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CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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La prima epistola di Paolo a Timoteo

Ultimo Aggiornamento: 22/04/2011 18:19
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22/04/2011 18:09
 
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5. Capitolo 5

5.1 Il modo d’esortare

Vers. 1-2: — «Non riprendere con asprezza l’uomo anziano, ma esortalo come si esorta un padre; i giovani, come fratelli; le donne anziane, come madri; le giovani, come sorelle, in tutta purezza».

Abbiamo esaminato, dal versetto 6 del capitolo precedente, le istruzioni speciali date dall’apostolo a Timoteo. Queste istruzioni continuano fino alla fine dell’epistola. Le riassumerò in poche parole.

Paolo esorta Timoteo a tenere sinceramente conto delle cose che gli raccomanda. Così, nel capitolo 4 v. 6, Timoteo deve proporre ai fratelli le cose che trattano la libertà d’usare gli alimenti che Dio ha creato per i suoi, santificandoli per mezzo della Sua Parola e per mezzo della preghiera. Al versetto 11, deve ordinare e insegnare le cose che trattano della pietà. Al versetto 15, deve curarsi di queste cose e darsi ad esse interamente. Queste cose sono una condotta irreprensibile e l’esercizio del dono che gli è stato affidato. Al versetto 16, deve perseverare nella sorveglianza di se stesso e nell’insegnamento. Al capitolo 5 v. 21, deve mantenere l’ordine e la disciplina nella casa di Dio. Al capitolo 6 v. 2, deve insegnare le cose relative ai rapporti degli schiavi con i loro padroni. Infine, al capitolo 6 v. 11, deve fuggire gli interessi terreni e tutte le cose che potrebbero distoglierlo dalla marcia della fede.

Di che serietà Timoteo doveva dare prova per seguire tutte le direttive che riceveva dall’apostolo sulla condotta che lui stesso doveva tenere nella casa di Dio!

Benché le sue funzioni nella Chiesa del Dio vivente fossero quelle d’insegnare e di riprendere, come giovane egli doveva aver rispetto dell’uomo anziano (benché sia la stessa parola nella lingua originale, in base al contesto, non si tratta qui d’un uomo con l’incarico d’anziano). L’età avanzata è accompagnata dall’incapacità di sopportare delle parole aspre senza esserne schiacciato, soprattutto se la riprensione è giustificata. Può accadere che, pur con le migliori intenzioni, un giovane, dotato per condurre l’assemblea, produca un male considerevole riprendendo senza riguardo una persona anziana. Ho visto un giovane fratello dare il colpo di morte ad un vecchio, riprendendolo aspramente riguardo ad errori di condotta che pure esigevano una legittima riprensione. L’esortazione deve essere rispettosa e corretta, ma non rude. Le stesse attenzioni sono dovute verso i giovani e le donne anziane. L’amore che considera gli uni come fratelli, le altre come madri, toglie tutto il carattere pungente all’esortazione. Riguardo alle giovani donne, l’apostolo aggiunge queste parole: «in tutta purezza». Facilmente i sentimenti della carne possono essere in gioco in un giovane che l’obbligo d’esercitare la disciplina mette in contatto con l’elemento femminile. Una vita trascorsa in comunione col Signore, nella santità e nella purezza, è una garanzia sufficiente contro ogni bramosia della carne. Queste raccomandazioni così dettagliate dovrebbero, in ogni tempo, essere oggetto di meditazione per tutti quelli che il Signore chiama al suo servizio, specialmente se sono giovani!


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5.2 Le vedove nella chiesa

Vers. 3-6: — «Onora le vedove che sono veramente vedove. Ma se una vedova ha figli o nipoti, imparino essi per primi a fare il loro dovere verso la propria famiglia e a rendere il contraccambio ai loro genitori, perché questo è gradito davanti a Dio. La vedova che è veramente tale e sola al mondo, ha posto la sua speranza in Dio, e persevera in suppliche e preghiere notte e giorno; ma quella che si abbandona ai piaceri, benché viva, è morta».

Questi versetti, fino alla fine del versetto 16, trattano delle vedove nell’assemblea. Degne di ogni riguardo, dell’assistenza dell’assemblea sotto forma sia di cure rispettose che di aiuto materiale (*), sono quelle veramente vedove (vedere ancora i versetti 5 e 16), che non soltanto hanno perduto il marito, ma che sono senza figli e senza nipoti. Nel caso che ne abbiano, un dovere incombe su di loro: mostrarsi pii verso la propria famiglia e «rendere il contraccambio ai loro genitori». Una tale prescrizione non è un ordine legale, perché ciò che invita a seguirla è che «questo è gradito davanti a Dio». È la stessa cosa al capitolo 2 v. 3, riguardo ai nostri rapporti con tutti gli uomini e con le autorità. Così la «pietà», cioè il timore di Dio e il desiderio di piacergli, si mostrano non soltanto nelle cure verso l’assemblea, ma anche nei rapporti di famiglia, e sono alla base dell’ordine nella casa di Dio, anche quando si tratta di cure materiali.

_____________________
(*) Questo stesso termine, tradotto con «onorare», «onore», è usato al versetto 17 in rapporto con gli anziani ed anche in altri passi (vedere Atti 28:10; Matteo 15:4-5). [Si tratta di rispetto, di aiuto materiale, di cure di ogni genere], ma non significa per niente uno stipendio regolare, un salario fisso.


