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CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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La prima epistola di Paolo a Timoteo

Ultimo Aggiornamento: 22/04/2011 18:19
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2.2 La donna cristiana

Vers. 8-15: — «Io voglio dunque che gli uomini preghino in ogni luogo, alzando mani pure, senza ira e senza dispute. Allo stesso modo, le donne si vestano in modo decoroso, con pudore e modestia: non di trecce e d’oro o di perle o di vesti lussuose, ma di opere buone, come si addice a donne che fanno professione di pietà. La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. Infatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione; tuttavia sarà salvata partorendo [figli], se persevererà (o meglio: se perseverano) nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia».

Dicendo: «Io voglio dunque», l’apostolo riprende ciò che ha detto, in modo generale, al primo versetto. Non domanda più che si facciano supplicazioni ma specifica chi deve farle, cioè gli uomini, non le donne. Queste ultime non possono manifestarsi pubblicamente. La loro attitudine è tutt’altra. La preghiera non è l’esercizio di un dono ma un’attitudine; è l’espressione di uno stato d’animo di fronte a Dio, la quale può essere esercitata in presenza di tutti, ma soltanto dagli uomini. Queste parole «in ogni luogo» fanno pensare che qui si tratti di preghiera in pubblico, e (dato che il soggetto di questa epistola è l’ordine divino della casa di Dio quando era ancora, come ai tempi dell’apostolo, nella sua pienezza originale) che si tratti di preghiere in qualsiasi luogo in cui la «casa di Dio» si riunisce. È ovvio che qui non è parlato della casa, focolare e rifugio della famiglia, dove le preghiere tanto dell’uomo che della donna hanno piena libertà d’esercitarsi, pur mantenendo la donna, in questo come in ogni altra cosa, la posizione di sottomissione che Dio le ha assegnata nei riguardi di suo marito.


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L’apostolo aggiunge: «Alzando mani pure, senza ira e senza dispute». Queste parole indicano che vi sono certi stati d’animo che sono incompatibili con la preghiera nella casa di Dio che è la Chiesa del Dio vivente. La santità di Dio non potrebbe ammettere tali preghiere, perché tutto ciò che è in contraddizione con la purezza, la pace e la fede nel cuore, rende inadatti alla preghiera, e non può trovare accesso davanti a Lui.

L’apostolo continua poi col ruolo delle donne nella casa di Dio. Il pudore e la modestia debbono essere mostrati anche con abiti decenti e non con ornamenti lussuosi ricercati dalle donne del mondo. La tenuta della donna cristiana la fa riconoscere subito, e questa testimonianza può essere più importante delle parole. A questa attitudine, per così dire passiva, si aggiunge la testimonianza attiva delle «buone opere». Esse possono essere fatte verso Cristo, verso i santi, o verso tutti gli uomini, e sono esclusivamente prodotte dall’«uomo nuovo», cioè dai membri della famiglia di Dio. Qualsiasi opera compiuta dall’uomo non convertito non può essere che una «cattiva opera» o, se è buona, un’«opera morta».

L’abbigliamento modesto e le buone opere si addicono dunque «a donne che fanno professione di pietà». È qui che si può afferrare uno dei lati del grande soggetto di quest’epistola: la professione cristiana, che non è affatto separata dalla realtà della vita divina nell’anima. La realtà di questa professione deve mostrarsi nella donna con il suo abbigliamento e con la sua attività. Troviamo in 1 Pietro 3:1-6 delle esortazioni simili.


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Al versetto 11 abbiamo altre raccomandazioni indirizzate alla donna cristiana a cui è richiesto di fare dei progressi nella conoscenza della Parola: «La donna impari in silenzio con ogni sottomissione». Molte donne cristiane vengono meno a quest’ordine, anteponendo molta attività esteriore all’attitudine silenziosa di una Maria, seduta ai piedi di Gesù per ascoltarlo e imparare con ogni sottomissione. Ah! quanto poche sono le cose che realizziamo mentre il male, che terminerà con l’apostasia finale, guadagna terreno e si estende come una lebbra nella casa di Dio! Donne cristiane «parlano» ovunque, sono orgogliose d’insegnare, anziché esserne umiliate per la colpevole usurpazione e per la disobbedienza positiva al comandamento del Signore. Per la donna sottomessa alla Parola di Dio questa è una grave violazione all’ordine prescritto per la casa di Dio. Parliamo qui, evidentemente, della donna cristiana, o perlomeno della donna professante il cristianesimo e, di conseguenza, responsabile di sottomettersi alla Parola; la donna del mondo non si può pretendere che si attenga a una regola divina che essa ignora e non può seguire.

La donna «deve stare in silenzio»; è il suo dovere. L’apostolo ne dà due ragioni perentorie. La prima è la preminenza di Adamo su Eva: è stato «formato per primo». La donna è venuta in seguito, tratta da lui e formata come un aiuto convenevole perché, disse l’Eterno Dio, «non è bene che l’uomo sia solo». Così la donna è diventata ossa delle ossa e carne della carne d’Adamo. La seconda ragione è che non è stato Adamo ad essere ingannato, ma Eva, la quale è caduta in trasgressione. Anziché essere un aiuto per l’uomo, essa è stata lo strumento di Satana per sedurlo e condurlo alla disubbidienza.

«Tuttavia» — aggiunge l’apostolo — la donna (non le donne credenti) «sarà salvata partorendo». Vi è salvezza per lei, per quanto ella porti, nel travaglio e nei dolori del parto (*), una conseguenza perpetua del suo errore. Ma i dolori del parto non sono una sentenza pronunciata sulla vita della donna. Mettendo al mondo una creatura, questa vita, invece di essere condannata, è piuttosto preservata (**). Ma vi sono delle promesse per le donne cristiane (da ciò questa parola: «se perseverano» al plurale): una vita di perseveranza nella fede, che si avvale delle promesse di Dio; nell’amore, che è il carattere stesso di Dio, mostrato nella nostra vita pratica; nella santità che è la separazione per Dio da qualsiasi mescolanza col carattere del mondo; una vita che presenta i caratteri preziosi della modestia dipinta in questo passo; ecco una garanzia data da Dio stesso che la donna cristiana sarà preservata in mezzo ai pericoli del parto. Se le donne cristiane non perseverano in queste cose, può esservi contro di loro una disciplina che le priva dei vantaggi che Dio accorda loro in vista dei pericoli del parto.

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(*) Il dolore del parto fa parte del castigo di Dio, ma non il parto stesso. (Nota BibbiaWeb)
(**) Si può anche capire questo versetto così: la salvezza, nella persona di Gesù Cristo, è venuta dalla donna; Cristo è la progenie della donna che ha vinto il serpente (vedere Genesi 3:15 e Galati 4:4). (Nota BibbiaWeb).


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3. Capitolo 3

3.1 I vescovi e i diaconi

Vers. 1-7: — «Certa è quest’affermazione: se uno aspira all’incarico di vescovo, desidera un’attività lodevole. Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola moglie, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino né violento, ma sia mite, non litigioso, non attaccato al denaro, che governi bene la propria famiglia e tenga i figli sottomessi e pienamente rispettosi (perché se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?), che non sia convertito di recente, affinché non diventi presuntuoso e cada nella condanna inflitta al diavolo. Bisogna inoltre che abbia una buona testimonianza da quelli di fuori, perché non cada in discredito e nel laccio del diavolo».

