CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro della GENESI

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2011 20:27
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 6.7 Così sarà alla venuta del Figlio dell’uomo

Lettore, ricordatevi di queste parole del Signore Gesù: «Come avvenne ai giorni di Noè, così pure avverrà ai giorni del Figliuol dell’uomo»; oppure come è detto in Matteo: «Alla venuta del Figliuol dell’uomo» (Luca 17:26; Matteo 24:37). Ci si vorrebbe persuadere che prima dell’apparizione del Figliuol dell’uomo nelle nuvole del cielo, la giustizia coprirà la terra da un polo all’altro, e che dobbiamo vivere nell’attesa di un regno di giustizia e di pace, prodotto dagli strumenti attualmente all’opera; ma il breve passo or ora citato taglia alla radice tutte queste speranze vane e illusorie. La giustizia copriva forse la terra ai giorni di Noè? La verità di Dio dominava forse su essa? La terra era forse ripiena della conoscenza dell’Eterno come il fondo del mare delle acque che lo coprono? La Scrittura ci risponde che «la terra era ripiena di violenza», che «ogni carne aveva corrotta la propria via sulla terra» e che «la terra anche era corrotta davanti a Dio». Ebbene, sarà così all’avvenimento del Figliuol dell’uomo! La giustizia e la violenza non si rassomigliano affatto, come neanche la malvagità universale e la pace universale. Abbiamo bisogno di un cuore sottomesso alla Parola di Dio e spogliato dalle opinioni preconcette, per comprendere il vero carattere dei giorni che precederanno immediatamente «l’avvenimento del Figliuol dell’uomo». Il lettore non si lasci ingannare, ma si chini con rispetto di fronte alla Scrittura; consideri quale era la condizione del mondo «nei giorni precedenti al diluvio» e si ricordi che com’era allora, così ancora sarà la fine del periodo attuale. L’uomo ai giorni di Noè spiegava effettivamente una potente energia per fare del mondo un soggiorno comodo e piacevole; ma non pensava a farne un luogo degno di Dio, il che sarebbe stato ben diverso. Nello stesso modo ora l’uomo si impegna a spianare in ogni modo il sentiero della vita umana e a renderlo più facile possibile; ma questo non corrisponde a: «preparate nel deserto la via dell’Eterno, appianate nei luoghi aridi una strada per il nostro Dio, affinché ogni carne veda la gloria dell’Eterno» (Isaia 40:3-5).

La civilizzazione domina, ma la civilizzazione non è la giustizia. Si lavora con lo scopo di «spazzare e ornare la casa», ma per renderla adatta a ricevere l’Anticristo e non Cristo. L’uomo usa la propria sapienza per nascondere, negli anfratti delle proprie opere, le macchie e le miserie dell’umanità; ma per quanto nascoste, queste macchie non sono tolte e ben presto riappariranno più odiose che mai. Fra poco le dighe con le quali l’uomo cerca, con tanta perseveranza, di arrestare il torrente della miseria umana, cederanno alla potenza schiacciante del male; si vedranno naufragare gli sforzi dell’uomo per rinchiudere, nei limiti che la carità umana ha inventato, la degradazione fisica, mentale e morale della progenie di Adamo.

Dio ha detto: «La fine di ogni cosa è venuta davanti a me»; non è venuta davanti all’uomo, ma davanti a Dio; e quantunque la voce degli schernitori si elevi per dire: «Dov’è la promessa della sua venuta? perché dal giorno in cui i padri si sono addormentati, tutte le cose continuano nel medesimo stato come dal principio della creazione» (2 Pietro 3:4), il momento s’avvicina rapidamente in cui gli schernitori avranno la loro risposta: «Il giorno del Signore verrà come un ladro; in esso i cieli passeranno stridendo e gli elementi infiammati si dissolveranno, e la terra e le opere che sono in essa saranno arse» (2 Pietro 3:4-10).

Tale è la risposta di Dio alle beffe degli intelligenti di questo mondo, ma non alle affezioni e all’attesa spirituale dei figliuoli di Dio. Questi ultimi, Dio ne sia benedetto, hanno una prospettiva ben diversa. Aspettano di andarsene incontro allo Sposo, nell’aria, prima che il male sia giunto al colmo e che il giudizio di Dio cada su esso. L’attesa della Chiesa non è di vedere il mondo distrutto dal fuoco, ma il levarsi della «lucente stella mattutina» (Apoc. 22:16).

6.8 Siate riconciliati con Dio

Da qualunque lato e sotto qualunque punto di vista consideriamo l’avvenire, qualunque sia l’oggetto che si presenta alla nostra vista spirituale, la Chiesa nella gloria o il mondo nelle fiamme, la venuta dello Sposo o quella inattesa, del ladro nella notte, la stella del mattino o il sole cocente del mezzogiorno, il rapimento della Chiesa o il giudizio, dobbiamo sentire quanto sia necessario che ci atteniamo alla testimonianza di Dio in grazia verso i poveri peccatori. «Eccolo ora il tempo accettevole; eccolo ora il giorno della salvezza!» «Dio era in Cristo quando riconciliava il mondo a sè» (2 Cor. 6:2; 5:19). Ora Dio riconcilia; ben presto giudicherà. Ora tutto è grazia; allora non ci sarà altro che ira; ora Dio perdona il peccato per mezzo della croce; allora lo punirà con le pene eterne. Ora Dio fa pubblicare un messaggio di grazia, della più pura, più abbondante e più gratuita grazia; parla ai peccatori di una redenzione compiuta per mezzo del prezioso sacrificio di Cristo; dichiara che tutto è compiuto; aspetta per poter ancora far grazia: «La lunga pazienza del Signore è salvezza»; «Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come alcuni reputano che faccia; ma egli è paziente verso voi, non volendo che alcuni periscano, ma che tutti giungano a ravvedersi» (2 Pietro 3:9-15). Come tutto ciò rende il tempo attuale solenne! Una grazia sovrana e pura è annunziata, ma il giudizio sospeso è pronto ad eseguirsi!

Se Dio ci ha resi attenti a queste cose, con quale interesse dovremmo seguire lo sviluppo dei suoi disegni! La Scrittura spande la sua luce su tutte le cose; per mezzo di essa non siamo ridotti a considerare gli avvenimenti che si succedono con lo stupore di quelli che non sanno né dove sono né dove vanno; possiamo e dovremmo avere una conoscenza esatta della nostra situazione; dovremmo ben conoscere la tendenza esatta di tutti i principi che sono attualmente in gioco, nel turbine vorticoso verso il quale si precipitano attualmente tutte le correnti. Gli uomini sognano un’età col pensiero che «il giorno di domani sarà come questo, anzi sarà più grandioso ancora!» (Isaia 56:12). Ma, ahimè! quanto sono vani tutti questi pensieri, tutti questi sogni, tutte queste speranze! La fede può vedere invece accumularsi minacciose nubi all’orizzonte del mondo. Il giudizio si avvicina; il giorno dell’ira si affretta; la porta della grazia sta per chiudersi; «l’efficacia d’errore» (2 Tess. 2:11) sta per incominciare! E in vista di tutte queste cose non dobbiamo, noi credenti, elevare una voce d’avvertimento e cercare di bilanciare, con una testimonianza fedele, il disgraziato autocompiacimento dell’uomo? Senza dubbio come Achab accusava Micaiah, il mondo ci accuserà di non profetizzare che del male, ma che importa? Profetizziamo ciò che profetizza la Parola di Dio e facciamolo con l’unico scopo di persuadere gli uomini (2 Cor. 5:11). Solo la Parola di Dio potrà porre i nostri piedi sopra un fondamento immutabile ed eterno. Essa sola potrà toglierci la «canna rotta» e «una speranza fallace» per darci «la Rocca dei secoli» e «una speranza che non confonde» (Rom. 5:5). L’amore vero, l’amor di Dio, non grida: «Pace, pace! mentre pace non v’è» (Geremia 6:14; 8:11) non «intonaca il muro di malta che non regge» (Ezech. 13:10). Dio vuole che il peccatore riposi in pace nell’arca dell’eterna sicurezza, godendo fin d’ora della sua comunione e nutrendo la speranza di godere con Lui del riposo eterno, in una creazione rinnovata, allorché la rovina, la desolazione e il giudizio saranno passati per sempre.

Pedro

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6.9 Le acque diminuiscono

Ritorniamo ora alla storia di Noè, e consideriamolo nella sua nuova posizione. L’abbiamo visto costruire l’arca e l’abbiamo visto nell’arca; ora lo vedremo uscire dall’arca e prendere il suo posto in un nuovo mondo (*).

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(*) Vorrei indicare qui, chiedendo ai miei lettori di meditarlo con uno spirito di preghiera, un pensiero ben compreso da tutti coloro che si sono applicati allo studio della verità dal punto di vista delle dispensazioni o economie. Questo pensiero riguarda Enoc e Noè. Il primo fu trasportato, come l’abbiamo visto, prima dell’esecuzione del giudizio; mentre l’ultimo, pur essendo salvato, dovette, in un certo modo, attraversare il giudizio. Ora si pensa che in ciò Enoc sia una figura dell’assemblea, che sarà tolta prima che il male quaggiù sia giunto al colmo, e prima che il giudizio di Dio cada sui malvagi. D’altro canto, Noè sarebbe una figura del residuo di Israele, che dovrà attraversare le acque profonde della tribolazione ed il fuoco del giudizio, per essere portato al pieno godimento delle benedizioni millenarie, in virtù dell’alleanza eterna di Dio. Devo aggiungere che condivido interamente questo pensiero relativamente a questi due Padri del Antico Testamento; considero che esso sia in armonia perfetta con il piano generale e l’analogia delle Sante Scritture. (Nota che non è stata tradotta nell’edizione italiana)
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«E Dio si ricordò di Noè». L’opera, strana per Dio, del giudizio era terminata; la famiglia, salvata con tutto ciò che le è associato, è rimessa in memoria davanti a Dio. «E Dio fece passare un vento sulla terra e le acque si calmarono, le fonti dell’abbisso e le cataratte del cielo furono chiuse, e cessò la pioggia dal cielo» (Gen. 8:2). Allora i raggi del sole incominciarono a vivificare un mondo che era stato battezzato d’un battesimo di giudizio. Il giudizio è «l’opera strana di Dio», e per quanto Dio si sia glorificato per mezzo del giudizio, non vi prende piacere. Egli è sempre pronto a lasciare il giudizio per fare misericordia.

E accadde che «in capo a quaranta giorni, Noè aprì la finestra che aveva fatta nell’arca, e mandò fuori il corvo, il quale uscì, andando e tornando, finché le acque furono asciugate sulla terra» (vers. 6-7). L’uccello impuro fuggì e trovò probabilmente un rifugio su qualche cadavere galleggiante e non ritornò più nell’arca: «Ma la colomba non trovò dove posare la pianta del suo piede, e tornò a lui nell’arca, perché c’erano delle acque sulla superficie di tutta la terra... poi mandò di nuovo la colomba fuori dell’arca, e la colomba tornò a lui, verso sera, ed ecco, essa aveva nel becco una foglia fresca d’ulivo» (vers. 8-11). Non è forse questa una bella immagine dello spirito rinnovato che, in mezzo alle desolazioni da cui è circondato, cerca e trova il suo riposo e la sua parte in Cristo? E non solo questo, ma ancora afferra l’arra dell’eredità, dimostrando così che il giudizio è passato e che una terra rinnovata incomincia ad apparire. Lo spirito carnale invece può riposarsi su qualunque cosa, eccetto che in Cristo: può nutrirsi di ogni sorta d’immondizia; la foglia d’ulivo non ha nessuna attrazione per esso; trova tutto quello che gli abbisogna in una scena di morte, e per conseguenza non si occupa del nuovo mondo. Ma il cuore ammaestrato ed esercitato dallo spirito di Dio, non può riposarsi e rallegrarsi che in quello in cui Dio trova il suo riposo e la sua gioia; si riposa nell’arca della salvezza «fino al momento del ristabilimento di tutte le cose»

Possa essere così di voi e di me, caro lettore! Il Signore rimanga il riposo e la parte dei nostri cuori, affinché non cerchiamo queste cose nel mondo che è sotto il giudizio di Dio! La colomba ritornò a Noè nell’arca ed aspettò il momento del suo riposo; e noi dovremmo sempre trovare il nostro posto in Cristo fino al tempo della sua esaltazione e della sua gloria nei secoli avvenire! «Colui che deve venire, verrà e non tarderà». Ci abbisogna solo un po’ di pazienza.

6.10 Noè esce dall’arca

«E Dio parlò a Noè dicendo: Esci dall’arca». Il medesimo Dio che aveva detto: «Fatti un’arca» e «entra nell’arca», gli dice ora: «Esci dall’arca»; «E Noè uscì... ed edificò un altare all’Eterno» (vers. 15 e seg.).

Noè non ha altro da fare che obbedire: e l’obbedienza della fede e il culto della fede vanno insieme: un altare edificato nel luogo stesso dove era passata la scena del giudizio. L’arca aveva portato Noè e la sua famiglia sani e salvi al disopra delle acque del giudizio, e li aveva fatti passare dal vecchio al nuovo mondo, dove Noè prende ora posto come adoratore (*). E, dobbiamo notarlo, è all’Eterno che edifica un altare. La superstizione avrebbe adorato l’arca, come essendo stato il mezzo di salvezza. Il cuore umano è sempre portato a mettere gli ordinamenti al posto di Dio. E l’arca era un ordinamento manifesto. Ma la fede di Noè si eleva dall’arca all’Iddio dell’arca; perciò lasciandola, invece di esitare e gettare uno sguardo indietro e considerare l’arca come un oggetto di culto o di venerazione, egli edifica un altare all’Eterno e adora l’Eterno. E dell’arca non è più fatta menzione.

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(*) È interessante considerare il soggetto dell’arca e del diluvio in rapporto al battesimo. Il battesimo è paragonato dal vecchio al nuovo mondo, in ispirito, in principio e per la fede. Il vecchio uomo è stato sepolto sotto le acque e non ha parte alla nuova natura; la carne con tutto ciò che dipende da essa, i peccati, le iniquità, le sue responsabilità, è come sotterrata nella tomba di Cristo e non può mai più ricomparire agli occhi di Dio. Ma, come Cristo risuscitò dai morti nella potenza di una nuova vita, avendo tolto completamente i nostri peccati, così l’uomo battezzato esce dall’acqua proclamendo, per così dire, che, per la grazia di Dio e per la morte di Cristo, è messo in pieno possesso di una nuova vita alla quale la giustizia di Dio è inseparabilmente unita. «Essendo stati con lui sepolti nel battesimo nel quale siete anche stati risuscitati con lui mediante la fede nella potenza di Dio che ha risuscitato lui dai morti» (confr. Rom. 6 e Col. 2 come pure 1 Pietro 3:18-22).
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Tutto questo contiene un insegnamento molto semplice e molto pratico. Dal momento che l’anima abbandona la realtà di Dio stesso, non v’è più limiti al decadimento. È sulla via che conduce alla più grossolana idolatria. Per la fede un ordinamento ha solo valore in quanto è il mezzo per il quale Iddio si fa conoscere all’anima in potenza vivente; la fede, cioè, può godere di Cristo nell’ordinamento secondo l’istituzione di Dio stesso. Al di fuori di ciò, un ordinamento non ha nessun valore; e se esso viene a insinuarsi, fosse anche nella più piccola misura, fra il cuore dell’adoratore e l’opera e la persona gloriosa di Cristo, cessa di essere un ordinamento di Dio e diventa uno strumento di Satana. Per la superstizione l’ordinamento è tutto, e Dio è escluso; il nome di Dio non serve che per esaltare l’ordinamento e dargli presa sul cuore e una influenza potente sullo spirito dell’uomo. È così che gli Israeliti adorarono il serpente di rame, il quale pure, per un tempo, fu un mezzo di benedizione per essi; ma divenne un oggetto di venerazione superstiziosa dal momento che i loro cuori si furono ritratti dall’Eterno; e fu necessario che Ezechia lo facessi a pezzi come «un pezzo di rame». In sè quel serpente non era che un pezzo di rame ma, come strumento di Dia, era stato un mezzo di grande benedizione. Ora, la fede lo riconosceva utile per lo scopo che la rivelazione di Dio gli aveva assegnato, ma la superstizione, gettando a mare la rivelazione, perse di vista il disegno reale di Dio, e dello strumento, che per se stesso era senza alcun valore, ne fece un Dio (vedere 2 Re 18:4).

Questo racchiude un’istruzione profonda riguardo al presente secolo. Viviamo in un secolo d’ordinamenti; l’atmosfera che avviluppa la Chiesa professante è impregnata degli elementi di una religione tradizionale che spoglia l’anima di Cristo e della sua salvezza. Non che le tradizioni umane neghino audacemente l’esistenza della persona e della croce di Cristo: poiché, se le negassero, gli occhi di parecchi si aprirebbero, forse; ma il male riveste un carattere infinitamente più perfido e pericoloso: si aggiungono gli ordinamenti a Cristo e alla sua opera: il peccatore non è più salvato da Cristo solo, ma da Cristo e dagli ordinamenti. Così il peccatore è spogliato interamente di Cristo; poiché si vedrà, in fin dei conti, che Cristo con gli ordinamenti diventeranno ordinamenti senza Cristo. «Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla!» (Gal. 5:2). Dobbiamo avere Cristo soltanto e interamente, altrimenti non abbiamo nulla di Lui. Il diavolo persuade gli uomini che osservando i suoi ordinamenti e facendone molto caso, onorano Cristo, mentre sa benissimo che, facendo così, mettono Cristo da parte e deificano l’ordinanza. La superstizione fa dell’ordinanza il tutto, l’incredulità e il misticismo non ne fanno nulla; la fede ne fa uso secondo l’istituzione divina.

Mi sono dilungato, più di quanto prevedevo, su questa parte del nostro studio; la concluderò, ora, con un breve sguardo sul cap. 9.

Troviamo in esso il nuovo patto sotto il quale il Creato fu posto dopo il diluvio, e anche il segno di questo nuovo patto. «E Dio benedisse Noè e i suoi figliuoli, e disse loro: Crescete e moltiplicate, e riempite la terra. E avranno timore e spavento di voi tutti gli animali della terra e tutti gli uccelli del cielo».

L’ordine dato da Dio all’uomo al momento del suo ingresso nella terra ristorata è stato di riempire la terra, tutta la terra. La sua volontà era che gli uomini fossero dispersi su tutta la superficie della terra; e che non facessero conto sulle loro forze concentrate, come hanno tentato di fare e come ce lo riferisce il cap. 11.

Dopo il diluvio, il timore dell’uomo è posto nell’anima di ogni creatura inferiore di modo che il servizio reso all’uomo è il risultato necessario del timore e della paura. La vita come la morte degli animali inferiori deve essere al servizio dell’uomo.

Pedro

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19/04/2011 19:54
 
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6.11 L’arco di Dio nella nuvola

Il creato è liberato dal timore d’un secondo diluvio, dal patto che Dio ha stipulato con esso; il giudizio non rivestira mai più la forma sotto la quale è stato eseguito allora. «Il mondo d’allora, sommerso dall’acqua perì: mentre i cieli d’adesso e la terra, per la medesima Parola, son custoditi, essendo riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della distruzione degli uomini empi» (2 Pietro 3:6-7). La terra che è stata una volta purificata coll’acqua, sarà ancora un’altra volta purificata col fuoco; ma allora scamperanno solo quelli che si sono rifugiati presso Colui che è passato per le acque profonde della morte e che ha attraversato il fuoco del giudizio di Dio.

«E Dio disse: Ecco il segno del patto che io fo tra me e voi e tutti gli esseri viventi che sono con voi, per tutte le generazioni avvenire. Io pongo il mio arco nella nuvola, e servirà di segno del patto fra me e la terra, ... e io mi ricorderò del mio patto» (vers. 12 e seg.). Tutto il creato riposa sulla stabilità eterna del patto di Dio di cui l’arcobaleno è il segno nella nuvola; l’occhio di Dio riposa su esso, di modo che la sicurezza dell’uomo dipende non dalla sua memoria imperfetta, incerta, ma dalla memoria di Dio. «Io mi ricorderò», ha detto Dio. È dolce pensare a ciò di cui Dio vuole o non vuole ricordarsi; si ricorderà del suo patto, ma non si ricorderà dei peccati del suo popolo. La croce che ratifica il primo, toglie gli ultimi; e la fede ne afferra il valore, dà la pace all’anima turbata e alla coscienza agitata.

«E avverrà che quando avrò raccolto delle nuvole al di sopra della terra, l’arco apparirà nelle nuvole, e io mi ricorderò del mio patto fra me e voi». Non è forse questa una bella e significativa immagine? I raggi del sole riflessi da ciò che minaccia di giudizio e resi più gloriosi dalle nuvole stesse che si accumulano davanti a loro, tranquillizzano il cuore e ricordano il patto di Dio, la salvezza di Dio. L’arco nella nuvola ricorda il Calvario; quivi vediamo una tetra nuvola, una nuvola di giudizio, scaricarsi sul capo sacro dell’Agnello di Dio, nuvola così densa che in pieno giorno, «si fecero tenebre per tutto il paese» (Luca 23:44). Ma, Dio ne sia benedetto, i raggi dell’amore divino ed eterno attraversano le tenebre, e la fede discerne, in quella nuvola nera, l’arco più bello e più glorioso che mai sia apparso e ode questa parola «è compiuto» uscire dal seno dell’oscurità; e in questa parola riconosce la ratifica perfetta del patto eterno di Dio, non solo col creato ma con le tribù d’Israele e con la Chiesa di Dio.