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Al versetto 5, l’apostolo fa un ritratto del carattere della vera vedova, così come Dio la considera e l’apprezza. Non avendo quaggiù nessuno su cui appoggiarsi, ella «ha posto la sua speranza in Dio». Non spera niente dagli uomini; è completamente fiduciosa in Dio. Quale sicurezza! Quale tesoro! Dio è ricco per rimediare alla sua povertà. Così, dipendendo da Lui soltanto, ella è in rapporto continuo con Lui e «persevera in suppliche e preghiere notte e giorno», realizzando quella prima raccomandazione alla preghiera del capitolo 2 v. 1. L’immensa benedizione di una posizione senza speranza nell’uomo deriva dal fatto che ella è costretta ad abbandonarsi giorno e notte sulle risorse inesauribili che sono in Dio.

Ma, in contrasto con la vera vedova, la vedova «che si abbandona ai piaceri, benché viva, è morta». Secondo il mondo, la sua vita è assicurata e facile; ella è vivente agli occhi del mondo, ma è morta per il cielo. Che triste spettacolo!

***

Vers. 7-8: — «Anche queste cose ordina, perché siano irreprensibili. Se uno non provvede ai suoi, e in primo luogo a quelli di casa sua, ha rinnegato la fede, ed è peggiore di un incredulo».

Timoteo doveva ordinare queste cose, perché l’apostolo desiderava che le vedove, così degne d’affetto per la loro situazione, non incorressero in nessun rimprovero. Desiderava anche che i figli o i nipoti delle vedove non fossero esposti all’accusa d’avere «rinnegato la fede» (cioè l’insieme della dottrina cristiana, ricevuta per fede e basata sull’amore) e di essere peggiori degli increduli, i quali, spesso, non sono insensibili ai legami di famiglia. Ciò che è detto qui è di estrema serietà, ma ci mostra l’importanza che ha, agli occhi di Dio, l’abnegazione dei suoi figli nelle cose materiali. La famiglia ha per Dio un significato particolare. Non dimentichiamo però che i doveri più elementari della famiglia non possono essere chiamati in causa quando si tratta di seguire il Signore [Matteo 10:37; Luca 9:59]! Solo che qua, i doveri sono in rapporto con la condotta del cristiano nell’assemblea che è la casa di Dio.


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Vers. 9-10: — «La vedova sia iscritta nel catalogo quando abbia non meno di sessant’anni, quando è stata moglie di un solo marito, quando è conosciuta per le sue opere buone: per aver allevato figli, esercitato l’ospitalità, lavato i piedi ai santi, soccorso gli afflitti, concorso a ogni opera buona(*)».

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(*) Vedere la nota del capitolo 3 versetto 1.
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Troviamo, in questi passi, altre prescrizioni riguardo alle vedove, in vista del buon ordine nella casa di Dio. La vedova non doveva essere iscritta nel catalogo delle vedove affidate alle cure dell’assemblea se non aveva età avanzata, il che escludeva che potessero rimaritarsi. Ella non doveva essersi sposata due volte, il che avrebbe indicato che era occupata delle cose terrene e della soddisfazione dei suoi desideri (v. 11). Bisognava che avesse la testimonianza d’essere stata attiva nelle buone opere, con l’approvazione di Dio; ciò doveva caratterizzare le sante donne (2:10), le donne secondo Dio. Queste buone opere sono qui elencate dettagliatamente. Consistono:

  • nell’educazione dei figli (verso i quali la donna ha tutta la libertà d’insegnare): — è la famiglia;
  • nell’ospitalità: — sono le buone opere verso gli estranei;
  • nei servizi più umili verso i santi;
  • nei soccorsi prodigati ai perseguitati;
  • in qualsiasi opera di carità, perché ve ne sono molte che l’apostolo non enumera.

Questi servizi, quest’abnegazione di se stessa, questo dono delle proprie risorse agli altri, caratterizzano la donna secondo Dio che ha imparato a vivere per il prossimo.


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Vers. 11-13: — «Ma rifiuta le vedove più giovani, perché, quando vengono afferrate dal desiderio, abbandonato Cristo, vogliono risposarsi, rendendosi colpevoli perché hanno abbandonato l’impegno precedente. Inoltre imparano anche a essere oziose, andando attorno per le case; e non soltanto a essere oziose, ma anche pettegole e curiose, parlando di cose delle quali non si deve parlare».

Questi versetti, fino al versetto 16, ci dipingono un quadro opposto a quello delle «vere vedove»; quello delle vedove che Timoteo, sostituendo l’apostolo nell’amministrazione della casa di Dio, doveva rifiutare come oggetto di cure particolari da parte dell’assemblea. Si tratta delle vedove giovani. Vi sono in esse dei desideri; desideri della carne, desideri di stabilirsi sulla terra e di godere gioie terrestri, alle quali esse si abbandonano e che costituiscono l’«abbandonare Cristo» (o l’elevarsi contro Cristo), perché hanno rotta (o trascurato, rigettato) la prima fede. Questa prima fede le aveva attaccate a Cristo e, di conseguenza, separate da tutto ciò che il mondo poteva loro offrire. Vedremo, al capitolo 6, che è la stessa cosa per quelli che amano il denaro: essi «si sono sviati dalla fede»; la «prima fede» aveva forse caratterizzato queste donne quando avevano ricevuto la prova della loro vedovanza come dispensata direttamente da Cristo ed erano state convinte che Egli voleva attaccarle a Lui solo. Abbandonata la prima fede, queste giovani vedove, non avendo più un cuore intero per le buone opere e per il servizio del Signore, dovevano riempire con qualcosa il vuoto che si era prodotto nel loro cuore. Mancando loro l’attività per Cristo e per i santi, esse si creano un’attività fittizia per mezzo della quale cercano di popolare il deserto della loro esistenza. Andando di casa in casa, si danno ai pettegolezzi, immischiandosi nelle circostanze del prossimo, riferendo cose che dovrebbero tacere. Questo quadro è severo ma rispecchia la verità, che Dio non nasconde mai.


