CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro della GENESI

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2011 20:27
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 14.2 Una testimonianza nulla

Se abbiamo bisogno ancora d’altri motivi per coltivare in noi la contentezza d’animo, li troveremmo in questo capitolo. Che cosa ha ottenuto Lot in fatto di felicità e di soddisfazione? Ben poco; gli uomini di Sodoma circondano la sua casa e minacciano di forzarne l’uscio; ed egli cerca invano di calmarli con la più umiliante delle proposte.

Bisogna che colui che si mescola al mondo in vista di ingrandirsi, si aspetti di subire le dolorose conseguenze della sua condotta. Non possiamo servirci del mondo per il nostro interesse e in seguito testimoniare efficacemente contro di lui. «Quest’individuo è venuto qua come straniero, e la vuol far da giudice!» (vers. 9). È impossibile. Non si può esercitare una efficace influenza sul mondo che tenendosi separati da esso, nella potenza morale della grazia, ben inteso, e non nell’orgoglio del farisaismo. Intraprendere di convincere il mondo di peccato rimanendogli associati, in vista del proprio interesse, è pura vanità; il mondo dà poca importanza ad una simile testimonianza e a simili riprensioni. Fu così della testimonianza di Lot verso i suoi generi: «Ma ai generi, parve che volesse scherzare» (vers. 14). È inutile parlare d’un giudizio che si avvicina fintanto che troviamo il nostro posto, la nostra parte e il nostro godimento nella scena stessa su cui il giudizio sta per cadere.

Abrahamo era in una posizione assai migliore per parlare di giudizio, poiché non era disceso nelle pianure di Sodoma e Sodoma poteva bruciare, senza che le tende dello straniero di Mamre fossero in pericolo!

Possano i nostri cuori ricercare con più ardore i frutti benedetti che sono la parte di coloro che professano di essere «stranieri e pellegrini sulla terra» invece di essere come il povero Lot, trascinati, con forza, fuori del mondo.

14.3 Il disastro completo

Lot, evidentemente, rimpiangeva il luogo che la mano degli angeli obbligava ad abbandonare, tanto che non solo quegli angeli dovettero afferrarlo e trascinarlo fuori da quel luogo su cui gravava l’imminente giudizio, ma, quando fu esortato a fuggire, per la sua vita (la sola cosa che poteva salvare dalla catastrofe) verso il monte, egli rispose: «No, mio Signore! ecco, il tuo servo ha trovato grazia agli occhi tuoi, e tu hai mostrato la grandezza della tua bontà verso di me, conservandomi in vita, ma io non posso salvarmi al monte prima che il disastro mi sopraggiunga, ed io perisca. Ecco questa città è vicina da potermi rifugiare, ed è piccola. Deh, lascia che io scampi quivi — non è essa piccola? — e vivrà l’anima mia!» (vers. 17-20).

Che quadro! Non assomiglia forse ad un uomo che annega e che tende la mano verso una piuma per aggrapparvisi? Benché l’angelo gli ingiunga di fuggire sul monte, egli rifiuta e si attacca ancora ad una «piccola città» ad un piccolo lembo di mondo. Teme di incontrare la morte nel luogo che la misericordia di Dio gli indica; paventa ogni sorta di male, e non vede speranza di salvezza che nella piccola città, un luogo di propria scelta. «Deh! lascia ch’io scampi quivi... e vivrà l’anima mia!». Ecco ciò che fa Lot invece di abbandonarsi interamente a Dio! Ahimè, egli aveva da troppo tempo camminato lontano da Dio, aveva troppo a lungo respirato la pesante atmosfera della città per poter apprezzare l’aria pura della presenza di Dio e appoggiarsi sul braccio dell’Onnipotente. L’anima sua è turbata, il suo nido terrestre era stato improvvisamente distrutto, e Lot non ha fede sufficiente per rifugiarsi nel seno di Dio. Non è vissuto in una comunione abituale col mondo invisibile, ed ora il mondo visibile gli sfugge. Il «fuoco e lo zolfo del cielo» stavano per cadere su tutte le cose sulle quali aveva concentrato le sue speranze e il suo affetto. Il ladro l’aveva sorpreso, e Lot sembra aver perso ogni energia spirituale e ogni potere su se stesso. Non ha più risorse morali e il mondo, che ha messo nel suo cuore profonde radici, lo domina e lo spinge a cercare rifugio in «una piccola città». Ma anche là, non si sente sicuro, e se ne va sul monte, riducendosi a fare, per paura, quello che aveva rifiutato di fare secondo il comandamento del messaggero di Dio.

E così, quale è la sua fine? Le sue figlie lo inebriano e nell’orribile stato in cui si trova, diventa l’inconscio generatore degli Ammoniti e dei Moabiti, nemici giurati del popolo di Dio.

Quante solenni istruzioni in tutto questo! Che commento è mai a questa storia di Lot, l’avvertimento così breve, ma di così grande importanza: «Non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo!» (1 Giov. 2:15).

Tutte le Sodoma e le Tsoar di questo mondo si rassomigliano; il cuore non trova in esse né sicurezza, né pace, né riposo, né soddisfazione durevole. Il giudizio di Dio è sospeso sopra tutta questa scena, e Dio solo nella sua lunga e misericordiosa pazienza, trattiene ancora la spada del giudizio, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti vengano a ravvedimento (2 Pietro 3:9).

Sforziamoci dunque di seguire una via santa, al di fuori del mondo e di tutto ciò che gli appartiene, nutrendoci e dilettandoci nella speranza del ritorno del nostro Maestro, affinché le pianure ben irrigate della terra non abbiano nessuna attrattiva per i nostri cuori, e possiamo considerare gli onori, le distinzioni e le ricchezze del mondo alla luce della gloria futura di Cristo; come Abrahamo, possiamo noi elevarci nella presenza del Signore e, vicini a Lui, vedere questa terra come un vasto campo di rovine e di desofazioni fumanti, poiché, effettivamente, tale sarà.

«La terra e le opere che sono in essa saranno arse» (2 Pietro 3:10). Tutte le cose per le quali i figliuoli di questo secolo si tormentano ricercandole con tanto ardore, per le quali combattono con tanto accanimento, tutte saranno interamente bruciate. E chi può dire quando? Dove sono Sodoma e Gomorra? Dove sono le città della pianura, una volta piene di vita, di attività, di movimento? Sono passate! Spazzate via dal giudizio di Dio, consumate dal fuoco e dallo zolfo del cielo! Ebbene, ora i giudizi di Dio sono sospesi su questo mondo colpevole. Il giorno è vicino: nell’attesa, la buona novella della grazia è annunziata a molti. Beati coloro che l’odono e credono questo messaggio; beati coloro che si mettono in salvo sulla roccia incrollabile della salvezza di Dio, che si rifugiano sotto la croce del Figliuolo di Dio e vi trovano perdono e pace!

Voglia il Signore dare a coloro che leggeranno queste righe di fare l’esperienza di ciò che significa aspettare il Figliuolo di Dio dal cielo con la coscienza purificata dal peccato e le affezioni purificate dalla influenza corruttrice di questo mondo!

Pedro

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15. Capitolo 20: Abrahamo a Gherar

15.1 Una mancanza seria

Questo capitolo ci presenta due cose distinte: la degradazione morale nella quale un figliuolo di Dio si lascia andare, talvolta, davanti al mondo e la dignità morale di cui è sempre caratterizzato agli occhi di Dio.

Abrahamo manifesta di nuovo quel timore delle circostanze che è tanto naturale anche a noi. Egli soggiorna in Gherar e teme gli uomini del paese; vedendo che Dio non è in mezzo a loro, dimentica che Egli è sempre con lui. Sembra più occupato degli abitanti di Gherar che di Colui che è più potente di loro tutti. Dimenticando che Dio è potente per proteggere Sara, ricorre alla medesima astuzia di cui aveva fatto uso in Egitto, parecchi anni prima.

Tutto questo contiene un serio avvertimento per noi. Il padre dei credenti è trascinato nel male perché ha distolto il suo sguardo da Dio. Abbandona per un tempo la sua attitudine di dipendenza da Lui e cede alla tentazione; è sempre vero che non siamo forti se non quando ci teniamo fermamente attaccati a Dio, nel sentimento della nostra totale debolezza. Nulla ci può nuocere, quando camminiamo nel sentiero da Lui ordinato. Se Abrahamo avesse semplicemente fatto assegnamento su Dio, gli uomini di Gherar non si sarebbero occupati di lui e avrebbe avuto il privilegio di giustificare la fedeltà di Dio in mezzo alle circostanze più difficili. Inoltre, avrebbe conservata la propria dignità come credente.

È doloroso vedere come i figliuoli di Dio disonorano facilmente il loro Padre, e di conseguenza, abbassano loro stessi davanti al mondo nelle loro circostanze. Fin tanto che realizziamo questa verità che: «tutte le fonti della mia gioia sono in te» (Salmo 87:7) dimoriamo al disopra del mondo sotto tutte le sue forme. Non vi è nulla che elevi tanto tutto il nostro essere morale, come la fede; essa ci trasporta fuori della portata dei pensieri del mondo, poiché come potrebbe l’uomo del mondo, oppure anche il credente mondano, comprendere la vita della fede? La sorgente alla quale questa vita si abbevera è inaccessibile per la loro intelligenza. Vivendo superficialmente, sono pieni di speranza e di fiducia fintanto che vedono ciò che stimano essere un fondamento ragionevole di speranza d’un Dio invisibile. Il credente, invece, rimane calmo in mezzo alle circostanze e agli avvenimenti nei quali la natura non vede nulla su cui possa riposarsi. Perciò la fede appare, alla natura umana, non curante, imprevidente e visionaria. Solo chi conosce Dio può approvare gli atti della fede, visto che solo lui è capace di comprendere i motivi solidi e veramente ragionevoli.

In questo capitolo vediamo l’uomo di Dio sotto la potenza dell’incredulità, esporsi, col suo modo di fare, alla riprensione e ai rimproveri del mondo. Non può essere diversamente poiché, come abbiamo detto, solo la fede comunica una vera nobiltà morale al carattere e alla condotta di un uomo. Si incontrano, è vero, delle persone d’un carattere per natura buono e onorabile, ma non ci si può fidare di queste virtù naturali; esse posano su un cattivo fondamento e sono soggette a cedere, da un momento all’altro, sotto la pressione delle circostanze. Solo la fede unisce l’anima in potenza vivente a Dio, unica sorgente di tutto ciò che è veramente morale.

Inoltre, ed è un fatto notevole, quando quelli che Dio ha misericordiosamente adottati si allontanano dal cammino della fede, essi cadono anche più in basso degli altri uomini. Troviamo in questo fatto la spiegazione della condotta di Abrahamo in questa parte della sua storia.

Ma facciamo qui un’altra scoperta: Abrahamo aveva, per molti anni, serbato dell’interdetto nel suo cuore; a quanto pare, era partito per la sua missione di fede tenendo in serbo nel suo cuore, una certa mancanza di fiducia in Dio. Se avesse saputo confidare pienamente in Dio riguardo a Sara, non avrebbe avuto bisogno di ricorrere a un sotterfugio e a riserve mentali: l’Eterno avrebbe protetto Sara da ogni male. E chi potrebbe nuocere a coloro che sono sotto la protezione di Colui che non sonnecchia mai?

Tuttavia, per grazia, Abrahamo è condotto a scoprire la radice di tutto questo male, a giudicarlo a fondo e a sbarazzarsene; e, infatti, non vi può essere né benedizione, né potenza fintanto che ogni rimasuglio di questo lievito non è stato scoperto e calpestato nella luce. La pazienza di Dio è instancabile; egli aspetta, sopporta, ma non innalza mai un’anima all’apice della benedizione e della potenza, fin tanto che serba in sè un rimasuglio di male, conosciuto e non giudicato.

Così fu riguardo Abimelec e Abrahamo. Consideriamo ora la dignità morale di quest’ultimo agli occhi di Dio.

15.2 Come Dio vede i suoi

Se si considera la storia dei figliuoli di Dio, sia come un tutto sia individualmente, si rimane colpiti dalla differenza che esiste fra ciò che essi sono agli occhi di Dio e ciò che sono agli occhi degli uomini. Dio vede i suoi in Cristo, li vede attraverso la persona di Cristo; in modo che sono davanti a Lui «senza macchia né ruga né cosa alcuna simile». Nella loro posizione, sono davanti a Dio, quale Cristo è. «Non sono nella carne, ma nello Spirito» (Efesi 5:27; 1:4-6; 1 Giov. 4:17; Rom. 8:9).

In loro stessi, sono esseri poveri, deboli, imperfetti, soggetti all’errore e ad ogni sorta d’incoerenza, ed è appunto perché il mondo prende conoscenza di ciò che sono in loro stessi, e di questo solo, che la differenza appare così grande fra la divina e l’umana stima a loro riguardo.

Ma a Dio appartiene la prerogativa di manifestare la bellezza, la dignità e la perfezione del suo popolo; a Lui solo, perché è Lui che ha dispensato ai suoi tutte queste cose. Non hanno alcuna bellezza se non quella di cui lui stesso li ha dotati; quindi non appartiene che a lui il proclamare cosa sia quella bellezza, e lo fa in un modo degno di se stesso, e in modo tanto più glorioso in quanto il nemico vorrebbe ingiuriare, accusare e maledire. Così, quando Balac cercò di maledire la progenie di Abramo, l’Eterno disse: «Io non scorgo iniquità in Giacobbe, non vedo perversità in Israele». «Come son belle le tue tende, o Giacobbe, le tue dimore o Israele» (Numeri 23:21; 24:5). E ancora, quando Satana stava in piedi alla destra di Giosuè per accusarlo, l’Eterno gli disse: «Ti sgridi l’Eterno, o Satana, ti sgridi l’Eterno... non è questo un tizzone strappato dal fuoco?» (Zacc. 3:1-2).

Il Signore si interpone sempre fra i suoi ed ogni lingua che si innalza per accusarli. Non risponde all’accusa tenendo conto di quello che essi sono in loro stessi, o di ciò che sono agli occhi del mondo, ma tenendo conto di ciò che Egli li ha fatti essere e della posizione in cui li ha posti.

È così di Abrahamo che perde la sua dignità agli occhi di Abimelec re di Gherar, e Abimelec lo riprende; ma quando Dio si leva in suo favore, dice ad Abimelec: «Tu sei un uomo morto!» e di Abrahamo dice: «Egli è profeta e pregherà per te» (vers. 3-7). Nonostante tutta «l’integrità del suo cuore e la purezza delle sue mani», il re di Gherar non era altro che un «uomo morto»; e doveva dipendere dalle preghiere di uno straniero, smarrito e incoerente, per essere ristabilito in salute con tutta la sua casa.

Così agisce Iddio; egli può avere, in segreto, più di una questione da regolare con i suoi figliuoli riguardo alla loro condotta pratica; ma dal momento che un nemico solleva una questione contro a loro, l’Eterno difende la loro causa: «Non toccate i miei unti, e non fate alcun male ai miei profeti». «Chi tocca voi, tocca la pupilla dell’occhio suo». «È Dio che giustifica; chi sarà quel che li condanni?» (1 Cron. 16:22; Zacc. 2:8; Rom. 8:34).

Nessun dardo del nemico può penetrare nello scudo al riparo del quale l’Eterno nasconde il più debole agnello del gregge che si è acquistato al prezzo del sangue di Cristo. Tiene i suoi nascosti nel segreto del suo tabernacolo; mette i loro piedi sulla Rocca dei secoli, innalza il loro capo al disopra dei nemici che li attorniano e riempie i loro cuori dell’eterna gioia della sua salvezza (Salmo 27:5-6).

Sia per sempre benedetto il suo Nome!

Pedro

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16. Capitolo 21: Nascita d’Isacco

16.1 L’adempimento della promessa

«E l’Eterno visitò Sara come aveva detto; e l’Eterno fece a Sara come aveva annunziato».

Abbiamo qui l’adempimento della promessa, il fruttò dell’attesa paziente. Nessuno s’è mai confidato in Dio invano. L’anima che, per fede, afferra la promessa di Dio, è in possesso d’una realtà che non le farà mai difetto. Così fu per Abrahamo e per tutti i fedeli, d’età in età; e sarà sempre così per tutti coloro che, in qualche modo, fanno assegnamento sull’Iddio vivente. Che felicità avere Dio stesso per parte e per riposo, in mezzo alle ombre menzognere e illusorie che attraversiamo; che consolazione, che tranquillità per le nostre anime avere per sostegno queste due cose immutabili: la Parola e il giuramento di Dio!

Quando Abrahamo vide realizzata la promessa di Dio, poté rendersi conto dell’inutilità dei propri sforzi per raggiungerne il compimento. Ismaele era inutile per la promessa di Dio. Poteva essere, e fu infatti, oggetto di attaccamento per il cuore naturale di Abrahamo, rendendo in seguito il suo compito assai più difficile; non servì a nulla nell’adempimento dei disegni di Dio e nel raffermamento della fede di Abrahamo, ma piuttosto al contrario.

La natura, senza Dio, non può far nulla per Lui. Bisogna che «Dio visiti», che «Dio faccia» e bisogna che la fede aspetti. Allora, la gloria divina può risplendere, e la fede trovare in questa manifestazione la sua ricca ed eccellente ricompensa.

«Sara dunque concepì e partorì un figliuolo ad Abrahamo, quando egli era vecchio, al tempo che Dio gli aveva fissato».

Esiste un tempo «fissato» da Dio, un tempo «convenevole» per Dio, e bisogna che il fedele sappia aspettarlo pazientemente. Il tempo può sembrare lungo e la speranza differita può far languire il cuore; ma l’uomo spirituale sarà sempre incoraggiato dalla certezza che ogni cosa ha per scopo la manifestazione finale della gloria di Dio. «Poiché è una visione per un tempo già fissato, ella s’affretta verso la fine e non mentirà; se tarda, aspettala, poiché per certo verrà, non tarderà... Ma il giusto vivrà per la sua fede» (Hab. 2:3-4).

La fede è una cosa meravigliosa! Introduce nel nostro presente tutto l’avvenire di Dio e si nutre delle promesse di Dio come d’una realtà presente. Per la sua potenza, l’anima resta attaccata a Dio quando tutto ciò che è esterno sembra essere contro di essa, e, al tempo preciso, Dio riempie di risa la sua bocca.

«Or Abrahamo aveva cento anni quando gli nacque il suo figliuolo Isacco». La natura non aveva quindi nulla da gloriarsi. Quando l’uomo è assolutamente senza risorse, allora viene il «tempo di Dio»; e Sara disse: «Iddio m’ha dato di che ridere». Tutto è gioia, gioia trionfante quando Dio può manifestarsi.

16.2 Isacco e Ismaele

Ma se la nascita di Isacco riempie di gioia la bocca di Sara, introduce anche un elemento nuovo nella casa d’Abrahamo. Il figliuolo della donna libera accelera lo sviluppo del vero carattere del figlio della schiava. Difatti, Isacco fu, in principio, per la casa di Abrahamo, ciò che è l’innesto della nuova natura nell’anima d’un peccatore. Ismaele non era cambiato, ma Isacco era nato. Il figlio della schiava non poteva mai essere altro che quello che era. Diventi pure un grande popolo, dimori pure nel deserto, sia pure tiratore d’arco e anche padre di 12 principi; rimane pur sempre figlio della schiava. D’altra parte, per debole e sprezzato che fosse, Isacco era figliuolo della donna libera. Possedeva ogni cosa da parte del Signore, la posizione, il rango, i privilegi, le speranze. «Ciò che è nato dalla carne è carne; e ciò che è nato dallo Spirito è spirito» (Giov. 3:6).

16.3 La nuova e la vecchia natura

La rigenerazione non è un cambiamento della vecchia natura, ma l’introduzione di una nuova; è l’inserimento della natura e della vita del secondo Adamo, per mezzo dell’opera dello Spirito Santo, fondata sulla redenzione compiuta da Cristo in perfetto accordo con la volontà e il consiglio sovrano di Dio. Dal momento che un peccatore crede di cuore nel Signore Gesù e Lo confessa con le labbra, entra in possesso d’una nuova vita; e questa vita è Cristo: egli è nato da Dio, è un figlio di Dio, è figlio della donna libera (ved. Rom. 10:9; Coloss. 3:4; 1 Giov. 3:1-2; Gal. 3:26; 4:31).

L’introduzione di questa nuova natura non cambia minimamente il carattere intrinseco della vecchia. Questa rimane ciò che è, senza alcun miglioramento e il suo cattivo carattere si manifesta in piena opposizione con l’elemento nuovo. «La carne ha desideri contrari allo Spirito, e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; sono cose opposte fra loro» (Gal. 5:17). Questi due elementi sono perfettamente distinti, e l’uno è soltanto messo in rilievo dall’altro.

La dottrina della coesistenza delle due nature nel credente è generalmente poco compresa e fintanto che rimane ignorata e latente, non può che disorientare riguardo la vera posizione e i privilegi del figlio di Dio. Gli uni credono che la rigenerazione sia un cambiamento graduale compiuto nella vecchia natura, finché l’intero essere abbia subito una completa trasformazione. È facile dimostrare, per mezzo di alcuni passi del Nuovo Testamento, l’errore di questa opinione. Così leggiamo: «Poiché ciò cui la carne ha l’animo è inimicizia contro Dio» (Rom. 8:7), Ciò che è «inimicizia contro Dio» potrebbe forse essere migliorato? Perciò l’apostolo continua dicendo: «perché non è sottomesso alla legge di Dio, e neppure può esserlo». Se non può sottomettersi alla legge di Dio, come potrebbe essere migliorato? E altrove è scritto: «Quel che è nato dalla carne è carne» (Giov. 3:6). Trattate la carne come volete, rimane pur sempre carne. «Anche se tu pestassi lo stolto in un mortaio, in mezzo al grano col pestello, la sua follia non lo lascerebbe», disse Salomone (Prov. 27:22). Si lavora invano a rendere savia la follia.

Bisogna introdurre la sapienza che vien da alto nel cuore che non è stato fin’allora governato che dalla follia.