Mentre il capitolo 2 trattava in modo generale della condotta degli uomini e delle donne nella casa di Dio, il capitolo 3 entra nei particolari dell’organizzazione propriamente detta di questa casa. Non dobbiamo dimenticare che Timoteo non aveva, come Tito, la missione speciale di stabilire degli anziani, ma quella di vegliare sull’ordine e sulla dottrina che riguardava la condotta di coloro che componevano la casa. Innanzitutto, l’apostolo non insegna tanto, a Timoteo, come deve comportarsi lui, ma come bisogna (1 Timoteo 3:15) che si conducano i diversi elementi che costituiscono la casa; Timoteo stesso, facendone parte, aveva anche lui, come vedremo, dal momento che possedeva un dono, certi doveri e certe responsabilità in quella cerchia.

È incontestabile che colui che aspira alla sorveglianza della casa di Dio «desidera un’attività lodevole» (v. 1). Il sorvegliante o vescovo (episcopo) è esattamente la persona dell’anziano (presbitero). In Atti 20:28, nella stessa assemblea d’Efeso in cui l’apostolo, secondo la nostra epistola, lasciava Timoteo, convoca gli «anziani» e li chiama «vescovi». Qui, «colui che aspira all’incarico di vescovo (sorvegliante), desidera un’attività lodevole», un’opera che ha l’approvazione di Dio, un’opera fatta per Dio e per Cristo e compiuta nell’interesse dei santi (*). Però essa ha questo carattere soltanto quando risponde alle qualità descritte. Potremmo aspirare a tale posizione per ambizione o per orgoglio, come troviamo in questo passo; ma in tal caso, dato che una tale aspirazione ha per scopo la soddisfazione della carne, l’opera non è buona, ma cattiva.

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(*) Può essere utile notare che il greco ha due termini per designare le buone opere, mentre le nostre versioni ne hanno uno solo. Il primo, «ergon agathon», designa tutte le cose buone che dipendono dallo stato morale del cuore purificato dal Signore: amore per i fratelli, simpatia, tatto, ecc... Il secondo, «ergon kalon», è un atto degno di lode e visibile agli occhi degl’uomini: elemosine, visite, cure ai malati, ecc... Citiamo per i lettori ai quali il soggetto interessa tutti i passi dove si trovano questi due termini:

  • «Ergon agathon»: Atti 9:36; 2 Corinzi 9:8; Efesini 2:10; Colossesi 1:10; 2 Tessalonicesi 2:17; 1 Timoteo 2:10 e 5:10; 2 Timoteo 2:21; 3:17; Tito 1:16 e 3:1; Ebrei 13:21; 1 Tessalonicesi 5:15.
  • «Ergon kalon»: Matteo 5:16; 26:10; Marco 14:6; Giovanni 10:32; 1 Timoteo 3:1, 5:10 e 25; 6:18; Tito 2:7 e 14; 3:8; 3:14; Ebrei 10:24; 1 Pietro 2:12.

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22/04/2011 18:00
 
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L’epistola a Timoteo menziona quattordici requisiti dell’anziano. Questa cifra, cifra di doppia pienezza, sembra insistere sulle qualità morali richieste all’anziano quando la casa di Dio è in ordine. L’apostolo ritornerà più tardi (5:17) su altre qualità del sorvegliante, che sono pure menzionate in Tito 1:6-9.

La parola «irreprensibile» è, come in Tito, la prima della lista, perché riassume tutte le altre qualità. Troviamo poi «marito di una sola moglie», che Tito non menziona. Questa frase fa allusione a un’usanza, comune in mezzo ai pagani (tollerata dalla legge di Mosè, ma non sanzionata dalla volontà divina), che non impediva l’introduzione del nuovo convertito nell’assemblea cristiana, ma lo squalificava in modo assoluto dall’amministrazione della stessa. È riportato abbastanza spesso nelle Scritture lo scompiglio introdotto nella condotta della famiglia dalla presenza di due mogli, per capire il divieto dell’apostolo. L’epistola a Timoteo mette un accento particolare sul fatto che il sorvegliante deve «governare bene la propria famiglia», «tenere i figli sottomessi e pienamente rispettosi» e aggiunge: «se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?». Se in questo ambito piccolo e ristretto non so mostrare le mie attitudini d’amministratore, come potrò mostrarle nell’assemblea? Questo passo manifesta pure l’immensa importanza che ha per Dio la sua casa quaggiù. Essa è la testimonianza di tutte le virtù cristiane dinanzi ad un mondo che le ignora. Ed è così che mette in luce l’ordine, la disciplina, la dipendenza, la sottomissione, l’ubbidienza, l’umiltà, ma soprattutto la verità divina.

Bisogna dunque che il sorvegliante, o anziano, tenga innanzi tutto la propria famiglia nella disciplina del Signore. Si trova spesso una negligenza di tali principi elementari della Parola laddove, contrariamente alla Parola, gli anziani sono stabiliti dalla congregazione. Capita, fra l’altro, che vengano scelti come anziani delle persone non sposate o senza figli le quali, di conseguenza, non hanno mai avuto l’occasione di dimostrare se erano accreditate o no da Dio per questa carica!

L’apostolo aggiunge due caratteri indispensabili al sorvegliante.

  1. Il sorvegliante non deve essere novizio (o convertito da poco tempo), perché non ha avuto sufficienti occasioni d’esercitare davanti a Dio il giudizio su se stesso e non ha abbastanza esperienza di quel che può fare la carne nel cristiano, per non inorgoglirsi dell’eminente posizione che occupa nella casa di Dio. Ora, l’orgoglio è il peccato del diavolo, che aspirò ad essere uguale a Dio e trascinò l’uomo nello stesso cammino.
  2. Il sorvegliante deve avere «una buona testimonianza da quelli di fuori». Non basta che sia circondato dalla stima e dall’affetto dei suoi fratelli. Bisogna che il mondo, abituato a sparlare dei cristiani come di gente che fa il male, sia confuso in presenza della loro buona coscienza e della loro buona condotta e si trovi costretto, malgrado il suo odio, a rendere loro buona testimonianza.

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22/04/2011 18:01
 
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Oltre alle qualità enumerate in primo luogo, abbiamo dunque visto che l’anziano non può essere un nuovo convertito e deve avere una buona testimonianza da parte del mondo, altrimenti cadrebbe nel laccio del diavolo che cerca di gettare l’obbrobrio sul nome di Cristo, screditandolo a causa della condotta dei suoi (2 Timoteo 2:26) quando questa non è accompagnata da una buona coscienza.

***

Vers. 8-13: — «Allo stesso modo i diaconi devono essere dignitosi, non doppi nel parlare, non propensi a troppo vino, non avidi di illeciti guadagni; uomini che custodiscano il mistero della fede in una coscienza pura. Anche questi siano prima provati; poi svolgano il loro servizio se sono irreprensibili. Allo stesso modo siano le donne dignitose, non maldicenti, sobrie, fedeli in ogni cosa. I diaconi siano mariti di una sola moglie, e governino bene i loro figli e le loro famiglie. Perché quelli che hanno svolto bene il compito di diaconi, si acquistano un grado onorabile e una grande franchezza nella fede che è in Cristo Gesù».