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Vers. 14-16: — «Voglio dunque che le vedove giovani si risposino, abbiano figli, governino la casa, non diano agli avversari alcuna occasione di maldicenza; infatti già alcune si sono sviate per andare dietro a Satana. Se qualche credente ha con sé delle vedove, le soccorra. Non ne sia gravata la chiesa, perché possa soccorrere quelle che sono veramente vedove».

Vediamo, dunque, che una giovane vedova, risposandosi, può fare la sua propria volontà e abbandonare Cristo e gli interessi celesti per le cose della terra, ma anche che ella può, con lo stesso atto, fare la volontà di Dio e quindi non perdere la comunione col Signore. Se la posizione di giovane vedova vieta l’iscrizione nel catalogo per ottenere le cure dell’assemblea, che non ammette né le giovani vedove né le vedove che hanno avuto più di un marito, queste sono, pur non di meno, nel cammino della volontà di Dio se si sposano non per piacere a se stesse ma in sottomissione a tale volontà. Il rimedio indicato al versetto 14 è pratico e secondo Dio.

È notevole vedere come Dio, quando si tratta dell’ordine nella Sua casa, indica minuziosamente ciò che può evitare qualsiasi disordine. L’apostolo qui esprime la volontà del Signore come Suo mandatario: per le giovani vedove ci vuole il matrimonio, i figli, il governo della propria casa; senza ciò, il governo della casa di Dio ne soffrirà. La giovane vedova evita così, come al capitolo 3 v. 7, l’insidia del diavolo poiché, se dà occasione di maldicenza, il diavolo se ne servirà per rovinare la testimonianza e impadronirsi delle anime che gli hanno fornito l’occasione con una cattiva coscienza. Già alcune si sono «sviate per andare dietro a Satana». Era la conseguenza fatale dell’aver «abbandonato Cristo».

Al versetto 16 troviamo un’ultima raccomandazione riguardo alle vedove, indirizzata ai fedeli, uomini o donne. Debbono essere assistite in vista degli interessi dell’assemblea. Bisognava che i carichi dell’assemblea fossero diminuiti, non perché essa si liberasse d’un peso, ma affinché i soccorsi verso quelle che erano «veramente vedove» (e abbiamo visto cosa la Parola intenda con questo termine) potessero essere più abbondanti.


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5.3 Le relazioni con gli anziani

Vers. 17-21: — «Gli anziani che tengono bene la presidenza, siano reputati degni di doppio onore, specialmente quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento; infatti la Scrittura dice: "Non mettere la museruola al bue che trebbia"; e: "L’operaio è degno del suo salario". Non ricevere accuse contro un anziano, se non vi sono due o tre testimoni. Quelli che peccano, riprendili in presenza di tutti, perché anche gli altri abbiano timore. Ti scongiuro, davanti a Dio, a Cristo Gesù e agli angeli eletti, di osservare queste cose senza pregiudizi, e di non fare nulla con parzialità».

L’apostolo ritorna ora agli anziani nelle istruzioni che dà a Timoteo. C’è un onore da rendere loro; si tratta di rispetto, di aiuto materiale, di cure di ogni genere. Questa parola «onore» è impiegata come verbo per le cure che meritano le vedove, al versetto 3 del nostro capitolo, e come sostantivo per gli onori resi dagli schiavi ai loro padroni.

Ecco come gli anziani dovrebbero adempiere ai loro incarichi: «tenere bene la presidenza» (questa stessa parola è tradotta, al capitolo 3 v. 4, con «governare bene» quando si tratta di governare la propria casa). E questo modo con cui gli anziani adempivano alle loro funzioni di sorveglianti doveva essere riconosciuto degno di «un doppio onore»; non di un doppio stipendio, perché non vi è diritto a un salario né per gli incarichi, né per i doni. Al capitolo 6 v. 1, questa stessa parola significa tutto il rispetto che gli schiavi devono ai loro padroni, sia in sottomissione, sia in abnegazione, sia in servizi resi. Qui, il doppio onore è soprattutto reso agli anziani quando adempiono contemporaneamente due incarichi: la sorveglianza e il servizio della Parola e della dottrina, doppia funzione che non era nelle possibilità di tutti gli anziani, sebbene tutti dovessero essere capaci d’insegnare e di convincere i contraddittori (Tito 1:9).

L’apostolo cita (v. 18) Deuteronomio 25:4, per appoggiare la sua raccomandazione (il passo è anche menzionato in 1 Corinzi 9:9) per mostrare che dando una simile prescrizione Dio parla «proprio per noi». Cita in seguito la parola di Gesù stesso ai suoi discepoli: «L’operaio è degno della sua mercede» (Luca 10:7), il che pone gli scritti del Nuovo Testamento al livello degli scritti dell’Antico Testamento.


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22/04/2011 18:13
 
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Timoteo doveva avere molte riserve riguardo alle accuse portate contro un anziano. Un incarico in vista porta facilmente alla gelosia e di conseguenza ai cattivi propositi e alla calunnia. Bisognava essere premuniti contro tutto ciò e seguire le prescrizioni della Parola: «Ogni parola sarà confermata dalla bocca di due o tre testimoni» (Deuteronomio 19:15; Matteo 18:16; 2 Corinzi 13:1).

Ma, d’altra parte, dato che ognuno è fallibile, non bisognava fare delle parzialità in favore di coloro che erano in vista. Era così che Paolo si era comportato con Pietro che si chiama egli stesso «anziano»(1 Pietro 5:1): l’aveva rimproverato davanti a tutti (Galati 2:14; 1 Timoteo 5:20).