«Avendo spogliato l’uomo vecchio» (Col. 3:9). L’apostolo non dice: avete migliorato, o cercate di migliorare il «vecchio uomo», ma l’avete spogliato; e questa è una cosa assolutamente diversa, tanto diversa quanto l’atto di rammendare un vestito e quello di metterlo completamente da parte. Nel pensiero dell’apostolo, si trattava appunto di spogliare un vecchio vestito e rivestirne uno nuovo.

Si potrebbero moltiplicare le citazioni per provare che la teoria del miglioramento graduale della vecchia natura è falsa ed erronea, e per provare che questa vecchia natura è morta e assolutamente incorreggibile; la sola cosa che possiamo fare è di tenerla «sotto i piedi» nella potenza di questa nuova vita che possediamo in virtù della nostra unione col nostro Capo risuscitato nei cieli.

La nascita di Isacco non migliorò Ismaele; anzi, non fece che mettere in evidenza la sua vera opposizione contro il figlio della promessa. Poteva aver avuto una condotta pacifica e regolata fino alla venuta di Isacco, ma allora dimostrò ciò che era, beffandosi del figlio della risurrezione e perseguitandolo.

Quale era il rimedio a questo male? Rendere migliore Ismaele? No, ma: «caccia via questa serva e il suo figliuolo; poiché il figliuolo di questa serva non ha da essere erede col mio figliuolo, con Isacco» (vers. 8-10). Ecco l’unico rimedio. «Ciò ch’è storto, non può essere raddrizzato» (Eccl. 1:15) e di conseguenza bisogna sbarazzarsi di quello che è storto per occuparsi di ciò che è divinamente diritto.

Ogni sforzo che è fatto in vista di migliorare la vecchia natura, è vano davanti a Dio. Gli uomini possono trovare un vantaggio a coltivare e migliorare quello che è loro utile, ma Dio ha dato ai suoi figli qualcosa d’infinitamente migliore da fare: coltivare quello che è la Sua creazione; e i frutti di quella creazione, oltre a non innalzare mai la natura umana, sono interamente alla lode e alla gloria di Dio.

16.4 Libertà e servitù

L’errore nel quale le chiese della Galazia erano cadute, era di voler far dipendere la salvezza da qualcosa che l’uomo poteva essere o fare. «Se voi non siete circoncisi secondo il rito di Mosè, non potete essere salvati» (Atti 15:1). Si rovinava così il glorioso edificio della redenzione, che riposa unicamente su quello che Cristo è e su quello che ha fatto; poiché, far dipendere la salvezza, anche nella più piccola misura, da qualcosa che sia nell’uomo o che sia fatto dall’uomo, vuol dire annientare la salvezza. In altri termini: bisogna che Ismaele sia scacciato e che le speranze di Abrahamo riposino su ciò che Dio ha fatto e dato nella persona di Isacco.

È ovvio che questa salvezza non lascia nulla all’uomo di cui possa gloriarsi. Se la felicità presente o futura dipendesse da un cambiamento, anche divino, operato nella natura, ossia nella carne, l’«io» potrebbe glorificarsi e Dio non avrebbe tutta la gloria. Ma se sono introdotto in una nuova creazione, vedo che tutto è di Dio, il disegno, l’opera e il suo adempimento. È Dio che agisce, ed io adoro: è Lui che benedice, ed io sono benedetto; egli è il superiore e io sono «l’inferiore» (Ebrei 7:7). Egli è il donatore, ed io colui che riceve. Ecco ciò che è il cristianesimo e ciò che, nello stesso tempo, lo distingue da ogni sistema religioso umano che esiste sotto il sole. La religione dell’uomo dà sempre un posto alla creatura; mantiene, nella casa, la serva e suo figlio, e lascia all’uomo di che gloriarsi. Il cristianesimo, invece, esclude la creatura e non le concede nessuna parte nell’opera della salvezza; scaccia la schiava e suo figlio, e rende ogni gloria a Colui al quale solo appartiene.

Vediamo ora ciò che sono realmente questa schiava e il suo figlio, e ciò che raffigurano. Il cap. 4 dell’epistola ai Galati ci insegna minutamente al riguardo e il lettore troverà profitto a studiarlo con cura.

La schiava rappresenta il patto della legge, e il suo figliuolo tutti quelli che sono «sotto le opere della legge» o su questo principio di legge. La schiava genera per la servitù e non può dare alla luce un uomo libero. La legge non ha mai potuto dare la libertà, poiché signoreggia l’uomo per tutto il tempo che egli vive (Rom. 7:1). Fintanto che sono posto sotto l’autorità d’un altro, chiunque egli sia, non sono libero; mentre sono in vita, la legge domina sopra me, e la morte sola può sottrarmi al suo dominio, come lo sappiamo dalla dottrina del cap. 7 dell’epist. ai Romani. «Così, fratelli miei, anche voi siete divenuti morti alla legge mediante il corpo di Cristo, per appartenere ad un altro, cioè a Colui che è risuscitato dai morti, e questo, affinché portiate del frutto a Dio». Ecco la libertà, poiché: «Se dunque il Figliuolo vi farà liberi, sarete veramente liberi» (Giov. 8:36). «Perciò, fratelli, noi non siamo figliuoli della schiava, ma della libera» (Gal. 4:31).

È nella potenza di questa libertà che possiamo obbedire al comandamento: «Caccia via la schiava e il suo figliuolo». Se non so di essere libero, cercherò di ottenere la libertà in qualunque modo, anche col trattenere la schiava in casa; in altri termini, cercherò di ottenere la vita osservando la legge, stabilendo così la mia propria giustizia. Senza dubbio, per rigettare questo elemento di servitù, dovrò lottare, poiché il legalismo è naturale al cuore dell’uomo: «E la cosa dispiacque fortemente ad Abrahamo, a motivo dei suo figliuolo» (vers. 11). Tuttavia, per quanto doloroso possa essere l’atto in questione, è secondo la volontà di Dio che rimaniamo fermi nella libertà nella quale Cristo ci ha posti affrancandoci, e che non siamo di nuovo trattenuti sotto un giogo di servitù (Gal. 5:1).

Ci sia dato, caro lettore, di entrare pienamente e sperimentalmente nel pieno possesso delle benedizioni che Dio ci ha procurato in Cristo, perché possiamo liberarci da ogni influenza della carne, da tutto ciò che essa è, e produce. Vi è, in Cristo, una pienezza che rende assolutamente superfluo e vano ogni ricorso alla natura.

Pedro

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17. Capitolo 22: Il sacrificio d’Isacco

17.1 Dio prova la fede d’Abrahamo

Abrahamo si presenta ora a noi in uno stato morale adatto perché il suo cuore possa sostenere una dolorosissima prova.

Al cap. 20, ha confessato e giudicato l’interdetto per molto tempo serbato nel cuore; al cap. 21 ha scacciato la schiava col suo figliuolo; ed ora si presenta nella posizione più onorata nella quale un’anima possa essere posta; lo vediamo nella prova sotto la mano di Dio stesso.

Vi sono parecchi tipi di prove: la prova il cui autore è il Diavolo; la prova che proviene dalle circostanze esteriori; ma la maggiore di tutte, nel suo carattere, è quella che viene direttamente da Dio, quando egli pone il suo figliuolo diletto nella fornace per provare la realtà della sua fede. Dio lo fa perché vuole della realtà. Non basta dire: «Signore, Signore», oppure «ci vado, Signore»; bisogna che il cuore sia provato fino in fondo affinché nessun elemento di ipocrisia o di falsa professione vi si annidi. Dio dice: «Figliuol mio, dammi il tuo cuore» (Prov. 23:26). Non dice: dammi la tua intelligenza, o i tuoi talenti, o la tua lingua, o il tuo denaro; ma: «dammi il tuo cuore». E, per provare la sincerità della nostra risposta agli ordini della sua grazia, Egli mette la mano su ciò che tocca più da vicino il nostro cuore.

Dio disse ad Abrahamo: «Prendi ora il tuo figliuolo, il tuo unico, colui che ami, Isacco e vattene nel paese di Moriah, e offrilo quivi in olocausto sopra uno dei monti che ti dirò» (vers. 2). Questo significava visitare ben da vicino il cuore di Abrahamo e farlo passare nel crogiuolo più profondo.

Dio «ama la sincerità [o verità] nell’interiore» (Salmo 51:6). Vi può essere molta verità sulle labbra e nell’intelligenza; ma Dio la cerca nel cuore. Delle prove comuni d’amore non lo possono soddisfare; Lui stesso non si è limitato a darci una prova ordinaria del suo amore per noi; ha dato il suo Figliuolo! E non dovremmo noi desiderare di dare delle prove evidenti del nostro amore per lui che ci ha amati così tanto quando eravamo morti nei nostri falli e nei nostri peccati?

È necessario tuttavia che ci rendiamo conto che provandoci così, Iddio ci onora altamente. Non leggiamo che Dio abbia provato Lot; egli non raggiunse mai un livello tale da essere provato dalla mano stessa dell’Eterno. Lo stato dell’anima sua era troppo evidente, perché fosse necessaria la fornace per metterlo in luce. Sodoma non avrebbe presentato nessuna tentazione per Abrahamo. Il suo incontro col re di Sodoma al cap. 14 lo mostra chiaramente. Dio sapeva che Abrahamo amava lui infinitamente più di quanto amasse Sodoma, ma voleva mettere in evidenza che il suo servitore lo amava al disopra di ogni altra cosa; così mette la mano su ciò che aveva di più caro.

«Prendi ora il tuo figliuolo, il tuo unico, colui che tu ami». Sì, Isacco, il figlio della promessa; Isacco, l’oggetto della speranza intensamente e lungamente attesa, l’oggetto dell’amore del padre, colui nel quale tutte le famiglie della terra dovevano essere benedette. Proprio lui doveva essere offerto in olocausto! Questo era veramente mettere la fede alla prova, affinché questa prova, «molto più preziosa dell’oro che perisce, eppure è provata col fuoco, risulti a lode, gloria ed onore» (1 Pietro 1:7). Se Abrahamo non si fosse appoggiato unicamente, e con tutto il cuore, sull’Eterno, non avrebbe potuto obbedire senza titubanza ad un ordine che lo toccava così profondamente. Ma Dio stesso era il sostegno vivente e permanente del suo cuore: perciò Abrahamo era pronto ad abbandonare tutto per Lui.

L’anima che ha trovato in Dio «tutte le proprie sorgenti» (Salmo 87), può, senza perplessità, abbandonare tutte le «cisterne umane». Possiamo rinunciare alla creatura in proporzione della conoscenza che acquistiamo del Creatore ma non possiamo andare oltre. Voler rinunciare alle cose visibili altrimenti che con l’energia della fede che afferra le invisibili, è il lavoro più sterile che si possa pensare. L’anima si terrà stretto il suo Isacco, finché ha trovato il suo tutto in Dio. Ma quando può dire per la fede: «Dio è per noi un rifugio ed una forza, un aiuto sempre pronto nelle distrette» può anche aggiungere: «Perciò noi non temeremo, anche quando fosse sconvolta la terra, quando i monti fossero smossi in seno ai mari» (Salmo 46:1-2).

17.2 Abrahamo ubbidisce

«E Abrahamo, levatosi la mattina di buon’ora», ecc... Abrahamo non tarda, obbedisce subito. «Mi sono affrettato, e non ho indugiato ad osservare i tuoi comandamenti» (Salmo 119:60).

La fede non si arresta mai a considerare le circostanze o a ponderare i presumibili risultati; non riguarda che a Dio e dice, con l’Apostolo: «Ma quando Iddio, che m’aveva appartato fin dal seno di mia madre, m’ha chiamato mediante la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il suo Figliuolo perch’io lo annunziassi fra i gentili, io non mi consigliai con carne e sangue» (Gal. 1:15-16). Dal momento che prendiamo consiglio dalla carne e dal sangue, pregiudichiamo la nostra testimonianza e il nostro servizio, poiché la carne e il sangue non possono obbedire. Per essere felici e perché Dio sia glorificato, dobbiamo levarci la mattina di buon’ora e, per la grazia, compiere il comandamento di Dio. Se la Parola di Dio è la sorgente della nostra attività, ci darà forza e fermezza per agire; mentre se agiamo solo per impulso nostro, cessato questo, cesserà anche la nostra azione.

Due cose sono necessarie ad una vita attiva, coerente e ferma: lo Spirito Santo come potenza e la Scrittura come guida. Abrahamo possedeva queste due cose; aveva ricevuto da Dio la potenza per agire e anche da Dio l’ordine di agire. La sua obbedienza aveva un carattere molto esplicito, e questo è importantissimo. Si incontra sovente ciò che assomiglia molto alla dedizione, ma che in realtà è solo l’attività incostante d’una volontà non sottomessa alla potente azione della Parola di Dio. Tale dedizione ha solo apparenza ma nessun valore e lo spirito che ne è il movente si dilegua rapidamente. Si può stabilire come principio che ogni qualvolta la dedizione oltrepassa certi limiti stabiliti da Dio è sospetta; se si ferma prima di questi limiti, è imperfetta; se va oltre, erra. Vi sono senza dubbio delle operazioni e delle vie straordinarie proprie allo Spirito di Dio, nelle quali Egli proclama la propria sovranità e si eleva al disopra dei limiti ordinari; ma, in tali casi, l’evidenza dell’azione divina è abbastanza potente per convincere ogni uomo spirituale. Questi casi straordinari non contraddicono, poi, in nessun modo, la verità che la fedeltà e la vera devozione sono sempre fondate sopra un principio divino e governate da un principio divino. Si può pensare che sacrificare un figliuolo sia un atto di devozione straordinario, ma bisogna ricordare che quello che dà a questo atto tutto il suo valore davanti a Dio è il semplice fatto che è fondato sul comandamento di Dio.

Vi è ancora un’altra cosa che è unita alla vera dedizione: è lo spirito d’adorazione. «Io e il ragazzo, andremo fin colà e adoreremo» (vers. 5). Un servitore veramente devoto fissa gli occhi non sul proprio servizio, per quanto importante possa essere, ma sul suo padrone; e questo produce lo spirito di adorazione.

Se amo il mio padrone secondo la carne, poco mi importerà di essere chiamato a pulire le sue scarpe o a guidare la sua automobile; ma se penso a me stesso più che a lui, preferirò senza dubbio essere autista piuttosto che lustrascarpe. È lo stesso nel servizio del nostro divino Signore: se penso solo a Lui, non vi sarà differenza per me tra edificare delle Assemblee o fabbricare delle tende.

Possiamo fare la stessa osservazione riguardo al ministerio degli angeli. Importa poco, ad un angelo, di essere mandato a distruggere un esercito oppure a proteggere la persona di uno degli eredi della salvezza; è il padrone che occupa i suoi pensieri. Come qualcuno ha ben detto, se due angeli fossero mandati dal cielo, uno per governare un impero, l’altro per scopare le vie d’una città, di certo non contenderebbero.

Se questo è vero per gli angeli, non dovrebbe esserlo anche per noi? Il carattere del servitore e quello dell’adoratore dovrebbero sempre essere uniti, e l’opera delle nostre mani dovrebbe sempre esalare il buon profumo del nostro amore per il Signore. In altri termini, dovremmo lavorare nello spirito di queste parole: «Io e il ragazzo, andremo fin colà e adoreremo». Saremmo così guardati da un servizio puramente meccanico, come siamo facilmente portati a compiere, lavorando soltanto per amore del lavoro ed essendo più occupati della nostra opera che del nostro Maestro. Bisogna che tutto derivi da una semplice fede in Dio e dall’obbedienza alla sua Parola.

«Per fede Abrahamo, quando fu provato, offerse Isacco; ed egli che aveva ricevuto le promesse, offerse il suo unigenito» (Ebrei 11:17). Dipende solo da quanto camminiamo per la fede, il poter incominciare, proseguire e terminare le nostre opere secondo Dio. Abrahamo non solo s’incamminò per offrire il suo figliuolo, ma proseguì imperturbato il suo cammino fino al punto indicato da Dio (Genesi 22).

«E Abrahamo prese le legna per l’olocausto e le pose addosso a Isacco suo figliuolo; poi prese in mano il fuoco e il coltello; e tutti e due s’incamminarono assieme»; e più avanti leggiamo: «E Abrahamo edificò quivi l’altare e vi accomodò le legna. E Abrahamo stese la mano e prese il coltello per scannare il suo figliuolo» (vers. 6-10).

V’era un’opera reale, un’«opera di fede» e «un travaglio d’amore», nel senso più elevato, non una semplice apparenza. Abrahamo non s’avvicinava a Dio con le labbra soltanto, mentre il suo cuore era lontano da Lui; non diceva: «ci vado, Signore», e non vi andava. Tutto era profonda realtà, di quella realtà che la fede trova piacere a produrre e che Dio si compiace di accettare.

È facile far mostra di devozione, quando non si è in obbligo di manifestarla; è facile dire: «Quand’anche tu fossi per tutti un’occasione di caduta, non lo sarai mai per me...», «quand’anche mi convenisse morir teco, non però ti rinnegherò» (Matteo 26:33-35); ma si tratta di rimanere fermi e di sormontare la tentazione. Quando Pietro fu messo alla prova, fu atterrato. La fede non parla mai di quello che vuol fare; ma fa quello che può per mezzo della forza del Signore. Nulla è più miserabile dell’orgoglio e delle pretese; sono tanto vili quanto la base sulla quale riposano. Ma la fede agisce quando è provata; e, fino a quel momento, è felice di restare nel silenzio e nell’oscurità.

Iddio è glorificato da questa santa attività della fede; è Lui che ne è l’oggetto come pure la sorgente. Di tutti gli atti della fede di Abrahamo non ve n’è alcuno nel quale Iddio sia stato più glorificato che nella scena del monte Moriah. Qui Abrahamo potè rendere testimonianza che «tutte le sue sorgenti» erano in Dio e ch’egli le aveva trovate non solo prima della nascita di Isacco, ma anche dopo. Riposarsi sulle benedizioni di Dio è ben diverso dal riposarsi su Dio stesso; confidare in Dio quando si hanno sotto gli occhi le benedizioni di Dio che scendono su di noi, è tutt’altra cosa che confidarsi in lui quando queste mancano.

Abrahamo manifesta l’eccellenza della sua fede sapendo contare su Dio, e sulla promessa d’una innumerevole progenie, non soltanto quando Isacco era davanti a lui pieno di salute e di forza, ma anche quando lo vedeva vittima sull’altare. Che gloriosa fiducia! Fiducia senza compromessi, non fondata in parte sul Creatore e in parte sulla creatura, ma stabilita su un fondamento solido, sopra Dio stesso. Egli stimò che Dio poteva, e non pensò mai che Isacco avrebbe potuto. Isacco senza Dio, per lui era nulla; Dio, senza Isacco, era tutto.

Vi è, in questo, un principio della massima importanza e una pietra di paragone per provare il cuore a fondo. La mia fiducia viene forse meno quando vedo i canali apparenti delle mie benedizioni inaridirsi? Oppure, rimango io abbastanza vicino alla sorgente, là dove essa nasce, perché mi sia possibile vedere, in uno spirito di adorazione, tutti i ruscelli umani prosciugarsi? Credo io, con abbastanza semplicità, che Dio è sufficiente a tutto, per poter in qualche modo stendere la mano e afferrare il coltello per scannare il mio figliuolo? Abrahamo ne fu reso capace perché guardava all’Iddio della risurrezione. «Avendo stimato che Dio poteva anche risuscitarlo d’infra i morti» (Ebrei 11:17-19). Egli realizzava di avere a che fare con Dio, e questo gli bastava. Dio non permise che egli andasse fino all’estremo limite: l’Iddio di grazia non poteva permettere che andasse fin là; Egli risparmiò al cuore di Abrahamo l’angoscia che non risparmiò a se stesso, quando si trattò di colpire il proprio Figliuolo per i nostri peccati; Egli, benedetto sia il suo Nome, andò fino agli estremi limiti. Egli non risparmiò il suo proprio Figliuolo ma lo diede per tutti noi. «Piacque all’Eterno di fiaccarlo coi patimenti» (Rom. 8:31; Isaia 53:10). Nessuna voce si fece udire dal cielo, quando, sul Calvario, il Padre offerse il suo unigenito Figliuolo. Il sacrificio fu perfettamente compiuto e, nel suo adempimento, fu suggellata la nostra eterna pace.

Pedro

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17.3 La prova della fede

Tuttavia, la dedizione di Abrahamo a Dio fu chiaramente dimostrata e pienamente accettata. «Poiché ora — dice Dio — so che tu temi Iddio, giacché non m’hai rifiutato il tuo figliuolo, l’unico tuo» (vers. 12). Notate queste parole: «ora so». Fino a quel momento la prova non era stata data; la fede c’era, e Dio lo sapeva; ma il punto importante è che Dio fa dipendere la conoscenza che ha di questa fede dalla prova concreta che Abrahamo stesso ha dato davanti all’altare sul monte Moriah.

La fede si manifesta sempre per mezzo delle opere, e il timore di Dio per mezzo dei frutti che ne derivano. «Abrahamo nostro padre, non fu egli giustificato per le opere quando offrì il suo figliuolo Isacco sull’altare?» (Giac. 2:21). Chi oserebbe mettere in dubbio la sua fede? Spogliate Abrahamo della sua fede, ed egli appare sul monte Moriah come un micidiale e un pazzo. Tenete conto della sua fede, ed egli appare come un adoratore fedele e devoto, come un uomo che teme Iddio ed è giustificato.

Bisogna che la fede sia dimostrata: «Che giova, fratelli miei, se uno dice d’aver fede, ma non ha opere?» (Giac. 2:14). Una professione di fede senza potenza e senza frutti non soddisfa né Dio né gli uomini. Dio cerca della realtà e la onora dovunque la trova; quanto agli uomini, essi non comprendono che una espressione vivente e intelligibile d’una fede che si manifesta per mezzo delle opere. Viviamo in un’atmosfera di pietà apparente: il linguaggio della fede è su tutte le labbra, ma la fede stessa è una perla quanto mai rara; quella fede che rende capaci di lasciare la sponda delle circostanze presenti per andare incontro ai marosi, per affrontarli, per sostenerne l’impeto, allorquando il Maestro sembra addormentato.