È degno di nota il fatto che nell’epistola a Tito, delegato dall’apostolo a stabilire gli anziani, non è fatta alcuna menzione dei servitori dell’assemblea, o diaconi. La ragione di ciò è semplice. In Atti 6, vediamo i servitori scelti non da un delegato degli apostoli, ma dai fratelli, ed in seguito stabiliti dai dodici. Dunque, essi non rientravano nella missione affidata a Tito. Nella prima epistola a Timoteo si tratta non tanto dell’elezione degli anziani quanto dei requisiti di coloro che hanno incarichi nella casa di Dio, dove servitori uomini o donne (diaconesse) devono trovare largamente posto.

Queste qualità hanno rapporto soprattutto con la loro personalità morale. I servitori devono essere dignitosi. Il servitore deve essere conosciuto come rappresentante, nel suo servizio, della dignità del suo Capo, e compenetrato egli stesso della propria responsabilità a questo riguardo. Non deve essere doppio in parole, perché fa parte di un insieme destinato a testimoniare la verità e a sostenerla. Non deve essere dedito a troppo vino, che gli farebbe perdere l’attenzione continua che deve dedicare nel suo servizio. Non deve essere avido di illeciti guadagni, perché è illecito convertire il servizio del Signore in un mezzo di guadagno. Deve infine ritenere «il mistero della fede in una coscienza pura».

Un mistero è sempre una cosa prima nascosta, poi rivelata. Il mistero della fede è l’insieme delle verità che costituiscono il Cristianesimo, e che sono state pienamente messe in luce dalla morte e dalla risurrezione di Cristo. Tutte le verità relative alla posizione celeste del cristiano, rivelate per la prima volta a Maria di Magdala; tutte le verità dipendenti da un Cristo glorioso e seduto alla destra di Dio, quelle, cioè, affidate a Paolo concernenti la Chiesa, la sua unione in un solo corpo con Cristo, «capo» glorioso nel cielo, la sua dignità di Sposa di Cristo e la speranza della venuta del Signore; tutte queste, ed altre ancora, costituiscono il «mistero della fede».

Spesso i cristiani che occupano degli umili posti, diciamo, di servizio, nella casa di Dio, sono lontani da ciò che è richiesto qui dai servitori. Così non era di Stefano, né di Filippo, che erano fra i «sette» scelti per il servizio dei fratelli di Gerusalemme (Atti 6:3-6). Tutti e due avevano acquistato nel loro servizio «un grado onorabile e una grande franchezza nella fede che è in Cristo Gesù»; il primo, rendendo testimonianza di tutto l’insegnamento dato allo Spirito Santo inviato dal cielo, il secondo, annunziando con potenza nel mondo l’evangelo della salvezza. Così, la predicazione dell’insieme della rivelazione divina fu affidata a due servitori che avevano acquistato un buon grado nelle umili funzioni che erano state loro affidate.

Non è, in fondo, soltanto la conoscenza delle verità celesti e del mistero della Chiesa che è loro richiesta, ma il ritenerla «in pura coscienza». Bisogna che una vita irreprensibile davanti a Dio corrisponda a questa conoscenza, e che essa non sia una pura questione intellettuale. Ci vuole uno stato morale che raccomandi la verità che si presenta.

I servitori, come i sorveglianti, devono essere «prima provati». Non si tratta qui, penso, di un certo periodo d’iniziazione dopo il quale i diaconi o gli anziani potevano essere revocati, ma di una minuziosa e pratica inchiesta al momento in cui entravano nel loro servizio, affinché tutte le loro qualità corrispondessero al quadro che la Parola ci fa di chi ha degli incarichi nella casa di Dio. Dopo questa «inchiesta», i servitori potevano entrare nel loro servizio.

L’apostolo passa poi ai caratteri richiesti alle donne. Non dice le «loro mogli» (*), perché non tutte le mogli dei diaconi potevano essere delle «diaconesse», e forse include in questo termine anche le mogli degli anziani. In paragone all’uomo, a loro è domandato poco, e si tratta soprattutto di cose nelle quali una moglie è più che altri in pericolo di cadere. La loro «serietà» deve accordarsi con quella dei loro mariti. Quanto sovente il disaccordo fra marito e moglie, riguardo alla serietà da manifestare nella vita quotidiana, ha danneggiato la testimonianza che era stata loro richiesta!

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(*) Le traduzioni Diodati e Nuova Diodati di questo versetto sono inesatte. (Nota BibbiaWeb)


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22/04/2011 18:02
 
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La maldicenza è diventata nelle donne la conseguenza della loro tendenza a vane chiacchiere, ma può dipendere anche dal fatto che, essendo forse presenti alle confidenze che i loro mariti ricevono, esse non sanno imporsi la riservatezza necessaria nel servizio che condividono con i loro mariti. La sobrietà può anche riguardare alimenti verso i quali le donne potrebbero avere una certa golosità, ma soprattutto è il ritegno che impedisce loro di lasciarsi andare alle proprie suggestioni. Infine, esse devono essere «fedeli in ogni cosa»; debbono mostrare nel loro servizio una rigida fedeltà, non approfittando di nulla per se stesse e non favoreggiando l’uno a detrimento dell’altro.

Dopo aver parlato delle donne, l’apostolo ritorna ai servitori nei loro rapporti con la famiglia. Il loro dovere nell’interno della casa è lo stesso di quello degli anziani. Bisogna che l’ordine della casa di Dio sia rappresentato nel dominio ristretto delle dimore private. Per quanto secondario sia, in apparenza, l’ufficio del diacono, esso ha una grande importanza nella testimonianza. Vediamo in Atti 6 l’importanza che gli apostoli attribuivano a questo servizio. Bisogna che questi uomini abbiano «buona testimonianza» e che siano «pieni di Spirito Santo e di sapienza». Saranno così dei servitori come lo furono Stefano e Filippo. Se servono bene «si acquistano un grado onorabile (in altre parole, salgono di grado) e una grande franchezza nella fede che è in Cristo Gesù».


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3.2 La chiesa del Dio vivente e il mistero della pietà

Vers. 14-16: — «Ti scrivo queste cose sperando di venir presto da te, affinché tu sappia, nel caso che dovessi tardare, come bisogna comportarsi nella casa di Dio, che è la chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità. Senza dubbio, grande è il mistero della pietà: Colui che è stato manifestato in carne (*), è stato giustificato nello Spirito, è apparso agli angeli, è stato predicato fra le nazioni, è stato creduto nel mondo, è stato elevato in gloria».

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(*) I migliori manoscritti dicono: Dio è stato manifestato in carne (vedere la traduzione Nuova Diodati).
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Dopo aver mostrato quali debbono essere i caratteri morali e la condotta dei sorveglianti, dei servitori e delle diaconesse nella casa di Dio, i cui principi sono diametralmente opposti a quelli del mondo, il pensiero dell’apostolo ritorna al suo caro figlio Timoteo. Sebbene Timoteo fosse chiamato a sorvegliare sull’ordine della casa di Dio, fino al ritorno dell’apostolo, in mezzo a coloro che sono chiamati ad osservare questo ordine, anche lui doveva sapere come condursi in questa casa. Il capitolo seguente ci presenterà particolarmente la condotta individuale di Timoteo.