6.12 Noè s’inebria

L’ultima parte di questo capitolo ci presenta uno spettacolo umiliante. Colui che è stato fatto signore del Creato non sa governare se stesso. «Or Noè, ch’era agricoltore, cominciò a piantar la vigna; e bevve del vino e s’inebriò e si scoperse in mezzo alla sua tenda» (vers. 20 e seg.). Che condizione per Noè, il solo uomo giusto, il predicatore di giustizia! Che cosa è l’uomo! In qualunque posizione lo consideriamo, lo vediamo sempre fallire. Fallisce in Eden, fallisce nella terra restaurata, fallisce in Canaan, fallisce nella Chiesa, fallisce anche in presenza della gloria e della felicità millenaria. Fallisce ovunque e in tutto: in lui non esiste alcun bene. Per quanto grandi ed estesi siano stati i suoi privilegi, per quanto bella sia la sua posizione, egli non sa produrre che falli e peccati.

Tuttavia dobbiamo considerare Noè sotto due punti di vista, come tipo e come uomo. Ora, mentre il tipo è pieno di bellezza e di significato, l’uomo è pieno di peccato e di follia. Eppure lo spirito di Dio ha scritto queste parole: «Noè fu uomo giusto e integro» e «Noè camminò con Dio» (Genesi 6:9). La grazia divina aveva coperto tutti i suoi peccati e l’aveva vestito d’una veste di giustizia immacolata: aveva «trovato grazia agli occhi dell’Eterno» (Genesi 6:8). E benché Noè scoprisse la propria nudità, Dio non la vide, poiché non guardava alla debolezza della sua condizione naturale, ma alla potenza della giustizia divina ed eterna. Questo ci fa comprendere quanto errava Cam e quanto era lontano da Dio e dai suoi pensieri, nel suo modo di agire. Non conosceva evidentemente nulla della felicità dell’uomo «la cui trasgressione è rimessa e il cui peccato è coperto» (Salmo 32:1). Invece Sem e Jafet, ci forniscono un bell’esempio del modo in cui Dio considera la nudità dell’uomo e agisce a suo riguardo, per cui essi ereditano una benedizione, mentre Cam una maledizione.

Pedro

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19/04/2011 19:55
 
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 7. Capitoli 10 e 11: Di Noè a Abramo

7.1 Babilonia

Questo capitolo descrive la posterità dei figliuoli di Noè, e fa specialmente menzione di Nimrod, fondatore del regno di Babel ossia di Babilonia, il cui nome occupa un posto particolare nelle pagine del santo libro di Dio.

Babilonia è un nome e un principio ben conosciuto. Dal cap. 10 della Genesi al cap. 18 dell’Apocalisse, Babilonia appare del continuo sulla scena e sempre come nemica di quelli che son chiamati a rendere a Dio una testimonianza pubblica sulla terra: non si deve da ciò dedurre che la Babilonia dell’Antico Testamento sia la stessa di quella del Nuovo Testamento. La prima senza dubbio, è una città, l’ultima è un sistema; l’una e l’altra esercitano una potente influenza, ostile al popolo di Dio.

Israele era appena entrato in guerra con i popoli di Canaan, che «un mantello di Scinear», introdusse la contaminazione e il turbamento, la disfatta e la confusione nell’esercito (ved. Giosuè 7). È il racconto più autentico e più antico che abbiamo dell’influenza perniciosa di Babilonia sul popolo di Dio. Ogni lettore attento delle Scritture sa, d’altronde, quale posto questa occupi nella storia del popolo d’Israele.

Senza menzionare tutti i passi che parlano di Babilonia, faremo notare che ogni volta che Dio ha un corpo di testimoni sulla terra, Satana ha una Babilonia per corrompere e guastare la testimonianza. Quando Dio unisce il suo Nome a una città del mondo, Babilonia prende la forma d’una città. Quando Dio unisce il suo Nome alla Chiesa, Babilonia prende la forma d’un sistema religioso corrotto, chiamato «la grande meretrice», «la madre delle meretrici e delle abominazioni» (Apoc. 17:1-6 e seguenti). In altri termini, la Babilonia di Satana appare sempre come strumento forgiato dalla sua mano allo scopo d’intralciare l’opera di Dio, sia anticamente in Israele, sia ora nella Chiesa. Da un capo all’altro dell’Antico Testamento, si vedono Israele e Babilonia opposti l’uno all’altro: quando uno sale, l’altro scende. Così quando Israele ha completamente fallito come testomonio dell’Eterno, «il re di Babilonia le ha frantumato le ossa» (Geremia 50 17) e lo ha divorato; e i vasi della casa di Dio, che dovevano rimanere nella città di Gerusalemme, sono trasportati nella città di Babilonia. Ma Isaia, nella sublime profezia del cap. 14 del suo libro, ci trasporta di fronte ad uno stato di cose del tutto opposto, e ci fa vedere, in un magnifico quadro, la stella d’Israele crescente e gloriosa e Babilonia rovesciata. «E il giorno che l’Eterno t’avrà dato requie dal tuo affanno, dalle tue agitazioni e dalla dura schiavitù alla quale eri stato assoggettato, tu pronunzierai questo canto sul re di Babilonia e dirai: Come! l’oppressore ha finito? Ha finito l’esattrice d’oro? L’Eterno ha spezzato il bastone degli empi, lo scettro dei despoti;... da che sei atterrato, essi dicono, il boscaiolo non sale più contro di noi» (Isaia 14:3-8).

Ecco ciò che riguarda la Babilonia dell’Antico Testamento. In quanto a quella dell’Apocalisse, il lettore può leggere i capitoli 17 e 18 per conoscerne il carattere e vedere quale ne è la fine; essa appare in un contrasto sorprendente con la Sposa, la moglie dell’Agnello; è gettata nel mare come una gran macina; poi si celebrano le nozze dell’Agnello con tutta la felicità e la gloria.

«E Cus generò Nimrod, che cominciò ad essere potente sulla terra; egli fu un potente cacciatore nel cospetto dell’Eterno; perciò si dice: come Nimrod il potente cacciatore... E il principio del suo regno fu Babel, Erec, Accad e Calne nel paese di Scinear» (vers. 8-10). Ecco il carattere del fondatore di Babilonia. Egli «fu potente sulla terra», «un potente cacciatore nel cospetto dell’Eterno»; e il carattere di Babilonia, da un capo all’altro della Scrittura, corrisponde in modo notevole alla sua origine. Babilonia appare sempre con un’influenza potente sulla terra, in lotta contro tutto ciò che è di origine celeste; solo quando è distrutta si innalza nel cielo, in mezzo alla gran moltitudine, il grido: «Alleluia! poiché il Signore Iddio nostro l’Onnipotente, ha preso a regnare» (Apoc. 19:6). Babilonia allora prende fine: tutta la sua potenza e la sua gloria, tutto il suo orgoglio e le sue ricchezze, tutto il suo splendore. il suo incantesimo e la sua vasta influenza cesseranno per sempre; sarà spazzata via e immersa nelle tenebre, negli orrori e nella desolazione d’una notte senza fine.

«O Eterno, fino a quando?»

7.2 La torre di Babele

Il contenuto del capitolo 11 è del massimo interesse per la mente spirituale; riferisce due grandi fatti; la costruzione di Babele e la chiamata di Abramo; in altri termini, lo sforzo dell’uomo per bastare a se stesso, e la rivelazione fatta alla fede di ciò che Dio ha in serbo per essa; il tentativo dell’uomo per stabilirsi sulla terra e l’appello di Dio all’uomo per farvelo uscire e fargli trovare la sua parte e la sua dimora nel cielo.

«Or tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole. E avvenne che, essendo partiti verso l’oriente, gli uomini trovarono una pianura nel paese di Scinear e quivi si stanziarono. E dissero l’uno all’altro: Orsù, edifichiamoci una città e una torre di cui la cima giunga fino al cielo, e acquistiamoci fama, onde non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra» (vers. 1-4). Il cuore umano cerca sempre di farsi un nome, un centro; vuole possedere qualcosa sulla terra. Le sue aspirazioni non sono rivolte al cielo, all’Iddio del cielo, alla gloria del cielo; ma sempre a un oggetto sulla terra. Quando è lasciato a se stesso, l’uomo «edifica» sempre sotto il cielo; ci vuole l’appello di Dio, la rivelazione di Dio e la potenza di Dio per elevarlo al disopra del mondo contingente.

Nella scena che abbiamo sotto gli occhi, Dio non è né riconosciuto né ricercato; il cuore dell’uomo non si preoccupa di preparare un luogo dove Dio possa fare la sua dimora, né di radunare materiali per edificargli un tempio. Il nome di Dio non è neppure menzionato. L’uomo nella pianura di Scinear s’adoperava per acquistarsi una reputazione, e da allora ha sempre fatto così; nella pianura di Scinear come sulle rive del Tigri, lo vediamo sempre ricercare se stesso, esaltare se stesso, escludendo Dio ovunque e in tutte le cose; e, fra i suoi disegni, i suoi principi e le sue vie, vi è una triste coerenza.

Ora, qualunque sia il punto di vista sotto il quale consideriamo questa associazione Babilonese, è molto istruttivo vedervi lo spiegamento precoce del genio e delle facoltà dell’uomo. Seguendo il corso della storia del mondo, ritroveremo ovunque, negli uomini, questa tendenza a costituire delle associazioni e delle confederazioni: è in gran parte con questo mezzo che essi cercano di giungere alla realizzazione dei loro disegni: si tratti di filantropia, di religione o di politica, nulla si fa senza un’associazione regolarmente organizzata. È bene porre attenzione su questo principio, e vederne i primi accenni a la prima applicazione nella pianura di Scinear: la Scrittura ci insegna il piano, lo scopo e la prova stessa di questa associazione e anche la sua rovina. Se nel momento attuale guardiamo attorno a noi, ovunque incontriamo delle associazioni. Ma è importante notare che la prima di tutte fu quella della pianura di Scinear, costituita allo scopo di assicurare gli interessi dell’umanità e di esaltare il nome dell’uomo, scopo che, il nostro secolo di luce e di civiltà non rinnegherebbe di certo. Ma la fede discerne un grave difetto in tutte queste associazioni: Dio è escluso. Voler elevare l’uomo senza Dio, significa elevarlo ad una altezza vertiginosa donde scivolerà e cadrà in una confusione disperata e in una irrimediabile rovina.

Il credente non dovrebbe conoscere altra associazione che quella della Chiesa dell’Iddio vivente, costituita, in un solo corpo, dallo Spirito Santo disceso dal cielo come testimone della glorificazione di Cristo per battezzare in un solo corpo tutti i credenti e farne l’abitazione di Dio.

Babilonia è, sotto ogni aspetto, il contrario di ciò che è la Chiesa; e alla fine, diventa «albergo di demoni», come ce lo insegna il cap. 18 dell’Apocalisse.

«E l’Eterno disse: Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti il medesimo linguaggio; e questo è il principio del loro lavoro; ora nulla li impedirà di condurre a termine ciò che disegnano di fare. Orsù scendiamo e confondiamo quivi il loro linguaggio, sicché l’uno non capisca il parlare dell’altro: così l’Eterno li disperse di là sulla faccia di tutta la terra, ed essi cessarono di edificare la città» (vers 6 a 8). Tale fu la sorte della prima associazione d’uomini e ne sarà così fino alla fine. «Popoli, alleatevi e sarete frantumati... equipaggiatevi e sarete frantumati, fate pure dei piani e saranno sventati « (Isaia 8:9).

Pedro

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7.3 Dispersione e riunione

Ma come tutto è diverso quando è Dio che unisce gli uomini fra loro! Vediamo al cap. 2 del libro degli Atti, l’Iddio benedetto scendere nella sua infinita grazia, scendere fino all’uomo, in mezzo alle circostanze in cui il peccato l’ha posto. I messaggeri della grazia, per la potenza dello Spirito Santo, sono dotati per annunciare la buona novella nella lingua di tutti coloro a cui s’indirizzavano, poiché Dio desiderava raggiungere il cuore di tutti gli uomini col dolce messaggio della grazia. Non così fu promulgata la legge sulla montagna in fiamme: quando Dio dichiarava ciò che l’uomo doveva essere, parlava una sola lingua; ma quando rivela ciò che Egli è in Se stesso, si esprime in più linguaggi. La grazia rovescia le barriere che l’orgoglio e la follia dell’uomo hanno innalzate affinché ogni uomo possa comprendere il buon annunzio della salvezza, «le cose magnifiche di Dio» (Atti 2:11). Perché questo? Per associare gli uomini secondo i principi divini, attorno a Dio come centro, con lo scopo di dar loro un medesimo linguaggio, un medesimo centro, un medesimo oggetto, una medesima speranza, una medesima vita; in vista di radunarli in modo tale che non siano mai più dispersi e confusi; vuole dare loro un nome e una dimora che duri eternamente, ed edificar loro una città e una torre che non solo giungano fino al cielo, ma le cui fondamenta imperiture siano poste nei cieli dalla onnipotente mano di Dio stesso; riunirli intorno alla gloriosa persona di Cristo risuscitato e glorificato, affinché tutti insieme lo magnifichino e l’adorino.

Legga il mio lettore il versetto 9 del cap. 7 dell’Apocalisse; vi troverà una gran folla «di tutte le nazioni e tribù e popoli e lingue che sta davanti all’Agnello» e tutti, a gran voce, gridano: «La salvezza appartiene all’Iddio nostro».

Nelle tre parti della Scrittura che ci hanno occupato c’è un parallelismo istruttivo e interessante. Al cap. 11 della Genesi, le diverse lingue sono l’espressione del giudizio di Dio; al cap. 2 degli Atti, sono il dono della sua grazia e al cap. 7 dell’Apocalisse sono tutte riunite attorno all’Agnello per dargli gloria. L’associazione di Dio finisce nella gloria, quella degli uomini nella confusione. La prima è introdotta per mezzo dello Spirito Santo, e ha per oggetto l’esaltazione di Cristo, la seconda lo è per mezzo della energia profana dell’uomo scaduto e ha per oggetto la propria esaltazione.

Ci faccia Iddio considerare e comprendere tutte queste cose nella potenza della fede, poiché è soltanto così che le nostre anime possono trarre del profitto. Le dottrine più interessanti, come pure la conoscenza più approfondita delle Scritture, possono lasciare il cuore sterile e freddo: è Cristo che bisogna cercare e trovare nella Scrittura; e quando l’abbiamo trovato, dobbiamo nutrirci di Lui per la fede, affinché ne riceviamo la freschezza, l’unzione, la potenza di vita di cui abbiamo tanto bisogno in questi giorni di freddo formalismo.

Di quale profitto può essere una fredda ortodossia priva di un Cristo vivente, conosciuto in tutta la potenza e l’eccellenza della sua persona? La sana dottrina è, indubbiamente, d’immensa importanza, e ogni fedele servitore di Cristo si sentirà imperiosamente chiamato ad «attenersi al modello delle sane parole» che Paolo raccomandava a Timoteo di custodire (2 Tim. 11:13). Ma, dopo tutto, è un Cristo vivente che è l’anima e la vita, l’essenza e la sostanza della sana dottrina. Ci sia dato, nella potenza dello Spirito Santo, di vedere più bellezza e più eccellenza in Cristo, per essere liberati dallo spirito e dai principi di Babilonia!


8. Capitolo 12: Abramo

8.1 L’appello di Dio

La storia di sette uomini occupa gran parte del libro della Genesi: sono Abele, Enoc, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe. Sono persuaso che la storia di ciascuno di essi rappresenti una verità particolare. Così, per esempio, in Abele troviamo, in figura, la rivelazione della verità fondamentale che l’uomo può avvicinarsi a Dio per mezzo dell’espiazione. Enoc ci fa vedere quale è la parte e la speranza della famiglia celeste, mentre Noè c’insegna quale è il destino della famiglia terrestre; Enoc fu trasportato in cielo prima del giudizio, Noè invece fu portato sulla terra restaurata attraverso il giudizio. Ognuno di questi uomini ci raffigura una verità distinta, e di conseguenza, una fase distinta della fede. Il lettore può proseguire lo studio di questo soggetto in tutta la sua estensione nel cap. 11 dell’epistola agli Ebrei, e questo lavoro sarà per lui profittevole e del massimo interesse.

Occupiamoci ora di Abramo.

Paragonando i versetti 1 del cap. 12 e 31 del cap. 11 con i vers. 2-4 del cap. 7 del libro degli Atti, scopriamo una verità di immenso valore pratico per l’anima. «Or l’Eterno disse ad Abramo: Vattene dal tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò» (vers. 1). Tale è la comunicazione che Dio fece ad Abramo, comunicazione chiaramente definita, e per la quale Dio voleva agire sul cuore e sulla coscienza di colui a cui era indirizzata. «L’Iddio di gloria apparve ad Abramo nostro padre, mentr’egli era in Mesopotamia prima che abitasse in Caran... e di là, dopo che suo padre fu morto, lo fece venire in questo paese, che ora voi abitate» (Atti 7:2-4). Il risultato di questa comunicazione si trova al versetto 31 del cap. 11 della Genesi: «E Terah prese Abramo, suo figliuolo, e Lot, figliuolo di Haran, cioè figliuolo del suo figliuolo, e Sarai sua nuora, moglie d’Abramo suo figliuolo, e uscirono insieme da Ur dei Caldei, per andare nel paese di Canaan; e, giunti a Caran, dimorarono quivi... e Terah morì in Caran». Da questi passi, presi insieme, impariamo che i legami naturali impedirono ad Abramo di rispondere pienamente all’appello di Dio. Per quanto chiamato ad andarsene in Canaan, si fermò in Caran finché la morte non ruppe i legami naturali che lo trattenevano presso il padre; solo allora proseguì, senza più lasciarsi fermare, e arrivò nel luogo ove «l’Iddio di gloria» l’aveva chiamato.

Tutto questo è molto significativo. Le influenze della natura, sono sempre contrarie alla piena realizzazione e alla potenza pratica della «vocazione di Dio». Siamo purtroppo propensi ad accontentarci d’una parte inferiore a quella che l’appello di Dio pone davanti a noi. Ci vuole una fede semplice e integra perché l’anima possa innalzarsi all’altezza dei pensieri di Dio e prendere possesso delle cose che Egli ci rivela.

La preghiera dell’apostolo Paolo, che troviamo in Efesi 1:15-22, ci insegna in che misura egli si rendeva conto delle difficoltà contro le quali la Chiesa avrebbe dovuto lottare per afferrare «la speranza alla quale li aveva chiamati» e quale fosse «la ricchezza della gloria della sua eredità nei santi». È evidente che non possiamo camminare «in modo degno» di questa vocazione se non la comprendiamo. Dobbiamo sapere dove siamo chiamati prima di poterci recare là. Se Abramo fosse stato penetrato dalla potenza di questa verità, cioè che era in Canaan che «Dio lo chiamava», che là era la sua eredità, non si sarebbe fermato in Caran. La stessa cosa è per noi. Se lo Spirito Santo ci fa comprendere che la vocazione alla quale siamo stati chiamati è una vocazione celeste, che la nostra dimora, la nostra parte, la nostra speranza, la nostra eredità sono «ove Cristo è seduto alla destra di Dio», non cercheremo mai di farci una posizione in questo mondo, né ricercheremo la reputazione, né ci accumuleremo tesori sulla terra. La chiamata celeste non è un vano dogma o una teoria senza potenza: se non è una realtà divina, non è assolutamente nulla. La chiamata di Abramo era forse una semplice speculazione dello spirito, sulla quale egli poteva ragionare o discutere, pur rimanendo in Caran? No di certo: era una verità divina, potente, pratica. Abramo era chiamato in Canaan ed era impossibile che Dio potesse approvarlo mentre restava in Caran. E come lo era per Abramo, così ancora è per noi: se desideriamo avere l’approvazione e godere la presenza di Dio, dobbiamo tendere ad arrivare in esperienza, in pratica e in carattere morale, a ciò a cui Dio ci chiama, cioè a una piena comunione col suo unigenito Figliuolo: comunione con lui nella sua reiezione quaggiù, comunione con lui nella sua accettazione nel cielo.

Ma come per Abramo fu la morte a rompere il legame che lo tratteneva a Caran, così per noi è la morte che rompe il legame col quale la natura ci lega al presente secolo. Dobbiamo realizzare che siamo morti in Cristo nostro capo e nostro rappresentante; che il nostro posto, nella natura e nel mondo, è fra le cose che erano: che la croce di Cristo è per noi ciò che fu il Mar Rosso per Israele, quello che ci separa per sempre dal paese della morte e del giudizio. È soltanto così che potremo camminare in qualche misura «in modo degno della vocazione che ci è stata rivolta» (Efesi 4:1), vocazione elevata, santa, celeste: la «vocazione di Dio in Cristo Gesù».

Pedro

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  8.2 La croce ci mette a parte dal mondo (*)

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(*) Questa parte non è stata tradotta nell’edizione italiana originale. Ma si trova nel Messaggero Cristiano (Luglio 1985).
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Fermiamoci un istante per contemplare la croce di Cristo sotto i suoi due lati essenziali: come fondamento del nostro culto e come fondamento del nostro servizio; quindi anche della nostra pace e della nostra testimonianza; dei nostri rapporti con Dio e dei nostri rapporti con il mondo.