17.4 Giustificato dalla fede, giustificato dalle opere

Non sarà forse superfluo dire una parola in merito all’armonia che esiste fra l’insegnamento di Giacomo e quello di Paolo sulla giustificazione. Il lettore intelligente e spirituale che accetta la piena ispirazione delle Sacre Scritture sa benissimo che non è né con Giacomo né con Paolo che abbiamo a che fare in questa importante questione. Lo Spirito Santo si è misericordiosamente servito di questi due uomini, onorati da Dio, per trasmettere i suoi pensieri, come noi potremmo servirci ora d’una penna qualunque per scrivere i nostri; con tutto ciò non si può parlare di contraddizione fra le due penne, in quanto lo scrittore è uno solo. È tanto impossibile che due uomini ispirati si contraddicano quanto è impossibile che due corpi celesti possano venire in collisione seguendo ciascuno l’orbita tracciatagli da Dio. Vi è in realtà, come possiamo aspettarci, la più perfetta armonia fra questi due apostoli; anzi, sulla questione della giustificazione, uno è il complemento e il commentatore dell’altro. L’apostolo Paolo ci dà il principio interno; Giacomo lo sviluppo esterno dello stesso principio. Il primo si occupa della vita interiore, l’ultimo della vita manifestata; il primo considera l’uomo in connessione con Dio, l’ultimo lo considera nei suoi rapporti con i propri simili. Abbiamo bisogno dell’uno come dell’altro, poiché il principio interno non può esistere senza la vita esterna, come del resto quest’ultima non avrebbe né valore, né potenza, senza il principio interno.

«Abrahamo fu giustificato» quando «credette Dio», e «Abrahamo fu giustificato» quando «offerse il suo figliuolo». Nel primo di questi due casi si tratta della sua condizione segreta davanti a Dio, nel secondo della sua professione davanti al cielo e alla terra. È bene comprendere questa differenza. Non vi fu alcuna voce dal cielo allorquando «Abrahamo credette Dio», per quanto Iddio l’abbia visto allora e l’abbia tenuto per giusto; ma quando ebbe offerto il suo figliuolo sull’altare, Dio ha potuto dire: «Ora ho conosciuto», e il mondo intiero ebbe la prova irrecusabile del fatto che Abrahamo era un uomo giustificato. Sarà sempre così. Laddove esiste il principio interiore vi è anche l’atto esteriore, e tutto il valore di quest’ultimo dipende dal suo rapporto col primo. Se si separa per un momento l’atto di Abrahamo, come Giacomo lo presenta, dalla fede di Abrahamo, quale Paolo la espone, quale virtù giustificante possederebbe ancora questa fede? Nessuna, di certo! Tutto il suo valore, tutta la sua efficacia, derivano dal fatto che esso è la manifestazione esterna di quella fede in virtù della quale Abrahamo è già stato considerato giusto davanti a Dio.

Tale è l’armonia perfetta che esiste fra Giacomo e Paolo; o piuttosto tale è l’unità della voce dello Spirito Santo, che si faccia udire per mezzo di Paolo o per mezzo di Giacomo.

17.5 Il risultato della prova

Ma ritorniamo al soggetto del capitolo che ci occupa. È molto interessante vedere come la prova della fede di Abrahamo lo porti ad una conoscenza più profonda del carattere di Dio.

Quando ci è dato di sostenere la prova che Dio stesso ci dispensa, siamo certi di fare nuove esperienze relativamente al carattere di Dio, e d’imparare così ad apprezzare il valore della prova. Se Abrahamo non avesse levata la sua mano per «scannare» il suo figliuolo, non avrebbe mai conosciuto tutta l’eccellente grandezza delle ricchezze del nome che ora egli applica a Dio, cioè: «Iehovah-jireh» ossia: «Il Signore provvederà».

È solo quando siamo veramente messi alla prova che scopriamo quello che Dio è. Senza prove non potremo mai essere che dei teorici, ma Dio non vuole che siamo soltanto tali; vuole che penetriamo nella profondità della vita che è in Lui stesso, nelle realtà di una comunione personale con Lui. Con quali convinzioni e sentimenti Abrahamo dovette rifare la strada da Moriah a Beer-Sceba! Come i suoi pensieri riguardo Dio, riguardo Isacco e riguardo ogni cosa dovevano essere differenti!

Possiamo dire veramente: «Beato l’uomo che sostiene la prova» (Giac. 1:12). La prova è un onore conferito dall’Eterno stesso, e sarebbe difficile apprezzare tutta la gioia che deriva dall’esperienza che essa produce. Quando l’uomo è indotto a riconoscere che tutta la sua saviezza vien meno (Salmo 107:27), allora è in grado di scoprire ciò che Iddio è. Ci conceda Iddio di sopportare la prova affinché la sua opera si manifesti e il suo Nome sia glorificato in noi!

17.6 Conferma delle promesse

Prima di chiudere questo capitolo, fermiamo ancora per un istante la nostra attenzione sulla benevolenza con la quale l’Eterno rende testimonianza ad Abrahamo per aver compiuto l’atto per il quale si era dimostrato così preparato.

«Io giuro per me stesso, dice l’Eterno, che, siccome tu hai fatto questo e non m’hai rifiutato il tuo figliuolo, l’unico tuo, io certo ti benedirò e moltiplicherò la tua progenie come le stelle del cielo e come la rena ch’è sul lido dei mare; e la tua progenie possiederà la porta dei suoi nemici. E tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua progenie, perché tu hai obbedito alla mia voce» (vers. 16-18). Questo corrisponde mirabilmente al modo in cui lo Spirito Santo riferisce l’opera di Abrahamo al capitolo 11 dell’Epist. agli Ebrei, e nell’epistola di Giacomo al Cap. 2. Nell’una e nell’altra di queste parti della Scrittura, Abrahamo è considerato come avendo offerto il suo figliuolo sull’altare. Il grande principio messo in rilievo da tutte queste testimonianze, è che Abrahamo era pronto ad abbandonare ogni cosa fuorché Dio: ed è lo stesso principio che lo costituì uomo giusto e che provò che era giusto.

La fede può fare a meno di tutto fuorché di Dio: essa ha la piena coscienza che Dio è sufficiente a tutto. Perciò Abrahamo poteva apprezzare al loro giusto valore queste parole: «Ho giurato per me stesso». Sì, questi meravigliosa parola «per me stesso» era tutto, per quell’uomo di fede; «Poiché, quando Iddio fece la promessa ad Ahrahamo, siccome non potea giurare per alcuno maggiore di lui, giurò per se stesso; perché gli uomini giurano per qualcuno maggiore di loro; e per essi il giuramento è la conferma che pone fine ad ogni contestazione. Così volendo Iddio mostrare vie meglio agli eredi della promessa l’immutabilità del suo consiglio, intervenne con un giuramento» (Ebrei 6:13,16,17).

La parola e il giuramento dell’Iddio vivente dovrebbero mettere fine a tutte le contestazioni e a tutta l’attività della volontà dell’uomo, ed essere l’àncora immutabile dell’anima in mezzo ai marosi e al turbinio di questo mondo burrascoso.

Dobbiamo giudicarci continuamente a causa della poca potenza che le promesse di Dio esercitano sul nostro cuore. Le promesse ci sono, e noi le crediamo, ma, ahimè! esse non sono per noi quella immutabile e potente realtà che dovrebbero essere! Così, non ne ricaviamo quella «ferma consolazione» che esse hanno lo scopo di comunicare.

Come poco siamo pronti a sacrificare, nella potenza della fede, il nostro Isacco! Domandiamo a Dio che si degni di concederci una conoscenza più profonda della beata realtà d’una vita di fede in Lui, affinché comprendiamo anche meglio il valore di queste parole dell’apostolo Giovanni: «Questa è la vittoria che ha vinto il mondo, cioè la vostra fede».

È solo per la fede che possiamo vincere il mondo. L’incredulità ci pone sotto la potenza delle cose presenti, o in altri termini, dà al mondo la vittoria sopra noi; mentre l’anima che, per mezzo dell’insegnamento dello Spirito Santo, ha imparato a realizzare che Dio è sufficiente a tutto, è del tutto indipendente dalle cose di quaggiù. Ci sia dato, caro lettore, di farne l’esperienza per la nostra pace e la nostra gioia in Dio, onde Egli sia glorificato in noi.

Pedro

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18. Capitolo 23: Morte di Sara — La spelonca di Macpela

Questo breve capitolo della Scrittura contiene parecchi insegnamenti utili per l’anima. Lo Spirito Santo traccia qui un bel quadro del modo in cui il credente dovrebbe sempre condursi verso quelli del di fuori. Se è vero che la fede rende il credente indipendente dagli uomini del mondo, non è meno vero che essa gli insegna sempre a camminare onestamente nei loro confronti. Siamo esortati nella prima epistola ai Tessalonicesi (4:12) a «camminare onestamente verso quelli di fuori», nella seconda ai Corinzi (8:21) a vegliare per «agire onestamente, non solo nel cospetto del Signore, ma anche nel cospetto degli uomini»; e in quella ai Romani (13:8) a «non aver debito con alcuno». Sono precetti importanti e che furono debitamente osservati da tutti i fedeli servitori di Cristo, prima ancora che fossero chiaramente enunciati, ma a cui, ahimè, si dà poca importanza nei tempi attuali.

Il cap. 23 della Genesi merita quindi una particolare considerazione.

Questo capitolo che si apre con la morte di Sara, ci fa vedere Abrahamo sotto un carattere nuovo, quello di uno che è nel dolore. «Abrahamo venne a far duolo di Sara e a piangerla».

Il credente è chiamato a passare per il dolore; ma non come gli altri. Il grande fatto della risurrezione lo consola e dà al suo dolore un carattere particolare (1 Tess. 4:13-14). Egli può trovarsi di fronte alla tomba d’un fratello o d’una sorella, nella felice certezza che quel sepolcro non tratterrà a lungo il suo prigioniero, «poiché se crediamo che Gesù morì e risuscitò, così pure quelli che si sono addormentati Iddio, per mezzo di Gesù, li ricondurrà con esso». La redenzione dell’anima assicura la redenzione del corpo; possediamo la prima e aspettiamo la seconda (Rom. 8:23).

18.1 Fede nella risurrezione

Acquistando Macpela per farne un sepolcro, Abrahamo esprime, ci sembra, la sua fede nella risurrezione. «Poi Abrahamo si levò di presso al suo morto».

La fede non si ferma molto tempo a contemplare la morte; essa possiede un oggetto più elevato, grazie all’«Iddio vivente» che glielo ha dato! La fede contempla la risurrezione, la sua visione ne è assorbita; e, nella potenza della risurrezione, può levarsi da presso al suo morto.

Questo atto di Abrahamo è significativo e abbiamo bisogno di comprenderne meglio la portata, visto che siamo propensi fin troppo ad occuparci della morte e delle sue conseguenze. La morte è il limite della potenza di Satana; ma dove Satana finisce, Iddio incomincia. Abrahamo lo aveva compreso quando si alzò di presso al suo morto e acquistò la caverna di Mecpela per farne un luogo di riposo per Sara. Questo atto era l’espressione del pensiero di Abrahamo riguardo all’avvenire. Egli sapeva che nei secoli a venire, la promessa di Dio riguardo la terra di Canaan, si sarebbe adempiuta; così potè deporre il corpo di Sara nella tomba, «nella speranza certa d’una gloriosa risurrezione».

I figliuoli incirconcisi di Heth ignoravano queste cose. I pensieri che occupavano l’anima del patriarca erano loro sconosciuti. Per essi, era cosa di poca importanza che Abrahamo seppellisse il suo morto in un posto piuttosto che in un altro, ma per lui era importante. «Io sono straniero e avventizio fra voi; datemi la proprietà di un sepolcro fra voi, affinché io seppellisca il mio morto, e me lo tolga d’innanzi».

I figliuoli di Heth dovevano trovare strano che Abrahamo si preoccupasse tanto per una sepoltura, ma «il mondo non ci conosce, perché non ha conosciuto Lui». I tratti più belli e più salienti della fede sono quelli meno compresi dal mondo. I Cananei non avevano alcuna idea delle speranze che caratterizzavano gli atti di Abrahamo in quella occasione; non si rendevano conto che egli prevedesse il giorno in cui avrebbe posseduto il paese, mentre per il momento cercava solo un lembo di terra in cui, come uomo mortale, avrebbe potuto aspettare il tempo fissato da Dio, cioè «il mattino della risurrezione» per il possesso futuro del paese.

Abrahamo sentiva che non aveva nessuna controversia da fare con i figliuoli di Heth, tanto che era pronto a coricarsi, come Sara, nella tomba, lasciando a Dio la cura di agire per lui, su di lui e per mezzo di lui.

«In fede morirono tutti costoro, senza aver ricevuto le cose promesse, ma avendole vedute e salutate da lontano e avendo confessato che erano forestieri e pellegrini sulla terra» (Ebrei 11:13).

Questo è un lato della vita divina di grande bellezza. Questi «testimoni» di cui parla l’epistola agli Ebrei nel cap. 11, non soltanto vissero per fede, ma anche testimoniarono che le promesse di Dio erano tanto reali e soddisfacenti, per le loro anime, alla fine della loro carriera, quanto lo erano state al principio.

18.2 Onestà davanti al mondo

L’acquisto di una sepoltura nel paese della promessa era, ci sembra, una dimostrazione della potenza della fede loro non soltanto per vivere, ma anche per morire. Perché Abrahamo era così insistente e scrupoloso nell’atto d’acquistare un sepolcro? Perché era così disposto a pagare il prezzo intiero, per assicurarsi un pieno diritto di proprietà sul campo e sulla spelonca di Efron, su un principio di giustizia? La risposta è contenuta in questa parola: «la fede». È per fede che fece tutto ciò. Sapeva che il paese gli sarebbe appartenuto nell’avvenire e che, nella gloria della risurrezione, la sua progenie lo avrebbe posseduto ancora; fino a quel momento, non voleva essere debitore verso coloro che dovevano esserne spodestati.

Questo capitolo può dunque essere considerato sotto due punti di vista: esso stabilisce un principio di condotta semplice e pratico di fronte alla gente del mondo; e poi mette in luce l’importanza della beata speranza da cui il credente dovrebbe sempre essere animato. La speranza che ci è proposta nell’evangelo è una gloriosa immortalità, che, innalzando il cuore al disopra delle influenze della natura e del mondo, ci fornisce un santo e nobile principio che deve regolare tutta la nostra condotta verso quelli del di fuori. «Sappiamo che quand’egli sarà manifestato, saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è». Ecco la nostra speranza. Quale ne è l’effetto morale? «E chiunque ha questa speranza in lui, si purifica come esso è puro» (1 Giov. 3:2-3).

Se fra poco dovrò essere simile a Cristo, mi sforzerò di essergli simile, per quanto possibile, fin d’ora. Il credente dovrebbe dunque cercare di camminare con purezza, integrità e grazia morale di fronte a tutti quelli che lo circondano. È quello che fece Abrahamo nei suoi rapporti con i figliuoli di Heth; egli dimostrò in tutta la sua condotta una grande nobiltà e un vero disinteresse. Era fra loro «un principe di Dio» e sarebbero stati felici di fargli un favore; ma Abrahamo aveva imparato a non ricevere favori che dall’Iddio della risurrezione; e mentre pagava agli Hittei il prezzo di Macpela, si confidava in Dio per la terra di Canaan. I figliuoli di Heth conoscevano benissimo il valore della moneta «corrente fra i mercanti» e Abrahamo conosceva anche il valore della spelonca di Macpela che, per lui, valeva assai più che per essi. Quella terra di quattrocento sicli d’argento secondo la loro valutazione, aveva per lui un valore illimitato, era pegno d’un’eredità eterna e, poiché tale, non poteva essere posseduta che nella potenza della risurrezione. La fede trasporta l’anima che procede avanti, nell’avvenire di Dio; vede le cose come Dio le vede, le stima secondo il giudizio del santuario. È dunque nell’intelligenza della fede che Abrahamo si levò dinanzi al suo morto e comprò un sepolcro, mostrando così la sua speranza nella risurrezione e nell’eredità che ne dipende.

Pedro

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19. Capitolo 24: Rebecca, una moglie per Isacco

19.1 Una figura dell’appello della Chiesa

Il legame che esiste tra questo capitolo e i due precedenti è degno di nota. Nel capitolo 22, il figliuolo è offerto sull’altare; al capitolo 23, Sara e messa da parte; al capitolo 24, il servitore riceve l’incarico di andare a cercare una moglie per colui che, in figura, era risorto d’infra i morti. La successione di questi avvenimenti coincide in modo sorprendente con l’ordine dei fatti relativi all’appello della Chiesa. Tale coincidenza, comunque interpretata, è certo notevole.

I grandi fatti che troviamo nel Nuovo Testamento sono: in primo luogo il rigettamento e la morte di Cristo; in seguito, il rigettamento di Israele secondo la carne; poi la chiamata della Chiesa alla gloriosa posizione di sposa dell’Agnello. Tutto ciò corrisponde esattamente al contenuto di questo capitolo e dei due precedenti.

Bisognava che la morte di Cristo fosse un fatto compiuto, prima che la Chiesa potesse essere chiamata. Bisognava che «il muro di separazione» fosse abolito prima che «un solo uomo nuovo» potesse essere costituito. È importante comprendere bene questo, affinché sappiamo il posto che la Chiesa occupa nelle vie di Dio. Fintanto che la dispensazione giudaica sussisteva, Dio aveva stabilito e voleva mantenere la più stretta separazione fra Giudei e Gentili; perciò l’idea di una unione dei Giudei coi Gentili in un solo uomo, non entrava nella mente d’un Giudeo. Questi era propenso a considerarsi in una posizione sotto ogni aspetto superiore a quella d’un Gentile, a considerare quest’ultimo come totalmente impuro, un uomo col quale ogni relazione era proibita (Atti 10:28).

Se Israele avesse camminato con Dio nella integrità dei rapporti nei quali la grazia di Dio l’aveva posto, sarebbe stato mantenuto in questa posizione speciale di separazione e di superiorità che gli era stata data. Ma Israele seguì un’altra via e perciò, quando ebbe fatto il colmo alla misura delle sue iniquità, crocifiggendo il Principe di Dio, il Signore di gloria, e rigettando la testimonianza dello Spirito Santo, l’apostolo Paolo è suscitato per essere l’amministratore d’un nuovo ordine di cose, nascosto da ogni tempo in Dio, mentre proseguiva ancora la testimonianza ad Israele: «Per questa cagione io, Paolo, il carcerato di Cristo Gesù per voi, o Gentili... (Poiché, senza dubbio avete udito di quale grazia Iddio mi abbia fatto dispensatore per voi; come per rivelazione mi sia stato fatto conoscere il mistero di cui più sopra vi ho scritto in poche parole; le quali leggendo potete capire l’intelligenza che ho nel mistero di Cristo. Il quale mistero, nelle altre età, non fu dato a conoscere ai figliuoli degli uomini nel modo che ora, per lo Spirito, è stato rivelato ai santi apostoli e profeti di Lui» (i profeti del Nuovo Testamento) «vale a dire, che i Gentili sono eredi con noi, membra con noi d’un medesimo corpo, e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante l’Evangelo» (Efesini 3:1-6).

Ecco qualcosa di conclusivo. Il mistero della Chiesa, composta di Giudei e di Gentili battezzati in un solo corpo da un medesimo Spirito e uniti a un capo glorioso nei cieli, non era stato rivelato fino ai giorni di Paolo. «Del quale mistero — prosegue l’apostolo — io sono stato fatto ministro, in virtù del dono della grazia di Dio, largitami secondo la virtù della sua potenza» (vers. 7).

Gli apostoli e i profeti del Nuovo Testamento, furono, per così dire, il fondamento di quel nuovo edificio (vedete Efesini 2:20). Dato questo, è evidente che l’edificio non poteva essere incominciato prima (Parag. anche Matteo 16:18: «Io edificherò»). Se l’edificio esistesse dai giorni di Abele, l’apostolo avrebbe detto: «edificata sul fondamento dei santi dell’Antico Testamento», ma egli non dice così; quindi concludiamo che qualunque sia la posizione assegnata ai santi dell’Antico Testamento, è impossibile che possano far parte d’un corpo il quale fino alla morte e alla risurrezione di Cristo e alla discesa dello Spirito Santo non esisteva se non nei disegni di Dio. Questi santi erano salvati, Dio ne sia benedetto! Salvati per mezzo del sangue di Cristo e destinati a godere della gloria celeste con la Chiesa, ma non potevano far parte di un corpo, che non esisteva ancora.

Possono sorgere delle perplessità se sia il caso di considerare questa parte interessante della Scrittura come una figura della chiamata della Chiesa. Per conto mio, comunque, preferisco considerarla come un’immagine di quest’opera gloriosa. Non possiamo ammettere che lo Spirito Santo abbia voluto occuparci così a lungo dei particolari d’un semplice patto di famiglia, se questo patto non fosse tipico o figurativo di qualche grande verità: «Perché tutto quello che fu scritto per l’addietro, fu scritto per nostro ammaestramento» (Rom. 15:4). Questo passo è certo di portata molto estesa.

Così, benché l’Antico Testamento non contenga nessuna rivelazione diretta del gran mistero della Chiesa, è importante osservare che esso contiene tuttavia scene e circostanze che la raffigurano in modo notevole, prova ne sia quella che ci presenta il capitolo che sta occupandoci.

Il figliuolo, come abbiamo detto, è stato, in figura, offerto in sacrificio e reso alla vita; e il «ceppo» dal quale il figlio era derivato è, in certo qual modo, messo da parte; e il padre manda ora il servo in cerca d’una sposa per il suo figlio.

Per dare una comprensione chiara e completa del contenuto ci questo capitolo, considereremo i punti seguenti: il giuramento, la testimonianza e il risultato della missione di Eliezer.

