello del musulmano apostata. La tolleranza nei confronti dei "protetti" in terra d’Islam ha per condizione l’assenza totale di proselitismo. Mentre da un lato ogni anno migliaia di persone passano all’Islam e sono festeggiate, non è dall’altro assolutamente ammesso che un musulmano lasci l’Islam per farsi cristiano. Una tradizione molto conosciuta nel Medioevo diceva che è vietato versare il sangue di un musulmano (cioè ucciderlo) eccetto che in tre casi: il sangue di un musulmano che ha ucciso un musulmano, quello dell’adultero e quello di un musulmano apostata» (21). Il periodo si chiude con la notazione: «Quest’ultimo punto è rimasto in vigore fino al secolo scorso» (22); però credo che ci troviamo di fronte a un atteggiamento del tipo descritto dallo stesso autore, cioè quello secondo cui «nessuno desidera che degli stranieri s’immischino dei loro affari», dove gli «stranieri» sono, nel caso, quanti non sono religiosi, studiosi e religiosi-studiosi in terra d’islam, questi ultimi preoccupati dall’ipotesi di dover fronteggiare un incremento di difficoltà per la loro presenza e per le loro ricerche. Qualcuno potrebbe osservare che questo atteggiamento è forse dettato da prudenza. Sono evidentemente per l’adozione della prudenza, purché essa venga evocata in quanto tale, come componente di una prassi propagandistica che non dimentica la relazione della propaganda con la pedagogia, e che non si trasforma mai in una falsa descrizione della situazione, inidonea a suscitare almeno la collaborazione della preghiera per la Chiesa in difficoltà.

Di fatto, la «tradizione» cui fa riferimento padre Jomier era certamente «molto conosciuta nel Medioevo», ma pare sia tutt’altro che sconosciuta anche attualmente, sì che l’affermazione rassicurante del domenicano francese non corrisponde alla verità né dei fatti, né delle intenzioni, che si possono qualificare come fatti in potenza, mentre è maggiormente — anche se non perfettamente — rispondente sia ai fatti che alle intenzioni la notazione, in proposito, dell’islamologo libanese Adel Theodor Khoury S.J.: «La Tradizione prevede la pena di morte per il peccato di apostasia, ma nella legislazione attuale della gran parte degli Stati a maggioranza musulmana questa pena non è stata confermata; tuttavia, anche oggi in molte società musulmane l’apostata deve scontare la prigione, l’esilio o può essere ucciso dai suoi stessi familiari» (23).

Quanto ai fatti, nel 1994, non nel Medioevo, Sami Awar Aldeeb Abu-Sahlieh — cristiano di origine palestinese, laureato in Giurisprudenza a Friborgo, in Svizzera, e in Scienze Politiche a Ginevra, è stato ricercatore in Diritto Arabo e Musulmano ed è collaboratore scientifico dell’Institut Suisse de Droit Comparé di Losanna nonché docente di Diritto Musulmano all’Institut de Droit Canonique nell’Université de Sciences Humaines di Strasburgo, in Francia — afferma: «Esistono [...] musulmani che si convertono al cristianesimo [...]. Questi convertiti, secondo i musulmani, sono passibili della pena di morte, anche se vivono in Occidente» (24). Dopo aver segnalato l’esistenza di formali garanzie della libertà religiosa iscritte nelle Costituzioni dei paesi arabi dal 1923 al 1973, e il fatto che le Costituzioni seguenti non fanno riferimento a tale libertà, nota come nei codici penali non sia compresa nessuna disposizione relativa al delitto d’apostasia, fatta eccezione per il codice penale della Repubblica del Sudan del 1991, che all’articolo 126, comma 2, prevede che «chi commette il delitto d’apostasia è invitato a pentirsi in un tempo determinato dal tribunale. Se persiste nell’apostasia, e non si è convertito di recente all’Islam, sarà punito con la morte» (25); e per il codice penale della Repubblica Islamica di Mauritania del 1984, che prevede la stessa pena per lo stesso crimine all’articolo 306, pena estesa nel medesimo articolo a «ogni musulmano maggiorenne che rifiuta di pregare pur riconoscendo l’obbligo della preghiera» (26); dal canto suo il codice penale del Regno del Marocco, all’articolo 220, comma 2, punisce, con una pena detentiva e con un’ammenda, chi induce all’apostasia e tace della sorte dell’apostata (27).