Vi fu un momento, descritto nei primi capitoli degli Atti, in cui, in seguito all’effusione dello Spirito Santo alla Pentecoste, non vi era differenza fra «i materiali» con cui Dio edificava la sua casa e quelli coi quali l’uomo la costruiva, avendo Dio affidati questi materiali alla responsabilità dell’uomo. Questo momento durò poco. All’inizio, la fede vivente e la professione erano inseparabili. Tutti i membri della famiglia cristiana avevano parte al privilegio della casa di Dio nella Chiesa del Dio vivente. Ma non appena fu affidata alla responsabilità di coloro che ne facevano parte, un poco alla volta si manifestò il declino, ed essa cominciò a guastarsi in mille maniere. Gli esempi di Anania e Saffira, che mentirono allo Spirito Santo, e in seguito i mormorii, le divisioni, le sette, l’impurità, il legalismo, le cattive dottrine, furono gli elementi di questo declino. Più tardi vennero «i lupi rapaci», «le dottrine perverse» e gradualmente, già in embrione al tempo degli apostoli, lo stato citato nella seconda epistola a Timoteo, in quella di Giuda e nella seconda epistola di Pietro, stato che abbiamo oggi sotto gli occhi ancor più clamoroso, e che porterà all’apostasia finale, rappresentata dalla «grande prostituta» dell’Apocalisse.

Nella prima epistola a Timoteo e in quella a Tito, la forza per combattere il male, come pure la fedeltà cristiana, si trovano ancora nella maggior parte dei cristiani, e coloro che si oppongono alla sana dottrina nell’assemblea non sono che un esiguo numero (1 Timoteo 1:3; 4:1). L’apostolo può insegnare al suo fedele discepolo «come bisogna comportarsi nella casa di Dio», e questa espressione caratterizza tutto il contenuto della prima epistola a Timoteo.


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22/04/2011 18:03
 
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Non bisogna pensare che, dal momento che il male ha invaso tutto e che la casa di Dio è diventata «una grande casa» (2 Timoteo 2:20), il cristiano non possa realizzare ciò che la casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, deve essere, malgrado l’abbandono generale della verità che la caratterizza oggi. Il consiglio di Dio è immutabile; ciò che ha decretato, lo stabilirà per sempre. Chi potrà distruggere l’unità della Chiesa, il corpo di Cristo? Chi potrà impedire alla Chiesa d’essere la Sposa di Cristo? Se l’unità della Chiesa non è visibile in questo mondo, essa può essere manifestata dai due o tre riuniti alla tavola del Signore. Se la Chiesa, che è la Sposa di Cristo, gli è diventata infedele, questi stessi due o tre possono realizzare per la fede questa parola: «Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni». Se la Chiesa, abitazione di Dio per lo Spirito, è in rovina, alcuni possono realizzare il suo buon ordine, come Dio l’ha stabilito, e continuare a rendere testimonianza alla verità di cui essa è la colonna e la base.

In questa maniera, le esortazioni contenute qui sono realizzabili come nei più bei giorni della Chiesa. Applichiamole dunque a noi, seriamente. Rispondiamo al voto dell’apostolo che desidera che sappiamo come condurci in questa casa. Grazie a Dio, essa esiste, lo Spirito di Dio vi abita, la verità vi si trova, la Parola di Dio vi è predicata, e coloro che mantengono queste verità sono felici e provano cosa significa avere la potenza di Dio come soccorso alla loro estrema debolezza. Distogliamo i nostri sguardi da ciò che l’uomo ne ha fatto e contempliamola con gli occhi di Dio, vediamo come Egli la stabilirà quando tutti i suoi consigli riguardo ad essa saranno realizzati.

Impariamo per mezzo della Parola di Dio come dobbiamo comportarci in essa. Seguiamo scrupolosamente, coscienziosamente, ciascuna delle sue istruzioni; anche se fossimo due o tre per metterle in pratica, resteremo ancora, simili a Filadelfia (Apocalisse 3:10), la testimonianza dinanzi al mondo di ciò che è questa casa.

  • Essa è la «casa di Dio». La casa di Dio rappresenta la Chiesa costruita e stabilita quaggiù; non si tratta qui, come abbiamo accennato all’inizio, del corpo di Cristo e della sua posizione celeste unita al suo Capo glorioso nel cielo. La casa di Dio è stabilita affinché il mondo che la circonda comprenda ciò che Dio è, vedendo che il suo funzionamento è secondo i pensieri di Dio.
  • Essa è «la Chiesa del Dio vivente». È di questa Chiesa formata da pietre viventi che il Figlio di Dio è «la pietra angolare». È là che la potenza della vita divina agisce per mezzo dello Spirito Santo. È là che Egli abita. Cristo, che costruisce questa Chiesa, l’ha fatta in virtù della sua risurrezione dai morti, come Figlio del Dio vivente.
  • Essa è la «colonna e sostegno della verità». Questa casa ha una testimonianza pubblica da rendere dinanzi al mondo. Questa testimonianza è la verità tutta intera. Queste due cose dunque, la presenza del Dio vivente, nella persona di Cristo, per mezzo dello Spirito Santo, e la verità, sono ciò che la caratterizzano. Notiamo ancora una volta che si tratta qui della Chiesa così come Dio l’ha stabilita quaggiù per rendere testimonianza di fronte al mondo e non della chiesa corrotta e travestita quale l’uomo l’ha fatta. Dio ha dato questa missione alla sua Chiesa, e questa missione sussiste. Egli vuole, per mezzo di essa, far conoscere i suoi pensieri nel mondo. Questa casa dunque, e nessun altro posto, è il luogo in cui la verità è proclamata e la sua «professione» mantenuta. Tutto ciò che il Nemico ha fatto per minare la verità non serve ad altro che a metterla in luce.

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22/04/2011 18:03
 
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La verità è il pensiero di Dio su ogni cosa, su ciò che è Egli stesso, su ciò che è l’uomo, su ciò che sono il cielo, la terra, l’inferno, Satana e il mondo. Questa verità ci è pienamente rivelata nella persona di Cristo, per mezzo della sua Parola e del suo Spirito. Ed è per questo che Cristo, la Parola e lo Spirito sono chiamati «verità»; ma la verità si riassume in questa Persona, proclamata e rivelata (vedere Giovanni 14:6; 17:17; 1 Giovanni 5:7). Il mondo deve vedere nella Chiesa, e per mezzo della Chiesa, tutto ciò che essa conosce di Cristo, tutto ciò che fa di lei la sua testimone.

La Chiesa è la colonna sulla quale il nome di Cristo, la verità, è scritto, per farlo conoscere al mondo intero. Che vasta missione! In questo consiste la testimonianza della Chiesa. Anche nel caso in cui la Parola fosse interamente sconosciuta, la Chiesa dovrebbe, per mezzo di tutta la sua condotta, fare risplendere Cristo agli occhi di tutti. La Chiesa è il sostegno della verità, il piedistallo sul quale la verità è appoggiata, la base sulla quale Dio l’ha posta.