19.2 Il giuramento del servitore

È bello vedere che la chiamata e l’elevazione di Rebecca erano fondati sul giuramento che suggellava l’accordo del servitore e di Abrahamo. Rebecca ignorava queste cose, benché, nei disegni di Dio, essa fosse l’oggetto di questo accordo. È lo stesso della Chiesa di Dio, considerata sia come un tutto, sia in ogni sua parte costitutiva.

«Le mie ossa non t’erano nascoste, quand’io fui formato in occulto... e nel tuo libro eran tutti scritti i giorni che m’eran destinati, quando nessun d’essi era sorto ancora» (Salmo 139:15-17). «Benedetto sia l’Iddio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il quale ci ha benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo, siccome in lui ci ha eletti, prima della fondazione del mondo, affinché fossimo santi ed irreprensibili dinanzi a lui nell’amore» (Efesini 1:3-4). «Perché quelli che Egli ha preconosciuti, li ha pure predestinati ad essere conformi all’immagine del suo Figliuolo, ond’egli sia primogenito fra molti fratelli, e quelli che ha predestinati, li ha pure chiamati; e quelli che ha chiamati, li ha pure giustificati, e quelli che ha giustificati, li ha pure glorificati» (Rom. 8:29-30). Vi era una mirabile armonia fra questi passi e il soggetto che ci occupa. L’appello, la giustificazione e la gloria della Chiesa, tutto è fondato sul disegno eterno di Dio, sulla sua parola e il suo giuramento, ratificati dalla morte, dalla risurrezione e dall’esaltazione del Figlio. È nella profondità dell’eterno pensiero di Dio, al di là dei limiti del tempo, che traeva origine questo meraviglioso disegno che aveva la Chiesa per oggetto, indissolubilmente legato al pensiero di Dio riguardo alla gloria del Figlio.

Il giuramento fatto dal servitore ad Abrahamo aveva per oggetto «una compagna» per il Figlio. Al desiderio di Abrahamo per il suo figlio, Rebecca dovette l’alta posizione che occupò in seguito. Beato chi comprende queste cose, beato chi vede che la sicurezza e la felicità della Chiesa sono legati inseparabilmente a Cristo e alla sua gloria! «Perché l’uomo non viene dalla donna, ma la donna dall’uomo, e l’uomo non fu creato a motivo della donna, ma la donna a motivo dell’uomo» (1 Cor. 11:8-9). E ancora: «Il regno dei cieli è simile ad un re, il quale fece le nozze del suo figliuolo» (Matteo 22:2).

Il Figlio è il grande oggetto di tutti i pensieri e i consigli di Dio; e se a qualcuno sono conferite gioia, gloria o dignità, ciò non può essere che in relazione al Figlio. Per mezzo del peccato, l’uomo ha perso diritto a tutte queste cose e alla vita stessa; ma Cristo prese su di sè il castigo dovuto al peccato, si rese responsabile di tutto, per i suoi, fu inchiodato alla croce come loro rappresentante, portò i loro peccati «nel suo corpo sul legno» e scese nella tomba, carico di questo pesante fardello. Nulla dunque può essere più perfetto della liberazione di cui i suoi redenti sono l’oggetto. La Chiesa esce vivificata dalla tomba di Cristo, nella quale tutti i peccati di quelli che la compongono sono stati deposti. La vita che essa possiede è il trionfo sulla morte e su ogni ostacolo; essa è legata alla giustizia divina, è fondata su questa giustizia, i diritti di Cristo stesso alla vita essendo fondati sul fatto che egli ha annientato la potenza della morte; ed Egli è la vita della Chiesa. Così la Chiesa gode della vita divina, e la speranza che la anima è la speranza della giustizia (Vedete i passi seguenti: Giov. 3:16,36; 4:27,40,47,68; 11:25; 17:2; Rom. 5:21; 6:23; 1 Tim. 1:16; 1 Giov. 2:25; 5:20; Giuda 21; Efes. 2:1-6,14,15; Colos. 1:12-22; 2:10-15; Rom. 1:17; 3:21-26; 4:5,23-25; 2 Cor. 5:21; Gal. 5:5).

Questi passi stabiliscono in modo perfetto i tre punti seguenti: la vita, la giustizia e la speranza della Chiesa. Tutte queste cose derivano dal fatto che la Chiesa è una stessa cosa con Colui che è stato risuscitato d’infra i morti. Ora, nulla è atto a raffermare il cuore come la convinzione che l’esistenza della Chiesa è essenziale alla gloria di Cristo. «La donna è la gloria dell’uomo» (1 Cor. 11:7). La Chiesa è chiamata: «il compimento di Colui che porta a compimento ogni cosa» (Efes. 1:23). Questa espressione è notevole; la parola tradotta «compimento» o «pienezza» significa parte aggiunta, cioè cosa che, aggiunta ad un’altra, forma un tutto unico con essa. Così Cristo, il capo, e la Chiesa, il corpo, costituiscono il «solo uomo nuovo» (Efes. 2:15).

Se consideriamo il soggetto da questo punto di vista, non ci stupiremo che la Chiesa sia stata l’oggetto dei consigli eterni di Dio. Egli aveva, per grazia, dei motivi meravigliosi perché il corpo, la sposa, la compagna del suo unico Figlio, occupasse i pensieri di Dio prima della fondazione del mondo. Rebecca era necessaria ad Isacco, perciò era l’oggetto d’un consiglio segreto, quando essa stessa ignorava ancora il suo alto destino. Tutti i pensieri di Abrahamo si riferivano a Isacco: «Io ti farò giurare per l’Eterno, l’Iddio dei cieli e l’Iddio della terra, che tu non prenderai per moglie al mio figliuolo alcuna delle figliuole dei Cananei, fra i quali dimoro».

«Una moglie per il mio unico figliuolo»: è qui, come lo vediamo, il punto essenziale. «Non è bene che l’uomo sia solo». Impariamo così ciò che è la Chiesa: nei consigli di Dio, è necessaria a Cristo e, nell’opera compiuta da Cristo, è stato divinamente provveduto a tutto, perché potesse essere chiamata all’esistenza. Considerando la verità sotto questo punto di vista, non si tratta più della potenza di Dio per salvare dei peccatori ma «Dio vuol fare delle nozze per il suo figliuolo», e la Chiesa è la sposa che gli è destinata: essa è l’oggetto dei disegni del Padre, dell’amore del Figlio e della testimonianza dello Spirito Santo. È eletta a condividere la dignità e tutta la gloria del Figlio, e ha anche parte a tutto l’amore di cui Egli è stato l’eterno oggetto. Ascoltate le parole stesse del Figlio: «E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; io in loro, e tu in me; acciocché siano perfetti nell’unità e affinché il mondo conosca che tu m’hai mandato e che li ami come hai amato me» (Giov. 17:22-23).

Queste parole ci fanno conoscere i pensieri del cuore di Cristo riguardo la Chiesa. Essa non è soltanto destinata ad essere com’Egli è, ma è già fin d’ora simile a lui secondo che è scritto: «In questo l’amore è reso perfetto in noi, affinché abbiamo confidanza nel giorno del giudizio: che quale Egli è, tali siamo anche noi in questo mondo» (1 Giov. 4:17). Questa preziosa verità dà all’anima una piena fiducia. «Noi siamo in Colui che è il vero, cioè nel suo Figliuolo Gesù Cristo» (1 Giov. 5:20). Ogni incertezza è bandita dai nostri cuori, poiché tutto è assicurato, alla Sposa, nello Sposo. Tutto ciò che apparteneva a Isacco diventa proprietà di Rebecca, perché Isacco era suo; così pure tutto ciò che appartiene a Cristo, appartiene anche alla Chiesa. «Ogni cosa è vostra: e Paolo, e Apollo, e Cefa, e il mondo, e la vita, e la morte, e le cose presenti, e le cose future, tutto è vostro; e voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio» (1 Cor. 3:21-22).

Cristo è capo supremo alla Chiesa (Efesini 1:22). Sarà la gioia di Cristo per tutta l’eternità, di manifestare la Chiesa nella gloria e la bellezza di cui l’avrà rivestita; poiché la gloria della Chiesa non sarà che il riflesso della sua propria gloria e della sua propria bellezza. Gli angeli e i principati contempleranno, nella Chiesa, il meraviglioso spiegamento della sapienza, della potenza e della grazia di Dio in Cristo.

Pedro

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19.3 La testimonianza del servitore

Esaminiamo ora il secondo punto di cui abbiamo parlato più su, cioè la testimonianza. Il servitore di Abrahamo era latore d’una testimonianza chiara e precisa. «Io sono servo d’Abrahamo. L’Eterno ha benedetto abbondantemente il mio signore, ch’è divenuto grande; gli ha dato pecore e buoi, argento ed oro, servi e serve, cammelli e asini. Or Sara, moglie del mio signore, ha partorito nella vecchiaia un figliuolo al mio padrone, che gli ha dato tutto quel che possiede» (vers. 34-36). Il servitore rivela il padre e il figlio; tale è la sua testimonianza; parla delle immense ricchezze del padre e dice che questi ha dato tutti i suoi beni al figlio in virtù del fatto che egli è il suo figliuolo unico ed è l’oggetto del suo amore. Per mezzo di questa testimonianza, il servitore cerca di ottenere una sposa per il figlio.

È quasi superfluo dire che la Scrittura ci pone dinanzi, in figura e in modo notevole, la testimonianza dello Spirito Santo mandato sulla terra il giorno della Pentecoste. «Ma quando sarà venuto il Consolatore che io vi manderò da parte del Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, Egli testimonierà di me» (Giov. 15:26). E ancora: «Ma quando sia venuto lui, lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità, perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito e vi annunzierà le cose a venire. Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve l’annunzierà. Tutte le cose che ha il Padre sono mie: per questo ho detto che prenderà del mio e ve l’annunzierà» (Giov. 16:13-15). Il modo con cui queste parole coincidono con la testimonianza del servitore di Abrahamo, è istruttivo e molto interessante. È parlando di Isacco che il servitore cerca di guadagnare il cuore di Rebecca; ed è parlando di Gesù, che lo Spirito Santo cerca di distogliere i poveri peccatori da un mondo di peccato e di follia, per farli entrare nella beata e santa unità del corpo di Cristo. «Egli prenderà del mio e ve l’annunzierà». Lo Spirito Santo non conduce mai un’anima a guardare a se stessa o alla propria opera, ma sempre e soltanto a Cristo. Così, più un’anima è veramente spirituale, più sarà esclusivamente occupata di Cristo.

Considerare sempre il nostro cuore e indugiare su ciò che vi troviamo può sembrare, a qualcuno, prova di grande spiritualità; è invece un grave errore, anche se, in certi casi, può essere opera dello Spirito, e questa preoccupazione di sè, lungi dall’essere una prova di spiritualità, dimostra invece il contrario; poiché, parlando dello Spirito, Gesù dice espressamente: «Egli non parlerà del suo», ma «prenderà del mio e ve l’annunzierà». Perciò, ogni volta che uno guarda a sè e si adagia su ciò che di spirituale può scoprirvi, può essere certo che in questo non è condotto dallo Spirito di Dio. Lo Spirito attira le anime a Dio presentando loro Cristo. Conoscere Cristo è la vita eterna; e, la rivelazione che il Padre fa del Figlio per mezzo dello Spirito Santo, costituisce il fondamento della Chiesa.

Quando Pietro riconosce Cristo come il Figlio dell’Iddio vivente, Cristo gli risponde: «Tu sei beato, o Simone, figliuol di Giona, perché non la carne e il sangue t’hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli. E io altresì ti dico: Tu sei Pietro, e su questa pietra (o su questa roccia) edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’Ades non la potranno vincere» (Matteo 16:17-18). Quale roccia? Pietro? Tolga ciò Iddio! Questa «roccia» è semplicemente la rivelazione di Cristo per mezzo del Padre come «Figliuolo dell’Iddio vivente», e questa rivelazione è il solo mezzo per il quale un’anima può essere introdotta nell’Assemblea di Cristo.

Impariamo qui quale è il vero carattere dell’Evangelo. L’Evangelo è anzitutto, e per eccellenza, una rivelazione; non soltanto una dottrina, ma una persona, la persona del Figlio; e questa rivelazione ricevuta per la fede, attira il cuore a Cristo, e diventa la sorgente della vita e della potenza, e il fondamento della nostra unione con Cristo come membra del suo corpo. «Quando è piaciuto a Dio... di rivelare in me il suo Figliuolo» disse Paolo. Il vero principio che costituisce «la roccia» è dunque Dio che rivela il suo figliuolo. È così che s’innalza l’edificio; è su questo solido fondamento che esso si basa, secondo il disegno eterno di Dio.

È, dunque, particolarmente interessante per noi trovare, in questo capitolo 24 della Genesi, un’immagine così bella della missione e della testimonianza speciale dello Spirito Santo.

Cercando una sposa a Isacco, il servitore di Abrahamo descrive tutta la gloria e tutte le ricchezze che sono state conferite a Isacco dal padre, e l’amore del quale è l’oggetto, tutto ciò che è atto a toccare il cuore di Rebecca e a staccarlo dalle cose in mezzo alle quali viveva. Egli addita a Rebecca un oggetto lontano, e le rivela la felicità che vi sarebbe, per lei, nel diventare una con quell’oggetto diletto e così tanto favorito. Tutto ciò che apparteneva a Isacco sarebbe appartenuto anche a Rebecca, dal momento che ella sarebbe stata una stessa cosa con lui; questa è la testimonianza del servitore. Questa è anche la testimonianza dello Spirito Santo. Egli parla di Cristo, della gloria di Cristo, della bellezza, della pienezza, della grazia, «delle ricchezze non investigabili di Cristo», della dignità della sua persona e della perfezione della sua opera. E rivela la felicità inesprimibile che v’è nell’essere una stessa cosa con un tale Cristo membra del suo corpo, nella sua carne e delle sue ossa.

Sempre così è la testimonianza dello Spirito; egli ci dà sempre una pietra di paragone, per mettere alla prova ogni sorta d’insegnamento e di predicazione. L’insegnamento più spirituale sarà sempre caratterizzato da una piena e costante presentazione della persona di Cristo. Lo Spirito non può soffermarsi che su Gesù; parlare di Cristo fa le sue delizie; egli prende piacere a pubblicare le sue perfezioni, le sue virtù, la sua bellezza. Se dunque qualcuno serve l’evangelo nella potenza dello Spirito di Dio, si occuperà sempre, nel suo ministerio, più di Cristo che di qualunque altra cosa. I ragionamenti della logica umana non vi troveranno posto, perché non sono adatti se non dove l’uomo vuol mettersi avanti; ma tutti quelli che servono l’evangelo, debbono ricordarsi che l’unico oggetto dello Spirito sarà sempre il presentare Cristo.

19.4 Il risultato della missione del servitore

Infine, dobbiamo occuparci dei risultati della testimonianza. La verità e l’applicazione pratica della verità sono due cose molto diverse. Una cosa è il parlare delle glorie particolari della Chiesa, altra cosa è l’esserne diretto, in modo pratico.

Per quanto riguarda Rebecca, il risultato della testimonianza resa dal servitore è netto e positivo. La testimonianza del servo di Abrahamo penetrò profondamente nel suo cuore e l’effetto fu di staccare completamente le sue affezioni da tutto quello che la circondava; essa è pronta a lasciare ogni cosa per proseguire il corso, onde afferrare ciò per cui è stata afferrata (parag. Filippesi 3:12-13). È impossibile che potesse credersi l’oggetto di un destino così glorioso rimanendo in mezzo alle circostanze nelle quali la natura l’aveva posta. Se la testimonianza riguardo al suo avvenire era vera, rimanere attaccata al presente era per lei la peggiore delle follie. Se la speranza di andare sposa ad Isacco ed essere coerede con lui di tutta la sua gloria, era per lei una realtà, continuare a pascolare le pecore di Labano sarebbe stato disprezzare, in pratica, tutto ciò che Dio, nella sua grazia, le aveva posto dinanzi. Ma la speranza che le stava dinanzi era troppo gloriosa perché Rebecca l’abbandonasse così leggermente. Non ha ancora visto Isacco, è vero, e nemmeno l’eredità; ma ha creduto la testimonianza che le è stata resa di Isacco e, in certo qual modo, ha ricevuto la caparra dell’eredità: questo è sufficiente per il suo cuore. Perciò, senza esitazione, si alza e dichiara che è pronta a partire. «Sì, andrò» essa disse (v. 58). È pronta ad incamminarsi in una via sconosciuta in compagnia di colui che le ha rivelato un oggetto lontano e una gloria, unita a questo oggetto, gloria alla quale sta per essere innalzata. «Andrò» e, dimenticando le cose che stanno dietro e protendendosi verso quelle che stanno davanti, proseguì il corso verso la meta per ottenere il premio della superna vocazione (vedere Filipp. 3:14). È una bella e commovente immagine della Chiesa che, sotto la guida dello Spirito Santo, s’incammina incontro al suo celeste Sposo. Questo almeno, è ciò che la Chiesa dovrebbe fare; ma si vede in lei ben poco di quella santa gioia che le fa sormontare ogni ostacolo, nella potenza della comunione colla sua celeste guida, col suo compagno di viaggio, il cui incarico è di prendere ciò che è di Gesù per annunciarglielo.

Così, il servo di Abrahamo prendeva le cose di Isacco e le mostrava a Rebecca e certamente si compiaceva nel farle udire nuove testimonianze riguardo al Figlio, mentre avanzavano verso il momento in cui lo gioia e la gloria dello Sposa si sarebbero compiute. La nostra guida celeste si compiace a parlarci di Gesù. «Egli (lo Spirito) prenderà del mio e ve l’annunzierà»; e ancora: «Vi annunzierà le cose a venire». Abbiamo un reale bisogno di questo ministerio dello Spirito che rivela Cristo alle nostre anime, facendoci ardentemente desiderare di vederlo come Egli è e di essergli fatti simili per sempre: lui solo ha il potere di staccare i nostri cuori dalla terra e da tutto ciò che appartiene alla natura. Che cosa, se non la speranza di essere unita ad Isacco, avrebbe mai potuto indurre Rebecca a dire «andrò» quando suo fratello e sua madre dicevano: «rimanga la fanciulla alcuni giorni con noi, almeno una diecina»? Così, anche per noi, soltanto la speranza di vedere Gesù com’egli è, e di essergli fatti simili, può renderci capaci di purificarci, per essere puri come Egli è puro (1 Giov. 3:3).

Pedro

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20. Capitolo 25: Fine della vita di Abrahamo

20.1 Il secondo matrimonio di Abrahamo

Questo capitolo ci parla del secondo matrimonio di Abramo, avvenimento che non è senza interesse per l’uomo spirituale, se lo si considera in rapporto col contenuto del capitolo precedente.

Gli scritti profetici del Nuovo Testamento, ci insegnano che la progenie di Abrahamo riapparirà sulla scena dopo il rapimento della Sposa di Cristo. Così, dopo il matrimonio di Isacco, lo Spirito Santo ci occupa della storia della progenie di Abrahamo, in connessione con un nuovo matrimonio, e, in seguito, di alcuni incidenti della vita del patriarca e della sua progenie secondo la carne.

Il libro della Genesi, come già abbiamo detto, racchiude, in embrione, i grandi principi elementari della storia delle relazioni di Dio con l’uomo, di cui i libri seguenti, e il Nuovo Testamento in particolare, contengono lo sviluppo. È vero che nella Genesi questi principi sono presentati in figura, mentre nel Nuovo Testamento sono sviluppati in modo didattico: ma le figure sono molto interessanti e riescono a far penetrare potentemente la verità nel cuore.

20.2 Esaù sprezza la sua primogenitura

La fine di questo capitolo 25 ci rivela alcuni principi importanti e di carattere molto pratico. Il carattere e la vita di Giacobbe passeranno presto sotto i nostri occhi; ma prima di procedere, fermiamoci un poco sulla vita di Esaù, in merito a quel che riguarda il diritto di primogenitura e a tutto quello che implicava questo diritto. Il cuore naturale non attribuisce alcun valore alle cose di Dio; dato che non conosce Dio, le cose di Dio sono per lui qualcosa di molto annebbiato senza valore e senza potenza. Ecco perché le cose presenti hanno tanto peso nella valutazione degli uomini ed esercitano su di loro una così grande influenza! L’uomo apprezza ciò che vede perché è condotto dalla vista e non dalla fede. Per lui il presente è tutto, il futuro invece è una cosa incerta e senza influenza. Così era Esaù. Ascoltiamo il suo insidioso ragionamento: «Ecco io sto per morire, che mi giova la primogenitura?». Strano ragionamento infatti! Il presente mi sfugge, perciò io disprezzo e mi disinteresso dell’avvenire! Il tempo sparisce, davanti ai miei occhi, perciò rinuncio a qualsiasi parte nell’eternità! «Così Esaù sprezzò la primogenitura»; così gl’Israeliti «sprezzarono il paese desiderabile»; così sprezzarono Cristo; così ancora gli invitati alle nozze sprezzarono l’invito (Salmo 106:24; Zaccaria 11:13; Matteo 22:5). L’uomo non ha gusto per le cose di Dio; una «minestra di lenticchie» vale di più, per lui, che il diritto al paese di Canaan. La ragione per la quale Esaù non si preoccupava del suo diritto di primogenitura era precisamente quella che avrebbe dovuto indurlo ad attribuirle il massimo valore.

Più vedo l’incertezza e la vanità delle cose presenti e più darò importanza all’avvenire di Dio. Così ragiona la fede. «Poiché dunque tutte queste cose hanno da dissolversi, quali non dovete voi essere, per santità di condotta e per pietà, aspettando e affrettando la venuta del giorno di Dio, a cagione del quale i cieli infocati si dissolveranno e gli elementi infiammati si struggeranno? Ma, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, nei quali abita la giustizia» (2 Pietro 3:11-13). Ecco il pensiero di Dio e, pertanto, il pensiero della fede. Le cose presenti hanno da dissolversi: sprezzeremo noi quelle che non si vedono e che sono eterne? No, certamente. Il giorno presente è come un’ombra che fugge. Quale è la nostra risorsa? La Scrittura ce lo dice: «Aspettando e affrettando la venuta del giorno di Dio». Ogni altro ragionamento è quello d’un profano, come Esaù che per una sola pietanza vendette la sua primogenitura (Ebrei 12:16).