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Ma, «qualunque sia la formulazione adottata dalle Costituzioni arabe — prosegue lo studioso palestinese —, la libertà religiosa garantita da queste Costituzioni può essere compresa solo nei limiti islamici» (28), dal momento che — per esempio — nella carta fondamentale della Repubblica Araba d’Egitto, della Repubblica Araba Siriana, dello Stato del Kuwait, dello Stato del Bahrain, dello Stato del Qatar, della Repubblica dello Yemen e del Regno Hashemita di Giordania si afferma che «[...] il diritto musulmano è una fonte principale di legislazione, o la fonte principale di legislazione» (29). Inoltre, «dopo la morte di Maometto» (30), «il concetto di apostasia si è molto rapidamente allargato per comprendere sia quanti abbandonano l’Islam sia quanti ne hanno una concezione diversa, o si pongono come oppositori politici. Così, la pena di morte per apostasia sarà applicabile a persone che, in buona fede, si credono buoni musulmani» (31); «questo vale anche per i codici penali che non hanno una disposizione relativamente all’apostasia. L’assenza di una disposizione penale non significa assolutamente che il musulmano possa lasciare liberamente la sua religione. Infatti, le lacune del diritto scritto vanno colmate con il diritto musulmano, secondo le disposizioni legislative del paese» (32). A sostegno cita un caso sudanese di condanna a morte verificatosi nel 1985, malgrado l’assenza di disposizioni relative a questo delitto nell’allora vigente codice penale del 1983: si tratta dell’impiccagione dell’architetto in pensione Mahmûd Muhammad Tâhâ, fondatore e animatore in Sudan del circolo dei Fratelli Repubblicani, la cui testa era già stata chiesta dall’università egiziana di Al-Azhar nel 1976; poi, dalla Lega del Mondo Musulmano, con sede in Arabia Saudita; le due istituzioni, dopo l’esecuzione, si sono felicitate con il presidente del tempo, generale Ga‘far Mohammed an-Numeirî (33). Quindi, Aldeeb Abu-Sahlieh nota come «l’esecuzione degli apostati malgrado l’assenza di una norma legale si verifica anche in Arabia Saudita» (34), e segnala che, «[...] in paesi come l’Egitto, non si procede all’esecuzione dell’apostata, ma viene messo in carcere» (35). Infine lo stesso studioso descrive sinteticamente la situazione media, escludendo il caso estremo, già segnalato, della condanna a morte sulla base della legislazione positiva, ma comprendendo le conseguenze dell’apostasia relativamente al matrimonio, ai rapporti fra genitori e figli e alle successioni, messe in qualche modo in ombra da tale caso estremo. Egli ritiene la situazione media del musulmano, che abbandona la propria religione e ne adotta un’altra, come caratterizzata da «una libertà a senso unico: libertà d’entrare, divieto d’uscire» (36), e la definisce semplicemente «drammatica» (37): «Lo Stato lo caccia dal lavoro, lo spossessa dei beni e spesso lo mette in prigione. Se riesce a scappare, si espone alla vendetta della sua famiglia, che lo perseguita anche fuori del suo paese, compresi i paesi occidentali, dove espatria nella speranza di salvare la vita» (38). Infatti, non basta riuscire a sottrarsi al braccio dello Stato, perché, se «ogni individuo ha il diritto di adire i tribunali statali per chiedere il giudizio sull’apostata» (39), qualora «[...] lo Stato o i tribunali statali rifiutino di mettere a morte» (40) quanti sono «accusati di apostasia» (41), «[...] ogni musulmano si crede in diritto di assassinarli» (42), e «[...] certi legisti permettono allora di uccidere il colpevole» (43) anche al singolo.