Il caso di un anziano che peccava era doppiamente serio, perché egli poteva, con la sua influenza e la sua autorità, trascinare altri nello stesso cammino. In altri tempi, Barnaba era stato trascinato in questo modo nella simulazione. Bisognava che la riprensione fosse pubblica, affinché altri anziani non fossero tentati d’imitare il peccato. Paolo scongiurava Timoteo ad osservare queste cose, perché la casa di Dio, e del Signore Gesù Cristo, che ne è il Capo, è offerta in esempio agli «angeli eletti», i quali devono poter vedere Cristo nell’assemblea dei santi. Che esortazione importante per colui che è chiamato ad un servizio nella casa di Dio!


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5.4 Precetti vari per avere del discernimento

Vers. 22-25: — «Non imporre con troppa fretta le mani a nessuno, e non partecipare ai peccati altrui; consèrvati puro. Non continuare a bere acqua soltanto, ma prendi un po’ di vino a causa del tuo stomaco e delle tue frequenti indisposizioni. I peccati di alcune persone sono manifesti prima ancora del giudizio; di altre, invece, si conosceranno in seguito. Così pure, anche le opere buone sono manifeste; e quelle che non lo sono, non possono rimanere nascoste».

Timoteo è esortato ora a non imporre precipitosamente le mani ad alcuno. L’imposizione delle mani, quando non era fatta dall’apostolo stesso che aveva le qualità per farlo, non conferiva né un dono di grazia, né il dono dello Spirito Santo (2 Timoteo 1:6; Atti 8:17). Al capitolo 4:14, gli anziani non avevano conferito nulla a Timoteo per mezzo di questo atto. L’imposizione delle loro mani esprimeva la benedizione, la sanzione, l’identificazione pubblica con ciò che era stato conferito a Timoteo dall’apostolo. Imponendo le mani, probabilmente agli anziani, per quanto qui non sia detto, riguardo a una missione o un servizio qualsiasi, Timoteo si dichiarava solidale con loro, s’identificava col loro servizio o la loro missione, metteva la sua approvazione sul loro incarico, la loro chiamata, la loro opera. Se peccavano, egli si esponeva anche a essere coinvolto nei peccati che avrebbero potuto commettere nell’esercizio delle loro funzioni. Evitando quest’insidia tesa sui suoi passi, Timoteo rimaneva puro. Non doveva dare la più piccola occasione di essere ripreso, come avrebbe meritato per un’eventuale precipitazione, perché si sarebbe contaminato partecipando così al peccato altrui.

La raccomandazione del versetto 23, di bere un po’ di vino, mi sembra che si leghi a ciò che precede, cioè che la precipitazione poteva provenire dall’eccitazione della carne. Timoteo avrebbe potuto credere di doversi astenere in modo assoluto da tutte le bevande eccitanti. L’apostolo mostra la sua preoccupazione per la salute del suo caro figlio nella fede, ma inoltre sapeva quanto la coscienza delicata e magari un po’ malaticcia o eccessiva di Timoteo (vedi 2 Timoteo 1:6) poteva allarmarsi facilmente dei pericoli ai quali le sue funzioni l’esponevano. Questi minuziosi particolari sono molto commoventi e mostrano, allo stesso tempo, la sollecitudine dell’apostolo per il suo amato compagno di lavoro e la sollecitudine che ha avuto il Signore per i1 suo caro discepolo nel permettere che fosse citato nello scritto ispirato dell’apostolo.


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22/04/2011 18:14
 
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Avendo parlato dei peccati altrui, Paolo menziona due caratteri di questi peccati. Ve ne sono che «sono manifesti prima ancora del giudizio». Li conosciamo, proclamano in anticipo il giudizio di questi uomini, di modo che nessuno può ignorarli. Altri peccati sono nascosti adesso, ma tengono dietro a questi uomini. Essi li ritroveranno nel gran giorno del giudizio. Non erano soltanto i peccati manifesti che dovevano mettere in guardia Timoteo riguardo all’imposizione delle mani, ma anche la possibilità dei peccati che si sarebbero conosciuti più tardi, affinché egli non fosse coperto di vergogna quando il Signore apparirà (1 Giovanni 2:28). Si trattava dunque, per Timoteo, di non imporre le mani ad un uomo che pecca segretamente. Il mezzo per riconoscere tale uomo sono le buone opere. Esse sono manifeste in anticipo, e quelle che non lo sono attualmente lo saranno più tardi. Donde la necessità di non usare alcuna precipitazione nella sanzione da dare a uno che vuol mettersi al servizio del Signore.


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6. Capitolo 6

6.1 Doveri dei servi

Vers. 1-2: — «Tutti quelli che sono sotto il giogo della schiavitù, stimino i loro padroni degni di ogni onore, perché il nome di Dio e la dottrina non vengano bestemmiati. Quelli che hanno padroni credenti, non li disprezzino perché sono fratelli, ma li servano con maggiore impegno, perché quelli che beneficiano del loro servizio sono fedeli e amati. Insegna queste cose e raccomandale».