Ci dia il Signore di giudicare ogni cosa come Lui giudica; solo la fede ce ne rende capaci.

21. Capitolo 26: Isacco a Gherar poi a Beer Sheba

Il primo versetto di questo capitolo si riallaccia al cap. 12. «Or ci fu la carestia nel paese, oltre la prima carestia che c’era stata nel tempo di Abrahamo». Le prove che i credenti incontrano durante la loro carriera quaggiù, sono tutte press’a poco della stessa natura, e tendono sempre a manifestare fino a che punto il loro cuore ha trovato il suo tutto in Dio. È cosa difficile camminare con Dio in una intimità di comunione tale che l’anima sia del tutto indipendente dagli uomini e dalle cose. Gli Egitto e i Gherar che sono alla nostra destra e alla nostra sinistra, ci offrono potenti tentazioni sia per allontanarci dal retto cammino, sia per trattenerci al disotto della nostra posizione come servitori dell’Iddio vivente e vero.

«E Isacco andò da Abimelec, re dei Filistei a Gherar». Vi è, fra l’Egitto e Gherar, una differenza rilevante. L’Egitto è l’espressione del mondo con le sue risorse naturali e la sua indipendenza da Dio. Esso era più lontano da Canaan che Gherar e, moralmente, esprime uno stato d’animo più lontano da Dio. È fatto menzione di Gherar, in questi termini, al cap. 10 v. 19: «E i confini dei Cananei andarono da Sidon in direzione di Gherar, fino a Gaza; in direzione di Sodoma, Gomorra, Arma e Seboim fino a Lesha». Apprendiamo così che da Gherar a Gerusalemme vi era la distanza di tre giorni di cammino. Gherar era dunque vicina, in paragone all’Egitto, ma era nei limiti di pericolosissime influenze. Abrahamo vi trovò delle difficoltà e del travaglio; lo stesso fu di Isacco. Abrahamo rinnegò sua moglie, Isacco fece altrettanto. È solenne vedere il padre e il figlio cadere, l’uno dopo l’altro, nello stesso peccato, e cadervi nello stesso luogo. Questo fatto dimostra che l’influenza di quel luogo era nefasta. Se Isacco non si fosse recato da Abimelec, re di Gherar, non si sarebbe trovato nella situazione di rinnegare sua moglie, ma il più piccolo allontanamento dalla retta via è accompagnato da debolezza spirituale. È quando si scaldava vicino al fuoco, nel palazzo del sommo sacerdote, che Pietro rinnegò il suo Maestro.

Quanto a Isacco, e evidente che non era felice in Gherar. È vero che l’Eterno gli disse: «Soggiorna in questo paese», ma non accade forse sovente che l’Eterno dia ai suoi degli ordini moralmente adatti allo stato nel quale Egli li vede, e atti a condurli nel vero sentimento di questo stato? L’Eterno ordinò a Mosè (Numeri 13) di mandare degli uomini a esplorare il paese di Canaan; ma se lo stato del popolo non fosse stato molto basso, questo procedimento non sarebbe stato necessario. Sappiamo che la fede non ha bisogno di esplorare ciò che la promessa di Dio le assicura. Nello stesso modo (Numeri 11:16) l’Eterno ordina a Mosè di scegliere e di radunare settanta uomini d’infra gli anziani d’Israele perché portino con lui il carico del popolo; ma se Mosè avesse pienamente compreso la sua alta posizione e la gioia che ci era connessa, questo comandamento non sarebbe stato necessario. Ne è lo stesso riguardo l’ordine che diede l’Eterno a Samuele di stabilire un re sul popolo d’Israele (1 Samuele 8). Il popolo non avrebbe dovuto aver bisogno d’un re. È dunque necessario, per valutare giustamente un ordine dato, sia a un individuo sia a un popolo, prendere in considerazione lo stato di questo individuo o di questo popolo.

Ma forse si dirà: se Isacco era in una falsa posizione in Gherar, perché è detto: «Isacco seminò in quella terra e in quell’anno raccolse il centuplo; e l’Eterno lo benedisse» (vers. 12)? Rispondiamo che la prosperità non prova che ci troviamo nella posizione voluta da Dio; come già abbiamo avuto occasione di dirlo, vi è una grande differenza fra la benedizione del Signore e la sua presenza. Non poche persone godono della prima e non dell’ultima; tuttavia il cuore è indotto a prendere l’una per l’altra, a confondere la benedizione con la presenza di Dio, o, per lo meno. a persuadersi che l’una deve necessariamente accompagnare l’altra. È un grande errore. Non è raro vedere delle persone circondate dalle benedizioni di Dio, ma che non godono della sua presenza e nemmeno la desiderano. È importante discernere questo. Uno può diventar grande oltre misura, fino ad essere padrone di greggi di pecore, di mandrie di buoi e di numerosa servitù (vers. 13 a 15) pur senza godere pienamente e liberamente della presenza di Dio. Greggi di pecore e mandrie di buoi, non sono la presenza del Signore: questi beni potevano suscitare l’invidia dei Filistei, ma non era in quello che consisteva la presenza del Signore. Isacco avrebbe potuto godere della più felice comunione con Dio, senza che i Filistei lo avessero notato, per la semplice ragione che non erano in grado né di comprenderne né di apprezzarne il valore.

Tuttavia, più tardi, Isacco si allontanò dai Filistei e salì a Beer Sheba. «E l’Eterno gli apparve in quella stessa notte e gli disse: Io sono l’Iddio d’Abrahamo tuo padre; non temere, poiché io sono teco e ti benedirò» (vers. 24). Non era più soltanto la benedizione del Signore, ma il Signore stesso che era con lui. E perché? Perché Isacco se n’era andato lasciando dietro di se i Filistei con tutta la loro invidia, i loro contrasti e le loro contestazioni, per recarsi a Beer Sceba. Là l’Eterno poteva manifestarsi al suo servitore, mentre non poteva accompagnarlo con la sua presenza in Gherar, benché, con mano liberale, avesse sparso su lui le sue benedizioni mentre era in quel luogo. Per godere della presenza di Dio, bisogna essere dove Egli è, e non è fra le dispute e le contestazioni d’un mondo empio che lo troveremo, di modo che più il credente si farà premura di lasciare queste cose e meglio sarà per lui. Tale fu l’esperienza d’Isacco. Finché stette fra i Filistei, non ebbe alcuna influenza salutare sopra essi, né trovò riposo per l’anima sua. Il vero mezzo per essere utili agli uomini di questo mondo, è di esserne separati, nella potenza della comunione con Dio, mostrando loro il modello d’una «via più eccellente».

Il progresso spirituale fatto da Isacco si manifesta nel suo cammino. «Di là egli sali a Beer Sceba. E l’Eterno gli apparve, ed egli edificò quivi un altare, invocò il nome dell’Eterno e vi piantò la sua tenda. E i servi di Isacco scavarono quivi un pozzo». Notiamo, in tutto ciò, un felice progresso. Dal momento che Isacco ebbe fatto il primo passo nella via diritta, va di forza in forza, entra nella gioia della presenza di Dio e gusta le dolcezze di un vero culto; dimostra di essere straniero e pellegrino, trova pace e riposo e un pozzo incontrastato che i Filisei non potevano turare perché non erano presenti. Questi felici risultati per Isacco, produssero anche un salutare effetto sugli altri. «E Abimelec andò a lui da Gherar con Auzath e con Picol capo del suo esercito. E Isacco disse loro: Perché venite da me, giacché mi odiate e m’avete mandato via dal vostro paese? E quelli risposero: Noi abbiamo chiaramente veduto che l’Eterno è teco; e abbiamo detto: si faccia ora un giuramento fra noi, fra noi e te, e facciam lega teco. Giura che non ci farai alcun male, così come noi non t’abbiamo toccato, e non t’abbiamo fatto altro che del bene, e t’abbiam lasciato andare in pace». Per poter agire sul cuore e sulla coscienza della gente del mondo, bisogna vivere in una separazione completa da loro, pur usando, a loro riguardo, una grazia perfetta. Fintanto che Isacco dimorò in Gherar, non vi fu tra lui e loro altro che dispute e contestazioni; Isacco non raccolse che dispiaceri e non fece alcun bene a quelli che lo circondavano. Ma dal momento che li ebbe lasciati, i loro cuori furono toccati; ed essi lo seguirono e vollero concludere un’alleanza con lui.

La storia dei figli di Dio ci offre numerosi esempi dello stesso genere. Ciò che deve anzitutto preoccuparci, è di sapere che siamo nella posizione nella quale Dio ci vuole, e che siamo in regola con lui, non soltanto nella nostra posizione, ma nella condizione morale dell’anima nostra. Se siamo in regola con Dio, possiamo sperare di agire sugli altri in modo salutare. Dal momento che Isacco salì a Beer Sceba e prese la posizione di adoratore, l’anima sua fu ristorata e Dio si servì di lui per agire su quelli che lo circondavano. La povertà spirituale ci priva di molte benedizioni e ci fa venir meno alla nostra testimonianza e al nostro servizio. Ma nemmeno dobbiamo, quando ci troviamo in una falsa posizione, fermarci, come accade sovente, per domandarci: dove troveremo qualcosa di migliore? Il comandamento di Dio è: «Cessate dal fare il male»; poi quando abbiamo ubbidito a questo, Dio ce ne fa udire un altro: «Imparate a fare il bene» (Isaia 1:17). Siamo in errore se pretendiamo d’imparare a fare il bene prima di cessare di fare il male. «Risvegliati, o tu che che dormi, e risorgi da’ morti, e Cristo t’inonderà di luce» (Efesini 5:14).

Lettore, se fate ciò che sapete essere male, o se praticate in qualche modo quello che sapete essere contrario alla Scrittura, ascoltate la parola del Signore: «Cessate di far male»; e siate pur certi che se ubbidite a questa parola, non sarete per molto tempo nell’ignoranza riguardo al cammino che dovete seguire. Solo l’incredulità ci porta a credere che non possiamo cessare di fare il male prima di aver trovato qualche bene da fare. Ci dia il Signore un occhio semplice e uno spirito docile.

Pedro

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22. Capitolo 27: Giacobbe e Esaù

I capitoli da 27 a 35 ci fanno conoscere la storia di Giacobbe o, per lo meno, gli avvenimenti principali della sua vita; lo Spirito ci dà un insegnamento profondo sui consigli della grazia di Dio come pure sulla totale incapacità e la corruzione assoluta della natura umana.

22.1 L’elezione della grazia

Al capitolo 25 ho lasciato intenzionalmente da parte un passo che si riferisce a Giacobbe e che avrà un posto più indicato qui, mentre ci occuperemo di lui. «Isacco pregò istantemente l’Eterno per sua moglie, perch’ella era sterile. L’Eterno lo esaudì, e Rebecca sua moglie concepì, e i bambini si urtavano nel suo seno; ed ella disse: se così è, perché vivo? E andò a consultare l’Eterno; e l’Eterno le disse: Due nazioni sono nel tuo seno, e due popoli separati usciranno della tue viscere. Uno dei due popoli sarà più forte dell’altro, e il maggiore servirà il minore» (Genesi 25:19-23). Malachia fa allusione a questo passo: «Io vi ho amati, dice l’Eterno; e voi dite: In che ci hai tu amati? Esaù non era egli fratello di Giacobbe? dice l’Eterno: e nondimeno io ho amato Giacobbe, e ho odiato Esaù» (Mal. 1:2-3). E queste parole del profeta sono citate dall’apostolo Paolo (Rom. 9:11-12): «Poiché prima che fossero nati e che avessero fatto alcun che di bene o di male, affinché rimanesse fermo il proponimento dell’elezione di Dio, che dipende non dalle opere ma dalla volontà di colui che chiama, le fu detto: il maggiore servirà al minore, secondo che è scritto: ho amato Giacobbe, ma ho odiato Esaù».

Il consiglio eterno di Dio, secondo l’elezione della grazia, ci è così chiaramente presentato. Questa espressione: l’elezione della grazia ha una portata immensa; annienta tutte le pretese dell’uomo, e proclama il diritto di Dio di agire come gli piace. Tutto questo è della massima importanza. L’uomo non può godere di alcuna felicità reale finché non è stato condotto a chinare il capo dinanzi alla grazia sovrana. Deve agire così, dato che è peccatore e, come tale, assolutamente senza titoli per agire o per prescrivere a Dio qualche cosa. Il grande vantaggio che risulta, per noi, da questa posizione è che, quando siamo su questo terreno, non si tratta più di quello che meritiamo, ma di quello che piace a Dio di darci. Il figliuol prodigo può, per umiltà, volersi fare servo; ma dal momento che si tratta di merito, non è in effetti degno nemmeno di occupare il posto di servo; non gli resta che accettare ciò che il padre trova buono di dargli, cioè il posto più elevato, quello della comunione con Lui stesso. Non può essere diversamente, poiché la grazia coronerà tutta l’opera di Dio nei secoli dei secoli. Beati noi che sia così! Man mano che avanziamo, facendo giorno per giorno nuove scoperte riguardo a ciò che siamo, abbiamo bisogno, per essere sostenuti, dell’incrollabile fondamento della grazia. La rovina dell’uomo è senza speranza; è necessario, perciò, che la grazia sia infinita; ed essa lo è; Dio stesso ne è la sorgente, Cristo il veicolo e lo Spirito Santo la potenza che la applica all’anima e ne trasmette il godimento. La Trinità è manifestata nella grazia, per mezzo della grazia che salva il povero peccatore: «... affinché la grazia regni, mediante la giustizia, a vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore» (Rom. 5:21).

La grazia non poteva regnare se non in redenzione. Nella creazione possiamo contemplare la saggezza e la Potenza; nella Provvidenza, la bontà e la longanimità; ma soltanto nella redenzione vediamo il regno della grazia e, questo, fondato sul regno della giustizia.

Ora, in Giacobbe, vediamo la potenza della grazia divina, poiché in lui abbiamo un notevole esempio della potenza della natura umana. In Giacobbe, la natura si esplica in tutta l’ambiguità delle sue vie e così la grazia si manifesta in tutta la sua potenza e la sua bellezza morale.

Dai fatti che ci sono riferiti, pare che già prima di nascere, all’atto della sua nascita e dopo, la straordinaria energia della sua natura si sia manifestata. Leggiamo che, prima di nascere, «i bambini si urtavano nel suo seno» (v. 22); al momento della nascita, Giacobbe «con la mano teneva il calcagno di Esaù» (v. 26) e, dopo la sua nascita, da un’estremità all’altra della sua carriera, non vediamo altro (pur senza escludere la fase del cap. 32) che il manifestarsi di un temperamento assai poco amabile; ma tutto ciò, come uno sfondo nero, serve a far risaltare la grazia di Colui che accondiscende a chiamarsi col nome di «Iddio di Giacobbe», con quel nome che è della grazia una commovente espressione.

22.2 Giacobbe si fa passare per Esaù

Al capitolo 27 troviamo il più umiliante quadro di sensualità, di perfidia e di astuzia; e quando, come qui, queste cose si trovano in un figliuolo di Dio, sotto quale luce triste e vergognosa esse appaiono!

Tuttavia lo Spirito Santo è sempre vero e fedele: bisogna che sveli ogni cosa; quando racconta la storia di un uomo, non può darcene un quadro incompleto; egli lo dipinge così com’è, non come non è. Così pure, quando rivela il carattere e le vie di Dio, egli ci mostra Dio tale quale è, ed è appunto ciò di cui abbiamo bisogno. Per noi è necessaria questa rivelazione di un Dio perfetto in santità e, nello stesso tempo, perfetto in grazia e in misericordia, che è potuto scendere in tutta la profondità della miseria e della degradazione dell’uomo, e là entrare in relazione con lui e farlo uscire dalla sua triste condizione, per tutta la realtà di ciò che egli è.

Ecco ciò che la Scrittura ci rivela. Dio sapeva ciò di cui avevamo bisogno e ce lo ha dato: sia benedetto il suo nome!

Ricordiamoci che, nel porre sotto i nostri occhi, nella fedeltà del suo amore, tutti i lati del carattere dell’uomo, lo Spirito Santo ha in vista semplicemente di magnificare le ricchezze della grazia di Dio e di istruirci ammonendoci. Il suo scopo non è quello di perpetuare il ricordo del peccato, cancellato per sempre agli occhi di Dio. Le sozzure, gli sbagli, gli errori di Abrahamo, di Isacco e di Giacobbe, sono stati lavati e cancellati perfettamente e questi uomini hanno preso posto fra gli «spiriti dei giusti resi perfetti» (Ebrei 12:23); ma la loro storia rimane nelle pagine del libro ispirato perché la grazia di Dio sia manifestata e perché serva di avvertimento ai figliuoli di Dio in ogni età; e anche per farci vedere chiaramente che non è con uomini perfetti che Dio ha avuto a che fare nei tempi che ci hanno preceduti, ma con uomini che avevano «le stesse passioni che noi» (Giac. 5:17) e dei quali Egli ha dovuto sopportare gli stessi difetti, le stesse infermità, gli stessi errori per cui noi pure soffriamo ogni giorno.

Tutto questo serve a fortificare il cuore. Le biografie scritte dallo Spirito Santo sono in contrasto notevole con quelle scritte dalla maggioranza dei biografi che spesso non raccontano la storia di uomini come noi, ma di esseri esenti da debolezze e da errori. Biografie di questo tipo sono più nocive che utili, più propense a scoraggiare che ad edificare. Esse raccontano ciò che l’uomo dovrebbe essere piuttosto che ciò ch’egli è realmente. Nulla può edificare se non la manifestazione delle vie di Dio verso l’uomo così com’è, ed è quello che le Scritture ci danno.

Troviamo qui il vecchio patriarca Isacco sulla soglia dell’eternità; la terra e tutto ciò che appartiene alla natura svaniscono rapidamente dinanzi a lui; tuttavia egli è occupato delle «pietanze saporite» e sta per agire in opposizione diretta col consiglio di Dio, benedicendo il più vecchio invece del più giovane. Ecco la natura, la natura con gli occhi ormai annebbiati. Se Esaù ha venduto il diritto alla primogenitura per una minestra di lenticchie, vediamo Isacco sul punto di dare la benedizione in cambio di un piatto di selvaggina. Quanto ciò è umiliante! Bisogna tuttavia che il proposito di Dio resti invariato e Dio compirà tutta la sua volontà. La fede lo sa e nell’energia di questa conoscenza può aspettare il tempo fissato da Dio, mentre la natura, incapace di attendere, deve cercare di raggiungere i suoi scopi con mezzi di sua propria invenzione!

I due grandi fatti che emergono dalla storia di Giacobbe sono, da un lato, il disegno di Dio in grazia e, dall’altro, la natura che imposta i propri piani e i propri progetti per ottenere ciò che, senza piani e senza progetti, il consiglio di Dio avrebbe inevitabilmente fatto avvenire. Questa considerazione vale a semplificare, in maniera singolare, tutta la storia di questo patriarca e ad aumentarne l’interesse.

Nessuna grazia forse ci manca tanto, come quella di saper aspettare con pazienza e dipendere completamente da Dio. La natura agisce sempre in un modo o nell’altro, ostacolando, per quanto dipende da lei, la manifestazione della grazia e della potenza divina. Per compiere i propri disegni Dio non aveva bisogno di elementi come l’astuzia di Rebecca e la grossolana astuzia di Giacobbe. Aveva detto: «Il maggiore servirà il minore», e ciò bastava; bastava per la fede, non certo per la natura che, non sapendo cosa voglia dire dipendere da Dio, si riduce sempre a usare i propri mezzi.

Pedro

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22.3 Sapere aspettare il tempo fissato da Dio

Non c’è posizione più benedetta di quella di un’anima che, con la semplicità di un bimbo, vive in una intera dipendenza da Dio, perfettamente soddisfatta di aspettare il suo tempo. Una tale posizione implica delle prove, è vero; ma l’anima rinnovata impara le lezioni più profonde e fa le più dolci esperienze mentre attende, facendo affidamento nel Signore. E più sarà forte la tentazione di sottrarsi al governo di Dio, più abbondante sarà la benedizione, se sappiamo rimanere in questa beata posizione.

È qualcosa di infinitamente dolce dipendere da qualcuno per il quale benedire è una gioia. Coloro che in una certa misura, hanno gustato la realtà di questa meravigliosa posizione, possono, essi soli, apprezzarla e l’unico che l’ha occupata in modo perfetto e senza interruzione è il Signore Gesù. Egli è stato sempre dipendente da Dio e ha rigettato in modo assoluto ogni proposta del nemico per farlo uscire da quella dipendenza. Il suo parlare era: «Io confido in te; — a te fui affidato fin dalla mia nascita» (Salmi 16:1; 22:10). E quando il diavolo lo tentò e volle indurlo a servirsi di un mezzo straordinario per soddisfare la sua fame, Egli rispose: «Sta scritto: non di pane soltanto vivrà l’uomo, ma d’ogni parola che procede dalla bocca di Dio» (Matteo 3:4). Quando Satana lo tentò, volendo che si gettasse giù dal pinnacolo del tempio, la sua risposta fu: «È altresì scritto: non tentare il Signore Iddio tuo» (Matteo 3:7). Quando Satana volle ch’Egli prendesse i regni del mondo dalla mano d’un altro, non da Dio, e adorasse un altro, non Dio, Egli rispose ancora: «Sta scritto: adora il Signore Iddio tuo e a lui solo rendi il culto» (Matteo 4:10). In una parola, nulla potè sedurlo, lui, l’uomo perfetto, né indurlo a sottrarsi dalla dipendenza assoluta da Dio. Sicuramente, era nei disegni di Dio di nutrire e sostenere il proprio figliuolo; era nei suoi disegni ch’egli venisse ed entrasse «subito nel suo tempio» (Malachia 3:1); e così pure egli gli destinava i regni del mondo: ma era precisamente quella la ragione per la quale il Signore Gesù volle, semplicemente e con perseveranza, confidare in Dio per il compimento dei suoi piani, al momento e nel modo voluti da lui.