Come è per la Chiesa del Dio vivente, così è anche per l’individuo. Se Cristo abita per la fede nei nostri cuori, noi diventiamo individualmente i suoi testimoni nel mondo, una lettera di Cristo, conosciuta e letta da tutti gli uomini. Come diceva un fratello, colui che si avvicina a questa casa deve vedere Cristo alla finestra! L’apostolo, parlando di se stesso, dice: «Rendendo pubblica la verità, raccomandiamo noi stessi alla coscienza di ogni uomo davanti a Dio» (2 Corinzi 4:2).


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22/04/2011 18:04
 
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Dopo aver parlato della verità, concentrata nella persona di Cristo, nella sua Parola e nel suo Spirito, proclamata dalla Chiesa, l’apostolo parla d’un soggetto che si lega intimamente al precedente, cioè quello della pietà, delle relazioni dell’anima con Dio, e mostra qui ciò che produce tali relazioni e le mantiene. Perché non è tutto appartenere a questa casa di Dio, colonna e sostegno della verità; bisogna anche che in coloro che compongono questa casa vi sia la pietà, cioè il rapporto personale della loro anima con Dio. Come questi rapporti possono prodursi e mantenersi? È qui il mistero (*) o il «segreto» della pietà. Notate che, nel Nuovo Testamento, un mistero non è mai una cosa nascosta, ma al contrario un segreto pienamente rivelato.

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(*) Coloro che desiderassero studiare questo soggetto «il mistero», ne troveranno tutti gli elementi nei passi seguenti Matteo 13:11; Romani 11:25; 16:25; 1 Corinzi 2:7; 4:1; 13:2; 15:51; Efesini 1:9; 3:3; 4:9; 5:32; 6:19; Colossesi 1:26-27; 2:2; 4:3; 2 Tessalonicesi 2:7; 1 Timoteo 3:9 e 16; Apocalisse 1:20; 10:7; 17:5 e 7.
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La pietà è un insieme di due sentimenti che crescono nell’anima, man mano che le sue relazioni con Dio diventano abituali e più intime (perciò il cristiano è tenuto ad «esercitarvisi» - vedere 4:7). Il primo di questi due sentimenti è il timore di Dio (*). L’anima, non appena è ammessa nella piena luce della Sua presenza, impara a odiare il male perché Dio lo odia e ad amare il bene perché Dio lo ama. Questo timore, lungi dal farci fuggire la presenza di Dio, ci avvicina a Lui e ci riempie di fiducia (il secondo sentimento), perché sappiamo che soltanto Lui è capace di condurci e mantenerci fino alla fine, lungo questa via. Tutte le benedizioni della nostra marcia cristiana dipendono dalla pietà; di qui l’importanza di conoscere il segreto e il modo col quale essa può essere prodotta e accresciuta nei suoi.

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(*) Notare in Ebrei 5:7 l’identificazione della pietà col timore di Dio (la parola greca usata in questo versetto ha il doppio significato di pietà e di timore: parag. le versioni Nuova Riveduta e Nuova Diodati).
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Questo segreto consiste nell’essere occupati di un solo oggetto, di Dio «venuto in carne», cioè Cristo uomo.

La dottrina che è secondo pietà (6:3) contiene molte cose e dobbiamo riprometterci di non trascurarne nessuna; ma la pietà stessa non ha che un oggetto: l’uomo Cristo Gesù, conosciuto personalmente; essa proviene da questa conoscenza.


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22/04/2011 18:04
 
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Abbiamo già visto ciò che è «il mistero della fede» (3:9). Nonostante la sua immensa importanza e la sua ricchezza, quello non è chiamato grande, come il mistero della pietà. Il primo è composto di tutte le verità che sono la conseguenza della redenzione, ma il mistero della pietà non è un insieme di dottrine: è la rivelazione d’una Persona, la rivelazione di Dio, in altri tempi Dio invisibile, reso visibile nella persona di un uomo.

Questa parola «la pietà» si trova, in un modo quasi esclusivo, nella seconda epistola di Pietro e nelle epistole pastorali, ma, soprattutto, nell’epistola che stiamo studiando. La pietà non può formarsi che su quanto è stato rivelato della persona di Cristo.

Dio, luce e amore, è stato «manifestato in carne», cioè in un uomo.

Dio, manifestato in questo modo, è stato «giustificato nello Spirito». Innanzi tutto, l’assenza in Lui di ogni peccato è stata dimostrata durante la sua vita dalla potenza dello Spirito Santo; in seguito, Egli è stato giustificato, secondo questo stesso Spirito, nella risurrezione dai morti. Per conoscere Dio, imparare la sua giustizia, vederlo, sentirlo, credere in Lui, ho bisogno di Cristo uomo. È su quest’uomo che sono basate tutte le relazioni fra Dio e gli uomini.

«È apparso agli angeli». Dio è stato visto dagli angeli quando si è manifestato in carne. Dal momento che Egli è venuto quaggiù come piccolo fanciullo, nella mangiatoia, essi lo vedono. Steso nel sepolcro, gli angeli lo contemplano. Sono i primi alla sua nascita, i primi alla sua resurrezione.

«È stato predicato fra le nazioni». Dio venuto in carne è il soggetto della testimonianza dei credenti non solo fra i Giudei ma nel mondo intero.

Ed «è stato creduto nel mondo», è diventato un oggetto di fede, non più di vista, in questo mondo.

«È stato elevato in gloria». Venuto come uomo quaggiù, è salito come uomo nella gloria. Ed ora è là che la pietà lo vede, lo conosce, si intrattiene con Lui, cerca di essergli gradita, si rivolge a Lui. Tutti i sentimenti della pietà stanno attorno a Lui che è il centro.

Quindi il segreto della pietà e delle relazioni dell’anima con Dio, basate sul timore di Dio e sulla fiducia in Lui, le troviamo nella conoscenza della persona di Cristo. Nella seconda epistola ai Tessalonicesi 2:7, si trova, terribile contrasto, «il mistero dell’empietà» che è la negazione di Gesù Cristo venuto in carne, al quale Satana sostituirà l’Anticristo (1 Giovanni 4:12).

Nei tre primi capitoli della nostra epistola abbiamo trovato: nel capitolo 1 v. 15, l’opera di Cristo per i credenti; nel capitolo 2 v. 4, la sua opera per tutti gli uomini; nel capitolo 3 v. 15, la sua Persona come verità; nel capitolo 3 v. 16, la sua Persona come base unica di tutta la pietà.


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4. Capitolo 4

4.1 I falsi dottori e le apostasie a venire

Vers. 1-5: — «Ma lo Spirito dice esplicitamente che nei tempi futuri alcuni apostateranno dalla fede, dando retta a spiriti seduttori e a dottrine di demòni, sviati dall’ipocrisia di uomini bugiardi, segnati da un marchio nella propria coscienza (o meglio: cauterizzati, resi insensibili nella propria coscienza). Essi vieteranno il matrimonio e ordineranno di astenersi da cibi che Dio ha creati perché quelli che credono e hanno ben conosciuto la verità ne usino con rendimento di grazie. Infatti tutto quel che Dio ha creato è buono; e nulla è da respingere, se usato con rendimento di grazie; perché è santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera».