Questi versetti contengono le istruzioni per i servi. L’apostolo, innanzitutto, tratta dei loro rapporti coi padroni increduli. Parlando a tutti i servi, si indirizza infatti soltanto a coloro che fanno parte della casa di Dio. Li riconosce in una posizione di dipendenza e di inferiorità rispetto agli uomini liberi; eppure, lungi dall’insorgere contro i loro padroni, anche se la loro condotta era tirannica, dovevano stimarli degni di ogni onore. Abbiamo visto più sopra (5:17) ciò che questa parola significa. Questa raccomandazione ha una grande portata. Non si tratta qui di obbligarli ad una soggezione forzata sotto un giogo subìto con impazienza; ma il servo cristiano riconosce al suo padrone, qualunque egli sia, ogni dignità, e gli rende moralmente ed effettivamente ogni servizio. Con quale scopo? Affinché il nome di Dio, di cui questi servi erano i portatori, e la dottrina, segno distintivo della «casa» della fede di cui facevano parte, non fossero biasimati da questi padroni increduli. Da quel momento, questi servi cristiani erano posti da Dio presso tali padroni per fare conoscere loro il Suo nome e la dottrina di Cristo, affidata, perché se ne renda testimonianza, alla casa di Dio quaggiù; dottrina sulla quale è fondata tutta la vita pratica del cristiano.

L’apostolo si rivolge in seguito ai servi che hanno dei padroni credenti. C’è il pericolo di essere portati a comportarsi verso di loro in modo differente che verso padroni increduli, ad esempio disprezzandoli. Un tale sentimento carnale andrebbe contro l’autorità stabilita da Dio e contraddirebbe tutti i principi della sana dottrina. Il servo, anziché elevarsi al livello del suo padrone cristiano o di abbassarlo al suo livello, deve essere felice di servirlo e amarlo, poiché un tale padrone è un fedele, quanto alla sua testimonianza verso il Signore, e un diletto, nel cuore di Dio e nel mezzo della famiglia cristiana.

Incombeva a Timoteo di dare questa esortazione, come pure l’insegnamento che essa comportava, perché l’una e l’altra facevano parte del dono di questo caro «figlio» in fede dell’apostolo Paolo (4:13).


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6.2 Esortazioni e raccomandazioni generali

Vers. 3-5: — «Se qualcuno insegna una dottrina diversa e non si attiene alle sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e alla dottrina che è conforme alla pietà, è un orgoglioso e non sa nulla; ma si fissa su questioni e dispute di parole, dalle quali nascono invidia, contese, maldicenza, cattivi sospetti, acerbe discussioni di persone corrotte di mente e prive della verità, le quali considerano la pietà come una fonte di guadagno».

Ecco, dunque, ciò che Timoteo doveva insegnare nell’esortare i servi. Colui che insegna in altro modo e non si attiene alle sane parole di Cristo, come pure alla sua dottrina, è orgoglioso e ignorante. La sana dottrina ha in vista la pietà, ed ha lo scopo di produrre delle relazioni di timore e di fiducia fra l’anima e Dio; tutto ciò che non ha questo carattere non può essere la dottrina di Gesù Cristo. Essa deve condurci sempre a coltivare le nostre relazioni con Dio, a gioirne e a valorizzare il suo carattere dinanzi al mondo. Se non si segue questo cammino, si è orgogliosi e si ignora lo scopo e i pensieri di Dio; si disputa sulle parole, segno di un triste declino nella casa di Dio, e il risultato non può essere né la pace, né l’amore, ma delle tristi querele, da cui nascono i cattivi sentimenti che riempiono il cuore di amarezza e di odio. È lo stato di spiriti completamente estranei alla verità e che cercano di trarre un profitto materiale da questa apparenza di pietà, che si danno a dispute religiose che non hanno niente a che vedere con la dottrina della pietà. L’odio, la scontentezza prodotti da queste dispute, la dimenticanza completa di relazioni con Dio, caratterizzano questi uomini.


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Vers. 6-8: — «La pietà, con animo contento del proprio stato, è un grande guadagno. Infatti non abbiamo portato nulla nel mondo, e neppure possiamo portarne via nulla; ma avendo di che nutrirci e di che coprirci, saremo di questo contenti».

Quale contrasto tra l’uomo dei versetti 3 a 5 e il credente fedele dei versetti 6 a 8! Vi è, infatti, un grande guadagno in queste due cose: la pietà che ha la promessa della vita presente e della vita a venire (4:8), e l’animo contento del proprio stato, che non cerca guadagno nelle cose di quaggiù. Il cristiano d’animo contento sa benissimo che non porterà via nulla delle cose delle quali può essergli dato di godere per un momento; starà attento, dunque, a non mettervi il cuore. Questo cristiano è semplice. Avendo tutto il suo interesse nelle cose future che gli sono promesse, è ampiamente soddisfatto che Dio gli assicuri quaggiù il nutrimento e il vestire, e ne gioisce con azioni di grazie. Qualsiasi altra cosa per lui è piuttosto un ostacolo, perché sa che non può portare via nulla da questo mondo, dove non ha portato niente (Salmo 49:17; Ecclesiaste 5:15); se si attaccasse a qualche cosa, sarebbero dei legami che un giorno dovrebbe spezzare. Godendo delle cose eterne, nelle quali la pietà si compiace, e sapendo che il possesso delle cose visibili dividerebbe il suo cuore fra questi due centri, la terra e il cielo, la sua pietà preferisce le cose invisibili che durano sempre, perché delle prime nulla resterà e nulla si porterà nell’eternità.

Il guadagno reale della pietà non è quello a cui gli uomini ambiscono, perdendosi in vane dispute e discussioni religiose con le quali pensano di acquistarsi reputazione, guadagno e profitto; la vera pietà introduce sempre più l’anima del fedele nella gioia delle sue relazioni con Dio, e troverà il suo coronamento quando godrà di queste relazioni senza alcuna nube, nel cielo.


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Vers. 9-10: — «Invece quelli che vogliono arricchire cadono vittime di tentazioni, di inganni e di molti desideri insensati e funesti, che affondano gli uomini nella rovina e nella perdizione. Infatti l’amore del denaro è radice di ogni specie di mali; e alcuni che vi si sono dati, si sono sviati dalla fede e si sono procurati molti dolori».