Non cerca di fare la propria volontà; Egli s’abbandona completamente a Dio. Non mangerà se non quando Dio gli darà del pane; non entrerà nel tempio se non quando sarà Dio a mandarlo e salirà sul trono solo quando Dio lo vorrà. «Siedi alla mia destra, finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi» (Salmo 110:1).

Questo completo assoggettarsi del Figlio al Padre è inesprimibilmente ammirevole. Benché perfettamente uguale a Dio, Egli prese, come uomo, la posizione della dipendenza; trovava sempre il suo piacere nella volontà del Padre; avendo sempre il grande e immutabile scopo di glorificare il Padre. E quando finalmente tutto fu compiuto, quando ebbe portato a termine perfettamente l’opera che il Padre gli aveva dato da fare, Egli rimise il suo spirito nelle mani del Padre mentre la sua carne riposava nella speranza della gloria e dell’esaltazione promesse.

È dunque ben a proposito ciò che l’apostolo dice: «Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato in Cristo Gesù; il quale, essendo in forma di Dio, non reputò rapina l’essere uguale a Dio, ma annichilì se stesso prendendo forma di servo e divenendo simile agli uomini; ed essendo trovato nell’esteriore come un uomo abbassò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte e alla morte della croce. Ed è perciò che Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra d’ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto la terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre» (Filipp. 2:5-11).

22.4 Gli espedienti di Giacobbe

Quanto poco, all’inizio della sua carriera, Giacobbe conosceva questo sentimento benedetto! Quanto poco era disposto a rimettersi in Dio per la scelta del tempo e dei mezzi! Egli preferiva raggiungere la benedizione e l’eredità con ogni sorta di inganni e di frodi, piuttosto che con la semplice dipendenza e sottomissione a quel Dio che l’aveva eletto per grazia, per farlo erede delle promesse, e che con la sua saggezza e la sua forza onnipotente, avrebbe infallibilmente compiuto in suo favore tutto ciò che gli aveva promesso.

Ma, ahimè, sappiamo fin troppo bene quanto il cuore sia opposto a questa dipendenza e a questa sottomissione. Preferisce tutto, a questa posizione di paziente attesa.

L’uomo naturale che non avesse Dio per risorsa, cadrebbe infallibilmente nella disperazione. Basta questo fatto per insegnarci il vero, carattere della natura umana: per conoscerla non è necessario addentrarsi in quei luoghi dove regnano liberamente il vizio e la criminalità. Basta, per metterla alla prova, porla per un certo tempo in una posizione di dipendenza: si vedrà molto presto come essa si comporta. Non conoscendo Dio, non può confidare in lui: in questo sta il segreto della sua miseria e della sua degradazione morale. Essa ignora completamente il vero Dio e, di conseguenza, non può essere che una cosa miserabile e inutile. La conoscenza di Dio è sorgente di vita; anzi, di più: è la vita stessa. E cos’è l’uomo, cosa può essere, finché non ha la vita?

In Rebecca e in Giacobbe il carattere naturale prende il sopravvento su quello di Isacco e Esaù. La condotta di Rebecca e di Giacobbe non è diversa: in essi non v’è alcuna dipendenza da Dio né fiducia in Lui. Era facile ingannare Isacco dal momento che i suoi occhi erano velati: e Rebecca e Giacobbe si propongono di fare così, invece di guardare a Dio che avrebbe reso completamente vana la deliberazione, che Isacco aveva presa, di benedire colui che Dio non voleva benedire; quel piano di Isacco che aveva la sua origine nel suo carattere naturale tanto poco piacevole, poiché «Isacco amava Esaù» non perché era il primogenito, ma perché «la selvaggina era la sua carne». Come è umiliante tutto ciò!

Quando vogliamo sottrarre a Dio le nostre persone, le nostre circostanze o il nostro destino, attiriamo sempre su noi stessi nient’altro che il tormento. Quando siamo nella prova non dimentichiamo mai che ciò di cui abbiamo bisogno non è di vedere cambiate le nostre circostanze, ma di riportare la vittoria su noi stessi. È ciò che avvenne a Giacobbe, come vedremo in seguito.

Qualcuno ha fatto notare che «se si considera la vita di Giacobbe da quando ha ottenuto con inganno la benedizione di suo padre, si vede che d’allora ha avuto assai poca felicità in questo mondo». Suo fratello concepì il progetto di ucciderlo e l’obbligò a fuggire dalla casa paterna. Labano, suo zio, lo ingannò, come egli aveva ingannato il padre, e lo trattò con durezza; dopo ventun anni di servitù fu costretto a lasciare clandestinamente lo zio, non senza correre il rischio di essere ricondotto da dove era fuggito o ucciso dal fratello irritato. E, appena liberato da queste paure, fu ricolmo d’amarezza per la condotta vergognosa e criminale di suo figlio Ruben; dopo ciò ebbe a deplorare il tradimento e la crudeltà di Simeone e di Levi verso gli abitanti di Sichem, e dovette soffrire per la morte della moglie tanto amata; poi, i suoi figli lo ingannarono ed eccolo ridotto a portare lutto per la falsa morte di Giuseppe; infine, per colmo di tutte queste sventure, la fame lo obbligò a scendere in Egitto dove morì, in terra straniera.

Sono queste le vie della provvidenza, sempre giuste, meravigliose e piene di istruzione. E questo è Giacobbe! Ma qui c’è solo un aspetto della sua vita, quello tetro. Ce n’è un altro, Dio ne sia benedetto, poiché Dio aveva a che fare con Giacobbe, e come vedremo, in ogni avvenimento della vita del patriarca, nel quale egli ha dovuto raccogliere i frutti delle proprie macchinazioni e della sua falsità, l’Iddio di Giacobbe trasse il bene dal male e fece abbondare la grazia al di sopra del peccato e della follia del suo povero servo.

22.5 L’atteggiamento d’Isacco

È molto interessante vedere, al principio di questo capitolo, come, nonostante la debolezza estrema della carne, Isacco conservi, per fede, la dignità di cui Dio l’aveva rivestito. Egli pronuncia la benedizione nel sentimento completo del potere che gli è stato conferito per benedire, e dice: «L’ho benedetto, e benedetto ei sarà... Ecco, io l’ho costituito tuo padrone, e gli ho dato tutti i tuoi fratelli per servi e l’ho provvisto di frumento e di vino; che potrei dunque fare per te, figliuol mio?». Parla come un uomo che, per fede, ha tutti i tesori della terra a sua disposizione; non c’è in lui della falsa umiltà; egli non scende dalla posizione elevata che occupa per colpa delle manifestazioni del suo carattere naturale. Sta per commettere un doloroso errore, è vero, e per agire in diretta opposizione col consiglio di Dio: tuttavia conosce Dio e prende il posto che gli appartiene, dispensando benedizioni in tutta la dignità e l’energia della fede. «L’ho benedetto: e benedetto ei sarà... l’ho provvisto di frumento e di vino».

È la caratteristica della fede di elevarsi al di sopra di tutti i nostri sbagli e delle loro conseguenze, per farci occupare il posto che la grazia di Dio ci ha assegnato.

Pedro

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22.6 Rebecca e Esaù

Quanto a Rebecca, dovette sopportare i tristi risultati dei suoi espedienti. Senza dubbio credeva di concludere tutto molto scaltramente ma, ahimè! ella non rivide più Giacobbe! Come sarebbe stato diverso il risultato se avesse lasciato tutto nelle mani di Dio! «E chi di voi può, con la sua sollecitudine, aggiungere alla sua statura pure un cubito?» (Luca 12:25).

Non guadagnamo nulla a preoccuparci e a formulare dei progetti; non facciamo altro che escludere Dio, e questo, certamente, non è un guadagno. E quando raccogliamo i frutti delle nostre proprie deliberazioni, nulla è più triste a vedersi che un figlio di Dio dimentico della sua posizione e dei suoi privilegi, al punto di voler prendere nelle proprie mani la direzione dei suoi affari. Gli «uccelli del cielo e i gigli dei campi» possono ammaestrarci, quando dimentichiamo fino a questo punto la nostra posizione di intera dipendenza da Dio.

Infine, per quanto riguarda Esaù, l’apostolo lo chiama «un profano... che per una sola pietanza vendette la sua primogenitura» (Ebrei 12:15-17), e che «più tardi, volle ereditare la benedizione, ma fu respinto perché non trovò luogo a pentimento, sebbene la richiedesse con lacrime». Impariamo di qui che «profano» è l’uomo che vuole possedere, nello stesso tempo, la terra e il cielo, godere del presente senza perdere i diritti per il futuro: ogni professante mondano, la cui coscienza non abbia mai risentito degli effetti della verità e il cui cuore sia sempre rimasto estraneo all’influenza della grazia, si trova in questa situazione; ed è grande il numero di tali persone.

23. Capitolo 28: Giacobbe fuggitivo

23.1 La disciplina di Dio

Seguiremo ora Giacobbe lontano dal tetto paterno, quando errò solitario e senza asilo sulla terra.

Dio, a questo punto, incomincia ad occuparsi di lui in modo speciale e lui incomincia a raccogliere, in una certa misura, i frutti amari della sua condotta nei confronti di Esaù; intanto vediamo Dio passare sopra tutta la debolezza e la follia del suo servitore, e spiegare, nelle proprie vie a suo riguardo, la sua grazia sovrana e la sua saggezza infinita.

Dio compirà i suoi disegni, qualunque sia, peraltro, il mezzo che adopererà. Ma se, per impazienza e incredulità, il figlio di Dio vuole sottrarsi al governo del suo Dio, deve aspettarsi di fare tristi esperienze e di passare attraverso una dolorosa disciplina. È ciò che avvenne a Giacobbe: non avrebbe avuto bisogno di fuggirsene a Charan se avesse lasciato a Dio l’incarico di agire per lui.

Dio si sarebbe certamente occupato di Esaù per fargli trovare il posto e la parte che gli erano destinati; e Giacobbe avrebbe potuto godere di quella dolce pace che si trova soltanto in una completa sottomissione a Dio e alle sue deliberazioni, in ogni cosa. Ma è qui che si manifesta costantemente l’eccessiva debolezza dei nostri cuori. Invece di rimanere passivamente sotto la mano di Dio, noi vogliamo agire e, agendo, impediamo a Dio di spiegare la sua grazia e la sua potenza in nostro favore.

«Fermatevi e riconoscete che io sono Dio» (Salmo 46:10). È un precetto al quale nessuno potrebbe obbedire se non per mezzo della potenza della grazia. «La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini; il Signore è vicino; non siate con ansietà solleciti di cosa alcuna, ma in ogni cosa siano le vostre richieste rese note a Dio, in preghiera e supplicazione con azioni di grazie». E quale ne sarà il risultato? «E la pace di Dio che sopravanza ogni intelligenza guarderà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù» (Filipp. 4:5-7).

Tuttavia, mentre raccogliamo i frutti delle nostre vie, della nostra impazienza e incredulità, Dio, nella sua grazia, si serve della nostra debolezza e della nostra follia per farci conoscere meglio la sua tenera grazia e la sua perfetta saggezza. Tutto questo, pur non autorizzando minimamente all’incredulità e all’impazienza, fa risaltare in modo ammirevole la bontà del nostro Dio, facendo gioire il nostro cuore anche quando attraversiamo circostanze penose, prodotte dai nostri sbagli; Dio è sopra ogni cosa e, inoltre, è sua esclusiva prerogativa trarre il bene dal male; «dal mangiatore è uscito del cibo e dal forte è uscito del dolce» (Giudici 14:14); così, se è perfettamente vero che Giacobbe fu costretto a vivere in esilio a causa della sua impazienza, d’altro lato è altrettanto vero che se Giacobbe fosse rimasto tranquillamente sotto il tetto paterno non avrebbe mai imparato cosa significhi «Bethel». I due lati della medaglia sono così fortemente impressi in ogni scena della storia di Giacobbe. Solo quando la sua stoltezza l’ha cacciato dalla casa paterna egli fu indotto a gustare la felicità e la solennità della «casa di Dio».

23.2 Bethel, la casa di Dio

«Or Giacobbe parti da Beer-Sceba e se n’andò verso Charan. Capitò in un certo luogo e vi passò la notte, perché il sole era già tramontato. Prese una delle pietre del luogo, la pose come suo capezzale e si coricò quivi».

Qui Giacobbe, errante e fuggitivo, si trova proprio nella posizione nella quale Dio può incontrarsi con lui e manifestargli i suoi consigli di grazia e di gloria. Non vi è nulla che esprima meglio la nullità e l’impotenza dell’uomo, dello stato a cui Giacobbe è ridotto qui: nella debolezza del sonno, all’aperto, sotto il cielo, non avendo che una pietra per guanciale.

«E sognò; ed ecco gli angeli di Dio che salivano e scendevano per la scala. E l’Eterno stava al di sopra d’essa e gli disse: Io sono l’Eterno, l’Iddio d’Abrahamo tuo padre e d’Isacco; la terra sulla quale stai coricato io la darò a te e alla tua progenie. Ed ecco, io sono teco e ti guarderò dovunque tu andrai e ti ricondurrò in questo paese; perché io non ti abbandonerò prima d’aver fatto quello che t’ho detto».

Ecco come l’Iddio di Bethel rivela a Giacobbe i suoi disegni riguardo a lui e alla sua progenie. È véramente «la grazia e la gloria». Questa scala «appoggiata sulla terra» induce naturalmente il cuore a meditare sulla manifestazione della grazia di Dio nella persona e nell’opera del Figlio. È sulla terra che fu compiuta l’opera meravigliosa che costituisce la base, il solido ed eterno fondamento di tutti i consigli di Dio, riguardo a Israele, alla Chiesa ed al mondo. È sulla terra che Gesù è vissuto, ha lavorato ed è spirato per togliere con la sua morte tutto ciò che costituiva un ostacolo all’adempimento dei piani di Dio per la benedizione dell’uomo.

Ma «la sua cima (della scala) toccava il cielo». Essa rappresentava il mezzo di comunicazione fra il cielo e la terra: ed ecco «gli angeli di Dio che salivano e scendevano per la scala», bella e notevole immagine di Colui per mezzo del quale Dio è disceso in tutta la profondità della miseria dell’uomo e per mezzo del quale pure ha elevato l’uomo, ponendolo alla sua presenza per sempre, nella potenza della divina giustizia. Dio ha provveduto a tutto quello che era necessario per il compimento dei suoi piani, a dispetto della follia e del peccato dell’uomo; ed è un’eterna felicità quella dell’anima, che per mezzo dell’insegnamento dello Spirito Santo, può così vedersi rinchiusa tra i confini dei disegni della grazia di Dio.

Pedro

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23.3 La grazia sovrana di Dio

Il profeta Osea ci trasporta ai tempi in cui le cose rappresentate dalla scala di Giacobbe avranno il loro adempimento: «... e in quel giorno io farò per loro un patto con le bestie dei campi, con gli uccelli del cielo e coi rettili del suolo; e spezzerò e allontanerò dal paese l’arco, la spada, la guerra e farò ch’essi riposino al sicuro. E io ti fidanzerò a me per l’eternità; ti fidanzerò a me in giustizia, in equità, in benignità e in compassione. Ti fidanzerò a me in fedeltà e tu conoscerai l’Eterno. E in quel giorno avverrà che io ti risponderò, dice l’Eterno: risponderò al cielo ed esso risponderà alla terra; e la terra risponderà al grano, al vino, all’olio e questi risponderanno ad Jizreel. Io lo seminerò per me in questa terra e avrò compassione di Lo-ruhama; e dirò a Lo-ammi: Tu sei il popolo mio! ed egli mi risponderà: Mio Dio» (Osea 2:18-23).

Le parole del Signore stesso racchiudono un’allusione alla visione di Giacobbe (Giov. 1:51): «... In verità, in verità, vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figliuol dell’uomo».

Questa visione di Giacobbe è una meravigliosa rivelazione della grazia di Dio verso Israele. Abbiamo visto quali fossero il vero carattere e lo stato morale di Giacobbe e l’uno e l’altro comprovano, con chiara evidenza, che tutto doveva essere grazia verso di lui se doveva essere benedetto. Né il suo carattere, né la sua nascita, gli davano diritto a qualcosa. Esaù, in virtù della sua nascita e del suo carattere, avrebbe potuto pretendere qualcosa, a condizione, però, che fosse messo da parte il supremo diritto di Dio. Giacobbe non aveva diritto a nulla. Allo stesso modo che Esaù non poteva rivendicare i propri diritti, se non a scapito della sovranità di Dio, Giacobbe non poteva averne, se non da questa stessa sovranità; e, peccatore com’era, non poteva basarsi su altro che sulla sola, sovrana e pura grazia di Dio.

23.4 Una coscienza a disagio

La rivelazione del Signore al servitore ch’Egli s’è scelto ricorda, o semplicemente annunzia, a Giacobbe ciò che lui, l’Eterno, avrebbe ancora compiuto: «Io sono l’Eterno... Io ti darò la terra... Io ti guarderò... Io ti ricondurrò... Io non ti abbandonerò prima d’avere fatto quello che t’ho detto» (vers. 13-15). Tutto è da Dio, senza alcuna condizione.

Quando è la grazia che agisce non v’è, e non può esservi, il «se», né il «ma»! Non si trova la grazia dove c’è un se. Dio può, è vero, porre l’uomo in una posizione di responsabilità, nella quale, necessariamente, bisogna ch’egli si rivolga a lui con il «se». Ma Giacobbe, addormentato su di un guanciale di pietra, ben lontano dal trovarsi in una posizione di responsabilità, si trova, invece, nella nudità e nella debolezza più complete; e proprio per questo, Giacobbe si trovava in una posizione in cui poteva ricevere una rivelazione della più perfetta, la più ricca, la più incondizionata grazia.

Non possiamo fare altro che apprezzare il godimento infinito che si prova ad essere in una posizione tale da non avere nulla su cui appoggiarci se non Dio solo, e nella quale ogni vera benedizione ed ogni gioia reale si basino, per noi, sui diritti supremi di Dio e sulla sua fedeltà. In base a questo principio sarebbe dunque, per noi, una perdita irreparabile l’avere qualcosa davanti a noi su cui poter riposare, ammesso d’avere a che fare con Dio sul principio della nostra responsabilità; tutto sarebbe inevitabilmente perduto per noi.

Giacobbe era così cattivo che solo Dio poteva essere sufficiente a ciò che il suo stato richiedeva. E, facciamo attenzione, fu per non aver riconosciuto questa verità che Giacobbe si immerse in tanti dispiaceri e calamità.

La rivelazione che l’Eterno fa di se stesso è una cosa; attenersi a questa rivelazione è un’altra. L’Eterno si rivela a Giacobbe nella sua grazia infinita, ma Giacobbe non si è neppure ancora risvegliato dal sonno che già lo vediamo mettere in evidenza il suo vero carattere, dimostrando così di conoscere assai poco, in pratica, l’Iddio benedetto che si era appena rivelato a lui in un modo così meraviglioso. «Ed ebbe paura e disse: com’è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo» (v. 17).

Il cuore di Giacobbe non era a suo agio alla presenza di Dio. Poiché è soltanto quando il cuore è compietamente rotto e l’uomo spogliato di se stesso che si è a proprio agio con Dio; Dio prende piacere nel cuore contrito, sia benedetto il suo nome! E il cuore contrito è felice presso Dio. Ma il cuore di Giacobbe non era ancora in una tale posizione e Giacobbe non aveva ancora imparato a riposarsi, come un bambino, sull’amore perfetto di Colui che ha potuto dire: «Ho amato Giacobbe» (vedi Mal. 1:2; Rom. 9:13). «L’amore perfetto caccia via la paura». Dove questo amore non è completamente conosciuto e realizzato, c’è sempre del dubbio e del disagio.

La casa e la presenza di Dio non incutono alcuna paura all’anima che conosce l’amore di Dio come si è manifestato nel sacrificio di Cristo. Una tale anima è piuttosto portata a dire: «O Eterno, io amo il soggiorno della tua casa e il luogo dove risiede la tua gloria» (Salmo 26:8). E ancora: «Oh quanto sono amabili le tue dimore, o Eterno degli eserciti! L’anima mia langue e vien meno bramando i cortili dell’Eterno» (Salmo 84:1). Quando il cuore è saldo nella conoscenza di Dio, si ama la casa di Dio, qualunque ne sia il carattere; sia essa Bethel o il tempio di Gerusalemme o la Chiesa che è ora formata da tutti i veri credenti, entrati «a far parte dell’edificio che ha da servire di dimora a Dio per lo Spirito» (Efesi 2:22).

In ogni caso, la conoscenza che Giacobbe aveva di Dio e della Sua casa era ben limitata, a questo momento della sua storia; ne abbiamo una nuova prova nel compromesso che vuol fare con Dio, negli ultimi versetti del cap. 28.

«E Giacobbe fece un voto dicendo: se Dio è meco, se mi guarda durante questo viaggio che fo, se mi dà pane da mangiare e vesti da coprirmi e se ritorno sano e salvo alla casa del padre mio, l’Eterno sarà il mio Dio; e questa pietra che ho eretta in monumento, sarà la casa di Dio; e di tutto quello che tu darai a me, io, certamente, darò a te la decima». Giacobbe dice «se Dio è meco» quando il Signore, proprio allora, gli aveva detto espressamente «io sono con te e ti guarderò ovunque tu andrai e ti ricondurrò in questo paese...». A dispetto di una tale testimonianza, il povero cuore di Giacobbe non è capace di elevarsi oltre il «se» e di avere, della bontà di Dio, un concetto più alto di quello in rapporto al «pane da mangiare» e «alle vesti per coprirsi».

Questi erano i pensieri di un uomo che proprio allora aveva avuto la visione magnifica della scala dalla terra al cielo e sulla quale c’era l’Eterno che gli prometteva una innumerevole progenie e un’eredità eterna. Evidentemente, Giacobbe era incapace di penetrare nella realtà e nella pienezza dei pensieri di Dio; misurava Dio col suo metro e sbagliava completamente nell’idea che si faceva di Dio. In poche parole, Giacobbe non aveva ancora finito con se stesso e, di conseguenza, non aveva ancora incominciato con Dio.