Se, convinto di peccato, guardo la croce del Signore Gesù, vedo in essa il fondamento eterno della mia pace; vedo che il «mio peccato» è stato tolto quanto al suo principio ed alla sua radice, e vedo che i «miei peccati» sono stati portati da Lui; vedo che Dio è veramente «per me», che è per me nella posizione in cui io mi vedo quando la mia coscienza è stata svegliata: quella di peccatore. La croce rivela Dio come l’amico del peccatore; lo rivela nel suo carattere meraviglioso di giusto giustificatore del peccatore più empio. La creazione e la provvidenza erano impotenti. In esse, senza dubbio, posso imparare a conoscere la potenza di Dio, la sua maestà e la sua sapienza. Ma queste cose sono tutte contro di me, perché sono un peccatore, e la potenza, la maestà e la saggezza non possono togliere il mio peccato, né fare sì Dio sia giusto ricevendomi. Alla croce, invece, vedo Dio che fa i conti con il peccato, in modo tale che glorifica se stesso infinitamente. Vedo la manifestazione gloriosa e la perfetta armonia di tutti gli attributi divini; vedo l’amore, un amore tale che attrae e persuade il mio cuore, fortificandolo e distaccandolo da ogni altro oggetto man mano che esso realizza questo amore. Vedo la sapienza, una sapienza che confonde i demoni e stupisce gli angeli. Vedo la potenza, una potenza che abbatte tutti gli ostacoli. Vedo la santità, una santità che respinge il peccato fino ai limiti più lontani dell’universo morale, e che è l’espressione la più forte che potesse essere data dell’orrore di Dio per il peccato. E vedo la grazia, una grazia che pone il peccatore nella presenza stessa di Dio, — anzi di più, nel cuore di Dio! Dove potrei vedere queste cose altrove che alla croce? Guardate ovunque; non troverete nulla che possa mettere insieme in modo pieno e glorioso queste due grandi cose: «Gloria a Dio nei luoghi altissimi» e «pace in terra» (Luca 2:14).

Che grande valore ha dunque la croce da questo primo punto di vista: come fondamento della pace del credente, della sua adorazione e della sua relazione eterna con quel Dio che essa rivela in modo tanto glorioso! Che valore ha per Dio, come base su cui Egli può, con giustizia, spiegare per intero tutte le sue incomparabili perfezioni, e agire riguardo al peccatore secondo tutta la distesa della sua grazia! La croce ha per Dio un tale valore che, come ha detto uno scrittore, «tutto ciò che Dio ha detto, tutto ciò che ha fatto fin dal principio prova che la croce occupava il primo posto nel suo cuore. E c’è forse da stupirsene, quando sappiamo che il Figlio diletto di Dio doveva essere inchiodato su questa croce e là essere l’oggetto della onta e di tutte le sofferenze che gli uomini e i demoni potevano accumulare su di Lui, perché trovava piacere a fare la volontà del Padre suo e a riscattare i figli della sua grazia? La croce sarà il grande centro di attrazione, come espressione perfetta del suo amore per tutta l’eternità».

Ma anche come base del nostro servizio attivo e della nostra testimonianza, la croce richiede da parte nostra la più seria attenzione. È forse necessario dire che, anche da questo punto di vista la croce è tanto perfetta come lo è dal punto di vista precedente? La croce, che mi mette in relazione con Dio, m’ha separato dal mondo. Un morto non ha più nulla a che fare con il mondo, e il credente, essendo morto in Cristo, è crocifisso per il mondo ed il mondo, per lui, è crucifisso (Gal. 6:14); e essendo risuscitato con Cristo, è unito a lui nella potenza d’una vita e d’una natura nuove. Inseparabilmente unito a Cristo, il credente partecipa necessariamente alla Sua accettazione presso Dio e al Suo rigettamento da parte del mondo. Queste due cose vanno assieme: la prima ci costituisce adoratori e cittadini del cielo, la seconda ci fa testimoni e stranieri sulla terra. La prima ci introduce al di là della cortina, nel luogo santissimo (Ebrei 10:19), la seconda ci fa uscire fuori del campo (Ebrei 13:13). E l’una è tanto perfetta quanto l’altra. Se la croce si è posta fra me e i miei peccati, e mi ha messo in pace con Dio, si è posta anche fra me e il mondo, e mi associa a un Cristo rigettato dagli uomini, facendo di me un oggetto della loro inimicizia, pur costituendomi umile e paziente testimone di questa grazia preziosa, inscrutabile ed eterna, che è stata in essa rivelata.

Il credente dovrebbe comprendere bene questi due aspetti della croce di Cristo, ed essere in grado di distinguerli. Non dovrebbe professare di godere delle benedizioni dell’uno, rifiutando di entrare nelle condizioni dell’altro. Se ha l’orecchio aperto per udire la voce di Cristo «dentro la cortina», dovrebbe pure averlo aperto per udire questa voce «fuori del campo». Se afferra l’espiazione che è stata compiuta sulla croce, dovrebbe anche rendersi conto di fatto del rigettamento da cui essa è necessariamente accompagnata. Il nostro beato privilegio è non solo di non avere più nulla a che fare con il peccato, ma anche di non avere più nulla a che fare con il mondo. Tutto è compreso nella dottrina della croce; perciò l’apostolo Paolo ha potuto dire: «Ma quanto a me, non sia mai che io mi vanti di altro che della croce del nostro Signore Gesù Cristo, mediante la quale il mondo, per me, è stato crucifisso e io sono stato crocifisso per il mondo» (Gal. 6:14). Paolo considerava il mondo come una cosa che doveva essere inchiodata alla croce; e il mondo, crocifiggendo Cristo, aveva crocifisso tutti coloro che gli appartengono. Meditiamo seriamente queste cose! Meditiamole sinceramente e con preghiera, e che lo Spirito Santo ce ne faccia realizzare la potenza pratica.

Pedro

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   8.3 L’obbedienza

Ritorniamo ora al nostro soggetto. Non è detto quanto tempo Abramo si sia fermato in Caran: tuttavia Dio attese il suo servitore fino a che, libero da ogni intralcio, obbedisse in pieno al suo comandamento. Non vi fu, e non vi poteva essere, nessun accomodamento fra l’ordine di Dio e le circostanze nelle quali si trovava Abramo secondo la natura. Dio ama troppo i suoi servitori per privarli della felicità che accompagna sempre l’obbedienza.

È bene notare che Abramo non ricevette nessuna nuova rivelazione durante il suo soggiorno in Caran. Perché Dio ci dia nuova luce, dobbiamo camminare in rapporto con la luce che Egli ci ha dato prima. «A chi ha sarà dato». Questo è il principio divino. Ricordiamoci tuttavia che Dio non ci trascinerà mai nel sentiero dell’obbedienza e del vero servizio; agire in quel modo, comprometterebbe l’eccellenza morale che caratterizza tutte le sue vie. Dio non trascina, ma attira, e ci fa camminare così nella via che conduce alla felicità ineffabile che è in Lui. Se non comprendiamo che è nel nostro interesse rovesciare tutti gli ostacoli che le relazioni umane vorrebbero porre davanti a noi per impedirci di rispondere all’appello di Dio, veniamo meno alla grazia che ci è stata fatta. Ma, ahimè, i nostri cuori penetrano poco in queste cose. Incominciamo a far calcoli intorno ai sacrifici, agli impedimenti, alle difficoltà, invece di correre nel cammino dell’obbedienza pieni di ardore perché conosciamo e amiamo Colui che ci ha chiamati.

Ogni passo compiuto nel cammino dell’obbedienza è contrassegnato da benedizioni reali, perché l’obbedienza è frutto della fede, e la fede ci associa a Dio e ci introduce in una comunione vivente con Lui. Considerando l’obbedienza sotto questo aspetto, vedremo facilmente quanto differisce dal legalismo in ogni suo carattere. Il principio legale pone l’uomo, carico di tutto il peso dei suoi peccati, sul sentiero del servizio, nell’osservanza della legge di Dio: ne risulta, per l’anima, un continuo tormento e ben lungi dal correre nel cammino dell’obbedienza, essa non vi è neppure ancora entrata. La vera obbedienza, invece, non è che la manifestazione o il frutto di una nuova natura comunicata per grazia. Dio, nella sua bontà, dà a questa nuova natura dei precetti per guidarla; ed è certissimo che la natura divina guidata da precetti divini non produce mai il legalismo. Ciò che lo produce, è la vecchia natura che cerca di seguire i precetti divini; ora, provare a dirigere la natura scaduta dell’uomo per mezzo della pura e santa legge di Dio, è tanto vano quanto assurdo. Come potrebbe la natura scaduta respirare un’aria così pura? Bisogna che ambedue, la natura e l’aria che essa respira, siano divine.

Ma Dio non soltanto comunica una natura divina al credente e lo guida per mezzo di principi divini; pone anche davanti a lui delle speranze conformi a questa natura. Così per quello che concerne Abramo «l’Iddio di gloria gli apparve»; a che scopo? Dio voleva porre davanti a lui un oggetto desiderabile: «il paese che ti farò vedere»; non c’era costrizione; Dio attirava l’anima. Secondo la valutazione della nuova natura e della fede, il paese dell’Eterno era di gran lunga migliore del paese di Ur o di Caran, e quantunque Abramo non l’avesse visto, la fede ne apprezzava la bellezza e il valore, e stimava che, per possederlo, valeva la pena abbandonare le cose presenti. Perciò leggiamo che «per fede Abramo essendo chiamato, obbedì, per andarsene in un luogo che egli aveva da ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava»; camminò «per fede e non per visione». Benché non avesse veduto con gli occhi credette col cuore e la fede divenne il movente dell’anima sua. La fede riposa sopra un fondamento ben più solido dell’evidenza dei nostri sensi, e questo fondamento è la Parola di Dio: i nostri sensi possono ingannarci, la Parola di Dio non inganna mai.

Il sistema legale getta a mare tutta la dottrina della nuova natura, come pure i precetti che la guidano e le speranze che la animano; insegna che bisogna rinunciare alla terra per ottenere il cielo. Ma come potrebbe la natura dell’uomo abbandonare ciò a cui è legata? Come potrebbe essere attirata da ciò in cui non vede nulla di attraente? Il cielo non ha nulla di desiderabile per la natura; è l’ultimo posto in cui le piacerebbe trovarsi. Essa non ha gusto né per il cielo, né per ciò che occupa il cielo, né per gli abitanti del cielo. Se le fosse possibile entrare nel cielo si troverebbe completamente a disagio e infelice. È incapace a rinunciare alla terra, è incapace a desiderare il cielo. È vero che sarebbe felice di sfuggire all’inferno e ai suoi tormenti indescrivibili; ma il desiderio di sfuggire all’inferno e quello di ottenere il cielo, derivano da due sorgenti molto diverse. Il primo è insito nella vecchia natura, ma il secondo non si trova che nella nuova. Se non vi fossero nell’inferno lo «stagno di fuoco», né il «verme che non muore», né «stridor di denti», la natura non lo temerebbe. E questo principio è vero per tutti i desideri e per tutto ciò che la natura procaccia.

Il sistema legale insegna che dobbiamo abbandonare il peccato; e, quanto alla giustizia, essa l’abborre esplicitamente. È vero che le piacerebbe una certa misura di pietà, ma solo nel pensiero, e con la speranza che la pietà la preserverà dal fuoco dell’inferno: la natura dell’uomo non ama il cristianesimo, perché introduce l’anima nel godimento attuale di Dio e delle sue vie.

Ma «l’evangelo della gloria dell’Iddio Beato» quanto è diverso, sotto ogni aspetto, da tutto il sistema legale! Questo evangelo rivela Dio che scende in grazia, che toglie il peccato nel modo più assoluto per mezzo del sacrificio della croce, sul fondamento d’una giustizia eterna, avendo Cristo sofferto per il peccato ed essendo stato fatto peccato per noi. E non solo Dio toglie il peccato, ma comunica una vita nuova, una vita di risurrezione che è la vita del suo stesso Figliuolo, risuscitato e glorificato; una vita che ogni vero credente possiede in virtù del fatto che, nel consiglio eterno di Dio, è unito a Colui che fu inchiodato alla croce, ma che ora è sul trono della maestà nel cielo. Questa nuova natura, l’abbiamo già fatto notare, è guidata da Dio, nella sua bontà, per mezzo dei precetti della sua santa Parola, applicata dallo Spirito Santo. Egli la incoraggia pure, presentandole delle speranze indistruttibili; le rivela a distanza «la speranza della gloria», «una città che ha i veri fondamenti», «una patria migliore» cioè una «patria celeste», «le molte dimore» della casa del Padre, «un regno che non può essere smosso» un’eterna unione con Lui in quelle regioni di felicità e di luce, ove il dolore e le tenebre non possono entrare, il favore inesprimibile di essere condotti, durante l’eternità, «lungo le acque chete e i paschi erbosi» dell’amore redentore. Come tutto ciò è diverso dalle idee legali! Invece di chiamarmi ad abbandonare le cose della terra che amo per ottenere il cielo che odio, a sviluppare e a governare una natura scaduta, Dio, nella sua grazia infinita, e in virtù del sacrificio di Cristo, mi comunica una natura capace di godere e mi dà un cielo di cui questa natura può gioire; e non solo un cielo, ma Lui stesso, sorgente inesauribile di tutta la gioia del cielo.

Queste sono le vie meravigliose di Dio. L’Iddio di gloria fece vedere ad Abramo un paese migliore di quello di Ur e di Caran, fece vedere a Saulo da Tarso una gloria così risplendente che i suoi occhi furono chiusi a tutti gli splendori della terra, in modo che, da allora, li stimasse come «tante spazzature» per guadagnare il Cristo che gli era apparso e la cui voce gli era penetrata nel più profondo dell’anima. Saulo da Tarso vedeva un Cristo celeste nella gloria e per tutto il corso della sua carriera quaggiù, nonostante la debolezza del «vaso di terra», questo Cristo celeste e questa gloria celeste riempirono l’anima sua.

Pedro

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8.4 La tenda e l’altare

«E Abramo traversò il paese fino al luogo di Sichem, fino alla quercia di Moreh. Or in quel tempo i Cananei erano nel paese» (vers. 6). La presenza dei Cananei nel paese dell’Eterno doveva essere una prova per Abramo, un richiamo alla sua fede e alla sua speranza, un esercizio di cuore e una prova di pazienza. Aveva lasciato dietro a sè Ur e Caran per recarsi nel paese di cui «l’Iddio di gloria» gli aveva parlato; qui trova «i Cananei», ma vi trova pure l’Eterno.

E l’Eterno apparve ad Abramo e gli disse: «Io darò questo paese alla tua progenie» (vers. 7). La connessione di queste due dichiarazioni è di una commovente bellezza. «I Cananei erano nel paese»; e affinché l’occhio di Abramo non si fermasse troppo sul Cananeo, attuale possessore del paese, l’Eterno gli apparve come colui che avrebbe dato questo paese a lui e alla sua progenie per sempre. I pensieri di Abramo erano così rivolti verso l’Eterno e non verso i Cananei: e vi è qui un’istruzione preziosa per noi. I Cananei nel paese sono l’espressione della potenza di Satana; ma, invece di occuparci della potenza di Satana, che ci terrebbe lontani dal paese della nostra eredità, siamo chiamati ad afferrare la potenza di Cristo che ci ha introdotti in esso. «Il combattimento nostro, non è contro sangue... ma contro le forze spirituali della malvagità che sono nei luoghi celesti» (Efesi 6:12). La sfera stessa a cui siamo chiamati è la scena delle nostre lotte. Dovremmo forse essere spaventati? No, poiché Cristo è là per noi; Cristo vittorioso nel quale siamo «più che vincitori». Perciò invece di abbandonarci a uno spirito di timore, coltiviamo uno spirito di adorazione.

«Abramo edificò quivi un altare all’Eterno che gli era apparso. E di là, si trasferì verso la montagna, a oriente di Bethel e piantò le sue tende avendo Bethel a Occidente e Ai a Oriente» (vers. 7-8).

L’altare e la tenda ci rivelano i due caratteri distintivi di Abramo: adoratore di Dio e straniero in questo mondo. Dio non gli diede alcuna eredità nel paese, «neppure un palmo di terra» (Atti 7:5); ma possedeva Dio e ciò gli bastava.

8.5 La prova: une carestia — soggiorno in Egitto

Ma se Dio risponde alla fede, egli la mette anche alla prova. La fede ha dunque le sue prove. Non dobbiamo pensare che il credente abbia da percorrere un cammino facile e piano: tutt’altro; egli incontra invece continuamente mari burrascosi e cieli tempestosi; ma Dio vuole che egli faccia, così, una più profonda e più matura esperienza di ciò che Dio è per il cuore che si confida in Lui. Se il cielo fosse sempre sereno, e la via sempre piana, il credente non conoscerebbe così bene l’Iddio col quale ha a che fare; sappiamo quanto il cuore è propenso a considerare la pace esterna come se fosse la pace di Dio! Quando tutto va bene per noi, quando i nostri beni sono al sicuro, i nostri affari prosperano, i nostri figliuoli si comportano bene, la nostra abitazione è piacevole e godiamo una buona salute, quando, insomma, tutto risponde a quello che possiamo desiderare, come siamo facilmente disposti a confondere la pace che riposa su un tale stato di cose, con quella che deriva dalla presenza sentita di Cristo! Il Signore lo sa; perciò, quando ci adagiamo sulle nostre circostanze invece di riposarci su lui, Egli ci visita e, in un modo o nell’altro, sconvolge i nostri falsi appoggi.

Ma vi è di più; siamo facilmente portati a credere che una via sia diritta perché esente da prove e viceversa. È un grande errore. Il sentiero dell’obbedienza è sovente quello che è più duro per la carne e il sangue. Così, Abramo non fu soltanto chiamato ad incontrare i Cananei nel paese in cui Dio l’aveva chiamato, ma ancora: «avvenne nel paese una carestia» (vers. 10). Doveva egli forse concludere, da questo, che non era al suo posto? No, certamente, poiché allora avrebbe giudicato secondo la sua propria vista, ciò che la fede non fa mai. Era senza dubbio una prova penosa per il suo Cuore, qualcosa d’incomprensibile per la sua natura; ma, per la fede, tutto era chiaro e facile.

Quando Paolo fu chiamato in Macedonia, la prigione di Filippi fu una delle prime cose che incontrò. Un cuore che non fosse stato in comunione con Dio, avrebbe visto, in questa prova, un colpo mortale inferto alla sua missione. Ma Paolo non mise mai in dubbio di essere nella giusta posizione, e fu reso capace «di cantare le lodi di Dio» nel seno stesso della prigione, rassicurato, come era, che tutto quello che succedeva era esattamente quella che doveva succedere. E Paolo aveva ragione; poiché la prigione di Filippi conteneva un vaso di misericordia che, umanamente parlando, non avrebbe mai udito l’Evangelo se coloro che l’annunciavano non fossero stati gettati nel luogo stesso dove egli si trovava. A dispetto di se stesso, il Diavolo fu lo strumento di cui Dio si è servito per far giungere l’evangelo agli orecchi del carceriere, uno dei suoi eletti.

Abramo avrebbe dovuto pensare, riguardo la carestia, come Paolo ha pensato riguardo la sua prigione. Si trovava nella posizione in cui Dio l’aveva posto, e non ricevette alcun ordine di uscirne. È ben vero che la fame era nel paese; e oltre a ciò l’Egitto era vicino ed offriva una facile liberazione; ma il sentiero del servitore di Dio era chiaro. Meglio morire di fame in Canaan, se è necessario, che vivere nell’abbondanza in Egitto. Meglio soffrire nel sentiero di Dio che essere a proprio agio in quello di Satana. Meglio essere povero con Cristo che ricco senza lui. Abramo in Egitto «ebbe pecore, buoi, asini, servi e serve, asine e cammelli» prova evidente, dirà il cuore naturale, che Abramo ebbe ragione di scendere in Egitto; ma, ahimè! non ebbe in Egitto né altare, né comunione con Dio. Il paese del Faraone non era il luogo della presenza dell’Eterno, e Abramo, scendendovi, ebbe più perdita che guadagno.

È sempre così; nulla potrebbe mai compensare la comunione col Signore. La liberazione da una calamità temporale e l’acquisto di maggiori beni terrestri, sono poveri equivalenti di ciò che si perde allontanandosi, fosse solo d’un millimetro, dal retto sentiero dell’obbedienza.

Quanti di noi possono aderire di cuore a questo modo di vedere? Quanti, per evitare le prove e gli esercizi che si incontrano nel sentiero di Dio, sono scivolati nella corrente del presente secolo malvagio e sono caduti in uno stato di sterilità, di aridità, di tristezza e di tenebre spirituali! Può darsi che, secondo l’espressione comune, «abbiamo fatto fortuna», abbiamo accumulato ricchezze e guadagnato il favore del mondo; ma tutte queste cose possono forse compensare la gioia in Dio, un cuore tranquillo, una coscienza pura e senza rimproveri, uno spirito di adorazione e di riconoscenza, una testimonianza vivente e un servizio efficace? Guai a chi potrebbe pensare così! Eppure, si son viste sovente tutte queste benedizioni vendute per un po’ di benessere, un po’ d’influenza, un po’ di denaro.

Vigiliamo contro la tendenza di sviarci dal sentiero della semplice e completa obbedienza; sentiero stretto ma sempre sicuro, talvolta arduo, ma sempre felice e benedetto. Procacciamo di serbare «la fede e una buona coscienza» che nulla potrebbe sostituire. Se viene la prova, invece di scendere in Egitto, contiamo su Dio, e così la prova, invece di essere un’occasione di caduta, risulterà un’occasione di obbedienza. E quando siamo tentati di scivolare nelle vie del mondo, ricordiamoci di Colui «che ha dato se stesso per i nostri peccati, affin di strapparci dal presente secolo malvagio secondo la volontà del nostro Dio e Padre» (Gal. 1:4). Se tale è stato il suo amore per noi e tale il suo giudizio sul carattere del presente secolo, che egli abbia dato se stesso per noi affin di liberarcene, lo rinnegheremo noi ritornando ad immergerci in ciò da cui la sua croce ci ha per sempre liberati? Così non sia! Voglia l’Onnipotente tenerci nel palmo della sua mano e all’ombra delle sue ali, finché vediamo Gesù, quale Egli è e siamo come Lui e con Lui per sempre!

Pedro

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 9. Capitoli 13 e 14: Abramo e Lot

9.1 Il ritorno dall’Egitto

Questo capitolo si apre con un soggetto che è di grande interesse per il cuore.