In generale, coloro che cercano di conquistare la ricchezza cadono in ogni genere di male. (Parlerà più tardi di coloro che sono ricchi secondo la dispensazione del governo di Dio al versetto 17). Questo desiderio e questa ricerca di guadagno gettano l’uomo nella rovina e nella perdizione. Possiamo parlare dettagliatamente di tutte le miserie che sono, per il mondo e il cristiano, la conseguenza dell’amore del denaro:

  1. la tentazione e l’insidia nella quale cadono;
  2. diversi desideri insensati e perniciosi, potendosi concedere la soddisfazione delle bramosie della loro carne;
  3. la rovina materiale e morale, poi la perdizione eterna.

L’uomo ha creduto di soddisfarsi con le ricchezze ed ecco che è inghiottito, lontano da Dio, nell’abisso!

Alcuni di coloro che appartengono alla casa di Dio hanno, purtroppo, ambito questa parte. La conseguenza è stata per loro più ancora che la rovina materiale. Si sono trafitti di molti dolori, dolori incessanti, per la minaccia di perdere tutto, per le preoccupazioni continue. Ma ancor più, si sono sviati dalla fede. Questo stato non è il naufragio della fede (1:19), né l’apostasia della fede (4:1), o il rifiuto della prima fede (5:12); è uno stato meno grave dei precedenti, ma che getta l’anima del cristiano in una miseria senza nome. Essi si sono allontanati, sviati, staccati dalla fede per non ritrovarla mai più. Questa ha perduto per loro tutto il suo sapore, tutto il suo interesse (si tratta qui dell’insieme delle verità che la costituiscono), perché l’hanno sostituita con l’interesse per le cose più attraenti, anche se più vuote, di questo mondo.

La fede è la felicità, la salvaguardia, la delizia di coloro che sono rimasti fedeli e che sono i portatori della testimonianza di Dio quaggiù. Ma gli altri, quando saranno sul punto di lasciare questo mondo per comparire davanti a Dio, saranno trovati «vestiti»? Dove sarà la loro corona? Sarà data ad altri! Chi fra noi cristiani oserebbe augurare il benessere materiale in cambio della gioia, della sicurezza e della pace che danno il possesso delle cose celesti?


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Vers. 11-12: — «Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose, e ricerca la giustizia, la pietà, la fede, l’amore, la costanza e la mansuetudine. Combatti il buon combattimento della fede, afferra la vita eterna alla quale sei stato chiamato e in vista della quale hai fatto quella bella confessione di fede in presenza di molti testimoni».

L’apostolo ritorna ora al suo caro Timoteo. «Ma tu, uomo di Dio» — gli dice. Questo appellativo, così sovente usato nell’Antico Testamento, è sempre applicato ad uomini che hanno ricevuto una missione speciale da Dio. Tali furono i profeti Elia ed Eliseo e il vecchio profeta di 1 Re 13; tale fu anche Mosè, profeta legislatore, e Davide, il re profeta. Tutti ricevono, assieme al titolo di profeta, anche quello di uomo di Dio (cfr. 2 Pietro 1:21).

Nel Nuovo Testamento, questo titolo si ritrova solo due volte: qui e in 2 Timoteo 3:17, dove si applica prima a Timoteo, poi a colui che, nutrito della Parola, è incaricato, come Timoteo, di una missione speciale in questo mondo. Vediamo l’importanza della missione di quest’ultimo, perché essa gli era stata affidata con una solennità particolare, come dimostrano queste due epistole. Timoteo doveva vegliare sulla dottrina, insegnando come bisognava condursi nella chiesa del Dio vivente; ma egli stesso, in primo luogo, doveva condursi in modo da essere di modello agli altri. È così che, rappresentando Dio di fronte ai suoi fratelli, Timoteo doveva mostrare un carattere che lo facesse accreditare nel suo incarico. Doveva fuggire le cose di cui l’apostolo aveva parlato e procacciare:

  1. La giustizia, quella giustizia pratica che rinnega il peccato e gli impedisce d’introdursi nelle nostre vie.
  2. La pietà, i rapporti d’intimità con Dio, basati sul timore e la fiducia, rapporti impossibili senza la giustizia.
  3. La fede, potenza spirituale per la quale ammettiamo come vera ogni parola uscita dalla bocca di Dio, e per mezzo della quale afferriamo le cose invisibili.
  4. L’amore, il carattere stesso di Dio, conosciuto in Gesù Cristo e manifestato da coloro che sono partecipi della natura divina.
  5. La costanza, che fa attraversare e sopportare tutte le difficoltà in vista dello scopo glorioso da raggiungere.
  6. La mansuetudine, uno spirito benigno e pacifico che è di gran prezzo davanti a Dio (1 Pietro 3:4).

A tutte queste cose Paolo aggiunge due pressanti raccomandazioni. La prima è: «Combatti il buon combattimento della fede». Si tratta qui della lotta nello stadio (1 Corinzi 9:25), al quale si è chiamati per riportare il premio. È di questo «combattimento» che l’apostolo parlava al momento di terminare la sua carriera: «Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede» (2 Timoteo 4:7).