Il quadro di fatto viene così descritto dal missiologo di origine armena Edmond J. Farahian S.J.: «[...] essi [i musulmani] hanno grosse difficoltà ad accettare il passaggio di certi musulmani al giudaismo, al cristianesimo, o a tutt’altra confessione religiosa» (44); un ulteriore tocco cromatico, quasi macabro, viene aggiunto dalla nota corrispondente al testo: «In questo contesto — vi si legge —, quando il versetto coranico sulla tolleranza [...] [«Non c’è costrizione nella religione» (Corano, sura II, «Al-Baqara» [La Giovenca], 256] è utilizzato da un musulmano convertito per esempio al cristianesimo per giustificare la sua attitudine, la sua giustificazione viene accettata con difficoltà quando si trova al di fuori dei paesi dell’islam e ancora di più quando si trova nei paesi dell’islam. Per la più gran parte del tempo, un tale convertito viene considerato dai suoi come morto, come defunto» (45). Comunque, lo stesso studioso prosegue sostenendo che la conversione «è una specie di minaccia per loro malgrado gli infimi numeri di convertiti» (46), e annota quest’ultima considerazione in questi termini: «Ricordiamoci che anche per molti cristiani davanti alla conversione di alcuni di loro ad altre religioni c’è la stessa attitudine negativa» (47).

Dopo questa escursione nel regno dell’eufemismo, a suo modo drammatico, ritorno al reale altrimenti drammatico. Dunque, una volta all’estero, come in un film pieno di suspense il protagonista, il convertito dall’islam, sembrerebbe finalmente in salvo, ma non è così: infatti, alla situazione descritta quanto al mondo di provenienza, cioè quanto all’Islam, «[...] bisogna aggiungere l’atteggiamento poco accogliente della comunità cristiana. Se la conversione avviene in paesi musulmani, si temono le rappresaglie che rischia di far ricadere sulla comunità cristiana, urtando la gerarchia musulmana e mettendo in pericolo il dialogo islamo-cristiano. Attacchi contro luoghi di culto cristiani si sono verificati in Egitto dopo la conversione di giovani musulmani al cristianesimo. Le Chiese che, nel Vicino Oriente, osano battezzare musulmani convertiti al cristianesimo, impongono loro la discrezione totale. Talora il battesimo è amministrato da un sacerdote straniero di passaggio. Quando la conversione avviene in Occidente, si dubita delle intenzioni del convertito: forse cerca di stabilirsi in Occidente, o di trovare lavoro oppure di sposare una cristiana» (48).


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Anche quanto alle intenzioni — sotto questa voce rubrico le indicazioni catechistiche e missionarie, così passando di nuovo dallo jus conditum allo jus condendum —, se la «tradizione» relativa alla sorte da riservare all’apostata era certamente «molto conosciuta nel Medioevo» — come scrive padre Jomier —, pare sia tutt’altro che sconosciuta anche attualmente, dal momento che viene citata dallo sceicco Al-Djazairi nell’opera già ricordata, La Via del Musulmano, datata Medina 1964, tradotta in italiano nel 1990, nella quale si legge che «l’apostata» (49) «è il musulmano che rinnega la sua fede e diventa israelita o cristiano o ateo o comunista marxista, di sua propria volontà e senza esservi costretto» (50), e a suo proposito si sentenzia: «Per tre giorni si cerca di convincerlo a ritornare alla sua fede. Se rifiuta gli viene inflitta la pena di morte applicando la prescrizione divina», citando a sostegno l’hadîth che ho già trascritto e un altro hadîth: «Uccidete chiunque abiura la sua fede!» (51). E i termini giuridico-religiosi, canonici — per così dire —, del problema sono limpidamente presentati da Hamidullah: «Si sa che la base della "nazionalità" islamica è religiosa e non etnica, linguistica o regionale; quindi l’apostasia è naturalmente considerata come un tradimento politico. E questo delitto comporta sanzioni: ma la storia mostra che non sono state utilizzate» (52).