Questi versetti sono la controparte dei versetti 15 e 16 del capitolo precedente. Ci fanno intravedere ciò che accadrà negli ultimi tempi in questa casa stabilita come colonna e sostegno della verità. Questo passo non descrive l’ultima fase dell’apostasia, che ci è rivelata nel mistero dell’iniquità di 2 Tessalonicesi 2:7-12; la rovina della Chiesa responsabile, già iniziata, come abbiamo visto, al tempo degli apostoli, andrà accentuandosi sempre più, e questo passo non ci dà l’ultimo periodo, ma ci descrive ciò che vediamo delinearsi sempre più chiaramente in mezzo alla cristianità professante.

È per questo che l’apostolo parla qui, in modo generale, degli «ultimi tempi» e di «alcuni» che «apostateranno dalla fede». Quest’abbandono completo delle verità non è dunque ancora diventato generale, ma era «esplicitamente» annunziato già al tempo degli apostoli. Non è necessario cercare questa profezia «dello Spirito» in un passo speciale della Parola; la troviamo qui espressa per bocca degli apostoli.

Benché si tratti solo di alcuni, la loro condizione è spaventosa. «Apostateranno dalla fede». Con questo termine la Parola descrive l’abbandono pubblico d’un insieme di dottrine affidate alla fede e ricevute da essa. Ciò implica, contrariamente a quanto altri hanno detto, qualcosa di molto più grave che la proibizione di sposarsi e la prescrizione di astenersi dal mangiare carne. È, in primo luogo, l’attaccamento a «spiriti seduttori» e a «dottrine di demoni». Gli spiriti dei demoni si sostituiscono allo Spirito di Dio, pur professando di dipenderne, e si impongono alle anime per far loro abbandonare Cristo. Coloro che insegnano a queste sventurate vittime proferiscono, con ipocrisia, delle menzogne. Hanno «un’apparenza» di pietà, per mantenere e assoggettare le anime a Satana. Su questa strada di menzogna la loro coscienza non li arresta né li intralcia, perché essa è «cauterizzata», priva di qualsiasi sentimento del bene e del male, di ciò che è giusto e di ciò che non lo è. Troviamo qui una progressione nel male. Al capitolo 1 v. 19, questi falsi dottori avevano semplicemente «rinunziato a una buona coscienza»; qui l’hanno distrutta e ridotta definitivamente al silenzio, il che li rende assolutamente insensibili a qualsiasi appello che questa coscienza avrebbe potuto indirizzare loro. Che cosa terribile! Quando la coscienza ha perduto ogni sensibilità ed è definitivamente indurita, non vi è più speranza, poiché lo Spirito non può più condurre un peccatore davanti a Dio.


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22/04/2011 18:05
 
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Tutte le manifestazioni spiritistiche, presentate sotto una forma religiosa, non sono forse oggi il commento vivente di queste parole?

E aggiungete ancora certe prescrizioni ascetiche provenienti da errori gnostici, che non hanno tardato ad infiltrarsi, anche se in parte, nel cattolicesimo, e tuttora sussistono. Gli gnostici insegnavano che vi erano due principi divini, uno cattivo, residente nel corpo, e uno buono, nell’anima. Solo praticando l’ascetismo si poteva essere affrancati dal primo! Conosciamo l’abisso di corruzione che hanno provocato tali pratiche eretiche. Riprendendo il soggetto dell’astensione dal mangiare carne, l’apostolo fa notare che coloro «che hanno ben conosciuto la verità», della quale la Chiesa del Dio vivente è la base e la colonna, non possono lasciarsi ingannare da queste menzogne. Come potrebbe esserci peccato nel nutrirsi di creature di Dio, quando lo si fa con azioni di grazie? «Tutto quel che Dio ha creato è buono» (cfr. pure 1 Corinzi 10:25-26) perché diventa per il fedele, quando ne mangia, un’occasione d’esprimere a Dio la propria riconoscenza. Nessuna creatura è da rigettare, perché ce lo dice la Parola di Dio. Se la legge dichiarava certe creature pure ed altre impure, la Parola di Dio, sotto il regime della libertà della grazia, insegna a non considerare impuro ciò che Dio ha purificato; quindi possiamo mangiare di tutto, quadrupedi, rettili della terra e uccelli del cielo (Atti 10:12-15).

Tutte queste cose sono doni di Dio; noi rendiamo grazie, prendendoli, e così siamo messi in rapporto, per mezzo della preghiera, con Dio che ce li ha dati. Questa parola «preghiera», tradotta «intercessione» al capitolo 2 v. 1 si riferisce piuttosto ai rapporti personali d’intimità con Dio. La Parola ci dà questi alimenti, la preghiera li riceve come messi da parte per noi e noi ne rendiamo grazie. Vediamo in questi alimenti uno dei numerosissimi atti della bontà di Dio che ci consente di far uso di queste creature. È, del resto, ciò che Dio aveva detto a Noè dopo il diluvio (Genesi 9:3).


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4.2 Come Timoteo debba esercitare il suo ministero con fedeltà e diligenza

Vers. 6-8: — «Esponendo queste cose ai fratelli, tu sarai un buon servitore di Cristo Gesù, nutrito con le parole della fede e della buona dottrina che hai imparata. Ma rifiuta le favole profane e da vecchie; esèrcitati invece alla pietà, perché l’esercizio fisico è utile a poca cosa, mentre la pietà è utile a ogni cosa, avendo la promessa della vita presente e di quella futura».

Timoteo doveva proporre queste cose ai fratelli. Vediamo qui le funzioni di servitore di Gesù Cristo che egli aveva: doveva mettere in guardia i fratelli contro gli insegnamenti satanici e quelle persone che volevano ricondurli alla legge, dicendo: «Non toccare, non assaggiare, non maneggiare» (Colossesi 2:21). Così facendo era un buon servitore (diakonos) nella Chiesa del Dio vivente; non però con un titolo ufficiale, come i diaconi e le diaconesse, ma con un servizio generale, grazie al dono che gli era stato conferito per profezia. «Nutrito con le parole della fede e della buona dottrina che hai imparata (o seguita da presso)»: era il suo nutrimento, e per questo era un buon servitore. La buona dottrina e la fede che la riceve non debbono mai essere separate, e si vede quale scopo vitale ha l’insegnamento della verità presentata in questa maniera. Ciò contraddice, nel modo più categorico, le tendenze attuali della cristianità professante che separa lo studio della Parola dalla fede, e che predica la pratica cristiana senza la dottrina sulla quale è basata e stabilita, e senza la conoscenza della persona di Cristo, solo segreto di questa pratica. Questa dottrina era stata affidata a Timoteo (*).