La seconda raccomandazione, che si collega alla prima, è: «Afferra la vita eterna». La vita eterna non è qui la vita che abbiamo possedendo Cristo, «il vero Dio e la vita eterna», quella vita divina che ci è comunicata per mezzo della fede in Lui e che ci introduce, già da quaggiù, nella comunione del Padre e del Figlio; essa ci è presentata, in questo passo, come la gioia finale e definitiva di tutte le benedizioni celesti, ricompensa del «buon combattimento della fede». Tuttavia, non è come in Filippesi 3:12 una meta non ancora raggiunta che il cristiano persegue e che cerca di afferrare. L’apostolo vuole che, durante lo svolgimento stesso del combattimento, questa meta sia afferrata come una grande ed assoluta realtà: il possesso e la gioia attuale, per fede, di tutte le cose che appartengono alla vita eterna. Che grazia quando la vita eterna è stata afferrata in questo modo!

È per tali benedizioni che Timoteo era stato chiamato. L’apostolo ci fa risalire all’inizio della carriera del suo caro figlio nella fede. Non appena questa prospettiva di una vita avente un solo scopo e un solo oggetto, quello che l’apostolo stesso s’era imposto (2 Timoteo 4:7), era stata posta dinanzi a lui, egli aveva reso testimonianza e «fatto quella bella confessione di fede in presenza di molti testimoni». La sua confessione riguardava la vita eterna, afferrata come il tutto della chiamata cristiana. La chiamata faceva di Timoteo il campione di questa verità. I numerosi testimoni non sono gente del mondo, ma quelli che facevano parte dell’assemblea del Dio vivente, nella quale il suo ministero doveva svolgersi con l’insegnamento e le esortazioni.


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Vers. 13-16: — «Al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose, e di Cristo Gesù che rese testimonianza davanti a Ponzio Pilato con quella bella confessione di fede, ti ordino di osservare questo comandamento da uomo senza macchia, irreprensibile, fino all’apparizione del nostro Signore Gesù Cristo, la quale sarà a suo tempo manifestata dal beato e unico sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e che abita una luce inaccessibile; che nessun uomo ha visto né può vedere; a lui siano onore e potenza eterna. Amen».

Questi versetti sono come un riassunto dello scopo di tutta l’epistola. «Io ti ordino», dice l’apostolo. Timoteo aveva ricevuto da lui un incarico e doveva attenervisi. Essendo stato stabilito per rappresentare l’apostolo durante la sua assenza, doveva dare ordini lui stesso (1:3,5,18; 4:11; 5:7; 6:17). Paolo ordinava a Timoteo molte cose e lo faceva nel modo più solenne, dinanzi al Dio Creatore che egli invocava come Colui che ha chiamato tutto all’esistenza quando non vi era ancora nulla, Colui che si è fatto conoscere a esseri infimi come noi per mezzo di un atto che ha mostrato tutto il suo compiacimento negli uomini. Non è forse un motivo supremo per obbedire? Ma ciò che l’apostolo ordinava lo faceva anche nel cospetto di Gesù Cristo che rese testimonianza «davanti a Ponzio Pilato». Poteva non essere importante per il governatore romano che Gesù fosse Re dei Giudei, e Pilato lo dimostra sia dicendo «Sono io forse Giudeo?», sia scrivendo «Gesù il nazareno, il Re dei Giudei» come motivo d’accusa sulla croce (Giovanni 18:35). Ma Pilato, amico di Cesare, non è indifferente al fatto che oltre all’imperatore vi sia un altro uomo che abbia delle pretese di regnare. Rigettato dai Giudei, come Re, il Signore davanti a Pilato attribuisce al suo regno tutt’altra dimensione quando dice: «Il mio regno non è di questo mondo», perché ha per dominio esclusivo una sfera interamente celeste. E aggiunge: «Ora il mio regno non è di qui». Avrebbe rivendicato più tardi, quaggiù, una sovranità più vasta di quella di Re dei Giudei, ed è ciò che inquieta Pilato e gli fa dire: «Ma dunque, sei tu Re?». A questa domanda Gesù risponde: «Tu lo dici; io sono Re». Rende così testimonianza alla verità, mantenendo ad ogni prezzo il carattere della sua sovranità; e aggiunge: «Io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità». Infatti, dichiarare la sua sovranità per nascita (Matteo 2:1-2) dinanzi a Pilato, amico di Cesare, una sovranità che sorpassava di molto i limiti giudaici, significava firmare egli stesso la propria condanna a morte. Questa confessione è la «bella confessione davanti a Ponzio Pilato» del nostro passo.

Questa bella confessione, il Signore doveva farla per essere fedele alla verità di cui era venuto a rendere testimonianza in questo mondo. La sua sovranità vi partecipava, e se avesse esitato un istante davanti alla necessità di fare questa confessione, non avrebbe potuto aggiungere: «Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». La confessione che egli era Re si legava dunque intimamente al fatto che egli era venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità.


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La bella confessione di Timoteo davanti a molti testimoni cristiani non metteva la sua vita in pericolo. Non era nemmeno la testimonianza alla verità, era la bella confessione delle immense benedizioni della fedeltà, benedizioni afferrate da Timoteo nella testimonianza cristiana alla quale dedicava la sua carriera. La bella confessione di Cristo davanti a Ponzio Pilato era la testimonianza alla verità (di cui la sovranità attuale e futura di Cristo, ben più importante della sovranità giudaica, faceva parte), perché «la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo». Nulla poteva distogliere il Signore dalla confessione della verità tutt’intera, neppure la morte.

Ma quale immenso privilegio per Timoteo essere associato al Signore Gesù confessando di avere afferrato una meta che nessuno poteva strappargli, come Gesù aveva confessato interamente la verità che la morte stessa non poteva fargli abbandonare!