Perciò — rimossa la notazione conclusiva, non rispondente alla verità fattuale, e comunque non tale da vanificare l’enunciazione di principio — s’impone di richiamare la comprensione islamica del mondo: esso è suddiviso in dâr al-islâm, «casa dell’islam», e in dâr al-harb, «casa della guerra», o dâr al-kufr, «casa della miscredenza», costituita dai paesi in cui la legge islamica non può essere ufficialmente praticata; quanto al dâr al-islâm, si suddivide a sua volta in «territorio interdetto», haram, nel quale nessun non musulmano può penetrare notoriamente, pena la morte; in «territorio riservato», sul quale non può essere tollerato nessun controllo politico di uno Stato straniero; e in «territorio canonico», in cui ogni musulmano è tenuto all’osservanza aperta della propria religione, perché l’islam è religione riconosciuta ufficialmente, anche se l’autorità governativa non è musulmana (53). Inoltre, certi autori ammettono una terza categoria, dâr al-sulh o dâr al-‘ahd, «casa della tregua» o «casa dell’alleanza», che comprenderebbe territori tributari dell’islam, che con esso hanno firmato un patto e non devono pagare l’imposta dovuta dai «protetti», ebrei e cristiani (54). Infine, sempre più frequentemente, quasi «aggiornamento» del già noto dâr al-sulh, si parla anche di dâr al-da‘wa, «casa della missione», così trasformando dâr al-ghorba, la «terra dell’esilio», in dâr al-higra, «casa dell’emigrazione» (55). Comunque, tale suddivisione è piuttosto umana che etnica o geografica: «né jus sanguinis, né jus soli; la religione fa la cittadinanza. È l’umma, la Nazione di Muhammad» (56), cioè definisce una comunità costituita da singoli, portatori di un diritto personale, religioso e non etnico né territoriale.

Perciò — di nuovo —, stando così le cose, non si tratta di un problema di confini da rispettare, quando si pensi che ogni conquista è, di fatto, una restituzione, sia quando si tratta di territori un tempo musulmani e dai quali l’islam è stato cacciato (57), sia perché tutto il mondo è «casa dell’islam», temporaneamente usurpata dai non musulmani (58). A proposito di questa intentio ricuperatoria del maltolto, «vorremmo aggiungere — scrive con tono rassicurante padre Khoury — che l’impegno positivo per l’Islam non significa che la comunità islamica debba essere in battaglia continua con i suoi vicini. Basta, dicono i libri di diritto, che la comunità islamica si impegni ad espandere il "territorio dell’Islam" almeno in una regione del mondo» (59).



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4. La «dissimulazione della fede»

Prima di passare ad altro argomento, merita di essere almeno ricordato che, accanto al divieto di apostasia, cioè di conversione dall’islam, è prevista la possibilità di rinnegare esteriormente la fede: infatti, se — come recita il versetto 106 della sura XVI, «An-Nahal» (Le Api), del Corano —, «quanto a chi rinnega Allah dopo aver creduto [...] e a chi si lascia entrare in petto la miscredenza; su di loro è la collera di Allah e avranno un castigo terribile», a questo terribile castigo — ultraterreno e terreno — si sottrae chi — come si legge sempre nello stesso luogo — apostati solo formalmente: «[...] eccetto colui che ne sia costretto, mantenendo serenamente la fede in cuore». E — così suona il commento — «la portata generale del versetto si traduce in un’autorizzazione alla "tukya" (la dissimulazione) data dalla legge islamica quando palesare la fede potrebbe essere gravemente lesivo della vita, dell’incolumità personale o della libertà» (60).