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(*) I seguenti sono tutti passi che nelle epistole pastorali si riferiscono alla dottrina e all’insegnamento: 1 Timoteo 1:10; 4:1,6,11,13,16; 5:7; 6:1,2,3; 2 Timoteo 2:2; 3:10,16; 4:3; Tito 1:9; 2:1,7,10.
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22/04/2011 18:06
 
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Insegnando la buona dottrina, Timoteo doveva rigettare «le favole profane e da vecchie», che non solo non dovevano essere considerate, ma che pure bisognava risolutamente rifiutare e respingere perché corrompevano la preziosa verità di Dio. Timoteo, nel suo insegnamento, doveva mostrare l’immenso ruolo della pietà pratica, dei rapporti di timore e di fiducia dell’anima con Dio, nella dottrina cristiana. Ma anche lui doveva esercitarsi a praticare abitualmente i rapporti di comunione della sua anima con Dio. La carne sollecita a coltivare dei rapporti col mondo e con le cose visibili e non favorisce le relazioni col Signore.

È la stessa cosa per «l’esercizio fisico». Non penso che si tratti qui di torture volontarie come qualcuno ha detto, ma di esercizi fisici utili non soltanto alla salute ma anche all’equilibrio dello spirito. Queste cose non sono dunque proibite al cristiano, ma la loro utilità è ristretta, contrariamente all’opinione che prevale oggi nel mondo. La pietà è invece utile ad ogni cosa. Essa ha una promessa: può condurci a tralasciare l’esercizio corporale affinché non perdiamo nulla della relazioni della nostra anima con Dio; ma soprattutto ci garantisce che Dio ha cura della vita presente dei credenti. È una promessa; non permetterà che la loro vita sia raccorciata per mancanza d’esercizio corporale. Paolo prigioniero è un esempio di questo principio. Ancora più di questo, la pietà, l’esercizio spirituale, ha anche la promessa di una vita che è al di là della vita presente e apre degli orizzonti mille volte più preziosi della vita passeggera di quaggiù. Come vedremo, Timoteo era chiamato ad afferrare questa vita (6:12).


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Vers. 9-10: — «Certa è quest’affermazione e degna di essere pienamente accettata (infatti per questo fatichiamo e combattiamo): abbiamo riposto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il Salvatore di tutti gli uomini, soprattutto dei credenti».

«Certa è quest’affermazione e degna di essere pienamente accettata». Abbiamo visto questa stessa espressione al capitolo 1:15 in rapporto all’opera di Cristo e alla salvezza che è la parte della fede. Una tale verità è di certezza assoluta e deve essere pienamente accettata. L’apostolo collega qui la stessa certezza alla pietà, che è utile a tutte le cose. La fede e la pietà hanno la stessa importanza riguardo alle loro conseguenze eterne: la prima, la salvezza per mezzo di Cristo, la seconda, la vita futura. Era perché la pietà fosse realizzata dai cristiani che Paolo lavorava e sopportava l’obbrobrio. Egli era (1:16) d’esempio a coloro che avrebbero creduto in Cristo per la vita eterna; qui, è d’esempio a coloro che hanno messo la loro speranza nel Dio vivente. Attraverso tutte le sue sofferenze egli pensava a mantenere i rapporti benedetti dell’anima con Dio, sia per sé, sia per i suoi fratelli, e sapeva che questo Dio, Salvatore di tutti gli uomini e specialmente dei credenti, non avrebbe mancato di conservare la sua vita attraverso tutti i pericoli che la minacciavano. Come è il Creatore, è anche il Salvatore di tutti gli uomini, senza distinzione del loro stato morale; ma, come l’apostolo dimostra, lo è particolarmente per i credenti, perché il mondo non ha né la promessa della vita presente né quella della vita futura.

Desidero aggiungere ancora qualche parola sul soggetto così importante della pietà. Abbiamo già detto: essa è il mantenimento abituale delle relazioni dell’anima con Dio. La pietà è menzionata e raccomandata soltanto nelle tre epistole pastorali e nella seconda epistola di Pietro. Questa parola si ritrova nove volte nella prima epistola a Timoteo, due volte nella seconda epistola a Timoteo, due volte in quella a Tito, quattro volte nella seconda epistola di Pietro. Dio insiste, per mezzo dello Spirito Santo, perché vuole occuparci del pericolo del declino della Chiesa, poi del suo avvenuto declino, infine della rovina che precede la sua apostasia finale. In tutti questi casi, la salvaguardia si trova nelle relazioni individuali dell’anima con Dio. Nella prima epistola a Timoteo, in cui la casa di Dio non è ancora in rovina, la pietà è menzionata come salvaguardia per il mantenimento di questa casa e degli individui che la compongono. In Tito 1:1 la conoscenza della verità deve produrre la pietà. In 2 Timoteo 3:5, quando la rovina è ormai completa, la pietà non è più che una formula senza potenza. Nella seconda epistola di Pietro, che presagisce i tempi della fine, essa è un dono di Dio che il fedele deve ritenere come cosa preziosa (*).

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(*) Questi i passi che si riferiscono alla pietà: 1 Timoteo 2:2; 3:16; 4:7,8; 6:3,5,6,11; 2 Timoteo 3:5,12; Tito 1:1; 2:12; 2 Pietro 1:3,6; 3:11.


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22/04/2011 18:08
 
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Vers. 11-16: — «Ordina queste cose e insegnale. Nessuno disprezzi la tua giovane età; ma sii di esempio ai credenti, nel parlare, nel comportamento, nell’amore, nella fede, nella purezza. Àpplicati, finché io venga, alla lettura, all’esortazione, all’insegnamento. Non trascurare il carisma che è in te e che ti fu dato mediante la parola profetica insieme all’imposizione delle mani dal collegio degli anziani. Òccupati di queste cose e dèdicati interamente ad esse perché il tuo progresso sia manifesto a tutti. Bada a te stesso e all’insegnamento; persevera in queste cose perché, facendo così, salverai te stesso e quelli che ti ascoltano».

«Ordina queste cose e insegnale». Ordinare era il vero compito affidato a Timoteo. Ed era per questo che l’apostolo lo aveva pregato di restare ad Efeso (1:3); ma gli era stato ricordato (1:5) che lo scopo dell’incarico era l’amore! Questo incarico gli era stato affidato per profezia (1:18). Ciò nonostante, la sua stessa missione era subordinata all’autorità dell’apostolo, del quale era delegato, e che gli dice, al capitolo 6:14: «Ti ordino di osservare questo comandamento».

Nei versetti che abbiamo letto troviamo, come abbiamo notato più sopra, le raccomandazioni personali dell’apostolo a Timoteo. Il punto principale di queste raccomandazioni è, in tutta questa epistola, la dottrina, o l’insegnamento. Quest’ultimo è menzionato tre volte nei versetti già citati. Timoteo doveva insegnare le cose che l’apostolo gli aveva affidate; doveva attendere all’insegnamento, quanto alla sua azione pubblica (v. 13), doveva impegnarvisi per se stesso (v. 16).

Ma questo passo implica molti altri punti, e le esortazioni che contiene sono molto preziose perché s’indirizzano a tutti quelli che sono impegnati nell’opera del Signore.