Quando, in un modo o nell’altro, lo stato spirituale del credente si è abbassato ed egli ha perso la comunione con Dio, c’è il pericolo, dal momento che la sua coscienza si è risvegliata, che egli non afferri la grazia quale essa è e non entri pienamente nella realtà del proprio ristoramento davanti a Dio. Ora, noi sappiamo che tutto ciò che Dio fa, lo fa in modo degno di se stesso; che crei o che salvi, che converta o che ristori, Egli glorifica il suo Nome in tutte le sue vie. Questo è infinitamente prezioso per noi che siamo sempre propensi a «limitare il Santo d’Israele» (Salmo 78:41) e lo facciamo soprattutto nel lavoro della sua grazia ristoratrice.

Nel caso che ci occupa, vediamo che non soltanto Abramo fu fatto uscire dall’Egitto, ma ancora ricondotto al luogo dove aveva rizzato la sua tenda al principio, al luogo dove era l’altare che egli aveva edificato prima, e quivi Abramo «invocò il Nome dell’Eterno» (vers. 3-4}.

Dio non sarà soddisfatto riguardo colui che s’è sviato o è rimasto indietro, se non quando l’avrà ricondotto nella retta via e perfettamente ristabilito nella sua comunione. I nostri cuori, sempre pieni di propria giustizia, penserebbero facilmente che si addirebbe, ad un tale uomo, un posto meno elevato di quello che ha lasciato e, infatti, sarebbe così se si trattasse dei nostri meriti e del nostro carattere; ma trattandosi unicamente di grazia, appartiene a Dio il determinare la misura del ristoramento, e questa misura ci è data nel passo seguente: «O Israele, se tu torni, dice l’Eterno, torna a me!» (Geremia 4:1). Ecco come Dio rileva. Agire altrimenti, sarebbe indegno di Lui. O non ristora affatto, o, se lo fa, lo fa in modo da esaltare e glorificare le ricchezze della sua grazia.

Quando il lebbroso era riammesso nel campo, era condotto «all’ingresso della tenda di convegno» (Levitico 14:11); quando il figliuolo prodigo ritorna alla casa paterna, il padre lo fa sedere a tavola con lui; quando Pietro fu rilevato dalla caduta, potè dire agli uomini d’Israele: «Voi rinnegaste il Santo e il Giusto», accusandoli proprio di ciò che egli stesso aveva fatto nelle circostanze più aggravanti. In ognuno di questi casi, vediamo che Dio ristora perfettamente; riconduce sempre l’anima a Se stesso, in tutta la potenza della grazia e in tutta la fiducia della fede. «Se tu torni, torna a me»; «Abramo ritornò al luogo ove da principio era stata la sua tenda».

L’effetto del ristoramento divino dell’anima è infinitamente pratico; nel suo carattere confonde il legalismo e nel suo effetto annienta l’antinomismo. L’anima ristorata avrà un sentimento profondo e reale del male da cui è stata liberata, e questo sentimento si manifesterà con uno spirito di vigilanza, di preghiera, di santità e di prudenza. Dio non ci rileva perché consideriamo il peccato con leggerezza e ricadiamo di nuovo in esso; dice: «Va e non peccar più» (Giov. 8:11). Più è profondo il sentimento della grazia di Dio che ci ha rilevati, più profondo anche sarà il sentimento della santità di questo rilevamento. È un principio stabilito e insegnato da un capo all’altro della Scrittura, ma specialmente nei due passi ben conosciuti, Salmo 23:3 e 1 Giov. 1:9: «Egli mi ristora l’anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amor del suo Nome»; e, « Se confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele e giusto da rimetterci i nostri peccati e purificarci da ogni iniquità».

Il sentiero che si addice ad un’anima ristorata è un sentiero di giustizia: parlare di grazia e vivere nell’ingiustizia significa «volgere in dissolutezza la grazia del nostro Dio» (Giuda 4). Se «la grazia regna mediante la giustizia, a vita eterna» (Rom. 5:21) si manifesta anche con opere di giustizia che sono il frutto di questa vita. La grazia che perdona i nostri peccati ci purifica da ogni iniquità. Sono due cose che non si devono mai separare; unite insieme, confondono, come abbiamo detto, il legalismo e l’antinomismo (*) del cuore umano.

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(*) O antinomianismo. Così chiamavisi una falsa dottrina che, partendo dal principio della salvezza per fede, arrivava a dedurre che non era affatto necessaria, per chi avesse creduto, una vita di santità, di giustizia, di opere buone.
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9.2 Lot, nipote d’Abramo

Ma vi fu per Abramo una prova assai più grave della carestia che lo fece scendere in Egitto; quella che proveniva dalla compagnia di qualcuno che, evidentemente, non camminava nell’energia d’una fede personale e nemmeno nel sentimento della propria responsabilità individuale. Sembra che fin dal principio, Lot, nel suo cammino, fosse spinto dall’influenza e dall’esempio di Abramo, piuttosto che da una fede in Dio sua personale.

In questo fatto è rinchiuso un principio molto comune. Percorrendo la Sacra Scrittura, vediamo che in tutti i grandi movimenti prodotti dallo Spirito di Dio, certe persone, credenti o no, si sono associate a questi movimenti senza partecipare personalmente alla potenza che li aveva prodotti. Queste persone proseguono la loro strada per un certo tempo sia pesando come un corpo morto sulla testimonianza, sia intralciando questa in modo effettivo.

Così l’Eterno aveva chiamato Abramo a lasciare il suo parentado ma Abramo invece di lasciarlo, lo prende con sè; Terah lo ritarda nel suo cammino, fino al momento in cui è tolto dalla morte; Lot lo accompagna un po’ più avanti, ma «le cupidigie delle altre cose» (Marco 4:19) lo sopraffanno e l’abbattono totalmente.

La stessa osservazione può essere fatta nel gran movimento dell’uscita d’Israele fuori d’Egitto: «un’accozzaglia di gente raccogliticcia» seguì i Giudei e divenne per essi un motivo di corruzione, d’infiacchimento e di turbamento come lo vediamo al cap. 11 dei Numeri: «E l’accozzaglia di gente raccogliticcia ch’era tra li popolo, fu presa di concupiscenza, e anche i figliuoli d’Israele ricominciarono a piagnucolare e a dire: chi ci darà da mangiare della carne?» (Numeri 11:4). Nello stesso modo ancora, nei primi giorni della Chiesa, e da allora, in tutti i movimenti prodotti dallo Spirito di Dio, si è visto un gran numero di persone, associarsi a quei movimenti sotto influenze diverse ma che, non essendo divine, non sono state che momentanee, e ben presto tali persone si sono tratte indietro e hanno ripreso il loro posto nel mondo.

Nulla sussisterà se non ciò che è da Dio: bisogna che realizziamo il legame che ci unisce all’Iddio vivente, dobbiamo sentire che è Lui che ci ha chiamati alla posizione che occupiamo, altrimenti non avremo né fermezza né costanza in questa posizione. Non possiamo seguire la strada d’un altro, semplicemente perché quell’altro vi cammina. Dio, nella sua grazia, traccia a ciascuno di noi la via che dobbiamo seguire, dando ad ognuno una sfera d’azione e dei doveri da compiere. e dobbiamo sapere quale è la nostra vocazione e i doveri che vi si riferiscono; affinché per la grazia che ci è data ogni giorno, possiamo lavorare efficacemente alla gloria di Dio. Importa poco la misura che ci è data, purché ci sia data da Dio. Possiamo aver ricevuto «cinque talenti» oppure «uno solo»; ma se facciamo fruttare questo «solo» talento con gli occhi rivolti al Padrone, udremo certamente queste sue parole: «va bene» come se avessimo fatto fruttare i «cinque talenti».

Paolo, Pietro, Giacomo e Giovanni hanno avuto ciascuno «la propria misura», un ministerio speciale, ed è così per tutti.

Nessuno deve intromettersi nel lavoro altrui. Nulla è più futile dell’imitazione. Nel mondo fisico non ne vediamo alcun segno, ma ogni creatura riempie la propria sfera, ha le proprie funzioni; se così è nel mondo fisico, a maggior ragione lo è nel mondo spirituale. Il campo è abbastanza vasto per tutti. In una stessa casa vi sono vasi di grandezza e di forma diversi, e tutti sono necessari al padrone di casa.

Esaminiamo dunque seriamente, caro lettore, se siamo condotti da un’influenza divina o umana, se la nostra fede riposa sulla sapienza umana o sulla potenza divina, se ciò che facciamo lo facciamo perché altri l’hanno fatto, oppure perché il Signore ci chiama a farlo; se non facciamo che appoggiarci su quelli che ci circondano o se siamo sorretti da una fede personale.

È senza dubbio un gran privilegio il poter godere della comunione dei fratelli, ma se ci appoggiamo su di essi, ben presto faremo naufragio; nello stesso modo, se oltrepassiamo la nostra misura, la nostra azione sarà ostentata. È facile vedere se un uomo lavora al suo posto e nella sua misura: possiamo noi essere sempre veri e naturali! Chi si avventura in acqua profonda senza saper nuotare dovrà dibattersi. Una nave varata senza la capacità di tenere il mare e insufficientemente equipaggiata sarà costretta a ritornare al porto o andrà persa.

Lot lasciò «Ur dei Caldei», ma cadde nella pianura di Sodoma. L’appello di Dio non aveva raggiunto il suo cuore e l’occhio suo era rimasto chiuso alla gloria dell’eredità di Dio.

Vi è per ognuno dei servitori di Dio, un sentiero rischiarato dalla sua approvazione e dalla luce della sua faccia e dovrebbe essere la nostra gioia il camminarvi. La sua approvazione basta al cuore che lo conosce. Non otterremo sempre l’approvazione dei nostri fratelli, saremo sovente incompresi, ma sono cose che non si possono evitare. Il giorno metterà ogni cosa al suo posto, e il cuore fedele aspetterà con gioia l’arrivo di quel giorno, sapendo che allora «ciascuno avrà la sua lode da Dio» (1 Cor. 3:13; 4:5).

Pedro

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9.3 L’amore del mondo

Potrà essere utile esaminare più da vicino ciò che indusse Lot ad abbandonare il sentiero della testimonianza pubblica.

Vi è nella storia di ogni uomo un momento di crisi che rivela il fondamento sul quale si appoggia nel suo cammino, i motivi che lo fanno agire e gli oggetti che procaccia; e fu così di Lot: egli non morì a Caran, ma cadde in Sodoma. La causa apparente della sua caduta fu la disputa fra i pastori del suo bestiame e quelli del bestiame di Abramo: ma quando non si cammina con occhio semplice e gli affetti purificati, si inciampa facilmente in una pietra che ci fa cadere; se non è un giorno, è un altro. In un certo senso, importa poco quale sia la causa apparente che ci fa abbandonare la diritta via; la causa reale rimane nascosta, molto lontana forse dall’attenzione pubblica, nelle camere segrete delle nostre affezioni, là dove il mondo, in una forma o nell’altra, ha trovato posto. La disputa fra i pastori sarebbe stata facile da sedare, senza danno spirituale né per Lot né per Abramo. In realtà per quest’ultimo non fu che l’occasione di manifestare la magnifica potenza della fede e della elevatezza morale e celeste di cui la fede riveste colui che crede; mentre non fece che manifestare la mondanità che vi era nel cuore di Lot. Questa querela dei pastori non aumentava la mondanità nel cuore di Lot e neppure la fede nel cuore di Abramo; non fece che portare alla luce, nell’uno come nell’altro, ciò che c’era nel loro cuore.

È sempre così: controversie e dissensi si elevano nella Chiesa di Dio, e diventano per molti un’occasione di caduta facendoli ritornare al mondo, in un modo o nell’altro; costoro, poi, danno colpa alle controversie e alle divisioni e fanno ricadere su queste cose la responsabilità che toccherebbe loro, mentre in realtà queste non sono state che il mezzo per manifestare la vera condizione dell’anima e l’inclinazione del cuore.

Quando il mondo è nel cuore, in un modo o nell’altro, la cosa si manifesta. Neppure si può dire che vi sia grandezza morale nell’incolpare uomini e circostanze quando la radice del male giace in noi stessi, per quanto deplorevoli siano d’altronde le controversie e le divisioni. È triste ed umiliante vedere dei fratelli bisticciarsi in presenza dei Cananei e dei Ferezei, mentre il loro linguaggio dovrebbe sempre essere: «Deh! non ci sia contesa fra me e te... poiché siamo fratelli» (vers. 8-9).

Ma pure, perché Abramo non scelse Sodoma? Perché la lite non lo spinse nel mondo e non divenne per lui una occasione di caduta? Egli considerò la difficoltà dal punto di vista di Dio. Il suo cuore non era meno propenso ad essere attirato dalle pianure irrigate, che quello di Lot; ma non lasciò che il suo cuore scegliesse. Lasciò la scelta a Lot e volle che Dio scegliesse per lui. Tale è la sapienza che viene da alto.

La fede lascia sempre a Dio la cura di fissare la propria eredità, come pure rimette a Lui la cura di introdurvela. Può sempre dire: «La sorte è caduta per me in luoghi dilettevoli; una bella eredità mi è pur toccata» (Salmo 16:6). Poco importa dove «la sorte» è caduta; la fede giudica che è caduta «in luoghi dilettevoli» perché è Dio che l’ha posta là. Chi cammina per fede, può lasciare volentieri la scelta a chi cammina per l’esteriore; dice: «Se tu vai a sinistra io andrò a destra; e se tu vai a destra, io andrò a sinistra». Vi è qui disinteressamento ed elevatezza morale; e che sicurezza! Si può essere certi che qualunque sia la visione del cuore naturale e la parte che essa prenderà, essa non metterà mai le mani sul tesoro della fede; egli cerca la sua parte in una direzione diametralmente opposta. La fede pone il suo tesoro in un luogo che il cuore naturale non si sognerebbe mai di visitare, non potrebbe nemmeno avvicinarvisi se lo volesse, e quando lo potesse, non lo vorrebbe; di modo che la fede, lasciando la scelta alla natura, è in perfetta sicurezza come pure mirabilmente disinteressata.

Quale fu dunque la scelta di Lot, quando potè farla? Prese Sodoma per parte sua, proprio il luogo su cui il giudizio stava per cadere. Perché Lot fece una tale scelta? Perché guardò all’apparenza esteriore e non si curò del suo carattere intrinseco che ne presagiva il futuro destino. Il vero carattere di Sodoma era «la malvagità» (vers. 13); e il suo destino futuro, il «giudizio», la distruzione mediante fuoco e zolfo dal cielo. Ma si dirà: Lot ignorava tutto ciò: è possibile, e Abramo anche, probabilmente; ma Dio lo sapeva, e se Lot avesse lasciato a Dio la cura di scegliere una eredità per lui, Egli non gli avrebbe scelto certamente un luogo che stava per distruggere. Ma Lot volle scegliere da sè e giudicò che Sodoma andasse bene per lui, benché non si addicesse a Dio. I suoi occhi si fermarono sulle pianure irrigate e il suo cuore fu cattivato da esse. «E Lot andò piantando le sue tende fino a Sodoma» (vers. 10-12). Tale è la scelta che fa il cuore naturale. «Dema mi ha lasciato, avendo amato il presente secolo» (2 Tim. 4:10). Lot abbandonò Abramo per la stessa ragione; lasciò il luogo della testimonianza per passare a quello del giudizio.

9.4 Conferma delle promesse ad Abramo

«E l’Eterno disse a Abramo dopo che Lot si fu separato da lui: Alza ora gli occhi tuoi e mira, dal luogo dove sei, a settentrione, a mezzogiorno, ad oriente e a occidente. Tutto il paese che vedi, lo darò a te e alla tua progenie in perpetuo» (vers. 14-15).

La disputa e la separazione, invece di procurare un danno spirituale ad Abramo, servirono a manifestare i principi celesti che lo dirigevano e fortificarono la vita della fede nell’anima sua, rendendo anche più chiaro il suo cammino e liberandolo da una compagnia che non poteva far altro che intralciarlo. Così, ogni cosa concorse al bene di Abramo e gli procurò una abbondante messe di benedizioni.

Ricordiamoci, e questa è una verità seria e incoraggiante, che a lungo andare ognuno trova il proprio livello, se così posso esprimermi. Tutti quelli che corrono senza essere mandati cadono in un modo o nell’altro e ritornano alle cose che facevano professione di aver abbandonate. D’altro canto, tutti quelli che sono stati chiamati da Dio e s’appoggiano su Lui, sono sostenuti dalla sua grazia. «Il sentiero dei giusti è come la luce che spunta e va vie più risplendendo finché sia giorno perfetto» (Prov. 4:18). Questo pensiero dovrebbe renderci umili e perseveranti nel pregare: «Perciò, chi si pensa di stare ritto, guardi di non cadere» (1 Cor. 10:12), poiché certamente, «ve ne son degli ultimi che saranno primi e de’ primi che saranno ultimi» (Luca 13:30). «Ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato» (Matteo 10:22).

È un principio che, qualunque ne sia l’applicazione particolare, ha una portata morale molto estesa. Molte navi sono salpate fieramente, con bella manovra, con tutte le vele spiegate, fra le ovazioni e gli applausi gioiosi della folla, con pronostici d’una magnifica traversata, ma ahimè! bufere, mareggiate, bassi fondi, roccie e banchi di sabbia hanno presto cambiato l’aspetto delle cose, e il viaggio incominciato sotto gli auspici più favorevoli, è terminato con un disastro! Faccio allusione qui solo al servizio e alla testimonianza e in nessun modo all’accettazione e alla salvezza eterna dell’uomo in Cristo: questa salvezza, Dio ne sia benedetto, non dipende in alcun modo da noi, ma da Colui che ha detto delle sue pecore: «Io dò loro la vita eterna e non periranno mai e nessuno le rapirà dalla mia mano» (Giov. 10:28). Ma vediamo sovente dei cristiani entrare in un servizio speciale, sotto l’impressione di essere chiamati da Dio e, dopo un certo tempo, fare naufragio; parecchi dopo aver professato certi principi di azione particolari riguardo ai quali non erano stati ammaestrati da Dio, o di cui non avevano pesato dovutamente le conseguenze nella presenza di Dio, finiscono per violare apertamente questi stessi principi. Dobbiamo deplorare queste cose ed evitarle con cura. Bisogna che ciascuno riceva la sua missione dal Maestro stesso. Tutti quelli che Cristo chiama a un servizio particolare, saranno infallibilmente sostenuti in questo servizio, poiché mai egli manda qualcuno alla guerra a proprie spese. Ma, chi corre senza essere mandato, non solo farà l’esperienza della propria follia, ma anche la manifesterà.

Tuttavia, ciò non significa che un uomo possa erigersi a rappresentante d’un principio (*) qualsiasi, o presentarsi come modello d’un carattere speciale di servizio o di testimonianza. Iddio ce ne guardi! Sarebbe puro orgoglio e vana follia! Il compito di chi insegna è di esporre le Scritture, e quello d’un servitore è di compiere la volontà del suo signore. Ma ben compreso e ammesso tutto questo, non dimentichiamo che dobbiamo calcolare la spesa prima di edificare una torre o muover guerra (Luca 14:28). Si vedrebbe meno confusione e miseria fra noi se questo fosse più seriamente considerato.

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(*) Oppure: pretendere essere la personificazione (in inglese: impersonation) d’un principio
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Abramo fu chiamato da Dio a lasciare Ur dei Caldei per andare in Canaan; e Dio lo condusse lungo tutto il cammino. Quando si fermò in Caran, Iddio lo attese; quando scese in Egitto, Iddio lo ricondusse; quando ebbe bisogno di guida, Egli lo guidò, quando vi fu contesa e separazione, Dio si prese cura di lui, di modo che Abramo non potè che dire: «Quant’è grande la bontà che tu riservi a quelli che ti temono!». (Salmo 31:19). Abramo non perdette nulla in seguito alla lite dei pastori; ebbe dopo, come prima, la sua tenda e il suo altare. «Allora Abramo levò le sue tende e venne ad abitare alle quercie di Mamre, che sono a Hebron, e quivi edificò un altare all’Eterno» (vers. 18). Scelga pure Lot la sua parte in Sodoma; Abramo cerca e trova il suo tutto in Dio. Non v’era nessun altare in Sodoma; tutti quelli che camminano in questa direzione, cercano tutt’altra cosa che un altare. Non è per rendere culto a Dio che vanno dalla parte di Sodoma, ma è l’amore del mondo che li conduce. E, quand’anche ottenessero l’oggetto delle loro ricerche, quale sarebbe la fine? «Egli dette loro quel che chiedevano, ma mandò loro la consunzione» (Salmo 106:15).

Pedro

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9.5 La battaglia dei re

Abbiamo, nel capitolo 14, la storia della rivolta dei cinque re contro Kedor-Laomer e della battaglia che seguì.

Lo Spirito Santo può occuparsi dei movimenti di re e dei loro eserciti quando queste cose riguardano in qualche modo il popolo di Dio. Abramo non era personalmente implicato in questa rivolta e nelle sue conseguenze: la sua tenda e il suo altare non rischiavano certo di suscitare una guerra, né potevano temere di essere danneggiati dallo scoppio o dai risultati di essa. La parte dell’uomo celeste non può eccitare la gelosia o l’ambizione dei re o dei conquistatori del mondo.

Ma se Abramo non era interessato alla battaglia dei «quattro re contro cinque», non era lo stesso di Lot, la cui posizione era tale che fu coinvolto in tutto quell’affare. Fintanto che, per la grazia, cammineremo nel sentiero della fede, saremo posti al di fuori delle circostanze che travagliano il mondo; ma se abbandoniamo la nostra posizione di «cittadini del cielo» (Filippesi 3:20), e ricerchiamo un nome, un posto e una parte sulla terra, dobbiamo aspettarci di partecipare alla confusione e alle vicissitudini di questo mondo.