A sua volta, questa dissimulazione si affianca alla possibilità, in caso di necessità, di stringere amicizia con infedeli, di fare intese con loro — «I fedeli non si alleino con i miscredenti, preferendoli ai fedeli. Chi fa ciò contraddice la religione di Allah, a meno che temiate qualche male da parte loro» (Corano, sura III, «Âl-‘Imrân» [La famiglia di Imran], 28) — come pure di consumare alimenti proibiti: «Oggi vi sono permesse le cose buone e vi è lecito anche il cibo di coloro ai quali è stata data la Scrittura, e il vostro cibo è lecito a loro» (Corano, sura V, «Al-Mâ’ida» [La Tavola Imbandita], 5); e ancora: «Perché non mangiate quello su cui è stato pronunciato il Nome di Allah, quand’Egli vi ha spiegato quello che vi era vietato, a parte i casi di forza maggiore?» (Corano, sura VI, «Al-An‘âm» [Il Bestiame], 119), sulla cui base — spiega il commento — «[...] la stragrande maggioranza degli "ulama" (i dottori della legge islamica) hanno enunciato un principio giuridico che dice: "ad dharurat tubihu’ l mahdhurat" (il bisogno rende lecito quello che è illecito)» (61).

Tutte queste ipotesi meritano di essere tenute presenti, soprattutto in relazione a giudizi relativi almeno a processi di secolarizzazione diagnosticati — e diagnosticabili — con troppa facilità sulla base di comportamenti — sia in Occidente che in terre d’Islam —, dei quali forse meriterebbe si esaminasse la natura con maggiore attenzione.


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(1) Cfr. Quaranta hadith. Testo di Quaranta Detti Autentici del Profeta Muhammad raccolti dall’Imam An-Nawawi morto nel 676 dell’Egira, cit.; cfr. pure Les 40 hadîth de Nawawî, trad. francese di L. Pouzet, «Études Arabes Feuilles de Travail», Istitut Pontifical d’Études Arabes, Roma s.d., che riporta non solo il testo degli hadîth, ma anche il commento dello stesso an-Nawawî.

(2) Il Corano, ed. cit., p. 170, nota 15; cfr., più ampiamente, Cl. Cahen, voce «dhimma», cit.

(3) Ibid., appendice 9, A proposito del concetto di «jihâd, pp. 582-583 (p. 582).

(4) Cfr. la natura giuridica dello statuto del dhimmi e i suoi diritti civili e politici nella dottrina dei legisti, con particolare relazione alla funzione pubblica, in A. Fattal, op. cit., rispettivamente pp. 71-84 e pp. 236-240; cfr. pure Chafik Cherata, voce «dhimma», cit.

(5) J. Jomier O.P., op. cit., p. 91.

(6) Il Corano, ed. cit., p. 168, nota 6.

(7) «Annexe» a M.-Th. Urvoy, art. cit., pp. 28-29; devo il titolo, la traduzione del titolo e la corretta data di pubblicazione dell’articolo, che nella mia fonte è il 18-9-1975, a una comunicazione di S. K. Samir S.J., del 24-4-2000. Il medesimo alto esponente islamico — il cui nome, sempre nella mia fonte, è trascritto come Hussein Kouatly —, non mai contraddetto da altri, ha ripetuto la stessa tesi, sempre sulla stampa quotidiana libanese, nel 1978 (cfr. «Le Reveil», 18-7-1978), con una formulazione degna d’attenzione: «I cittadini musulmani hanno il dovere di appoggiare l’autorità islamica; nel caso questa non applichi la legge islamica, debbono adoperarsi per abolirla e dichiarare la guerra santa (gihad) sino alla presa del potere. Nel caso fossero in situazione di minoranza, i musulmani possono accettare formule di compromesso continuando a lavorare con tutti i mezzi per ottenere il potere al momento opportuno» (cit., in G. Crespi e G. S. Eid, op. cit., p. 151); e nel gennaio del 1981, alla televisione libanese, interrogato in proposito, ha mormorato: «Se quanto avete inteso vi ha colpito, questa ferita colpisca anche me» (cit. in Jean-Pierre Péroncel-Hugoz, op. cit., Flammarion, Parigi 1984, pp. 96-97).