Pedro

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24. Capitoli da 29 a 31: Giacobbe a casa di Labano

24.1 Alla scuola di Dio

«Poi Giacobbe si mise in cammino e andò nel paese degli Orientali».

Come abbiamo visto nel cap. 28, Giacobbe non sa afferrare il vero carattere di Dio e riceve l’abbondanza della grazia di Bethel con un «se», accompagnato da un miserabile baratto per del pane e degli abiti; ed ora dobbiamo seguire Giacobbe in una successione ininterrotta di compromessi.

«Quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà» (Gal. 6:7). È impossibile sfuggire a questo principio. Giacobbe non aveva ancora trovato il proprio livello davanti a Dio e bisogna che Dio si serva delle circostanze per castigarlo e umiliarlo. È qui il segreto di tanti dispiaceri e di tante prove che abbiamo in questo mondo. I nostri cuori non sono mai stati rotti davanti a Dio, realmente; non ci siamo mai giudicati, non siamo mai stati spogliati di noi stessi. Ne deriva che siamo sempre daccapo come delle persone che urtano la testa contro un muro. Nessuno può realmente godere di Dio se non ha posto fine al proprio «io», per la semplice ragione che Dio incomincia a manifestarsi proprio là, dove ha termine la carne. Se dunque non l’ho fatta finita con la mia carne, per mezzo di una profonda e positiva esperienza, è moralmente impossibile che io abbia un’intelligenza, sia pure imperfetta, del carattere di Dio. Bisogna che in un modo o nell’altro impari a conoscere cosa vale la natura; e, per portarmi a questa conoscenza, il Signore si serve di svariati mezzi, che di per se stessi non sarebbero’efficaci se non fosse lui ad adoperarli, per rivelare ai nostri occhi il vero carattere di tutto ciò che si trova nei nostri cuori. Non avviene forse sovente che il Signore venga vicino a noi e ci parli in un orecchio senza che discerniamo la sua voce e che sappiamo prendere il posto che ci compete davanti a lui?

«L’Eterno è in questo luogo e io non lo sapevo... Com’è tremendo questo luogo!». Da tutto ciò Giacobbe non ricevette alcuna istruzione, tanto che fu necessaria una disciplina di trent’anni e una dura scuola, che neanche bastò a vincerlo completamente.

24.2 L’ingannatore a casa dell’ingannatore

Tuttavia egli entra in un’atmosfera perfettamente adatta al suo stato morale. L’affarista Giacobbe incontra Labano, affarista e commerciante, e li vediamo gareggiare in inganni e astuzie per imbrogliarsi a vicenda. Per Labano non c’è da stupirsi, perché non era stato a Bethel; non aveva visto il cielo aperto e la scala che toccava cielo e terra; non aveva udito le gloriose promesse dalla bocca dell’Eterno che gli assicurava il possesso della terra di Canaan e una progenie tanto numerosa da non potersi contare. Labano, l’uomo del mondo, non ha altra risorsa che i propri bassi sentimenti e la propria cupidigia. E si serve di quello. Come si potrebbe far uscire la purezza dall’impurità? Ma nulla è più umiliante di vedere Giacobbe, dopo tutto ciò che ha visto e udito a Bethel, lottare con un uomo del mondo e sforzarsi di accumulare dei beni con dei mezzi simili a quelli adoperati da lui.

Ahimè! non è punto raro vedere dei credenti dimenticare la loro sorte elevata e la loro eredità celeste a tal punto da scendere in campo coi figliuoli di questo mondo e qui lottare con essi per le ricchezze e gli onori di una terra colpita dalla maledizione del peccato. Tutto questo è talmente vero che, in un gran numero di persone, è difficile scoprire qualche traccia di quel principio di cui parla Giovanni; «quello che vince il mondo» (1 Giov. 5:4).

Considerando e giudicando Giacobbe e Labano dal punto di vista dei loro caratteri naturali, sarebbe difficile trovare fra i due una benché minima differenza. Bisognerebbe essere dietro al sipario ed entrare nei pensieri di Dio riguardo ai due, per vedere a qual punto differiscono. Ma è Dio che ha posto una differenza fra loro, non Giacobbe; la stessa cosa avviene oggi. Benché possa essere difficile da scoprirsi, esiste un’immensa differenza fra i figliuoli della luce e quelli delle tenebre: una differenza basata sul fatto solenne che i primi sono «vasi di misericordia che Dio aveva già innanzi preparati per la gloria», mentre gli altri sono «vasi d’ira preparati per la perdizione» (non da Dio ma dal peccato) (Rom. 9:22-23) (*). I Giacobbe e i Labano differiscono essenzialmente e differiranno sempre, benché i primi possano venir meno in modo spaventoso alla realizzazione e alla manifestazione del loro vero e glorioso carattere.

_____________________
(*) Ogni uomo spirituale noterà, con profondo interesse, con quanta cura lo Spirito di Dio, in Rom. 9 e altrove nelle Scritture, ci mette in guardia contro la deduzione orribile che lo spirito umano fa, troppo sovente, dalla dottrina dell’elezione di Dio. Quando parla dei «vasi d’ira» si limita a dire che erano, o sono, tutti «preparati per la perdizione»; non dice che è Dio che li ha preparati. D’altro canto, quando fa allusione ai «vasi di misericordia» dice che è Dio che li «aveva già innanzi preparati per la gloria». Questa distinzione è importantissima.

Se il mio lettore consulta Matteo 25:34-41, vi troverà un esempio altrettanto notevole della medesima dottrina. Quando il Re si rivolge a quelli che gli stanno a destra dice: «Venite, voi, i benedetti del Padre mio, eredate il regno che vi è stato preparato fin dalla fondazione del mondo» (v. 34); ma quando parla a quelli della sinistra dice: «andate via da me, maledetti». Non dice maledetti dal Padre mio; poi aggiunge «nel fuoco eterno preparato — non per voi, ma — per il diavolo e per i suoi angeli» (v. 41). In poche parole, è evidente che Iddio ha «preparato» un regno di gloria e dei vasi di misericordia che ereditino questo regno, e che non ha preparato il «fuoco eterno» per degli uomini ma per il diavolo e i suoi angeli; e non è lui che ha preparato i vasi d’ira, ma questi si sono preparati da loro stessi. Se dunque la parola di Dio stabilisce chiaramente l’elezione, respinge, con altrettanta cura, l’idea della «riprovazione». Vedendosi in cielo, ogni beato avrà da rendere grazie a Dio solo; e chiunque si troverà nell’inferno non potrà accusare altri che se stesso.
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Quanto a Giacobbe, tutta la sua fatica e il suo lavoro, come pure quel miserevole baratto del capitolo precedente, risultano dall’ignoranza della grazia e dall’incapacità di confidare ciecamente nella promessa di Dio. Colui che, dopo aver ricevuto da Dio la promessa, senza riserve, di dargli la terra di Canaan, poteva dire «se mi dà pane da mangiare e vesti da coprirmi», non aveva certo che una ben debole idea di Dio e di ciò che era la sua promessa. Vediamo così l’uomo sforzarsi a fare i propri interessi nel modo che gli risulta più vantaggioso. È sempre così quando la grazia non è compresa. La professione che possiamo fare dei principi della grazia non è la misura dell’esperienza che abbiamo della potenza di essa. Chi crederebbe che la visione non abbia rivelato a Giacobbe ciò che la grazia era? Eppure la rivelazione di Dio a Bethel e la condotta di Giacobbe a Charan sono tanto differenti! Tuttavia, quest’ultima non era che l’espressione di come egli aveva compreso la prima. Il carattere e la condotta di un uomo sono l’esatta misura dell’esperienza e della convinzione dell’anima sua qualunque sia, del resto, la professione che egli fa. Giacobbe non era ancora stato costretto a vedersi, tale qual era, davanti a Dio; di conseguenza ignorava la grazia, e manifestò la propria ignoranza mettendosi allo stesso livello di Labano e adottandone i principi e le vie.

Non si può fare a meno d’essere sorpresi dal fatto che Giacobbe fu condotto dalla provvidenza di Dio in una sfera particolarmente adatta a manifestare il suo carattere negli aspetti più salienti, per il fatto che non aveva imparato a conoscere e a giudicare davanti a Dio il suo carattere naturale. Giacobbe andò, così, a Charan, il paese di Labano e di Rebecca, proprio alla scuola da cui erano usciti i principi che egli, con tanta abilità, metteva in pratica e che, in quella famiglia, erano insegnati, applicati e mantenuti. Per sapere chi è Dio bisognava andare a Bethel; per sapere chi era l’uomo, bisognava andare a Charan: ora Giacobbe, non avendo potuto afferrare la rivelazione che Dio gli aveva fatto di sè a Bethel, dovette andare a Charan perché si manifestasse chi egli era: e là, ahimè, quanti sforzi dovette fare per riuscire, quanti sotterfugi, quanti inganni, quanti artifici. Non un briciolo di santa e gloriosa fiducia in Dio, di semplicità, di pazienza, di fede. Dio era con Giacobbe, è vero, poiché nulla può impedire alla grazia di risplendere.

Giacobbe riconosce, un poco almeno, la presenza e la fedeltà di Dio, ma non può stare senza fare i suoi piani e i suoi progetti. Non può lasciare a Dio il compito di decidere per lui ciò che riguarda le sue mogli e i suoi impegni; cerca di aggiustare ogni cosa con i suoi inganni e i suoi espedienti. In poche parole, dal principio alla fine, Giacobbe è il «soppiantatore» (*). Dove trovare un esempio di astuzia più clamoroso di quello che ci è riferito al cap. 30:37-42? È quello un perfetto ritratto di Giacobbe. Invece di lasciare a Dio l’incarico di moltiplicare le pecore macchiate e vaiolate e gli agnelli neri, cosa che Dio avrebbe fatto sicuramente, se avesse confidato in lui, Giacobbe, per raggiungere il suo scopo, si serve di un mezzo che solo un cervello come il suo avrebbe potuto escogitare. Nei vent’anni di soggiorno in casa di Labano agisce nello stesso modo e, alla fine, fugge, mostrandosi così, in tutto, coerente con se stesso.

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(*) Il nome «Giacobbe» significa «soppiantatore».

Pedro

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24.3 La conoscenza della grazia e la conoscenza di noi stessi

Seguendo ora Giacobbe e osservandone il carattere da un punto all’altro della sua straordinaria storia, possiamo contemplare le meraviglie della grazia di Dio. Nessuno, all’infuori di Dio, avrebbe potuto sopportare un Giacobbe e nessuno, all’infuori di lui, avrebbe voluto occuparsene. La grazia ci raggiunge nella più infima delle condizioni. Prende l’uomo così com’è e agisce nei suoi riguardi con la piena intelligenza di chi egli è. È importantissimo capire bene, fin dal principio, questo carattere della grazia, per essere in grado di sopportare, con fermezza, le scoperte che facciamo della nostra indegnità e che così spesso minano la fiducia dei figliuoli di Dio e ne turbano la pace.

Molte persone non si rendono conto, alla prima, della completa rovina della vecchia natura così come appare alla luce della presenza di Dio, benché i loro cuori siano realmente stati attirati dalla grazia e le loro coscienze rese tranquille dall’applicazione del sangue di Cristo. E la conseguenza è che, man mano che progrediscono nella vita cristiana e fanno delle scoperte più profonde del male che è in loro, mancando di questa conoscenza della grazia di Dio e del valore del sangue di Cristo, finiscono per dubitare di essere realmente figli di Dio. Questi cristiani sono così staccati da Cristo e abbandonati a loro stessi; allora, ricorrono agli ordinamenti per mantenere il tono della loro pietà, oppure ricadono in uno stato di completa mondanità. Tale e la sorte di colui il cui cuore non è stato «reso saldo dalla grazia» (Ebrei 13:9).

Questo fatto rende lo studio della storia di Giacobbe di profondo interesse e di grande utilità. Chi legge i tre capitoli che stiamo meditando, non può fare a meno di essere colpito dalla grazia meravigliosa che ha potuto interessarsi di un essere come Giacobbe e dire ancora, dopo aver scoperto tutto ciò che vi era in lui: «Egli non scorge iniquità in Giacobbe, non vede perversità in Israele» (Numeri 23:21). Dio non dice che non v’è iniquità in Giacobbe e ingiustizia in Israele: una tale asserzione non sarebbe vera e non darebbe al cuore quella certezza che, al di sopra di ogni cosa, Dio vuole infondere. Dire a un povero peccatore che in lui non v’è alcun peccato, non gli darebbe la minima sicurezza: egli sa, anche troppo bene, che vi è del peccato in lui. Ma se Dio gli dice che in lui non vede peccato a motivo del perfetto sacrificio di Cristo, la pace entrerà certamente nel suo cuore e nella sua coscienza.

Se Dio avesse prescelto Esaù, non avremmo assistito al medesimo spiegamento di grazia, per il fatto che Esaù non ci appare sotto una luce così sfavorevole come Giacobbe. Più l’uomo si abbassa ai suoi propri occhi, più la grazia di Dio si eleva ed è magnificata. Nella misura con la quale, a mia valutazione, il mio debito si moltiplica da cinquanta a cinquecento denari, l’apprezzamento che faccio della grazia aumenta proporzionalmente e così pure l’esperienza che ho di quell’amore che, quando non avevamo «di che pagare», rimise «il nostro debito» (Luca 7:42). Con ragione, dunque, l’apostolo dice: «È bene che il cuore sia reso saldo dalla grazia e non da pratiche relative a vivande, dalle quali non ritrassero alcun giovamento quelli che le osservarono» (Ebrei 13:9).

25. Capitoli da 32 a 34: Di ritorno in Canaan

25.1 Gli arrangiamenti umani e la preghiera

«Giacobbe continuò il suo cammino, e gli si fecero incontro degli angeli di Dio».

Nonostante tutto, la grazia di Dio accompagna Giacobbe. Nulla potrebbe far mutare l’amore di Dio; egli ama d’un amore immutabile. Chi è amato da lui, lo è fino alla fine; il suo amore è come lui, «lo stesso ieri, oggi e in eterno» (Ebrei 13:8).

Quanto scarso effetto il «campo di Dio» abbia avuto su Giacobbe, possiamo rilevarlo da ciò che questo capitolo ci riferisce di lui. «Giacobbe mandò davanti a sè dei messi a Esaù suo fratello nel paese di Seir, nella campagna di Edom» (v. 3). Certamente non si sente a suo agio pensando di incontrarsi con Esaù e il motivo c’era: aveva agito molto male nei suoi confronti e la sua coscienza non era tranquilla. Ma, invece di abbandonarsi nelle braccia di Dia interamente, egli ricorre di nuovo, per distogliere l’ira di Esaù, ai suoi abituali espedienti. Cerca di lusingare Esaù, invece di appoggiarsi a Dio. «E dette loro quest’ordine: direte così ad Esaù, mio signore: così dice il tuo servo Giacobbe: Io ho soggiornato presso Labano, e vi sono rimasto fino ad ora» (v. 4). Tutto questo rivela un’anima lontana dall’avere il suo centro in Dio. «Mio signore» e «tuo servo» non sono espressioni di fratello a fratello, né di persona che ha il sentimento della dignità che la presenza di Dio conferisce. È il linguaggio di Giacobbe, di Giacobbe che ha una cattiva coscienza.

«E i messi tornarono a Giacobbe, dicendo: siamo andati dal tuo fratello Esaù ed eccolo che ti viene incontro con quattrocento uomini. Allora Giacobbe fu preso da gran paura e angosciato» (v. 6-7). Cosa farà quindi? S’abbandonerà a Dio? No; incomincia ad escogitare degli accomodamenti. «Divise in due schiere la gente che era con lui, i greggi, gli armenti, i cammelli, e disse: se Esaù viene contro una delle schiere e l’abbatte, la schiera che rimane potrà salvarsi». Il primo pensiero di Giacobbe è sempre di fare dei piani. In questo c’è un’immagine veritiera del povero cuore dell’uomo. È vero che dopo aver organizzato il suo piano, si rivolge all’Eterno e grida a lui perché lo liberi, ma appena finito di pregare torna a volgersi ai propri espedienti. Ora, pregare e fare dei piani sono due cose che non vanno d’accordo: quando io metto in opera i miei disegni, finisco col riposare più o meno su di essi; quando prego, devo confidare esclusivamente in Dio. Quando i miei sguardi sono assorbiti dai miei propri piani, non sono preparato a vedere Dio intervenire in mio favore; allora, la preghiera non è l’espressione dello stato in cui mi trovo, ma il cieco compimento di qualcosa che credo sia necessario fare, o, fors’anche, la richiesta a Dio di santificare i miei disegni. Ma Dio non vuole che io gli chieda di santificare e di benedire i miei mezzi, bensi che io rimetta tutto nelle sue mani affinché sia lui ad intervenire in mio favore. Indubbiamente, quando la fede lascia agire Dio, Egli adopererà i propri mezzi; ma ciò è ben diverso dal riconoscere e benedire i piani e gli arrangiamenti dell’incredulità e dell’impazienza. La differenza non è mai troppo compresa.

Sebbene Giacobbe abbia chiesto a Dio che lo liberasse da suo fratello Esaù, appare evidente che non aveva fiducia nel suo intervento poiché cerca di «placarlo con un dono». La sua fiducia si basa sul dono e non su Dio soltanto. «Il cuore è ingannevole più d’ogni altra cosa e insanabilmente maligno» (Geremia 17:9). È sovente difficile scoprire quale sia il vero fondamento della nostra fiducia. Spesso immaginiamo, e cerchiamo di pesuadercene, di appoggiarci su Dio quando, invece, abbiamo posto la fiducia in qualche sistema di nostra invenzione. Chi avesse udito Giacobbe pregare così: «Liberami dalle mani di mio fratello, dalle mani di Esaù: perché io ho paura di lui e temo che venga e mi dia addosso non risparmiando né madre né bambini», come avrebbe immaginato che Giacobbe potesse dire ancora «io lo placherò col dono che mi precede»? Aveva forse dimenticato la preghiera che aveva fatto? Faceva del dono un dio? Riponeva la fiducia negli animali piuttosto che in Dio a cui, proprio allora, aveva affidato la sua sorte? Queste domande vengono spontanee, per tutto ciò che ci è riferito qui di Giacobbe, e possiamo leggerne la risposta nello specchio del nostro cuore. Sarà lui ad insegnarci, non meno della storia di Giacobbe, come siamo disposti ad appoggiarci di più sui piani elaborati dalla nostra sapienza che su Dio; ma, in questo modo, non si ricava mai nulla di buono. Siamo spesso contentissimi di noi stessi quando i nostri espedienti sono stati accompagnati da preghiera o abbiamo adoperato tutti i mezzi consentiti, e chiesto a Dio di benedirli; ma in tali casi, le nostre preghiere non valgono molto di più dei nostri piani, dato che ci basiamo su essi piuttosto che su Dio. Bisogna che arriviamo al punto di porre fine a tutto ciò che è il prodotto dei nostro «io», perché Dio possa manifestarsi; e, perché possiamo farla finita con i nostri piani, bisogna che questo sia prima avvenuto con noi stessi, bisogna che impariamo a riconoscere che «ogni carne è come l’erba e tutta la sua grazia è come il fiore del campo» (Isaia 40:6).

Pedro

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25.2 Giacobbe a Peniel

Nel capitolo di cui ci stiamo occupando, Giacobbe è condotto a questo. Dopo aver preso tutte le sue precauzioni la Parola ci dice: «Giacobbe rimase solo, e un uomo lottò con lui fino all’apparir dell’alba» (v. 24). Incomincia qui una nuova fase della storia di questo uomo notevole.

Per arrivare ad una esatta cognizione di noi stessi e delle nostre vie, è necessario che ci siamo trovati soli con Dio. Per conoscere il vero valore della nostra natura e delle sue invenzioni, bisogna che le pesiamo con la bilancia del santuario. Poco importa ciò che pensiamo di noi stessa o ciò che gli uomini possono pensare; l’importante è sapere ciò che ne pensa Dio; e, per saperlo, bisogna che siamo lasciati «soli», lontani dal mondo e dal nostro «io», lontani da qualunque pensiero, dai ragionamenti, dalle emozioni della natura, «soli» con Dio. «Giacobbe rimase solo, e un uomo lottò con lui». La Scrittura non ci dice, notiamolo bene, che Giacobbe lottò con un uomo, ma che un uomo lottò con lui. Sovente questo fatto è stato, erroneamente, presentato come un esempio dell’energia con la quale Giacobbe pregava. Dire che io lotto con un uomo o che un uomo lotta con me, sono due idee differenti; nel primo caso sono io che voglio ottenere qualcosa da un altro, nel secondo caso, invece, è un altro che vuole ottenere qualcosa da me. Dio lotta con Giacobbe per fargli sentire che non è altro che una debole e miserabile creatura; poi, vedendo che Giacobbe sostiene il combattimento contro di lui con tanta ostinazione, «gli toccò la commessura dell’anca e la commessura dell’anca di Giacobbe fu slogata».