Lot si era stabilito nella pianura di Sodoma e fu, di conseguenza, gravemente coinvolto dalle guerre di Sodoma. Che testimonianza poteva rendere Lot in Sodoma? Una testimonianza ben debole! Il fatto stesso che egli si fosse stabilito in quel luogo aveva dato il colpo mortale alla sua testimonianza. Una sola parola pronunciata contro Sodoma e i suoi costumi sarebbe stata la condanna di se stesso; infatti, perché era egli là? Ma non sembra affatto che fu per rendere testimonianza a Dio che Lot rizzò le sue tende fino a Sodoma. Interessi personali e di famiglia sembrano essere stati il movente determinante della sua condotta; e, per quanto l’apostolo Pietro ci dica che Lot «si tormentava ogni giorno l’anima giusta a motivo delle loro iniquità» rimane il fatto che aveva ben poca forza per combattere questa malvagità quand’anche fosse stato disposto a farlo.

Da un punto di vista pratico, è importante notare che non possiamo essere governati da due oggetti contemporaneamente. Non posso avere per scopo i miei interessi temporali e, nello stesso tempo, quelli dell’evangelo di Cristo. Nulla mi impedisce, senza dubbio, di attendere ai miei affari e nello stesso tempo predicare l’Evangelo; ma è chiaro che l’una o l’altra di queste cose deve essere il mio oggetto. Paolo predicava il Vangelo pur facendo tende; ma l’Evangelo, e non la confezione delle tende, era il suo scopo. Se i miei affari sono lo scopo della mia vita, la mia predicazione non sarà che un’opera di formalismo senza frutto, se non addirittura un pretesto per «santificare» la mia cupidigia. Il nostro cuore è perfido e ci inganna in modo sorprendente, quando desideriamo raggiungere un fine speciale; ci fornisce le ragioni più plausibili per compiere quello che desideriamo, mentre la nostra mente, oscurata da interessi personali o da una volontà non giudicata, è incapace di discernere la natura di questi pretesti. Quante persone si incontrano che per mantenersi in una posizione che riconoscono falsa, si appoggiano sul fatto che questa posizione procura loro un cerchio d’affari più grande! «Ecco, l’ubbidienza val meglio che il sacrificio e dare ascolto val meglio che il grasso dei montoni» (1 Sam. 15:22); tale è la sola risposta di Dio a tutti questi ragionamenti.

La storia di Abramo e di Lot non prova forse che il mezzo più sicuro e più efficace di servire il mondo è di essere fedeli, separandosi da esso e testimoniando contro lui?

9.6 L’intervento di Abramo

Tuttavia, ricordiamoci che la vera separazione dal mondo non può risultare che dalla comunione con Dio. Potremmo separarci dal mondo e fare della nostra persona il centro della nostra esistenza, come un monaco o un filosofo cinico; ma la separazione per Dio è tutt’altra cosa. L’una gela e inaridisce, l’altra riscalda e rallegra; l’una esalta noi stessi, l’altra ci fa uscire da noi stessi e ci rende attivi per amore degli altri. L’una fa dell’io e dei suoi interessi il nostro centro, l’altra dà a Dio il posto che gli appartiene.

Così, nel caso di Abramo, vediamo che il fatto stesso della sua separazione lo rende capace di compiere un servizio efficace a Lot che per il proprio cammino mondano s’era cacciato nei guai. «E Abramo quando ebbe udito che il suo fratello era stato fatto prigioniero, armò trecentodiciotto dei suoi più fidati servitori nati in casa sua e insegui i re fino a Dan... e ricuperò tutta la roba e rimenò pure Lot suo fratello, la sua roba e anche le donne e il popolo». Nonostante tutto, Lot era fratello di Abramo, e l’amore fraterno deve agire. «Un fratello è nato per l’avversità» e sovente accade che l’avversità raddolcisce il cuore e lo rende propenso alla bontà verso coloro dai quali abbiamo dovuto separarci.

È degno di nota che al versetto 12 sia detto: «E presero Lot figlio del fratello d’Abramo» e al versetto 14: «E Abramo come ebbe udito che il suo fratello era stato fatto prigioniero»... L’affetto di fratello risponde ai bisogni d’un fratello nell’avversità. Tutto questo è divino. Per quanto la vera fede ci renda sempre indipendenti, essa non ci rende mai indifferenti; non s’avviluppa mai di vestiti caldi, mentre il fratello patisce freddo. La fede fa tre cose: «purifica il cuore» (Atti 14:9), «opera per mezzo dell’amore» (Gal. 5:6), «vince il mondo» (1 Giov. 5:4); e questi tre risultati della fede appaiono, in tutta la loro bellezza, in Abramo. Il suo cuore puro dalle sozzure di Sodoma, manifesta una vera affezione per Lot suo fratello; e, infine, riporta una vittoria completa sui re. Tali sono i frutti della fede, questo principio celeste che glorifica Cristo.

Pedro

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9.7 Melchisedec e la tentazione del re di Sodoma

Tuttavia, colui che cammina per fede non è al riparo dagli assalti del nemico; accade sovente che una nuova tentazione venga ad assalirlo subito dopo una vittoria. È quello che successe ad Abramo. «E il re di Sodoma gli andò incontro nella valle di Shaveh come egli se ne ritornava dalla sconfitta di Kedor-Laomer e dei re ch’erano con lui» (vers. 17). C’era, evidentemente, un profondo e insidioso disegno del nemico in questo fatto. Il re di Sodoma rappresenta un pensiero e una fase della potenza del nemico ben diversi da quelli che vediamo in Kedor-Laomer e nei re che erano con lui. Nel primo, udiamo la voce sibillina del serpente, nei secondi il ruggito del leone; ma sia che Abramo abbia a che fare col serpente, sia che abbia a che fare col leone, la grazia del Signore gli basta; e questa grazia agisce in favore del servitore di Dio nel momento del bisogno. «Melchisedec re di Salem fece portare del pane e del vino. Egli era sacerdote dell’Iddio altissimo. Ed egli benedisse Abramo dicendo: Benedetto sia Abramo dall’Iddio Altissimo padrone dei cieli e della terra! E benedetto sia l’Iddio Altissimo che t’ha dato in mano i tuoi nemici!» (vers. 18-20).

Dobbiamo notare, prima di tutto, il momento in cui Melchisedec entra in scena, e, in seguito, il doppio effetto del suo ministerio. Non è mentre Abramo insegue Kedor-Laomer che Melchisedec gli viene incontro; bensì quando il re di Sodoma insegue Abramo; c’è una grandissima differenza. Per entrare in una lotta più insidiosa di quella da cui era uscito, Abramo aveva bisogno d’una comunione più profonda con Dio.

Il «pane e il vino» di Melchisedec ristorarono l’anima d’Abramo dopo la sua lotta con Kedor-Laomer; mentre la benedizione dell’Iddio Altissimo fortificò il suo cuore per la lotta che doveva sostenere col re di Sodoma. Benché vittorioso, Abramo doveva ancora essere combattente; perciò il sacerdote regale ristora l’anima del vincitore e fortifica il cuore del combattente. È assai prezioso il modo in cui Melchisedec presenta Dio allo spirito di Abramo; lo chiama «l’Iddio Altissimo, padrone dei cieli e della terra»; poi dichiara che Abramo «è benedetto» dalla parte di questo Dio. È una potente preparazione per l’incontro col re di Sodoma. Un uomo «benedetto» da Dio, non aveva bisogno di ciò che il nemico poteva offrirgli; e se il padrone del cielo e della terra occupava i suoi pensieri, i beni di Sodoma non potevano avere alcuna attrattiva per lui. Così, come c’era da aspettarsi, quando il re di Sodoma gli fa questa proposta: «Dammi le persone, e prendi per te la roba», Abramo gli risponde: «Ho alzato la mia mano all’Eterno, l’Iddio altissimo, padrone dei cieli e della terra, giurando che non prenderei neppure un filo o un laccio di sandalo di tutto ciò che t’appartiene, perché tu non abbia a dire: ho arricchito Abramo». Abramo rifiuta di essere arricchito dal re di Sodoma. Come avrebbe potuto pensare di liberare Lot dalla potenza del mondo se egli stesso fosse stato governato dal mondo? Non posso liberare il mio prossimo se non perché io sono libero; fin quando sono nel fuoco, è impossibile che io possa ritirarne qualcuno. Il cammino della separazione per Dio è il cammino della potenza, come è anche il sentiero della pace e della felicità.

Il mondo sotto le sue diverse forme, è il grande mezzo di cui Satana si serve per infiacchire le mani e accaparrarsi le affezioni dei servitori di Cristo; ma, Dio ne sia benedetto, quando il cuore è integro verso di lui, Egli viene sempre a rallegrare, incoraggiare e fortificare nel momento opportuno. «L’Eterno scorre collo sguardo tutta la terra per spiegar la sua forza a pro di quelli che hanno il cuore integro verso di Lui» (2 Cron. 16:9). Vi è qui una verità incoraggiante per i nostri poveri cuori deboli e timorosi, se desideriamo resistere al mondo, alla carne e a Satana. Cristo sarà la nostra forza, e il nostro scudo; Egli «ammaestra le mie mani alla pugna e le mie dita alla battaglia» (Salmo 144:1). Egli «coprirà il mio capo nel giorno delle armi» (Salmo 140:7) e infine «triterà tosto Satana sotto i vostri piedi» (Rom. 16:20). Conservi il Signore i nostri cuori integri verso di Lui nella scena che ci circonda.

10. Capitolo 15: Rivelazione di Dio ad Abramo

10.1 Il scudo e la ricompensa d’Abramo

«Dopo queste cose, la parola dell’Eterno fu rivolta in visione ad Abramo dicendo: Non temere Abramo, io sono il tuo scudo e la tua grande ricompensa». L’Eterno non permetterà che il suo servitore sia in perdita per aver rifiutato le offerte del mondo. Era infinitamente meglio per Abramo essere al riparo dietro lo scudo dell’Eterno che rifugiarsi sotto la protezione del re di Sodoma, aspettare «la sua grande ricompensa» che accettare «i beni» di Sodoma.

La posizione nella quale Abramo è posto all’inizio di questo capitolo rappresenta, in modo mirabile, quella nella quale l’anima è introdotta per la fede in Cristo. Nessun dardo del nemico può penetrare nello scudo che protegge il più debole discepolo di Gesù; e, quanto all’avvenire, Cristo lo riempie. La parte che abbiamo in Lui non si esaurisce mai, la speranza non rende confusi; e l’una e l’altra sono rese infallibilmente sicure dai consigli di Dio e dall’espiazione che Cristo ha compiuta. Godiamo attualmente di queste cose per mezzo del ministerio dello Spirito Santo che dimora in noi; e, poiché è così, è evidente che il credente che segue una carriera mondana, o che si lascia andare a desideri carnali, non potrebbe godere né dello «scudo» né della «ricompensa». Se lo Spirito Santo è contristato non ci farà godere di ciò che costituisce la parte e la speranza proprie del credente.

Così vediamo, in questa parte della sua storia, che quando Abramo fu tornato dalla battaglia ed ebbe rifiutato l’offerta del re di Sodoma, Dio si presenta a lui sotto un doppio carattere: come «il suo scudo» e come «la sua grande ricompensa». Questo contiene un volume di verità pratiche, da meditare.

Pedro

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 10.2 Il figlio e l’erede

La fine del capitolo espone i due grandi principi sul quali si basano la qualità di figlio e quella di erede. «E Abramo disse: Signore Eterno, che mi darai tu? Poiché io me ne vo senza figliuoli, e chi possederà la mia casa è Eliezer di Damasco. E Abramo soggiunse: Tu non mi hai dato progenie; ed ecco uno schiavo nato in casa mia sarà il mio erede» (vers. 2-3).

Abramo desiderava un figlio poiché sapeva, dalla parola di Dio, che la sua «progenie» doveva ereditare il paese (cap. 13:15).

Le qualità di figlio e d’erede sono inseparabilmente unite nei pensieri di Dio. «Colui che uscirà dalle tue viscere sarà erede tuo» (vers. 4). La qualità di figlio è la vera base di ogni cosa ed è, inoltre, il risultato del consiglio sovrano e dell’opera di Dio, come leggiamo nell’epistola di Giacomo (cap. 1:18) «Egli ci ha di sua volontà generati mediante la parola di verità»; e infine questa qualità riposa sul principio eterno e divino della risurrezione. Come potrebbe essere altrimenti? Il corpo di Abramo era morto, di modo che, qui come ovunque, il figlio non ha potuto esistere che nella potenza della risurrezione. La sua natura era morta e non poteva né generare né concepire per Dio.

L’eredità in tutta la sua distesa e la sua magnificenza si spiegava agli occhi di Abramo; ma dove era l’erede? Il corpo di Abramo, così come il seno di Sara, erano «morti» ma l’Eterno era l’Iddio della risurrezione; perciò un corpo morto era proprio quello che Gli occorreva per agire.

Se la natura non fosse stata morta, sarebbe stato necessario, a Dio, farla morire prima di poter manifestare pienamente la sua potenza; una scena di morte da cui sono bandite tutte le vane e orgogliose pretese dell’uomo è il teatro che meglio si addice all’Iddio Vivente. Ecco perché l’Eterno disse ad Abramo: «Mira il cielo, e conta le stelle se le puoi contare, e gli disse: così sarà la tua progenie!». Quando l’anima contempla l’Iddio di risurrezione, non vi sono limiti alle benedizioni di cui essa è l’oggetto, poiché nulla è impossibile a chi può dare la vita a un morto.

10.3 La fede che giustifica

«Ed egli credette all’Eterno che gli contò questo a giustizia». L’imputazione della giustizia fatta qui ad Abramo, deriva dalla fede che Abramo aveva in Dio come «Colui che vivifica i morti». È sotto questo carattere che Dio si rivela in un mondo ove regna la morte; e l’anima che crede in Dio come tale, è considerata giusta davanti a Dio. L’uomo, per questo stesso motivo, è necessariamente escluso come cooperatore, poiché cosa può fare in mezzo a una scena di morte? Potrà aprire le porte del sepolcro? Saprà sottrarsi alla potenza della morte e attraversare, vivente e libero, i confini del suo tenebroso dominio? No, di certo; quindi non può acquistarsi la giustizia, né stabilirsi nella relazione di figlio.

«Iddio non è Dio di morti, ma di viventi» (Marco 12:27). Perciò, finché è sotto la dominazione del peccato, l’uomo non può conoscere né la relazione di figlio, né la condizione di giusto. Dio solo può dunque conferire all’uomo l’adozione di figliuolo, come Lui solo può imputare la giustizia; e queste due cose sono legate alla fede in Lui come in Colui che ha risuscitato Cristo d’infra i morti.

È sotto questo aspetto che l’Epistola ai Romani ci presenta al cap. 4 la fede di Abramo dicendo: «Or, non per lui soltanto sta scritto che ciò gli fu messo in conto di giustizia, ma anche per noi, ai quali sarà così messo in conto, per noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti, Gesù nostro Signore». L’Iddio di risurrezione è presentato «anche a noi» come oggetto di fede, e la nostra fede in Lui è il solo fondamento della nostra giustizia.

Se, dopo aver alzato gli occhi al firmamento Abramo li avesse poi diretti sul «suo corpo già ammortito» mai avrebbe potuto realizzare il pensiero d’una progenie numerosa come le stelle. Ma Abramo non ebbe riguardo al suo corpo, ma alla potenza di Dio in risurrezione; e poiché era questa potenza che doveva far nascere la progenie promessa, le stelle del cielo e la rena del mare non davano che una pallida idea del suoi effetti meravigliosi.

10.4 La fede in Cristo morte e risuscitato

Nello stesso modo, se un peccatore che ode la buona novella dell’Evangelo potesse vedere, con i suoi occhi, la pura luce della presenza di Dio, e poi scendere nelle profondità inesplorate della sua natura peccaminosa, potrebbe con ragione esclamare: come giungerò alla presenza di Dio? come sarò io mai in condizione di abitare in quella luce? Ma se il peccatore si vede assolutamente senza risorse, Dio, sia benedetto il suo Nome, risponde a tutti i suoi bisogni in Colui che è sceso, dalla casa del Padre, alla croce e alla tomba ed è stato elevato sul trono, riempiendo così, per mezzo della sua persona e della sua opera, lo spazio che separa questi due punti estremi. Non vi può essere nulla di più elevato che il seno del Padre, dimora eterna del Figlio, e nulla di più basso che la croce e il sepolcro; ma, verità meravigliosa, troviamo Cristo nel seno di Dio e nel sepolcro; egli scese nella morte, per lasciare dietro a sè, nella polvere della tomba, tutto il peso dei peccati e delle iniquità del suo popolo, e dichiarando, per mezzo d’essa, la fine dì tutto ciò che è umano, la fine del peccato e dell’ultimo confine della potenza di Satana.

La tomba di Gesù è la grande fine di tutto. Ma la risurrezione ci trasporta al di là di questo termine e costituisce il fondamento imperituro sul quale la gloria di Dio e la felicità dell’uomo riposano per sempre. Da quando l’occhio della fede contempla Cristo risuscitato, trova in Lui una risposta trionfante a tutto ciò che si riferisce al peccato, al giudizio, alla morte e al sepolcro. Colui che li ha tutti divinamente vinti, è risorto dai morti e si è seduto alla destra della maestà nei luoghi celesti; e, più ancora, lo Spirito di Colui che è risuscitato e glorificato fa del credente un figlio. Il credente è uscito vivificato dalla tomba di Cristo, come è scritto: «E voi che eravate morti nei falli e nella incirconcisione della vostra carne, voi dico, Egli ha vivificati con lui, avendoci perdonati tutti i falli» (Col. 2:13).

Essendo dunque fondata sulla risurrezione, la qualità di figliuolo è unita alla giustificazione, alla giustizia e alla liberazione perfetta da tutto ciò che, in qualche modo, poteva essere contro di noi. Dio non poteva ammettere una sola macchia di peccato sui suoi figliuoli e sulle sue figliuole; il padre del figliuol prodigo non poteva ammettere alla sua tavola il figlio vestito con gli stracci del paese straniero. Poteva andargli incontro, gettarglisi al collo e baciarlo, in quegli stracci; era un atto degno della grazia e che caratterizza questa grazia in modo ammirabile; ma era impossibile che facesse sedere il figlio alla sua tavola coperto di quei cenci. La grazia che fece uscire il padre incontro al figlio, regna per mezzo della giustizia che riconduce il prodigo nella casa, presso il padre. Se il padre avesse aspettato che il figlio si fosse provvisto d’una veste adatta, non avrebbe agito in grazia; ma neppure sarebbe stato giusto introdurlo nella casa vestito dei suoi stracci. Quando il padre esce incontro al suo figlio e gli si getta al collo, la grazia e la giustizia brillano insieme in tutto il loro splendore, ma non danno al figlio un posto alla tavola del padre prima che sia vestito in modo degno della sua alta e beata posizione.

Dio, in Cristo, è sceso fino al grado più basso della posizione morale dell’uomo, affinché, con un tale abbassamento, potesse elevarlo al più alto grado di benedizione, in comunione con se stesso.

Da tutto ciò risalta che la nostra qualità di figliuoli, con tutta la gloria e i privilegi annessi, è del tutto indipendente da noi; non vi entriamo più di quanto i corpi ammortiti di Abramo e di Sara partecipavano alla progenie numerosa come le stelle del cielo e come la rena del mare.

Tutto è da Dio. «Dio Padre» ne ha concepita l’idea; «il Figlio » ne ha posto il fondamento; lo «Spirito Santo» ha realizzato l’edificio, e su questo edificio sta scritto: «Per la grazia, per la fede, senza le opere della legge»! (Rom. 3:27 e Efesi 2:8).

Pedro

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10.5 Le sofferenze prima dell’entrata in possesso dell’eredità

Ma questo capitolo ci presenta anche un soggetto molto importante, cioè la qualità di erede. Essendo la questione della figliolanza e della giustizia regolata divinamente e senza condizione, il Signore dice ad Abramo: «Io sono l’Eterno che ti ho fatto uscire da Ur de’ Caldei per darti questo paese perché tu lo possegga» (vers. 7). Qui è presentata e trattata la grande questione dell’eredità, come pure la via particolare che gli eredi eletti dovranno percorrere per giungere all’eredità promessa. «Se siamo figliuoli, siamo anche eredi, eredi di Dio e coeredi di Cristo, se pur soffriamo con Lui affinché siamo anche glorificati con lui» (Rom. 8:17). La strada che conduce al regno, passa anche per la sofferenza, l’afflizione e la tribolazione; ma, grazie a Dio, per fede possiamo dire: «Le sofferenze del tempo presente non sono punto da paragonare con la gloria che ha da essere manifestata a nostro riguardo» (Rom. 8:18). E ancora: «La nostra momentanea leggera afflizione ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria» (2 Cor. 4:17); e infine: «Ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l’afflizione produce pazienza, la pazienza esperienza, e la esperienza speranza» (Rom. 5:3-4).

È un grande onore e un reale privilegio per noi che ci sia dato di poter bere al calice del nostro benedetto Salvatore ed essere battezzati del suo battesimo, seguendo in una felice comunione con Lui la via che conduce direttamente alla nostra gloriosa eredità. L’Erede e i coeredi giungono a questa eredità per il sentiero della sofferenza.

Tuttavia, ricordiamoci che le sofferenze alle quali partecipano i coeredi sono esenti da ogni elemento «penale». Non hanno da soffrire sotto la mano della giustizia infinita a causa del peccato; queste sofferenze, Cristo, la santa vittima, le ha pienamente subite ed esaurite sulla croce per noi: allora egli chinò il suo capo santo sotto i colpi della giustizia divina: «Poiché anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati» (1 Pietro 3:18). Questo «una volta» fu alla croce, e non altrove. Cristo non ha mai sofferto per il peccato prima, e non ne potrà mai più soffrire. Ha sofferto una volta sola alla fine dei secoli per annullare il peccato col suo sacrificio (Ebrei 9:26), «è stato offerto una volta sola per portare i peccati» (Ebrei 9:28).