(8) Cfr. G. Rizzardi, Introduzione all’Islàm, cit., pp. 15-16; e Maria Chiara Nataloni, Per un’analisi del concetto di popolo nell’Islam. Le costituzioni dei paesi musulmani alla luce della Dichiarazione di Algeri, con presentazione di B. Scarcia Amoretti, Franco Angeli, Milano 1987, pp. 31-37; con Dichiarazione di Algeri s’indica la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli, proclamata ad Algeri il 4 luglio 1976, per iniziativa dell’uomo politico socialista Lelio Basso (1903-1978), da un’assemblea di giuristi, economisti, politici e dirigenti di vari Movimenti di Liberazione Nazionale.

(9) Cfr. Islâm dîn al-dawla. L’Islam religion de l’État, cit., tavole alle pp. 129 e 131.

(10) Modèle de Constitution islamique: le Projet du Conseil Islamique d’Europe (texte integral), in Islâm dîn al-dawla. L’Islam religion de l’État, cit., pp. 7-41 (p. 13).

(11) Cfr. Abdelfattah Amor, «Costituzione e religione negli Stati musulmani (I): Lo Stato musulmano», in «Coscienza e Libertà. Rivista semestrale della sezione italiana dell’Associazione Internazionale per la difesa della Libertà religiosa» [con statuto consultivo di organizzazione non governativa presso le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa], n. 29, Roma secondo semestre 1997, pp. 57-72; Idem, «Costituzione e religione negli Stati musulmani (II): La natura dello Stato», ibid., n. 30, primo semestre 1998, pp. 74-91; Idem, «Costituzione e religione negli Stati musulmani (III): La legislazione dello Stato e la politica dello Stato», ibid., n. 31, secondo semestre 1998, pp. 49-65; e Idem, «Costituzione e religione negli Stati musulmani (IV): La condizione dell’individuo», ibid., n. 32, primo semestre 1999, pp. 48-63.

(12) Cfr. Idem, «Costituzione e religione negli Stati musulmani (II): La natura dello Stato», cit., pp. 76-79 (p. 76).

(13) Cfr. ibid., pp. 79-81 (p. 79).

(14) Cfr. ibid., pp. 74-76.

(15) J. Jomier O.P., op. cit., p. 91; sui copti, cfr. Pierre du Bourguet S.J. (1910-1988), Les Coptes, Presses Universitaires de France, Parigi 1992; e Christian Cannuyer, I Copti, trad. it., Interlogos, Schio (Vicenza)-Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994.

(16) M. Borrmans M.Afr., «L’Islam contemporaneo e i problemi che ne derivano per musulmani e cristiani», cit., p. 127.

(17) Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica Fides et ratio circa i rapporti tra fede e ragione, del 14-9-1998, n. 31.

(18) M. Hamidullah, Le Prophète de l’Islam, vol. II, Sa vie et son oeuvre, nn. 1512, cit., p. 808; cfr. il testo della lettera all’imperatore Eraclio, attribuita a Muhammad, tradotta e commentata, in A. Fattal, op. cit., pp. 5-7; una trad. it., in Il Corano, ed. cit., appendice 12, L’incontro tra Abû Sufyân [m. 653 ca.] e l’imperatore Eraclio, pp. 587-588 (p. 588); su questo episodio, cfr. M. Lings, op. cit., pp. 297-298.

(19) Cfr. il collegamento di questa sura con l’apostasia, in M. Borrmans M.Afr., «L’Islam e le sue implicazioni morali e giuridiche», in monsignor L. Di Liegro e Franco Pittau (a cura di), Per conoscere l’Islam. Cristiani e Musulmani nel mondo di oggi, cit., pp. 38-57 (p. 52).

(20) Quaranta hadith. Testo di Quaranta Detti Autentici del Profeta Muhammad raccolti dall’Imam An-Nawawi morto nel 676 dell’Egira, cit., p. 66.