La giovane età di Timoteo, nell’adempimento di così gravi e importanti funzioni, soprattutto nell’insegnamento fra i santi, poteva esporlo al disprezzo dei malintenzionati. Il modo di ottenere il rispetto era d’essere un modello per tutti, d’essere alla testa dei fedeli come oggetto da imitarsi. Tale era lo stato dell’apostolo stesso quando diceva: «Siate miei imitatori, fratelli, e guardate quelli che camminano secondo l’esempio che avete in noi» (Filippesi 3:17). E qui: «Sii di esempio ai credenti, nel parlare, nel comportamento». Due cose troppo sovente dissociate nella vita del cristiano e che dovrebbero, invece, essere il riflesso l’una dell’altra! Riguardo allo stato interiore, esso doveva innanzitutto manifestarsi con «l’amore». È «lo scopo di questo incarico» (1:5), il grande scopo, il vero risultato della sua attività; ma l’amore è inseparabile dalla «fede», questa energia dell’anima che afferra le promesse di Dio. Infine Timoteo doveva distinguersi per la «purezza», nei pensieri, nelle parole e nella condotta.


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Ma riprendiamo ancora una volta, su questo soggetto, il significato della parola fede in quest’epistola. Essa può essere, come abbiamo detto, e come lo è generalmente altrove, l’energia dell’anima, prodotta per grazia, che afferra Cristo come oggetto di salvezza (1:5,16; 3:9,13; 4:6). Questa fede è spesso abbinata all’amore (1:14; 2:15; 4:12; 6:11).

In altri passi, la fede è considerata come l’insieme della dottrina cristiana ricevuta per fede (1:4,18; 2:7).

Infine, in altri ancora, lo stato dell’anima e l’insieme della dottrina cristiana che non possono separarsi l’uno dall’altro (1:19; 5:12; 6:10,21).

Nell’assenza dell’apostolo, Timoteo doveva coltivare tutto ciò che poteva far progredire la vita spirituale dei santi e che aveva per scopo il progresso della casa di Dio: la lettura, l’esortazione, l’insegnamento. Con la lettura in pubblico bisognava, innanzi tutto, mettere le anime in rapporto diretto con la Parola, al di fuori di ogni altra azione. A quel tempo, un gran numero di fedeli non possedeva le Scritture e non sapeva leggere; «la lettura» era, dunque, e rimane ancora oggi molto importante perché non ammette alcuna possibilità di confusione, come potrebbero farlo un’esortazione e un insegnamento non corretti. Gli operai del Signore hanno abbastanza a cuore, nei nostri giorni, questa raccomandazione dell’apostolo? Notate che qui si tratta unicamente della lettura pubblica nell’assemblea. Siamo noi abbastanza convinti che la potenza della Parola, anche senza ingerenza di un dono particolare, può condurre da sola le anime in contatto diretto col Signore?

L’autore di queste righe, che aveva fatto un giorno, davanti all’assemblea, una lettura prolungata delle Scritture, senza farla seguire da alcuna parola, si sentì dire da un fratello: «Tu non ci hai mai dato un’esortazione così efficace!». Voglia Dio che prendiamo più spesso esempio dal Signore, nella scena di Luca 4:16-21, nella sinagoga di Nazareth! Certo, l’esortazione e l’insegnamento non dovevano mancare nel ministero di Timoteo ed era la ragione per cui egli aveva ricevuto un dono di grazia; egli non doveva «trascurarlo» (v. 14), e doveva più tardi «ravvivarlo», allorquando lo scoraggiamento stava impadronendosi di lui (2 Timoteo 1:6). Abbiamo visto che questo dono era stato annunciato per profezia, comunicato per imposizione delle mani dell’apostolo e accompagnato dall’imposizione delle mani del collegio degli anziani. Quest’ultimo atto non conferiva, ne comunicava qualcosa di nuovo a Timoteo; esso era, come sempre nella Scrittura, il segno dell’identificazione degli altri, l’espressione della benedizione implorata sulla sua missione. Il dono di grazia (o carisma), ed anche lo Spirito, erano comunicati solo eccezionalmente per mezzo dell’imposizione delle mani degli apostoli, ma soltanto da loro (Atti 8:17). Tutto ciò contraddice le interpretazioni ecclesiastiche sui doni, sugli incarichi, sull’ordinazione, sull’imposizione delle mani e su tante altre pratiche clericali di cui un po’ di ubbidienza alla Parola avrebbe presto fatto giustizia (*).

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(*) Ci sia permesso, per sostenere ciò che diciamo, di trascrivere il commento di un teologo pio e rispettabile su questo passo. Mai tante falsità sono state accumulate in più breve spazio: «Era Paolo stesso che aveva scelto Timoteo per suo compagno d’opera, che l’aveva introdotto nel suo incarico (Atti 16:1-3). Però, aveva voluto che questo incarico fosse confermato per mezzo dell’imposizione delle mani degli anziani, probabilmente a Listra stessa da dove partì il giovane discepolo. I rappresentanti della Chiesa, d’accordo con l’apostolo (2 Timoteo 1:6), riconoscendo in Timoteo il dono di grazia per il ministero, consacrarono questo dono interamente al servizio del Signore ed implorarono su di lui, per mezzo di questo atto, lo Spirito e la benedizione di Dio. Paolo stesso, chiamato direttamente dal Signore, ricevette ad Antiochia l’imposizione delle mani per la sua prima missione fra i pagani (Atti 13:3). Donde risulta chiaramente che se l’istituzione del ministero evangelico riposa sull’autorità di Gesù Cristo che l’ha stabilita (Efesini 4:11) e se i doni che ci rendono atti vengono da Dio solo, l’incarico è conferito dall’assemblea. In generale, tutto il Nuovo Testamento prova che ogni governo ed ogni autorità nella Chiesa riposano nelle mani dell’assemblea stessa!».


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22/04/2011 18:09
 
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Le raccomandazioni a Timoteo si fanno sempre più pressanti: «Ordina queste cose»; «insegnale»; «occupati» di esse; «dedicati interamente ad esse». Le due ultime dovevano avere come risultato che i progressi di Timoteo fossero evidenti a tutti. Infatti, non è possibile che gli operai del Signore facciano dei progressi notevoli nella conoscenza delle cose di Dio se non se ne occupano in modo preminente ed esclusivo. Bisogna che il dono sia curato con estrema diligenza, che il credente che lo possiede sia occupato d’una cosa sola, con il cuore non diviso fra il Signore e le cose del mondo. «Bada a te stesso e all’insegnamento». Non si potrebbe essere occupati dell’insegnamento per gli altri senza essere attenti per se stessi alle cose che si predicano e s’insegnano. Timoteo doveva vegliare su se stesso, affinché il suo stato morale corrispondesse al suo insegnamento. Così, la posizione privilegiata di Timoteo comportava un’immensa responsabilità. Ma avrebbe dovuto occuparsi di queste cose con uno zelo temporaneo? No! Doveva perseverare, ed è questo il punto più difficile nella realizzazione di ogni attività cristiana. Così facendo, Timoteo salvava se stesso, cioè raggiungeva l’entrata finale nella gloria, dopo aver mostrato il cammino a coloro ai quali era rivolto il suo ministero.

Questo capitolo è, dunque, pieno di esortazioni rivolte a Timoteo stesso affinché fosse fedele in ogni cosa, perché dalla sua fedeltà dipendevano le benedizioni future di coloro ai quali era mandato.


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