Vi sono due modi di considerare il Cristo sofferente: come colpito dall’Eterno e come rigettato dagli uomini; sotto il primo aspetto, egli soffre solo, sotto il secondo abbiamo il privilegio e l’onore di essergli associati. Colpito da parte dell’Eterno per il peccato, Cristo ha sofferto tutto solo poiché chi avrebbe potuto soffrire con lui? Solo Egli portò tutta l’ira di Dio. Scese, solo, «al torrente perenne nel luogo dove non si lavora e non si semina» (Deut. 21:4) e regolò quivi per sempre la questione dei nostri peccati. Di questa parte delle sofferenze di Cristo siamo debitori di tutto per l’eternità; non abbiamo partecipato ad esse in nessun modo. Cristo ha combattuto e riportato la vittora da Sè, solo, ma condivide il bottino con noi; era solo «nella fossa di perdizione, nel pantano fangoso» (Salmo 40:2), ma dal momento che pone il piede sulla rocca eterna della risurrezione, egli ci associa a Sè. Era solo quando gettò «il gran grido» sulla croce (Marco 15:37), ma ha dei compagni, quando canta «il cantico nuovo» (Salmo 40:2-3).

Ora si tratta di sapere se rifiuteremo di soffrire con lui da parte degli uomini, dopo che Egli ha sofferto per noi da parte di Dio. Che qui si tratti di una domanda è cosa evidente, dal momento che lo Spirito Santo impiega costantemente la parola «se» in rapporto con questo soggetto. «Se pur soffriamo con lui» (Romani 5:17): «Se soffriamo, con Lui regneremo» (2 Tim. 2:12). Non è sollevata alcuna questione quando si tratta della qualità di figli; non perveniamo all’alta dignità di figli per mezzo della sofferenza, ma per la potenza vivificante dello Spirito Santo fondata sull’opera compiuta da Cristo, secondo il consiglio eterno di Dio. Nulla può toccare questa posizione. Non diventiamo membri della famiglia per mezzo della sofferenza, e l’apostolo Paolo non scrive ai Tessalonicesi: «Affinché siate stimati degni della famiglia di Dio per la quale voi soffrite» (2 Tess. 1:5). I Tessalonicesi facevano già parte della famiglia, ma erano destinati al regno, ed è attraverso la sofferenza, che passa la via che vi conduce; oltre a ciò, la misura delle loro sofferenze per il regno era in rapporto col grado della loro devozione e della loro conformità al Re. Più gli saranno simili, più soffriranno con lui; e più la nostra comunione con Lui nelle sue sofferenze sarà profonda, più lo sarà la nostra comunione con Lui nella gloria.

Vi è una differenza fra la casa del Padre e il regno del Figlio; nella prima si tratta di una posizione conferita, nel secondo si tratta di capacità. Tutti i miei figliuoli possono essere seduti alla mia tavola; ma il godimento che avranno nella mia compagnia e nella mia conversazione, dipenderà solo dalla loro capacità. Uno di essi può essere seduto sulle mie ginocchia nel pieno godimento della sua relazione di figlio, senza che sia capace, tuttavia, di comprendere una sola delle mie parole; un altro, forse, darà prova di una rara intelligenza senza per questo essere più felice del piccolo che sta sulle mie ginocchia. Ma il servizio dei miei figliuoli verso me, e la loro identificazione pubblica con me, sono due cose ben distinte. Il paragone di cui mi son servito non è che una debolissima immagine atta a mettere in rilievo la doppia idea della capacità nel regno del Figlio e della posizione conferita nella casa del Padre.

Ricordiamoci, tuttavia, che soffrire con Cristo non è il giogo d’uno schiavo, ma un privilegio e una dedizione volontaria; non una legge di ferro, ma un favore della grazia. «Poiché a voi è stato dato, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in Lui, ma anche di soffrire per Lui» (Filipp. 1:29). Inoltre il vero segreto delle sofferenze per Cristo sta nel fatto che le nostre affezioni siano concentrate su lui. Più ameremo Gesù, più ci terremo vicini a Lui; più ci terremo vicini a Lui, più l’imiteremo fedelmente; e più l’imiteremo fedelmente, più soffriremo con Lui.

Tutto dipende dunque dall’amore per Cristo; ed è una verità fondamentale che «noi l’amiamo perché Egli ci ha amati il primo» (1 Giov. 4:19).

Guardiamoci su questo punto come su tutti gli altri da uno spirito legale; non creda qualcuno di soffrire per Cristo sotto il giogo del legalismo. Ahimè! ci sarebbe da temere che un tale non conosca né Cristo, né la posizione benedetta di figliuolo e che non sia ancora fermo nella grazia, ma cerchi di entrare nella famiglia per mezzo delle opere della legge, piuttosto che pervenire al regno per il sentiero della sofferenza. D’altra parte, guardiamoci di indietreggiare di fronte al calice e al battesimo del nostro Maestro; non facciamo professione di godere i benefici che la croce ci assicura, mentre rifiutiamo di partecipare alla reiezione che questa croce implica. Siamo pur convinti che il sentiero che conduce al regno non è rischiarato dal sole del favore del mondo e che non è cosparso dalle rose della sua felicità. Quando un credente riesce, nel mondo, c’è da temere che non cammini in comunione con Cristo. «Se uno mi serve, mi segua; e là dove sono io, quivi sarà anche il mio servitore» (Giov. 12:26). Qual era lo scopo della carriera terrestre di Cristo? Ha Egli cercato di ottenere dell’influenza e una posizione elevata nel mondo? No, ma ha trovato il suo posto sulla croce fra due briganti condannati a morte. Qualcuno potrà dire: ma in questo c’era la mano di Dio; ciò è vero, ma anche quella dell’uomo! Ed è quest’ultima verità che comporta necessariamente la nostra reiezione da parte del mondo, se camminiamo con Cristo.

La nostra associazione con Cristo ci apre il cielo e ci rigetta fuori del mondo; e se professiamo di essere del cielo senza che il mondo ci rigetti, significa che c’è qualcosa di falso nella posizione che abbiamo preso. Se Cristo fosse sulla terra ancora oggi, quale sarebbe il suo cammino? A che tenderebbe, dove terminerebbe? Iddio ci dia di rispondere a queste domande alla luce della sua Parola più penetrante di qualunque spada a due tagli e che ci pone, quali siamo, sotto lo sguardo dell’Onnipotente; e che lo Spirito Santo ci renda fedeli al nostro Signore assente, crocifisso e rigettato. Chi cammina secondo lo Spirito sarà ripieno di Cristo, ed essendo ripieno di Lui, sarà occupato non della sofferenza ma di Colui per il quale soffre. Se lo sguardo è fissato su Cristo, le sofferenze non saranno per nulla da paragonare alla gioia presente e alla gloria avvenire.

10.6 La visione d’Abramo

Diamo ora un rapido sguardo sulla visione significativa di Abramo riferita negli ultimi versetti di questo capitolo. «E, sul tramontar del sole, un profondo sonno cadde su Abramo ed ecco, uno spavento, una oscurità profonda, cadde su lui. E l’Eterno disse ad Abramo: Sappi per certo che i tuoi discendenti dimoreranno come stranieri in un paese che non sarà loro, e vi saranno schiavi e saranno oppressi per quattrocento anni, ma io giudicherò la gente di cui saranno stati servi; e, dopo queste cose, se ne partiranno con grandi ricchezze... Or, come il sole si fu caricato e venne la notte oscura, ecco una fornace fumante e una fiamma di fuoco passare in mezzo agli animali divisi».

Si può dire che tutta la storia d’Israele sia riassunta in queste due figure: «la fornace fumante» e la «fiamma di fuoco». La prima rappresenta le diverse epoche nelle quali gli Israeliti sono stati messi alla prova e hanno sofferto: la lunga schiavitù in Egitto, il tempo della loro soggezione ai re di Canaan, quello della loro cattività in Babilonia, e infine il tempo della loro dispersione (*). Si può considrare Israele come un popolo che passa attraverso la fornace fumante in tutti questi differenti periodi (ved. Deut. 4:20, 1 Re 8:51, Isaia 48:10).

_____________________
(*) e delle persecuzioni subite nell’ultima guerra mondiale. (aggiunta dal traduttore italiano).
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La fiamma di fuoco, o torcia di fuoco, è l’immagine delle fasi della storia d’Israele, nelle quali l’Eterno appare in grazia per soccorrere i suoi: tale è la sua liberazione dall’Egitto per mano di Mosè; la liberazione dalla potenza dei re di Canaan durante il ministerio dei Giudici, il ritorno da Babilonia, in virtù del decreto di Ciro; e infine, la liberazione finale del popolo quando Dio apparirà nella sua gloria.

Non si giunge all’eredità se non passando attraverso la fornace fumante, e più il fumo della fornace è denso, più sarà brillante la fiamma della salvezza divina.

L’applicazione di questo principio non è limitato solo al popolo di Dio nel suo insieme, ma riguarda anche ognuno di quelli che lo compongono. Tutti quelli che sono pervenuti a una posizione eminente come servitori, sono passati attraverso la fornace fumante, prima di essere chiamati a godere della fiamma di fuoco. Uno spavento e una oscurità profonda cadde su Abramo; Giacobbe dovette subire vent’anni di duro servizio in casa di Labano; Giuseppe trovò la fornace fumante nell’afflizione delle prigioni di Egitto; Mosé passò 40 anni nel deserto.

La Scrittura ci fa vedere l’applicazione di questo principio ai diaconi (o «servitori») e ai vescovi (o «sorveglianti»): «siano questi prima provati, poi assumano l’ufficio di diacono se sono irreprensibili» (1 Tim. 3:10). «Il sorvegliante non sia novizio, affinché divenuto gonfio d’orgoglio, non cada nella condanna del Diavolo» (1 Tim. 3:6).

Essere un figlio di Dio è una cosa, essere un servitore di Cristo è un’altra, completamente diversa. Se metto mio figlio a lavorare il giardino, farà forse più male che bene. Perché? Forse perché non è un mio figliuolo diletto? No, ma perché non è un servitore esercitato. In questo sta tutta la differenza. Una relazione e un impiego sono due cose distinte; non che ogni figlio di Dio non abbia qualche cosa da fare, da soffrire o da imparare; ma rimane pur sempre vero che il servizio pubblico e la disciplina rimangono intimamente legati nelle vie di Dio. Chi è chiamato ad un servizio pubblico deve avere quella disposizione umile, quel giudizio maturo, quello spirito sottomesso e mortificato, quella volontà rotta, quel tono dolce, che sono i belli e sicuri risultati della disciplina segreta di Dio. In genere, si vedrà che quelli che si mettono avanti senza avere, almeno in una certa misura, le qualità morali menzionate, tosto o tardi falliscono allo scopo.

Signore Gesù, tieni i tuoi deboli servitori vicini a Te e nella tua mano potente.

Pedro

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19/04/2011 20:04
 
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 11. Capitolo 16: Sarai e Agar

11.1 Il ricorso a mezzi umani

Qui, vediamo l’incredulità prendere possesso dello spirito di Abramo e, ancora una volta, distoglierlo per un certo tempo dal sentiero della felice e semplice fiducia in Dio. «E Sara disse ad Abramo: Ecco, l’Eterno m’ha fatta sterile». Queste parole sono l’espressione dell’impazienza caratteristica dell’incredulità; Abramo avrebbe dovuto valutarle così, e aspettare pazientemente dal Signore l’adempimento della sua promessa. Ma il nostro povero cuore naturale preferisce tutt’altra cosa che una posizione di attesa: farà ricorso ad espedienti, farà dei piani, userà una risorsa qualsiasi piuttosto che rimanere in una posizione che tanto gli pesa.

Credere ad una promessa e aspettarne pazientemente l’adempimento, sono due cose molto diverse.

La condotta d’un bambino ce ne fornisce numerosi esempi; quando promettiamo qualcosa a uno dei nostri figli, non gli viene in mente di dubitare della nostra parola; tuttavia lo vediamo molto agitato, impaziente di sapere quando e come adempiremo la nostra promessa. La condotta d’un bambino è uno specchio nel quale l’uomo più savio può esaminare la propria immagine.

Abramo manifesta della fede al capitolo 15, però manca di pazienza al capitolo 16: e così comprendiamo meglio il senso e la bellezza di quello che leggiamo al cap. 6 dell’epistola agli Ebrei: «Onde non diventiate indolenti, ma siate imitatori di quelli che per fede e pazienza ereditano le promesse». Dio fa una promessa: la fede la crede, la speranza l’anticipa, e la pazienza ne aspetta tranquillamente l’adempimento.

Vi è in commercio ciò che si chiama il «valore attuale» di una cambiale o d’un assegno all’ordine. È lo stesso nel mondo della fede. Vi è anche un valore presente delle promesse di Dio, e la misura che regola questo valore è la conoscenza sperimentale di Dio nel cuore: poiché è dal modo in cui apprezziamo Dio che dipende il valore che diamo alle sue promesse. Inoltre, l’anima sottomessa e paziente trova una ricca e piena ricompensa. rimettendosi così a Dio per l’adempimento di tutto ciò che Egli ha promesso.

In quanto a Sarai, ciò che essa disse ad Abramo significava, in definitiva, questo: «L’Eterno è venuto meno; forse la mia serva egiziana mi sarà una risorsa». Tutto, fuorché Dio, si confà ai cuore incredulo; e si è sovente stranamente sorpresi nel vedere a quali futilità il credente può attaccarsi quando ha perso il sentimento della presenza di Dio e ha dimenticato che la sua fedeltà non fa mai difetto e che Egli è sufficiente a tutto. L’anima perde così quella disposizione pacifica e quell’equilibrio così necessari per la testimonianza fedele di colui che cammina per la fede. Come il mondo, essa ricorre ad ogni sorta di espedienti per raggiungere il suo scopo e chiama questo «fare buon uso dei mezzi».

Ma sottrarsi ad una dipendenza assoluta da Dio è una cosa amara, e le sue conseguenze sono sempre funeste.

Se Sarai avesse detto: «La natura mi ha delusa, ma Dio è la mia risorsa», tutto sarebbe stato molto diverso; sarebbe rimasta sopra un fondamento vero, poiché in realtà la natura l’aveva delusa. Ma era la natura sotto una data forma; e Sarai, che non aveva ancora imparato a distogliere lo sguardo dalla natura sotto tutte le sue forme, volle provarla sotto un’altra. A giudizio di Dio, come a quello della fede, la natura di Agar non era migliore di quella di Sarai: la natura vecchia e giovane, è la stessa agli occhi di Dio, e pertanto anche a quelli della fede. Ma questa verità non ha potenza su di noi se sperimentalmente Dio non è diventato il centro della nostra esistenza. Dal momento che distogliamo lo sguardo da quel Dio glorioso, siamo capaci di darci alle invenzioni più vili dell’incredulità, ed è soltanto quando noi ci appoggiamo seriamente sull’Iddio vivente, solo vero e solo savio, che possiamo rinunciare a tutto ciò che è umano. Questo [non] vuol dire che disprezziamo gli strumenti di cui Dio si serve: sarebbe indifferenza e non fede. La fede tiene conto dello strumento non per un suo valore intrinseco ma per Colui che l’adopera; l’incredulità non considera che lo strumento e fa dipendere il successo dalla potenza apparente di esso, invece di giudicare secondo la virtù onnipotente di colui che, in grazia, si serve di esso.

Saul considerando Davide e poi il Filisteo, dice al primo: «Tu non puoi andare a batterti contro questo Filisteo poiché non sei che un giovanetto», Ma per Davide non importava sapere se poteva o no vincere il Filisteo, ma se l’Eterno aveva il potere di farlo.

Il sentiero della fede è un sentiero molto semplice e molto stretto. La fede non deifica né disprezza i mezzi; li apprezza a misura di quanto Dio se ne serve, e non al di là. Or vi è una grandissima differenza fra l’uso che Dio fa della creatura per servire me, e l’uso che io ne faccio per escludere Dio. Dio si servi dei corvi per nutrire Elia, ma Elia non si servì di essi per escludere Dio. Quando il cuore è realmente occupato di Dio, non si preoccupa dei mezzi; conta su Dio nella certezza che qualunque sia il mezzo che Dio adopererà, Egli benedirà, aiuterà e provvederà a tutti i bisogni.

11.2 Tristi conseguenze

Nel caso che ci occupa, è evidente che Agar non era uno strumento adoperato da Dio per compiere la promessa fatta ad Abramo. Dio aveva promesso un figliuolo ad Abramo, ma non aveva detto che quel figlio sarebbe stato quello di Agar: e il racconto biblico ci insegna che Abramo e Sarai accrebbero le loro pene, ricorrendo ad Agar, poiché Agar, vedendo che aveva concepito, «disprezzò la sua padrona» e questo non fu che il principio di tutti i dispiaceri, risultato della loro fretta nel ricorrere a mezzi umani.

La dignità di Sarai fu calpestata da una schiava egiziana; poiché Agar, veduto lo stato di debolezza della sua padrona, la disprezzò.

Non si mantiene, in effetti, la propria dignità e la propria autorità se non rimanendo in una posizione di dipendenza da Dio. Nessuno è tanto indipendente da tutto ciò che lo circonda, come colui che cammina veramente per fede e aspetta con fiducia l’intervento di Dio; ma appena il credente si rende debitore della natura o del mondo, perde la dignità della sua posizione e non tarda ad accorgersene. Non si comprende abbastanza la perdita che risulta dal più piccolo scarto dal cammino della fede. Tutti quelli che seguono il retto cammino incontreranno senza dubbio prove e pene, ma possono essere certi che saranno più che compensati dalla gioia e dalla felicità che diverranno la loro parte; ma quelli che si allontanano da esso incontreranno prove molto maggiori senza compenso alcuno.

«E Sarai disse ad Abramo: L’ingiuria fatta a me ricade su te.» Quando abbiamo mancato siamo sovente disposti a dare la colpa a un altro. Sarai non faceva che raccogliere il frutto della sua proposta; tuttavia disse ad Abramo: «L’ingiuria fatta a me ricade su te». Poi, col permesso di Abramo, cerca di sbarazzarsi della prova che la sua impazienza le aveva procurata.

«Allora Abramo disse a Sarai: Ecco la tua serva è in tuo potere, fa’ con lei come ti piacerà. Sarai la trattò duramente, ed ella se ne fuggì da lei» (vers. 5-6). Ma così non si riesce; non ci si sbarazza della serva coi maltrattamenti.

Quando sbagliamo dobbiamo portarne le conseguenze, e non possiamo sottrarci ad esse per mezzo dell’orgoglio e della violenza; proviamo sovente questi mezzi, ma non facciamo che aggravare il male. Quando abbiamo mancato, dovremmo umiliarci, confessare il nostro fallo e aspettare da Dio la liberazione.

Non vediamo nulla di simile nella condotta di Sarai; anzi, essa non ha affatto coscienza di aver agito male e, lungi dall’aspettare da Dio la liberazione, cerca di liberarsi da sè, a suo modo. Ma tutti gli sforzi che facciamo per raddrizzare i nostri errori, prima di averli pienamente confessati, non fanno che rendere il nostro cammino più difficile. Perciò Dio ha voluto che Agar ritornasse dalla sua padrona e mettesse al mondo un figlio, che non era il figlio della promessa, ma una prova per Abramo e la sua casa, come lo vedremo in seguito.

11.3 Si miete quello che si semina

Tutto questo deve essere considerato sotto un doppio punto di vista. In primo luogo come manifestazione d’un principio pratico di grande importanza; poi, sotto il punto di vista dottrinale.

In primo luogo impariamo che, quando per l’incredulità dei nostri cuori, siamo caduti in qualche sbaglio, non è in un momento e nemmeno per mezzo dei nostri espedienti che possiamo rimediarvi. Bisogna che le cose seguano il loro corso: «Quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà, perché chi semina per la propria carne, mieterà dalla carne corruzione, ma chi semina per lo Spirito, mieterà dallo Spirito vita eterna» (Gal. 6:7-8). Questo è un principio invariabile che incontriamo ovunque nella Scrittura e nella nostra propria storia.

Dio perdona il peccato e ristora l’anima; ma è necessario che raccogliamo quello che abbiamo seminato. Abramo e Sarai ebbero da sopportare per anni la presenza della serva e di suo figlio, e non poterono sbarazzarsi di loro se non al momento voluto da Dio.

Vi è una benedizione particolare nell’abbandonarci a Dio. Se Abramo e Sarai avessero fatto così nel caso che ci occupa, non sarebbero mai stati tormentati dalla presenza della serva e di suo figlio; ma poiché avevano fatto ricorso alla natura, bisognava che ne subissero le conseguenze. Sovente, ahimè, siamo come tori indomabili, mentre troveremmo la nostra felicità nel rimanere tranquilli «com’è quieto il bimbo divezzato sul seno di sua madre» (Salmo 131:2). Il toro indòmito rappresenta chi si dibatte follemente sotto il giogo delle circostanze, rendendo il suo giogo più doloroso ancora per gli sforzi che fa per liberarsene; un bimbo divezzato è invece l’immagine di chi curva umilmente il capo sotto ogni dispensazione e rende la sua sorte più piacevole coll’intera sottomissione del suo spirito.

Pedro

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11.4 I due patti

Dal punto di vista della dottrina, invece, siamo autorizzati a considerare Agar e il suo figlio come una figura del patto delle opere e di tutti quelli che per esso sono nati alla servitù. «Poiché sta scritto che Abramo ebbe due figliuoli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera; ma quello della schiava nacque secondo la carne; mentre quello della donna libera, nacque in virtù della promessa. Le quali cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono due patti; l’uno del monte Sinai, genera per la schiavitù, ed è Agar...» (Gal. 4:22-25).

In questo passo importante, «la carne» è messa in contrasto con «la promessa», e impariamo così qual è il pensiero di Dio, non soltanto sul significato della parola «carne» ma anche riguardo allo sforzo che fece Abramo per ottenere la progenie promessa per mezzo di Agar, invece di confidare nella «promessa» di Dio.