(21) J. Jomier O.P., op. cit., p. 91; sull’apostata, cfr. W. Heffening, voce «murtadd», in Encyclopédie de l’Islam, tome VII, cit., pp. 634-636.

(22) J. Jomier O.P., op. cit., p. 91.

(23) Adel Theodor Khoury S.J, I fondamenti dell’Islam. Un’introduzione a partire dalla fonte: il Corano, con prefazione di M. Borrmans M.Afr., trad. it. libera di C. W. Troll S.J. e Michela Galati, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 1999, p. 181.

(24) S. A. Aldeeb Abu-Sahlieh, «Le délit d’apostasie aujourd’hui et ses conséquences en droit arabe et musulman», in «Islamochristiana. Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica», n. 20, Roma 1994, pp. 93-116 (pp. 115-116); sullo stesso tema, in un quadro particolare, cfr. Idem, L’impact de la religion sur l’ordre juridique. Cas de l’Égypte. Non-musulmans en pays d’islam, con prefazione del professor Alfred Eugéne von Overbeck, parte II, «L’ordre juridique confessionel en Egypte et son avenir», sezione III, «Impact de la religion sur la condition juridique», capitolo I, «Droit public», sezione II, «La liberté de conscience et de culte», Éditions Universitaires, Friborgo 1979, pp. 255-267; in un quadro generale, Idem, «La définition internationale des droits de l’homme et l’islam», parte II, «Islam classique», capitolo II, «Liberté religieuse et de culte», in «Revue Générale de Droit International Public», tomo LXXXXIX, n. 3, Parigi luglio-settembre 1985, pp. 624-716 (pp. 635-648); Idem, «Liberté religieuse et apostasie dans l’islam», in «PJR. Praxis juridiques et religion. Revue semestrielle ouverte aux interrogations du droit des religions», n. 3, Strasburgo 1986, pp. 43-76; e, soprattutto, Idem, Les Musulmans face aux droits de l’homme. Religion & droit & politique. Étude et documents, cit., parte III, «Musulmans et non-musulmans», capitolo II, «Liberté religieuse», pp. 103-127.

(25) Idem, «Le délit d’apostasie aujourd’hui et ses conséquences en droit arabe et musulman», cit., p. 97.

(26) Ibidem.

(27) Cfr. ibid., p. 98.

(28) Ibidem.

(29) Idem, Les Musulmans face aux droits de l’homme. Religion & droit & politique. Étude et documents, cit., parte I, «Historique, sources et fondements», capitolo II, «Sources et fondements», p. 26; cfr. anche le tabelle cit. con le caratteristiche essenziali di un regime islamico, in Islâm dîn al-dawla. L’Islam religion de l’État, cit., pp. 129 e 131.

(30) S. A. Aldeeb Abu-Sahlieh, «Le délit d’apostasie aujourd’hui et ses conséquences en droit arabe et musulman», cit., p. 96.

(31) Ibidem.

(32) Ibid., p. 99.

(33) Cfr. ibidem.

(34) Ibidem.

(35) Ibid., p. 100.

(36) Ibid., p. 95.

(37) Ibid., p. 102.

(38) Ibidem.

(39) Ibid., p. 100.

(40) Ibidem.

(41) Ibidem.

(42) Ibidem.

(43) Ibid., p. 101.

(44) E. J. Farahian S.J., Breve introduzione all’islam, cit., p. 99.

(45) Ibid., pp. 99-100, nota 1.

(46) Ibid., pp. 99-100.

(47) Ibid., p. 100, nota 1.

(48) S. A. Aldeeb Abu-Sahlieh, «Le délit d’apostasie aujourd’hui et ses conséquences en droit arabe et musulman», cit., p. 102; segnalo che per queste informazioni l’autore rimanda a un’opera di Jean-Marie Gaudeul M.Afr., Vengono dall’islam chiamati da Cristo, trad. it., Edizione Missionaria Italiana, Bologna 1995, passim, «al di sopra di ogni sospetto» dal momento che esordisce con questa dichiarazione teologicamente inquietante, in quanto si tratta di affermazione che solleva almeno qualche dubbio sulla divina e positiva fondazione del cristianesimo: «Dio vuole il trionfo dell’islam? Dio vuole il trionfo del cristianesimo?
«La risposta alle due domande è la medesima: NO.
«Intendiamo dire con questo che Dio non è al servizio delle nostre piccole cause, e che la sua gloria non consiste nel far trionfare una comunità sull’altra»
(ibid., pp. 5-6).