Al versetto 14, l’apostolo ordina a Timoteo «di osservare questo comandamento», vale a dire ciò che gli aveva ordinato: «fuggi» «ricerca» «combatti» «afferra». Era stato chiamato a realizzare queste cose davanti a testimoni fedeli e davanti al mondo, e doveva serbarle «da uomo senza macchia e irreprensibile». L’apostolo aggiunge al versetto 20: «O Timoteo, custodisci il deposito». È il riassunto del contenuto di tutta l’epistola. L’apostolo aveva già detto, a proposito della sua condotta riguardo agli anziani: «Ti scongiuro... di osservare queste cose senza pregiudizi» (5:21).

Il comandamento Timoteo doveva osservarlo «da uomo senza macchia», senza alcuna falsificazione, e da «irreprensibile», senza che nessuno avesse occasione di riprenderlo o di accusarlo, e innanzi tutto per ricevere l’approvazione del nostro Signore Gesù Cristo fino alla sua «apparizione». È sempre parlato dell’apparizione e non della venuta del Signore quando si tratta della responsabilità del servizio. Ed è per questo che si può parlare «d’amare la Sua apparizione» anche se è sempre accompagnata dalla vendetta sul mondo (2 Tessalonicesi 1:8), La ragione di questo è che se la venuta del Signore è il «giorno di grazia», la sua apparizione è il «giorno delle corone», delle ricompense per i servitori di Cristo.


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Quest’apparizione sarà mostrata al tempo stabilito dal beato e unico Sovrano, già chiamato il «beato Dio» (1:11). Allora, il solo Sovrano, Re dei re e Signore dei signori, manifesterà questa gloria. Di chi parla l’apostolo? Di Dio, certamente, ma è impossibile separare Dio da Cristo; Dio è tutto questo quando «manifesta» l’apparizione di Cristo; Cristo sarà tutto questo, quando apparirà come Re dei re e Signore dei signori. È la seconda volta in questa epistola (cfr. 1:17) che la lode suprema s’innalza a Dio nei luoghi eterni. Nel primo caso, per la venuta in questo mondo di Cristo uomo come Salvatore; nel secondo, per la sua apparizione come Signore e uomo vittorioso. Qui, sale a Colui che «solo possiede l’immortalità e che abita una luce inaccessibile; che nessun uomo ha veduto né può vedere; a lui siano onore e potenza eterna. Amen». È dunque proprio del Dio eterno, inaccessibile, invisibile, che qui è parlato, ma noi lo conosciamo nel suo figlio Gesù Cristo: Egli è «il vero Dio e la vita eterna».

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Vers. 17-19: — «Ai ricchi in questo mondo ordina di non essere d’animo orgoglioso, di non riporre la loro speranza nell’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che ci fornisce abbondantemente di ogni cosa perché ne godiamo; di far del bene, d’arricchirsi di opere buone, di essere generosi nel donare, pronti a dare, così da mettersi da parte un tesoro ben fondato per l’avvenire, per ottenere la vera vita».

Resta ancora un ordine da aggiungere riguardo a coloro ai quali, in mezzo ai suoi, Dio ha elargito dei beni di questo mondo. Si tratta della loro situazione «in questo mondo», situazione che non ha niente a che fare, o piuttosto che è in contrasto, con quella del mondo futuro (vers. 13-16).


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Questa non deve esaltarli ai loro propri occhi, perché l’orgoglio per la ricchezza che si ha è una delle tendenze più frequenti fra gli uomini. Bisogna che i cristiani non si lascino trascinare a basarsi sull’incertezza delle ricchezze che possono svanire in un momento; essi devono confidare in Colui che li ha riccamente favoriti dando loro di godere di queste cose. Impieghino, dunque, le loro ricchezze per fare del bene, in buone opere, in prontezza nel dare con liberalità. Tale è lo scopo della ricchezza che è loro dispensata; essa deve sviluppare, nella testimonianza di chi le possiede, delle virtù che non potrebbero mostrarsi se non dove Dio dà dei beni terrestri.

«Così da mettersi da parte un tesoro ben fondato per l’avvenire». Si tratta di abbandonare le cose visibili anche se sono il frutto della bontà di Dio, date ai suoi affinché acquistino «un tesoro ben fondato per l’avvenire» ed afferrino «la vera vita». Tale doveva essere il comportamento dei ricchi. Timoteo, che non possedeva nessuno dei loro vantaggi, si offriva loro ad esempio avendo egli stesso «afferrata la vita eterna».


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Vers. 20-21: — «O Timoteo, custodisci il deposito; evita i discorsi vuoti e profani e le obiezioni di quella che falsamente si chiama scienza; alcuni di quelli che la professano si sono allontanati dalla fede. La grazia sia con voi».

Timoteo è esortato a custodire il deposito che gli è stato affidato. D’altra parte, vediamo che Paolo confida ciò che ha al Signore, il quale ha la potenza di custodirlo. In Lui è la vita, la potenza per sostenerla e per custodire nel cielo l’eredità di gloria che ci è destinata. Paolo sapeva in chi aveva creduto. Egli non aveva messo la sua fiducia nell’opera, ma in Cristo, che conosceva bene (2 Timoteo 1:12). Qui, è Timoteo che custodisce il deposito che il Signore gli ha affidato. Questo deposito è l’amministrazione della casa di Dio per mezzo della Parola, della dottrina, dell’esempio che egli stesso doveva dare. Il suo compito non era di discutere; doveva schivare le profane vacuità di parole e le opposizioni alla dottrina di Cristo dei ciarlatani che pretendevano di averne conoscenza. E già qualcuno, che professava di possederla, si era allontanato dalla dottrina cristiana.

L’ultima parola dell’apostolo a Timoteo, come a tutti i credenti, è: «Grazia», favore divino per il suo figlio in fede; ed è stata anche quella la sua prima parola (1:2)!


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