I due patti sono raffigurati da Agar e da Sarai e sono diametralmente opposti l’uno all’altro. L’uno partorisce per la servitù in quanto solleva la questione della capacità dell’uomo a fare o non fare, e fa dipendere la vita da questa capacità: «Chi avrà fatto queste cose, vivrà per mezzo di esse». È il patto di Agar. Ma il patto di Sara rivela Dio come l’Iddio della promessa, promessa interamente indipendente dall’uomo e fondata sul volere e sul potere di Dio per adempierla. Dio non mette nessun «se» alle sue promesse; le fa senza condizione ed è deciso di adempierle; e la fede fa assegnamento su Lui, in perfetta libertà di cuore.

Nessuno sforzo è necessario da parte della natura per l’adempimento delle promesse di Dio, ed è proprio a questo riguardo che Abramo e Sarai fallirono, tentando di raggiungere uno scopo che era loro stato assolutamente assicurato dalla promessa di Dio.

Così fa l’incredulità. Per la sua inquieta attività, solleva delle nuvole che avviluppano l’anima e impediscono ai raggi della gloria di Dio di raggiungerla. «E non fece quivi molte opere potenti a cagione della loro incredulità» (Matteo 13:58).

Uno dei caratteri distintivi della fede è quello di lasciare sempre a Dio il campo libero per la manifestazione di Se stesso, e, certamente, quando Dio si manifesta, il posto che si addice all’uomo è quello d’un felice adoratore.

L’errore nel quale i Galati si erano lasciati trascinare, consisteva nell’aggiungere qualcosa, che era della natura, a quello che Cristo aveva già compiuto sulla croce. L’Evangelo che Paolo aveva loro annunziato e che i Galati avevano ricevuto era la semplice presentazione della grazia di Dio, assoluta, senza riserva e senza condizione. Gesù Cristo crocifisso era stato «ritratto al vivo» davanti a loro (Gal. 3:1). Non si trattava solo d’una promessa di Dio, ma di una promessa divinamente e gloriosamente compiuta. Un Cristo crocifisso regolava tutto, riguardo ai diritti di Dio come ai bisogni dell’uomo; ma falsi dottori sconvolgevano, o cercavano di sconvolgere, tutto l’Evangelo di Cristo dicendo: «se voi non siete circoncisi secondo il rito di Mosè, non potete essere salvati» (Atti 15:1); e così, secondo la dichiarazione dell’apostolo stesso, «annullavano» la grazia di Dio, e Cristo «era morto invano» (Gal. 2:21).

O Cristo è un Salvatore perfetto, o non è affatto Salvatore. Dal momento che uno dice: «Se non siete questo o quello, non potete essere salvati», si sovverte totalmente l’Evangelo di Cristo, giacché questo evangelo fa conoscere Dio che scende fino a noi, tali quali siamo, peccatori colpevoli, miserabili e perduti per nostra colpa, e viene a noi con una piena remissione di tutti i nostri peccati e una piena liberazione del nostro stato di perdizione in virtù dell’opera compiuta da Lui stesso sulla croce. Perciò se qualcuno dice: «Dovete essere questo o quello per essere salvati», esso spoglia la croce di tutta la sua gloria e ci toglie tutta la nostra pace; poiché, se la salvezza dipende da ciò che siamo o da ciò che facciamo, siamo inevitabilmente perduti. Ma, Dio ne sia benedetto, non è così. Il grande principio fondamentale dell’Evangelo, è che Dio è tutto e l’uomo è nulla; non è un miscuglio di Dio e dell’uomo; tutto è di Dio. La pace che dà l’Evangelo non si basa in parte sull’opera di Cristo e in parte sull’opera dell’uomo, ma interamente e unicamente sull’opera di Cristo, perché quest’opera è perfetta per sempre e rende perfetti, com’essa è, tutti quelli che mettono la loro fiducia in essa.

Sotto la legge, Dio, per così dire, stava a vedere ciò che l’uomo avrebbe potuto fare, mentre nell’Evangelo vediamo Dio che opera e l’uomo che se ne sta tranquillo «per vedere la liberazione dell’Eterno» (2 Cron. 20:17). Stando così le cose: l’apostolo ispirato non esita a dire ai Galati: «Voi che volete essere giustificati per la legge, avete rinunziato a Cristo, siete scaduti dalla grazia» (Gal. 5:4). Se l’uomo ha qualcosa da fare nell’opera della salvezza, Dio è escluso; e se Dio è escluso, la salvezza è impossibile, poiché è impossibile che l’uomo possa operare la propria salvezza per mezzo della cosa stessa che lo dichiara perduto. Se dunque la salvezza è una questione di grazia, bisogna che tutto sia grazia. Non può essere metà grazia e metà legge; i due patti sono perfettamente distinti. Deve essere Sara o Agar; se è Agar, Dio resta fuori, se è Sara, l’uomo rimane fuori ed è così dal principio alla fine.

La legge s’indirizza all’uomo; lo mette alla prova; manifesta quale è veramente il suo valore, dimostra che egli è scaduto, lo pone e lo tiene sotto maledizione fin tanto che egli ha da fare con essa, cioè fin tanto che vive. «La legge signoreggia l’uomo per tutto il tempo che egli vive» (Rom. 7:1), ma quando è morto la sua autorità cessa nei suoi confronti (ved. Rom. 7:1 a 6; Gal. 2:19; Coloss. 2:20; 3:3). L’Evangelo invece, affermando che l’uomo è perduto, scaduto e morto, rivela Dio come Salvatore di quelli che sono perduti, Colui che perdona i colpevole e che vivifica i morti; non ci presenta Dio che esige qualcosa dall’uomo (poiché che cosa ci si potrebbe aspettare da un uomo morto e fallito?) ma Dio che manifesta la sua libera grazia in redenzione.

La differenza fra i due patti, quello della legge e quello della grazia, è dunque immensa, e fa comprendere la forza straordinaria del linguaggio dell’apostolo nell’epistola ai Galati: «Io mi meraviglio»; — «O Galati insensati, chi vi ha ammaliati?»; — «Io temo per voi»; — «sono perplesso riguardo a voi». — «O fossero pur recisi coloro che vi turbano!».

Tale è il linguaggio dello Spirito Santo che conosce il valore di Cristo, d’una salvezza perfetta e che sa quanto la conoscenza dell’uno e dell’altra è necessaria a un peccatore perduto. Non ritroviamo questo linguaggio in nessun’altra epistola, nemmeno in quella ai Corinzi, benché vi fossero fra loro dei disordini da reprimere. Ogni sbaglio, ogni errore dell’uomo possono essere corretti introducendo la grazia di Dio; ma i Galati, come Abramo nel nostro capitolo, si allontanavano da Dio e ritornavano alla carne. Che rimedio trovare per un caso simile? Come correggere un errore che consiste nell’abbandonare quello che solo può portare rimedio a tutto? Scadere nella grazia, vuol dire ritornare alla legge dalla quale non si può raccogliere che la «maledizione».

Voglia Iddio raffermarci nella sua meravigliosa grazia!


12. Capitolo 17: Abramo diventa Abrahamo — Sarai diventa Sara

12.1 L’alleanza di Dio con Abrahamo

Questo capitolo ci fa vedere come Iddio rimedia al fallo di Abramo. «Quando Abramo fu d’età di novantanove anni l’Eterno gli apparve e gli disse: Io sono l’Iddio onnipotente; cammina alla mia presenza e sii integro» (*). Questo passo ha un significato di grande importanza. È evidente che allorquando Abramo acconsentì all’espediente di Sarai riguardo ad Agar non camminava nella presenza dell’Iddio Onnipotente. Solo la fede ci rende capaci di vivere liberamente davanti alla faccia dell’Onnipotente, mentre l’incredulità introduce sempre l’io, le circostanze, le cose secondarie, e ci priva così della gioia, della pace, della serenità e della santa dipendenza, che sono la parte di chi si appoggia unicamente sul braccio dell’Onnipotente.

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(*) Quando Abrahamo è chiamato ad essere «perfetto» (questa è l’esatta traduzione del termine reso con «integro» nella versione italiana) non significa che egli dovesse essere perfetto in se stesso, cosa che è ed è sempre stata impossibile, ma semplicemente perfetto quanto all’oggetto delle sue affezioni; la sua speranza doveva essere perfettamente e completamente rivolta sull’«Iddio onnipotente».

Il termine «perfetto» è adoperato nel Nuovo Testamento in almeno quattro diversi significati. In Matt. 5:48 leggiamo: «Voi dunque siate perfetti, com’è perfetto il Padre vostro celeste». Impariamo dal contesto che «perfetto» si riferisce qui al principio che deve regolare il nostro cammino, poiché poco più su, nello stesso capitolo, leggiamo: «Anche i vostri nemici... affinché siate figliuoli del vostro Padre che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Vuole dunque dire: agire verso tutti, anche verso chi ci ingiuria e ci fa del male, in base a un principio di grazia. Un cristiano che sporga querela o faccia causa per difendere i propri diritti, non è «perfetto come il suo Padre», poiché suo Padre agisce in grazia e non in giustizia come lui. Non si tratta di sapere se è giusto o non sporgere querela o entrare in causa con quelli del mondo (per quanto riguarda i fratelli 1 Cor. 6 è categorico); vogliamo solo rilevare che un cristiano che agisce così si troverebbe in aperta opposizione col carattere del suo Padre, poiché suo Padre non è in «causa» col mondo: non siede attualmente su un trono di giudizio, ma su un trono di misericordia e di grazia. Egli spande benedizioni su coloro che già sarebbero condannati se fossero chiamati in giudizio.

È dunque evidente che un cristiano che citasse un uomo in tribunale non sarebbe «perfetto» come il suo Padre che è nel cielo.

La parabola alla fine di Matteo 18 ci insegna che quei che vogliono mantenere i propri diritti, non conoscono né il vero carattere né gli effetti della grazia. Quel servo non era ingiusto reclamando ciò che gli spettava, ma era spietato. Differiva completamente dal suo signore. Diecimila talenti gli erano stati condonati, e tuttavia era capace a strangolare il suo conservo per cento miseri denari! Con che risultato? Fu consegnato in mano agli aguzzini; aveva perso il sentimento benedetto della grazia e dovette raccogliere i frutti amari della sua insistenza nel difendere i propri diritti, quando egli stesso era un oggetto della grazia. Notate ch’egli è chiamato «malvagio servitore» non perché aveva un debito di diecimila talenti, ma perché non aveva condonato i «cento denari»! C’era grazia sufficiente nel padrone per rimettere diecimila talenti, ma il servitore non ne aveva abbastanza per rimettere i cento denari. Questa parabola è un richiamo solenne per tutti i cristiani che citano in tribunale; benché nella conclusione sia detto: «Così vi farà anche il Padre mio celeste se ognun di voi non perdona di cuore al proprio fratello», il principio, tuttavia, ha un’applicazione generale e ci dimostra che colui che ha fatto ricorso alla giustizia ha perduto il sentimento della grazia.

Il cap. 9 agli Ebrei ci presenta un’altra accezione del termine «perfetto» e qui ancora è il contesto a stabilirne il senso. Si tratta della perfezione «quanto alla coscienza» (v. 9) e l’uso di quella parola è di grande importanza. L’adoratore, sotto la legge, non poteva mai avere una coscienza perfetta, per il semplice motivo che non possedeva mai un sacrificio perfetto. Il sangue d’un toro o d’un becco non poteva togliere i peccati e il valore ch’esso aveva era per un tempo e non per l’eternità: non poteva, dunque, rendere perfetta la coscienza. Ma, il più debole credente ha il privilegio d’avere una coscienza perfetta. E perché? È forse migliore dell’adoratare sotto la legge? Certamente no, ma possiede un sacrificio migliore. Se il sacrificio di Cristo è perfetto, se lo è per sempre, la coscienza del credente è perfetta, per sempre (Ebrei 9: 9-14, 25-26; 10:14). Il cristiano che non ha una coscienza perfetta, disonora il sacrificio di Cristo; è come se dicesse che quel sacrificio non ha abolito il peccato e che i suoi effetti sono temporali, non eterni; non è forse abbassare il sacrificio di Cristo al livello di quelli dell’economia mosaica? È necessario distinguere bene la perfezione nella carne e quella nella coscienza. Pretendere di avere la prima, vuol dire esaltare l’io; rigettare l’ultima è disonorare Cristo. Il figliuolo di Dio in Cristo, dovrebbe avere una coscienza perfetta: mentre Paolo non possedeva e non riusciva a possedere la perfezione nella carne. La carne non è mai presentata nella Scrittura come qualcosa che debba essere perfezionata, bensì crocifissa. La differenza è enorme. Il cristiano ha del peccato in sè ma non su di sè. Perché? Perché Cristo, che in se stesso non ebbe mai il peccato, lo ebbe su di sè quando fu inchiodato alla croce.

Per finire, al cap. 3 dell’epistola ai Filippesi, troviamo un altro significato del termine «perfetto». L’apostolo dice: «Non ch’io abbia già attenuto il premio o che sia già arrivato alla perfezione», e subito dopo: «Sia questo dunque il sentimento di quanti siamo perfetti» (la versione italiana traduce, inesattamente, «maturi»). Nel primo passo, «la perfezione» si riferisce alla piena ed eterna conformità dell’apostolo con Cristo nella gloria, nel secondo, al fatto che Cristo è l’oggetto esclusivo dei nostri cuori.
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Ponderiamolo bene: Dio non può essere per le nostre anime quella costante realtà che dovrebbe essere e sarebbe per noi se non camminiamo con una fede più semplice e una dipendenza più completa da Lui.

«Cammina alla mia presenza». La vera potenza consiste nel camminare nella presenza dell’Iddio Forte. Camminare così, significa non aver nulla davanti al cuore all’infuori che Lui. Se ci riposiamo sulla creatura, non camminiamo davanti a Dio ma davanti agli uomini. Perciò è importante sapere dinanzi a chi si cammina e con quali propositi. A chi guardo, e su chi m’appoggio in questo momento? È Dio stesso che riempie interamente il mio avvenire? Fino a che punto gli uomini e le cose vi trovano posto? Il solo modo per elevarsi al disopra del mondo è camminare per fede, poiché la fede riempie la scena di Dio, e lo fa in modo tale che non vi rimane posto né per la creatura né per il mondo. Se Iddio riempie tutto il moi campo visuale, ogni altro oggetto sparisce, e posso dire col salmista: «Anima mia, acquietati in Dio solo, poiché da lui viene la mia speranza. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza, egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso» (Salmo 62:5-6). L’uomo non parla così; non già che voglia escludere interamente Dio (a meno che non sia sotto l’influenza diretta d’uno scetticismo audace ed empio), ma il suo sguardo e la sua aspettativa saranno sempre rivolti a più oggetti; non può dire «Egli solo»

È da notare che Dio non condivide la sua gloria con la creatura, né nei particolari della nostra vita giornaliera, né nella questione della salvezza. Dal principio alla fine deve essere Lui solo e soltanto lui. Non basta che dipendiamo da lui a parole, mentre in effetti il cuore riposa sulla creatura. Dio porterà tutto alla luce, proverà il cuore e porrà la fede nella fornace.

«Cammina alla mia presenza e sii integro». Tale è la via che conduce al vero scopo. Quando, per mezzo della grazia, l’anima cessa di confidarsi nella creatura, solo allora è nella disposizione voluta perché Dio possa agire; e quando Dio agisce, tutto va bene. Non lascia nulla di incompleto; regola perfettamente tutto ciò che riguarda quelli che mettono in Lui la loro fiducia. Quando la sovrana sapienza, l’onnipotenza e l’amore infinito di Dio operano insieme, il credente può godere d’un dolce riposo. A meno che potessimo trovare una circostanza troppo grande o troppo piccola per «l’Iddio Onnipotente», allora avremmo motivo per preoccuparci!

Questa è una verità benedetta e atta a porre tutti quelli che credono nella beata posizione nella quale troviamo Abramo in questo capitolo. Dal momento che Dio gli ebbe detto esplicitamente «abbandonami tutto ed io provvederò a tutto, al di là dei tuoi più cari desideri e delle tue più care speranze la progenie», l’eredità e tutto ciò che ne deriva furono perfettamente ed eternamente assicurate secondo il patto dell’Iddio Onnipossente.

Allora «Abramo cadde sulla sua faccia» (vers. 3). Beata posizione! La sola che si addica a un peccatore debole, a un uomo nudo e da nulla, davanti all’Iddio vivente, creatore dei cieli e della terra, possessore di ogni cosa, «l’Iddio Onnipotente».

«E Dio gli parlò». Quando l’uomo è nella polvere, Dio può parlargli in grazia. La posizione che Abramo prende qui, è l’espressione dell’abbassamento completo nella presenza di Dio: sta davanti a Lui nel sentimento della propria debolezza e della propria nullità e questo abbassamento è il sicuro precursore della rivelazione di Dio stesso all’anima sua. Quando la creatura prende questo posto davanti a Lui, Egli può manifestare ciò che è, in tutta la gloria della sua persona. Dio non darà la sua gloria ad un altro. Egli può rivelarsi e permettere all’uomo di adorare in presenza di questa rivelazione, ma finché l’uomo non prende il posto che gli compete, Dio non può mettere in evidenza quello ch’Egli è.

Che differenza nella posizione di Abramo in questi due capitoli! In uno, è la natura che gli è davanti, nell’altro è la presenza dell’Iddio Onnipotente. Là egli agisce, qui adora; là fa ricorso ai propri espedienti e a quelli di Sarai, qui si abbandona con tutto quello che lo riguarda nelle mani di Dio e gli permette di agire, in lui, per lui e per mezzo di lui. Perciò Dio può dire: «Io farò», «Io ti stabilirò », «Io ti darò», «Io ti benedirò». In una parola, Dio solo e la sua opera sono in causa e in questo sta il vero riposo del cuore che ha imparato a conoscersi un poco.

Pedro

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12.2 La circoncisione

Ora è introdotto il patto della circoncisione. Ogni membro della famiglia della fede deve portare nella sua carne il segno del suo patto.

«Questo è il mio patto che voi osserverete,... ogni maschio fra voi sia circonciso. Quello nato in casa tua e quello comprato con denaro dovrà essere circonciso; e il mio patto nella vostra carne sarà un patto perpetuo. E il maschio incirconciso, che non sarà stato circonciso nella sua carne, sarà reciso di fra il suo popolo: egli avrà violato il mio patto» (vers. 9-14). Il cap. 4 dell’Epist. ai Romani ci insegna che la circoncisione era il «suggello della giustizia della fede» (vers. 11). «Abrahamo credette Dio, e ciò gli fu messo in conto di giustizia». Essendo così considerato giusto, Dio mette il suo «suggello» su di lui.

Il suggello per mezzo del quale il credente è ora suggellato, non è un segno nella carne, come allora, ma è quello Spirito Santo di Dio col quale è stato suggellato per il giorno della redenzione (Efesi 4:30). Questo è fondato sull’eterna relazione che il credente ha con Cristo e sulla sua perfetta identificazione con Lui nella morte e nella risurrezione come è scritto (Col. 2:10-13): «In Lui avete tutto pienamente; egli è il capo di ogni principato e di ogni potestà; in Lui siete anche stati circoncisi d’una circoncisione non fatta di mano d’uomo, ma della circoncisione di Cristo, che consiste nello spogliamento del corpo della carne, essendo stati con lui sepolti nel battesimo, nel quale siete anche stati risuscitati con lui, mediante la fede nella potenza di Dio che ha risuscitato Lui d’infra i morti. E voi che eravate morti nei falli e nella incirconcisione della vostra carne, voi dico, egli ha vivificati con Lui, avendoci perdonati tutti i falli». Questo magnifico passo c’insegna il vero significato della circoncisione. Ogni credente appartiene alla circoncisione in virtù della sua associazione vivente con Colui che, per mezzo della croce, ha per sempre abolito tutto quello che si opponeva alla piena giustificazione della sua Chiesa.

Non vi è una sola macchia di peccato sulla coscienza dei suoi, né un principio di peccato nella loro natura, di cui Cristo non abbia portato il giudizio sulla croce; ora i credenti sono considerati come morti con Cristo, come essendo stati messi nel sepolcro con Lui, e risuscitati con Lui, resi gradevoli a Dio in Lui; i loro peccati, le loro iniquità, le loro trasgressioni, la loro inimicizia, la loro incirconcisione, sono stati completamente tolti alla croce. La sentenza di morte è segnata sulla carne; ma il credente possiede una vita nuova unita al Capo risuscitato nella gloria.

Nel passo che abbiamo citato, l’apostolo ci insegna che la Chiesa è uscita vivificata dalla tomba di Cristo; inoltre, che il perdono dei peccati della Chiesa è tanto perfetto ed è così interamente opera di Dio, quanto lo è la risurrezione di Cristo d’infra i morti. Ora questo fu, come sappiamo, il risultato dell’intervento della eccellente grandezza della «forza di Dio» [oppure: «l’immensità della sua potenza»] (Efesi 1:19). Che espressione energica per descrivere la grandezza e la gloria della redenzione, come pure il solido fondamento sulla quale essa riposa!

Che riposo, che perfetto riposo, il cuore e la coscienza trovano qui! Che liberazione completa per un’anima stanca e aggravata! Tutti i nostri peccati sono seppelliti nella tomba di Cristo; nemmeno uno, fosse anche il più piccolo, è rimasto fuori! Dio ha fatto questo per noi! Tutto ciò che l’occhio suo penetrante ha potuto scorgere in noi, Egli l’ha posto sul capo di Cristo quando era sulla croce! Fu allora che su quella croce Iddio giudicò Cristo, invece di giudicare noi per sempre e precipitarci nelle pene dell’inferno! Tali sono i preziosi frutti dei consigli meravigliosi, insondabili ed eterni dell’amore redentore. Siamo suggellati, non già d’un suggello esterno, nella carne, ma dallo Spirito Santo. Tutta la famiglia della fede è suggellata da questo suggello. Il valore e l’immutabile efficacia del sangue di Cristo sono tali che lo Spirito Santo, la terza persona dell’Eterna Trinità, può fare la propria dimora in ciascuno di quelli che hanno messo la loro fiducia in essi.