(49) A. B. D. Al-Djazairi, op. cit., p. 555.

(50) Ibidem.

(51) Ibidem; anche il secondo hadîth è raccolto da al-Bukhârî: cfr. The Translation of the Meaning of Sahîh al Bukhârî. Arabic-English, ed. Muhammad Muhsin Khan, Lahore, vol. IX, p. 45, cit. in G. Ligios, «Teoria e prassi della dottrina classica del jihâd», cit., p. 196, che lo dà nella forma «Chi cambia la propria religione deve essere ucciso». Sui «due hadith sull’apostata», all’interno della problematica globale, cfr. S. K. Samir S.J., «Le débat autour du délit d’apostasie dans l’Islam contemporaine», in John J. Donohue S.J e Ch. W. Troll S.J. (a cura di), Faith, Power, and Violence. Muslims and Christians in a Plural Society, Past and Present, «Orientalia Christiana Analecta» 258, Pontificio Istituto Orientale, Roma 1998, pp. 114-140, soprattutto pp. 132-135.

(52) M. Hamidullah, Initiation à l’Islam, cit., n. 440, p. 196.

(53) Cfr. L. Gardet, La Cité musulmane. Vie sociale et politique, cit., pp. 26-27, nota 4.

(54) Cfr. ibidem.

(55) Cfr. F. Dassetto, L’islam in Europa, cit., pp. 44-46.

(56) L. Gardet, La Cité musulmane. Vie sociale et politique, cit., p. 27.

(57) Cfr. ibid., pp. 26-27, nota 4.

(58) Cfr. H. Laoust, Le Traité de droit public d’Ibn Taimiya, Institut français de Damas, Beirut 1948, pp. 35-36, cit. in Bat Ye’or [pseudonimo di una studiosa ebrea, nata in Egitto], Les Chrétientés d’Orient entre «jihâd» et dhimmitude. VIIe-XXe siècle, con prefazione di Jacques Ellul (1912-1994), Les Èditions du Cerf, Parigi 1991, p. 28; sulla problematica conseguente in tema di emigrazione, cfr. S. A. Aldeeb Abu-Salieh, «La migration dans la conception musulmane (passé, présente et avenir), Première partie», in «Droit et Cultures. Revue semestrielle d’anthropologie et histoire», n. 34, Parigi 1997/2, pp. 215-246; e «Deuxième partie», ibid., n. 35, Parigi 1998/1, pp. 133-166; studio anticipato con il titolo «La migration dans la conception musulmane», in «Oriente Moderno. Rivista mensile d’informazione e di studi per la diffusione della conoscenza dell’Oriente, sopra tutto musulmano», nuova serie, anno XIII (LXXIV), n. 7-12, Roma luglio-dicembre 1994, pp. 219-283.

(59) A. Th. Khoury S.J, op. cit., p. 234.

(60) Il Corano, ed. cit., p. 239, nota 43; sulla tukya e sulla problematica relativa, sia dottrinale che storica, cfr. R. Strothmann [Moktar Djebli], voce «takiyya», in Encyclopédie de l’Islam, nouvelle édition établie avec le concours des principaux orientalistes par Th. Bianquis, C. E. Bosworth, E. van Donzel et W. P. Heinrichs, assistés de P. J. Bearman et Mme S. Nurit, sous le patronage de l’Union Académique Internationale, tome X, livraison 165-166, tâhirides-tanzîmât, E. J. Brill, Leida 1998, pp. 145-146.

(61) Il Corano, ed. cit., p. 109, nota 8.


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