Che rimane dunque da fare a coloro che sanno queste cose, se non rimanere «fermi, incrollabili, abbondanti sempre nell’opera del Signore»? Oh, Signore, fa’ che possa essere così di noi, per la tua grazia e per la potenza del tuo Spirito Santo!

Pedro

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13. Capitolo 18: Visita dei messaggeri celesti a Abrahamo

13.1 Comunione con il Signore

Questo capitolo ci offre un bell’esempio dei risultati di una vita di separazione e di obbedienza: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l’amerà, e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui» (Giov. 14:23). Questo passo messo in rapporto col contenuto del capitolo che ci occupa, ci mostra che il genere di comunione di cui gode un’anima obbediente è assolutamente sconosciuto da chi si muove in un’atmosfera mondana.

Ma questo non tocca in nessun modo la questione del perdono e della giustificazione. Tutti i credenti sono rivestiti della medesima veste di giustizia. Sono tutti posti davanti a Dio, sotto una sola e unica giustificazione. La stessa vita scende dalla Testa che è nel cielo, e si spande in tutti i membri sulla terra.

Questa importante dottrina, sviluppata a più riprese già nelle pagine precedenti, è stabilita nel modo più chiaro nelle Scritture. Ma dobbiamo ricordare che la giustificazione e i frutti della giustificazione sono due cose del tutto diverse. Essere un figlio è una cosa: essere un figlio obbediente è un’altra. Un padre ama un figlio obbediente e farà di lui il depositario dei suoi pensieri e dei suoi piani. Non ne sarebbe forse così del nostro Padre celeste? Le parole del nostro Signore (in Giov. 14:23-24) lo mettono fuori dubbio, e, inoltre, dimostrano che pretendere di amare Cristo e non «osservare la sua Parola» è ipocrisia: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Se dunque non osserviamo la sua parola, è la prova evidente che non camminiamo nell’amore del nome di Cristo. Il nostro amore per Cristo si manifesta nel fare le cose che Egli ci ha comandato, e non nel dire: «Signore, Signore!». A che serve dire «Vado, Signore», mentre in cuore non ci sognamo nemmeno di andare? (Parag. Matteo 21:28-32).

Benché Abramo sia caduto in alcuni errori, vediamo nondimeno in lui qualcuno che, tutto sommato, si distingue con un cammino di comunione con Dio elevato, autentico, intimo e che, nella parte della sua storia che meditiamo in questo momento, gode di tre privilegi particolari: offrire a Dio qualcosa che gli è grato, essere in piena comunione con Lui e intercedere per gli altri davanti a Dio. Sono questi altrettanti privilegi gloriosi che accompagnano un cammino santo, una vita di separazione e di obbedienza.

L’obbedienza è piacevole a Dio, perché è il frutto della sua propria grazia nel nostro cuore. Il solo uomo perfetto che sia mai esistito era ubbidiente e faceva le delizie del Padre: a più riprese Dio gli rese testimonianza dal cielo dicendo: «Questo è il mio diletto Figliuolo nel quale mi sono compiaciuto» (Matt. 3:17).

La vita di Cristo sulla terra era un soggetto di gioia continua per il cielo; tutte le sue vie facevano salire del continuo una fragranza d’incenso al trono di Dio. Dalla mangiatoia alla croce, Egli ha sempre fatto le cose che piacevano al Padre. Non vi erano, nelle sue vie, né interruzioni, né variazioni, né punti salienti. Egli fu il solo perfetto. In lui solo lo Spirito Santo ha potuto tracciare una vita perfetta quaggiù. Seguendo il corso della storia sacra troviamo, qua e là, un’anima che, occasionalmente, ha rallegrato il cielo. Così nel capitolo che ci occupa, troviamo lo straniero di Mamre nella sua tenda che offre all’Eterno ciò che può soddisfarlo. I doni sono offerti con amore e accettati con benevolenza.

Vediamo poi Abrahamo godere una comunione intima con l’Eterno; intercede presso di Lui prima per quel che lo riguarda personalmente (vers. 9-15) poi per gli abitanti di Sodoma (vers. 16 a 21). Quale conferma delle divine promesse furono per il cuore di Abramo le parole: «Sara avrà un figliuolo!». Pur tuttavia questa promessa non fece che produrre un sorriso in Sara, come aveva fatto per Abramo nel capitolo precedente.

Vi sono nella Scrittura due tipi di «sorrisi»; prima quello di cui l’Eterno riempie la bocca del suo popolo, allorché in un momento di grande prova, egli viene in suo aiuto in modo clamoroso: «Quando l’Eterno fece tornare i reduci di Sion, ci pareva di sognare. Allora la nostra bocca fu piena di sorrisi e la nostra lingua di canti d’allegrezza; allora fu detto fra le nazioni: L’Eterno ha fatto cose grandi per noi» (Salmo 126:1-3). C’è poi il riso dell’incredulità, quando le promesse di Dio sono troppo gloriose per essere ricevute nei nostri cuori stretti, oppure quando i mezzi esterni di cui Dio si serve sono, a nostro giudizio, troppo piccoli per l’adempimento dei suoi grandi disegni. Non vergognamoci del primo di questi sorrisi e non temiamo di confessarlo. I figliuoli di Sion non hanno vergogna di dire: «Allora la nostra bocca fu piena di sorrisi». Ridiamo di tutto cuore, quando è il Signore che ci fa ridere. «Ma Sara (quando ebbe riso) lo negò dicendo: non ho riso, perché ebbe paura ». L’incredulità fa di noi dei vili e dei bugiardi; la fede ci dà ardire e ci rende sinceri; ci rende capaci di «accostarci con fiducia» e «di vero cuore» (Ebrei 4:16; 10:22).

13.2 La rivelazione dei disegni di Dio

Ma vi è di più: Dio fa di Abramo il depositario dei suoi pensieri e dei suoi disegni riguardo Sodoma, poiché, benché Sodoma non interessi direttamente Abrahamo, egli è abbastanza vicino a Dio e Dio lo può mettere a conoscenza dei suoi segreti disegni riguardo questa città.

Se vogliamo conoscere le intenzioni di Dio in merito alla sorte del presente malvagio secolo, dobbiamo essere interamente separati da esso e non prendere nessuna parte ai suoi progetti e alle sue speculazioni. Più ci terremo vicini a Dio, più saremo sottomessi alla sua Parola e meglio anche conosceremo i suoi pensieri in ogni cosa. Non abbiamo bisogno di leggere i giornali per sapere ciò che sta per accadere al mondo: la Scrittura ci rivela tutto quello che concerne il carattere, il corso e il destino di questo mondo. Se invece ricorriamo agli uomini per istruirci in queste cose, Satana se ne servirà per ingannarci e impedirci di vedere. Se Abrahamo fosse andato in Sodoma per mettersi al corrente di ciò che vi accadeva e si fosse indirizzato a qualcuno dei suoi capi più intelligenti per sapere quale era il suo pensiero intorno allo stato di Sodoma e le sue prospettive per l’avvenire, che cosa gli avrebbe egli risposto? Senza dubbio avrebbe diretto l’attenzione di Abrahamo sulle imprese agricole e architettoniche dei suoi concittadini e sulle immense risorse del paese; avrebbe fatto passare davanti a lui tutta una scena di attività febbrile: acquisti, vendite, costruzioni, piantagioni, banchetti. Questi uomini di Sodoma non avrebbero nemmeno sognato un giudizio; e se qualcuno ne avesse parlato, avrebbe suscitato sulle loro labbra il riso dell’incredulità.

È evidente che non era a Sodoma che bisognava andare per sapere quale sarebbe stata la fine di questa città. Il luogo dove Abrahamo «s’era prima fermato davanti all’Eterno» (Gen. 19:27) era il solo da cui lo sguardo poteva abbracciare tutta la scena. Quivi Abrahamo dominava tutte le nubi che, si accumulavano sopra Sodoma. Nella serenità e nella calma della presenza di Dio, tutto era diventato chiaro per lui, per mezzo della rivelazione stessa di Dio.

Pedro

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13.3 L’intercessore

Che uso fece Abrahamo di ciò che Dio gli aveva rivelato e della beata posizione di cui godeva? Di che cosa era occupato nella presenza di Dio? Intercedere per gli altri davanti all’Eterno! Ed è questo il terzo privilegio concesso ad Abrahamo in questo capitolo. Abrahamo poteva intercedere per coloro che si trovavano mescolati al popolo corrotto di Sodoma ed erano in pericolo di essere coinvolti nel terribile giudizio di questa città colpevole.

Come accade sempre in casi simili, Abrahamo fece buon uso della sua posizione vicino a Dio. L’anima che può avvicinarsi a Dio «in piena certezza di fede», avendo il cuore e la coscienza perfettamente in pace, riposandosi su Dio per il passato, per il presente e per l’avvenire, sarà anche in grado di intercedere per gli altri e intercederà per essi. Chi ha rivestito l’armatura completa di Dio può pregare «per tutti i santi». (Efesini 6:18); e, sotto tutti gli aspetti, questo ci fa intravedere l’intercessione del «nostro gran Sommo Sacerdote che è passato attraverso i cieli» (Ebrei 4:14)! Che riposo infinito egli trova in tutti i consigli divini, nella coscienza piena e perfetta della sua accettazione! Egli siede sul trono del Padre, fra lo splendore della gloria, intercedendo, davanti alla Maestà, per coloro che sono in mezzo alle pene e alle contaminazioni della presente scena. Quanto sono felici e sicuri i beati oggetti della sua intercessione onnipotente! Piacesse a Dio che i nostri cuori fossero meglio penetrati del valore di tale privilegio; e aperti da una personale comunione con Dio, potessero capire meglio l’infinita pienezza della sua grazia efficace e della sua provvidenza in tutti i nostri bisogni!

Vediamo in questo passo che, per quanto benedetta potesse essere l’intercessione di Abrahamo, essa era tuttavia limitata, perché l’intercessore non era che un uomo; non arrivava all’altezza del bisogno. Abrahamo dice: «Parlerò solo ancora una volta», poi si ferma, come se temesse di aver presentato, al tesoro della grazia, una tratta troppo considerevole o come se dimenticasse che l’assegno della fede è sempre stato onorato alla banca di Dio. Non che Iddio lo tenesse allo stretto; vi era abbondanza di grazia e di pazienza in Lui per ascoltare le richieste del suo caro servitore, se avesse perseverato ad intercedere per amore di tre o anche di un solo giusto; ma è il servitore stesso che fa difetto. Teme di oltrepassare l’ammontare del suo credito; cessa di domandare e Dio cessa di dare. Non è cosi del nostro benedetto intercessore: di Lui si può dire: «Può salvare appieno... vivendo Egli sempre per intercedere» (Ebrei 7:25). Possiamo noi attaccarci a Lui in tutti i nostri bisogni, nelle nostre debolezze e nelle nostre lotte!

13.4 Gli eventi futuri e la speranza della Chiesa

Prima di terminare questo capitolo, vorrei fare una riflessione. Quando si studiano le Scritture, è molto importante distinguere fra il governo morale di Dio riguardo al mondo, e la speranza particolare della Chiesa. Tutte le profezie dell’Antico Testamento e gran parte di quelle del Nuovo, trattano del governo morale di Dio sul mondo e offrono così al credente un soggetto di studio di grande interesse. È infatti interessante sapere ciò che Dio fa e farà riguardo a tutte le nazioni della terra; leggere i suoi pensieri in merito a Tiro, a Babilonia, a Ninive, a Gerusalemme, riguardo all’Egitto, all’Assiria e al paese d’Israele. Ma ricordiamoci che queste profezie non trattano della speranza particolare della Chiesa, poiché, se l’esistenza stessa della Chiesa non vi è rivelata in modo diretto, come potrebbe esserlo la sua speranza?

Ciò non significa che le profezie dell’Antico Testamento non contengano una ricca messe di principi divini e morali di cui la Chiesa può far profitto, ma questo è tutt’altra cosa che trovare in esse la sua esistenza e la sua specifica speranza. Pur tuttavia, gran parte di queste profezie sono state applicate alla Chiesa e si è tanto oscurato e ingarbugliato il soggetto, che le menti semplici sono state distolte dal suo studio pur così pieno d’insegnamenti, e indotte a trascurare anche il soggetto che ne è del tutto distinto: la Speranza della Chiesa. Questa speranza, è ovvio ripeterlo, non ha nessun rapporto con ciò che riguarda le vie di Dio verso le nazioni, ma consiste nell’andare incontro al Signore Gesù nell’aria, per essere sempre con Lui e come Lui (veci. 1 Tess. 4:13 e seg.).

Alcuni dicono purtroppo: «Non sono portato per lo studio della profezia». È possibile; ma avete voi un cuore per Cristo? Se amate Cristo, amerete anche la sua venuta, quand’anche foste incapaci di investigazioni profetiche. Una moglie che ama suo marito può mancare di capacità per entrare nei suoi affari, ma se egli è assente avrà il cuore occupato del suo ritorno; può non comprendere nulla del suo diario o dei suoi libri, ma riconosce il suo passo e distingue la sua voce. Il meno istruito fra i credenti, se ama la persona del Signore Gesù può nutrire il più intenso desiderio di vederlo, e tale è la speranza della Chiesa. L’apostolo poteva dire ai Tessalonicesi: «Vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire all’Iddio vivente e vero, e per aspettare dai cieli il suo Figliuolo» (1 Tess. 1:9-10). È evidente che al momento della loro conversione, i santi di Tessalonica avevano una conoscenza molto incompleta della profezia e del soggetto speciale di cui essa si occupa: eppure, fin d’allora, sono stati messi in possesso e posti sotto la potenza della speranza propria della Chiesa, che è di aspettare la venuta del Figliuolo. Ne è così da un capo all’altro del Nuovo Testamento; quivi anche troviamo delle profezie e il governo morale di Dio; ma un gran numero di passi ci provano che la speranza comune dei credenti dei tempi apostolici, era la venuta del Figliuolo di Dio, il ritorno dello Sposo.

Possa lo Spirito Santo far rivivere questa «beata Speranza» della Chiesa, radunare gli eletti, e «preparare al Signore un popolo ben disposto» (Luca 1:17).

Pedro

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19/04/2011 20:08
 
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14. Capitolo 19: La distruzione di Sodoma

14.1 Una posizione falsa

Il Signore, nella sua grazia, usa due metodi per distogliere il cuore dell’uomo dalle cose del mondo: prima rivela il prezzo e l’immutabilità delle cose che sono «in alto», poi fa conoscere la vanità e l’instabilità delle cose che sono «sulla terra» (Coloss. 3:1-2).

La fine del cap. 12 dell’epistola agli Ebrei ci offre un magnifico esempio di ognuno di questi metodi. Dopo aver stabilito la verità, che siamo venuti al monte di Sion e a tutte le gioie e a tutti i privilegi che vi si riallacciano, l’apostolo prosegue dicendo: «Guardate di non rifiutare colui che parla: perché, se quelli non scamparono quando rifiutarono Colui che rivelava loro in terra la sua volontà, molto meno scamperemo noi se voltiamo le spalle a Colui che parla dal cielo; la cui voce scosse allora la terra, ma che adesso ha fatto questa promessa: «Ancora una volta, farò tremare non solo la terra, ma anche il cielo». Or questo «ancora una volta», indica la rimozione delle cose scosse, come di cose fatte, onde sussistan ferme quelle che non sono scosse».

Ora, è meglio essere attirati dalle gioie del cielo che esservi spinti dai dispiaceri della terra. Il credente non dovrebbe aspettare che il mondo l’abbandoni per abbandonare il mondo; dovrebbe lasciare le cose della terra per mezzo della potenza della comunione con le cose che sono in alto. Quando per fede si è afferrato Cristo, non è difficile lasciare il mondo; la difficoltà starebbe piuttosto nel restare attaccati al mondo. Uno spazzino venuto in possesso, improvvisamente, d’una grande fortuna non continuerebbe il suo mestiere per molto tempo. Nello stesso modo, se afferriamo per la fede il valore e la realtà dei beni immutabili che sono nei cieli e la parte che in essi abbiamo, non avremo difficoltà ad abbandonare le gioie fittizie della terra.

Volgiamo ora la nostra attenzione sulla parte solenne della storia sacra alla quale siamo giunti. Lot è seduto «alla porta di Sodoma», ha fatto la sua strada nel mondo, ha avuto successo, umanamente parlando. Al principio, aveva rizzato le sue tende verso Sodoma; più tardi, entrò, probabilmente, fin nella città; ed ora, lo troviamo «seduto alla porta», nel posto dove stavano gli uomini influenti. Come tutto questo è diverso dalla scena che apre il capitolo precedente! La causa, caro lettore, è purtroppo evidente!: «Per fede, Abrahamo dimorò nella terra promessa come straniero dimorando sotto le tende». Nulla di simile è detto di Lot (*). Non si potrebbe dire: «Per fede, Lot sedette alla porta di Sodoma». Ahimè! Lot non ha nessun posto fra i nobili confessori della fede, quel «gran nuvolo» di testimoni della potenza della fede. Il mondo fu per lui un laccio, e le cose presenti la sua perdita. Egli non tenne fermo come «vedendo l’invisibile» (Ebrei 11:27). I suoi sguardi erano fissi «sulle cose che si vedono e che sono solo per un tempo», mentre gli sguardi di Abrahamo rimanevano attaccati «sulle cose che non si vedono e che sono eterne» (2 Cor. 4:18).

_____________________
(*) Sarebbe opportuno rivolgere questa domanda ai nostri cuori, in rapporto con quello che desideriamo intraprendere: È per fede che faccio questo? Tutto ciò che non è fatto per fede è peccato, e, «senza la fede è impossibile piacere a Dio».
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La differenza fra questi due uomini era immensa e, benché avessero incominciato il loro cammino insieme, giunsero ad un risultato del tutto diverso, per lo meno quanto alla loro testimonianza. Senza dubbio Lot fu salvato, ma lo fu «come attraverso il fuoco» (1 Cor. 3:15) poiché, «l’opera sua fu arsa». Abrahamo invece ottenne una ricca entrata nel regno eterno del nostro Signor Gesù Cristo (2 Pietro 1:11).

Non vediamo da nessuna parte che fu concesso a Lot di godere gli onori e i privilegi di cui fu onorato Abrahamo. Invece di ricevere, sotto la propria tenda, la visita del Signore, «si tormentava ogni giorno l’anima sua giusta» (2 Pietro 2:8); invece di godere della comunione del Signore, si trova ad una distanza desolante da Lui; invece di intercedere per gli altri, tutto quello che può fare è di intercedere per sè. Dio rimane con Abrahamo per comunicargli i suoi pensieri, mentre manda a Sodoma solo i suoi angeli, ed è a fatica che acconsentono ad entrare in casa di Lot e ad accettarne l’ospitalità: «No, — dicono essi — ma passeremo la notte sulla piazza». Che rimprovero! Come è diversa dalla risposta che il Signore diede ad Abrahamo dicendogli: «fa’ come hai detto».

Ricevere ospitalità da qualcuno è un atto molto significativo; è l’espressione di una intera comunione con colui dal quale la si riceve (Apoc. 3:20). «Se mi avete giudicata fedele al Signore, entrate in casa mia, e dimoratevi» (Atti 16:15).

La risposta che gli angeli fanno a Lot è dunque una condanna esplicita della posizione di Lot in Sodoma: preferiscono passare la notte sulla strada che entrare sotto il tetto di qualcuno che si trova in una falsa posizione. Difatti il loro unico scopo, recandosi a Sodoma, sembra essere la liberazione di Lot, e questo grazie ad Abrahamo, come è scritto: «Così avvenne che quando Dio distrusse le città della pianura, egli si ricordò di Abrahamo e fece partire Lot di mezzo al disastro, quando sovvertì le città in cui Lot aveva dimorato» (vers. 29). Questa dichiarazione prova che fu per amor di Abrahamo che Lot fu risparmiato.

Il Signore non simpatizza con un cuore mondano ed è quest’amore del mondo che indusse a Lot a stabilirsi in mezzo alla corruzione della criminale Sodoma. Non fu né la fede, né lo spirito del cielo, né «l’anima sua giusta», ma l’amore del presente secolo malvagio che trascinò Lot prima a «scegliere», poi «a rizzar le sue tende fino a Sodoma» e, infine, a sedersi «alla porta di Sodoma». Che scelta, ahimè! Una «cisterna screpolata», che non contiene acqua; «una canna rotta» che gli fora la mano (Geremia 2:13 e Isaia 34:6).

È cosa amara voler, in qualche maniera, governare se stesso; in questo modo, non si può far altro che commettere gli errori più gravi. È infinitamente meglio lasciare a Dio la cura di tracciarci la nostra via rimettendogli, come piccoli fanciulli, tutto quel che ci riguarda perché Egli è colui che vuol prendersi cura di noi secondo la sua sapienza e il suo amore infinito.

Senza dubbio, Lot credeva di far bene i suoi conti, e quelli della sua famiglia, andando a Sodoma; ma il seguito della sua storia prova come si fosse sbagliato e fa udire ai nostri orecchi un avvertimento solenne a vegliare sui primi movimenti dello spirito del mondo in noi, per non cedere ad esso. «Siate contenti delle cose che avete» (Ebrei 13:5). Perché? Forse perché state bene in questo mondo, o perché vi trovate tutto quello che il vostro povero cuore stravagante desidera, o perché non vi è nelle vostre circostanze, nessuna breccia che potrebbe suscitare in voi un desiderio? È forse questo che deve essere il fondamento della nostra contentezza? No, assolutamente no: ma perché Egli stesso ha detto: «Io non ti lascierò e non ti abbandonerò». Beata parte! Se Lot se ne fosse accontentato, non avrebbe mai ricercato la pianura ben irrigata di Sodoma.

Pedro

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