Bisogna che la sentenza di morte sia scritta su ogni carne: bisogna aver afferrato la portata della croce di Cristo prima di poter camminare con Dio con fermezza e gioia. Abbiamo seguito Giacobbe attraverso tutti i sotterfugi e le attività del suo straordinario carattere; l’abbiamo visto arrangiarsi, fare dei piani per tutti i vent’anni in cui ha soggiornato presso Labano, ma soltanto quando è lasciato solo, si fa una giusta idea di quanto è debole e impotente. Essendo allora minata la sede della sua forza, impara a dire «non ti lascerò». Noti il lettore, che Giacobbe parla così soltanto quando l’articolazione dell’anca gli è stata lussata. Questo semplice fatto ci dà la chiave di tutta la scena. Se Dio lotta con Giacobbe è perché il suo scopo è di condurlo a questo punto. Per quanto nella preghiera abbia manifestato una certa potenza, vediamo che, subito dopo le parole di supplica rivolte a Dio, Giacobbe mette a nudo il segreto della sua fiducia, dicendo «io lo placherò col dono». Avrebbe parlato così se avesse compreso il significato della preghiera e cos’è la vera dipendenza da Dio? Certamente no. Iddio e la creatura debbono occupare, distintamente, ciascuno il proprio posto, e ciò si realizzerà nell’anima di chi conosce la santa realtà di una vita di fede. Ma, ahimè, è proprio a questo riguardo che pecchiamo, se si può su questo argomento, parlare degli altri! Nascondiamo la vera incredulità dei nostri cuori scaltri sotto la formula plausibile, apparentemente pia, che bisogna darsi da fare e ci illudiamo di rimetterci a Dio per la benedizione dei nostri mezzi. Ma, in realtà, è su questi che noi ci appoggiamo, non su Dio. Ci sia dato di capire quanto è falsa una simile via e di attaccarci a Dio solo, con più semplicità, affinché la nostra vita porti il carattere di un’elevata spiritualità che ci pone al di sopra delle circostanze che attraversiamo.

25.3 Giacobbe diventa Israele

Non è facile arrivare a riconoscere la nullità della creatura, a tal punto da poter dire «non ti lascerò andare prima che tu m’abbia benedetto» (v. 26). Dire questo con sincerità di cuore e vivere nella potenza del significato di quelle parole, è il segreto della vera forza. Giacobbe parlò così soltanto quando l’articolazione della sua anca fu lussata, non prima. Lottò a lungo prima di cedere, poiché era forte la sua fiducia nella carne. Ma Dio può piegare fin nella polvere il carattere più ostinato; può colpire le risorse della forza naturale e imprimervi la sentenza di morte; fino a quel momento non esiste potenza né presso Dio né presso gli uomini. Bisogna essere prima «deboli» per essere poi «forti». La «potenza di Cristo» si poserà su me in proporzione alla conoscenza che ho delle mie debolezze (2 Cor. 12:9). Dio non può apporre il suggello dell’approvazione sulla forza della natura dell’uomo o sulla sua saggezza o sulla sua gloria; bisogna che tutte queste cose «diminuiscano» perché «egli cresca». La natura non servirà mai da piedistallo per la potenza della grazia di Cristo; se ciò fosse possibile, la carne avrebbe di che gloriarsi davanti a Dio, ma sappiamo che questo non avverrà mai.

Ora, dal momento che la manifestazione della gloria, del nome o del carattere di Dio, è legata all’annientamento della natura, è evidente che l’anima non può gioire di questa manifestazione prima che la natura sia stata realmente messa da parte. È per questo che Giacobbe, benché invitato a dire il proprio nome, che significa «soppiantatore», non ottiene nessuna rivelazione circa il nome di chi ha lottato con lui e che l’ha abbattuto fin nella polvere. Egli riceve per sè il nome di «Israele», «principe», ed è già un notevole progresso; ma quando dice «deh, palesami il tuo nome», riceve la risposta: «perché mi chiedi il mio nome?». Dio rifiuta di rivelargli il suo nome, benché abbia indotto Giacobbe a dirgli la verità riguardo a se stesso e lo abbia, di conseguenza, benedetto. Quanti casi analoghi sono racchiusi negli annali della famiglia di Dio! L’«io» è messo a nudo in tutta la sua morale mostruosità; e ciò che Dio è, non è compreso praticamente neppure quando è venuto così vicino a noi e ci ha benedetti nella misura in cui ci siamo resi conto di ciò che siamo.

Giacobbe riceve il nuovo nome di «Israele» quando la giuntura dell’anca è stata colpita. Diviene un potente «principe» quando ha imparato e riconosciuto di non essere altro che un debole uomo. L’Eterno gli risponde, tuttavia, «perché mi chiedi il mio nome» e non gli rivela il nome di colui che aveva messo a nudo il vero nome e la vera condizione di Giacobbe.

Impariamo da questo che essere benedetti da Dio e ricevere, per mezzo dello Spirito, la rivelazione del suo carattere sono due cose diverse. «E lo benedisse quivi» ma non gli rivelò il suo nome.

C’è sempre una benedizione nell’essere spinti a conoscersi; questo ci pone su un cammino in cui siamo resi capaci di discernere più chiaramente ciò che Dio è per noi in ogni minimo particolare. Avvenne così a Giacobbe. Da quando l’articolazione della sua anca è stata colpita, egli si trovò in una condizione alla quale solo Dio poteva bastare. Un misero zoppo poteva fare ben poco; era vantaggioso per lui rimettersi in qualcuno che era onnipotente.

Per finire questo capitolo, si può notare che il libro di Giobbe è, in un certo senso, un commento di questa scena della storia di Giacobbe. Da un capo all’altro dei primi trentun capitoli Giobbe lotta coi suoi amici e difende la propria tesi contro tutti i loro argomenti; ma al cap. 32, Dio, servendosi di Elihu, entra in lotta con lui; e al cap. 38 l’affronta direttamente nella piena manifestazione della sua grandezza e della sua gloria e gli trae di bocca quelle ben note parole: «Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l’occhio mio t’ha veduto. Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere» (Giobbe 42:5-6).

Dio gli aveva colpito l’articolazione dell’anca! E notate l’espressione: «l’occhio mio t’ha veduto». Giobbe non dice soltanto «ho visto me stesso» ma «ho visto te!» Soltanto la visione di ciò che Dio è può produrre un reale pentimento e l’orrore di se stesso. Avverrà così al popolo d’Israele, la cui storia ha una grande analogia con quella di Giobbe, quand’essi «riguarderanno a Colui che hanno trafitto e ne faran cordoglio», allora Dio li benedirà e li ristorerà pienamente; ed essi comprenderanno il significato di questa parola: «È la tua perdizione, o Israele, l’essere contro di me, contro il tuo aiuto» (Osea 13:9).

Pedro

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25.4 Incontro con Esaù

Vedremo come tutte le paure di Giacobbe fossero senza fondamento e tutti i suoi piani inutili. Nonostante la lotta e la lussazione, che lo rese zoppo, prodottagli da Dio, Giacobbe continua a mettere in atto dei piani di sua invenzione. «Giacobbe alzò gli occhi, guardò, ed ecco Esaù che veniva avendo seco quattrocento uomini. Allora divise i figliuoli fra Lea, Rachele e le due serve. E mise davanti le serve e i loro figliuoli, poi Lea e i suoi figliuoli, e da ultimo Rachele e Giuseppe» (v. 1-2). I suoi timori non erano finiti; s’aspettava ancora la vendetta di Esaù ed espone per primi quelli a cui era meno affezionato. O inaudite profondità del cuore umano! Quanto è restio a confidare in Dio! Se Giacobbe si fosse realmente abbandonato a Dio, non avrebbe mai paventato la distruzione di sè e dei suoi. Ma, ahimè! sappiamo bene come il cuore stenti a riposare con semplicità, serenamente fiducioso, su un Dio onnipresente, onnipotente e infinitamente misericordioso.

Dio ci insegna qui come è vana tutta questa ansietà del cuore. «Ed Esaù gli corse incontro, l’abbracciò, gli si gettò al collo e lo baciò: e piansero». Il dono di Giacobbe non era necessario e il suo piano non era servito a nulla. Dio placò Esaù come già aveva fatto con Labano. Dio si compiace così di farci provare la viltà e l’incredulità del nostro povero cuore e di dissipare ogni nostra paura. Invece della spada di Esaù, Giacobbe incontra le braccia aperte di un fratello! Invece di dover combattere l’uno contro l’altro, essi confondono le loro lagrime.

Ecco le vie di Dio! Chi non confiderebbe in lui? Come si spiega che, nonostante le prove innumerevoli di fedeltà verso chi confida in lui, siamo, ad ogni nuova occasione, così disposti a dubitare e ad esitare? Ahimè! è perché non conosciamo abbastanza Dio. «Riconciliati dunque con Dio: avrai pace» (Giobbe 22:21). Per l’inconvertito come per il credente, tutto ciò è ugualmente vero. Conoscere Dio realmente, essergli veramente uniti, ecco la via della pace. «E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Giov. 17:3).

Quanto più intimamente conosceremo Dio, tanto più solida sarà la nostra pace e noi saremo elevati al di sopra della nostra vecchia natura e ne saremo indipendenti. «Dio è una rocca»; non abbiamo che da appoggiarci su lui per sapere quanto egli sia ben disposto a sostenerci e potente per farlo.

25.5 Giacobbe si stabilisce a Succot

Dopo questa dimostrazione della bontà di Dio, vediamo Giacobbe stabilirsi a Succot e, contrariamente al principi e allo spirito della vita di pellegrino, costruisce una casa come se quello fosse stato il suo ambiente. È evidente che Succot non era il luogo che Dio gli aveva destinato. L’Eterno non gli aveva detto «io sono l’Iddio di Succot» ma «sono l’Iddio di Bethel». È quindi Bethel che Giacobbe avrebbe dovuto avere in vista come meta principale. Ma noi siamo sempre portati ad accontentarci di una posizione e di una parte inferiori a quelle che Dio, nella sua bontà, vorrebbe assegnarci!

Poi Giacobbe prosegue fino a Sichem e vi compra un appezzamento di terreno, restando sempre al di fuori dei confini che Dio gli aveva assegnati e mostrando, dal nome che dà al suo altare, lo stato morale della sua anima. Lo chiama «all’Iddio di Giacobbe»; senza dubbio abbiamo il privilegio di conoscerlo come nostro Dio, ma è più elevato poterlo conoscere come l’Iddio della sua propria casa, ritenendoci appartenenti a questa casa. Il credente ha il privilegio di conoscere Cristo come suo «Capo» ma è un privilegio più grande ancora conoscerlo come Capo del suo corpo, la Chiesa, e sapere che noi siamo le membra di questo corpo.

Al cap. 35 vedremo Giacobbe spinto a farsi di Dio un’idea assai più elevata e più gloriosa, ma qui, a Sichem, la sua condizione morale è ancora poco elevata. Egli ne soffre ed è sempre così quando non sappiamo raggiungere la posizione assegnataci da Dio. Le due tribù e mezza che si stabilirono al di qua del Giordano, furono le prime a cadere nelle mani del nemico: la stessa cosa avvenne a Giacobbe.

25.6 Guai a Sichem

Il cap. 34 ci mostra i frutti amari del soggiorno di Giacobbe a Sichem, la macchia che portò la sua famiglia nonostante gli sforzi di Simeone e Levi che avevano voluto cancellarla con la violenza e la forza della natura umana, commettendo un atto che aggiunse nuovo affanno ai dispiaceri di Giacobbe. Egli, a dire il vero, è più indignato della loro violenza che dell’insulto fatto alla figlia: «Allora Giacobbe disse a Simeone e a Levi: voi mi date grande affanno mettendomi in cattivo odore presso gli abitanti del paese, presso i Cananei ed i Ferezei. Ed io non ho che poca gente; essi si raduneranno contro di me e mi daranno addosso, e sarò distrutto: io con la mia casa» (v. 30). Sono le conseguenze che da quella faccenda avrebbero potuto derivare per lui e per la sua famiglia, a preoccupare di più Giacobbe. Pare che sia vissuto in una costante paura di qualche pericolo per sè e per la sua famiglia, manifestando ovunque un animo inquieto, pauroso, calcolatore, incompatibile con una vita di vera fede in Dio. Non è detto che Giacobbe non fosse un credente; come sappiamo egli ha un posto nel «gran nuvolo di testimoni» (Ebrei 11); però non camminò nell’esercizio abituale di questo principio divino e, di conseguenza, fece tristi cadute. Poteva la fede fargli dire: «sarò distrutto io con la mia casa» dal momento che Dio gli aveva fatto questa promessa «io ti guarderò...; ... io non ti abbandonerò» (cap. 28:15)? La promessa divina avrebbe dovuto tranquillizzargli il cuore, ma in realtà Giacobbe era più occupato del pericolo che correva fra i Sichemiti, che non della sicurezza nella quale si trovava fra le mani dell’Iddio della promessa. Avrebbe dovuto sapere che non un capello del suo capo sarebbe stato toccato; e invece di guardare a Simeone e a Levi o alle conseguenze del loro sconsiderato agire, avrebbe dovuto giudicare se stesso e chiedersi perché si era stabilito a Sichem. Se non si fosse trovato là, Dina non sarebbe stata disonorata e la violenza dei suoi figli non si sarebbe manifestata. Quanti cristiani vediamo immersi nei dispiaceri e negli affanni a causa della loro infedeltà, e li udiamo accusare le circostanze invece di giudicare se stessi! Un gran numero di genitori cristiani gemono e sono angosciati nel vedere la turbolenza, l’insubordinazione e la mondanità dei loro figli; ma il più delle volte non hanno che da biasimare se stessi, perché non hanno camminato fedelmente davanti a Dio riguardo alla loro famiglia. Giacobbe non avrebbe dovuto stabilirsi a Sichem e, dal momento che non possedeva una sensibilità delicata che gli facesse scoprire quell’errata posizione, Dio, nella sua fedeltà, si serve delle circostanze per castigarlo.

«Non v’ingannate; non si può beffarsi di Dio; poiché quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà» (Gal. 6:7). Questo è un principio che ha rapporto col governo morale di Dio, e alla cui applicazione nessuno può sfuggire; per il credente è una vera grazia l’essere chiamato a mietere i frutti dei propri errori. È una grazia essere spinti a provare, in un modo o nell’altro, quanto sia amaro allontanarsi o mantenersi a una certa distanza dall’Iddio vivente. Dobbiamo imparare che questo non è il luogo del nostro riposo, perché Dio non vuole darci un riposo contaminato. Sia benedetto il suo nome! Il desiderio di Dio è che dimoriamo in lui e con lui. Questa è la perfezione della sua grazia. Una falsa umiltà, frutto dell’incredulità, induce chi s’è sviato, o è rimasto indietro, a prendere una posizione inferiore a quella che Dio gli ha asseguata, perché non conosce il principio in base al quale Dio ristora chi è caduto, né in qual misura egli lo fa. Il figliuol prodigo chiede di diventare servo, non sapendo di non avere diritto né alla posizione di servo né a quella di figlio, e che sarebbe indegno per il carattere del padre porlo in una tale posizione. Bisogna andare a Dio su un principio e in modo degno di lui, oppure restarne lontani del tutto.

Pedro

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  26. Capitolo 35: Giacobbe a Bethel

«Iddio disse a Giacobbe: levati, vattene a Bethel, dimora quivi». Queste parole confermano ciò di cui ci siamo ora occupati. Quando c’è una caduta o un declino spirituale, il Signore chiama l’anima a ritornare a lui; «Ricordati dunque donde sei caduto, e ravvediti e fa le opere di prima» (Apoc. 2:5). Bisogna che l’anima ritorni al punto più elevato della sua posizione, che sia ricondotta alla misura divina. Il Signore non dice «ricordati dove sei», ma «ricordati dell’alta posizione da cui sei caduto». Solo così si impara come ci si è sviati, come si è caduti in basso e come si può ritornare sui propri passi; e quando siamo così ricondotti alla gloriosa e santa misura di Dio, allora soltanto possiamo giudicare la gravità del male della nostra condizione scaduta. Che quantità spaventosa di male si era accumulata sulla famiglia di Giacobbe, senza che fosse giudicato, prima che l’anima di Giacobbe fosse risvegliata da questo appello: «sali a Bethel»! Non era certo a Sichem, in quell’atmosfera impregnata di elementi impuri, che Giacobbe poteva scoprire tutto quel male e discernere di quello il vero carattere. Ma, dal momento che Dio lo chiama a recarsi a Bethel, «Giacobbe disse alla sua famiglia e a tutti quelli ch’erano con lui: Togliete gli dèi stranieri che sono fra voi, purificatevi, e cambiatevi i vestiti; e leviamoci, andiamo a Bethel, ed io farò quivi un altare all’Iddio che mi esaudì nel giorno della mia angoscia, e che è stato con me nel viaggio che ho fatto» (v. 2-3).

Il solo ricordo della casa di Dio fa vibrare l’anima del patriarca e gli fa ripassare nella mente, in un attimo, la storia di vent’anni densi di vicissitudini. A Bethel, non a Sichem, aveva appreso chi era Dio; per questo bisogna che ritorni a Bethel e che edifichi là un altare, su un principio e con un nome assolutamente diversi da quello di Sichem. Quest’ultimo era connesso a ogni sorta di impurità e di idolatria. Giacobbe poteva parlare di Dio, dell’Iddio di Israele, in mezzo a cose incompatibili con la santità della casa di Dio.

È importante afferrare questo. Non vi è nulla che possa conservarci in una vita di separazione dal male, con fermezza e intelligenza, come la coscienza di ciò che è la «casa di Dio» e di ciò che si confà a questa casa. Se guardo a Dio solo in vista di me stesso non avrò mai una piena e divina intelligenza di ciò che deriva da un giusto apprezzamento della relazione esistente fra Dio e la sua casa. Vi sono persone che non fanno molto caso a trovarsi associate con qualcosa di impuro nel culto che rendono a Dio, ammesso che siano sincere e diritte di cuore. In altri termini, credono di poter adorare a Sichem e pensano che un altare chiamato «Dio, l’Iddio di Israele» vada bene e sia altrettanto elevato, come uno chiamato «Dio di Bethel». È questo un deplorevole errore e il lettore spirituale scoprirà subito l’immensa differenza morale che c’è fra la condizione di Giacobbe a Sichem e la sua condizione a Bethel. Ebbene, la stessa differenza esiste fra i due altari. Le nostre idee riguardo al culto risentono necessariamente del nostro stato spirituale e quel culto sarà povero e limitato, oppure intelligente ed elevato, in proporzione al modo con cui avremo saputo comprendere il carattere di Dio e alla relazione nella quale ci troviamo con lui. Il nome del nostro altare e il carattere del nostro culto esprimono ambedue la stessa idea. Il culto reso all’Iddio di Bethel è più elevato di quello reso all’Iddio di Israele, perché il primo è connesso ad un’idea di Dio più elevata del secondo, dove Dio, anziché essere riconosciuto come Dio della sua casa, figura come l’Iddio di un solo individuo.

Indubbiamente, quel nome di «Dio di Israele» è l’espressione di una meravigliosa grazia e l’anima non può che sentirsi felice quando considera il carattere di un tale Dio che entra in relazione con ciascuna delle pietre della sua casa, ciascuno dei membri del suo corpo, individualmente. Ogni pietra dell’edificio di Dio è una «pietra vivente» in quanto legata all’«Iddio vivente» e avente comunione con l’«Iddio vivente» per mezzo dello «Spirito della vita». Ma, per quanto tutto questo sia vero, Dio è anche, e soprattutto, l’Iddio della sua casa: e quando, con un’intelligenza spirituale più sviluppata, siamo resi capaci di considerarlo come tale, tutto il nostro culto ne riceve un carattere più elevato.

L’appello rivolto a Giacobbe perché ritorni a Bethel racchiude anche un altro insegnamento. Dio gli dice: «Levati, vattene a Bethel, dimora quivi, e fa’ un altare all’Iddio che ti apparve, quando fuggivi dinanzi al tuo fratello Esaù» (v. 1). Molto spesso è utile che ci sia fatto ricordare ciò che eravamo nel periodo della nostra vita in cui ci siamo trovati al livello più basso, come all’ultimo gradino di una scala. È così che Samuele ricorda a Saul il tempo in cui egli «si reputava piccolo» (Sam. 15:17); ed è necessario per tutti noi il ricordo di quando eravamo «piccoli ai nostri propri occhi». In quella posizione, il cuore riposa realmente in Dio. Più tardi crediamo di essere qualcosa e bisogna che il Signore ci faccia di nuovo sentire che non siamo nulla. All’inizio di una carriera di servizio o di testimonianza, quale sentimento ha l’anima della propria debolezza e incapacità e, di conseguenza, quale bisogno di appoggiarsi su Dio! Quante ferventi preghiere fa salire a lui per ottenere forza e soccorso! Poi, quando abbiamo lavorato per molto tempo, acquistiamo un’opinione migliore di noi stessi: pensiamo di poter camminare da soli o, almeno, non abbiamo più la stessa sensazione della nostra debolezza e non dipendiamo più, come prima, da Dio: allora il nostro servizio diventa povero, vuoto, verboso, privo di unzione e di potenza; non sgorga più dalla sorgente inesauribile dello Spirito, ma dai nostri miserabili pensieri.

Nei versetti 9-15 Dio rinnova la promessa a Giacobbe e gli conferma il nuovo nome di «principe», datogli da lui stesso in luogo di quello di «soppiantatore», e Giacobbe chiama ancora una volta quel luogo col nome di «Bethel».

Il versetto 18 ci dà un interessante esempio della differenza che c’è fra il giudizio della fede e quello della natura umana. Quest’ultima vede le cose attraverso la nebbia che la circonda, mentre la fede le vede alla luce della presenza e dei pensieri di Dio. E Rachele «come stava per rendere l’anima (perché morì) pose nome al bimbo Ben-oni, ma il padre lo chiamò Beniamino». La natura umana gli pone nome «figlio del mio dolore», ma la fede lo chiama «figlio della mia destra».

È sempre così: i pensieri della natura differiscono sempre da quelli della fede e noi dovremmo desiderare ardentemente che i nostri cuori siano diretti da questi.

Pedro

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27. Capitolo 36: La discendenza di Esaù

Questo capitolo contiene la genealogia dei figli di Esaù, con i nomi e il luogo della loro abitazione. Non ci soffermeremo, ma passeremo subito a una delle più ricche e interessanti parti della Scrittura.

28. Capitolo 37: Giuseppe e i suoi fratelli

28.1 Una figura di Cristo

Non conosco una figura di Cristo più bella e più perfetta di quella di Giuseppe, sia che lo consideriamo come l’oggetto dell’amore del padre, dell’odio dei «suoi», o nella sua umiliazione, nella sofferenza e nella morte, o nella sua esaltazione e nella gloria.

Conosciamo, dal capitolo 37, i sogni di Giuseppe che risvegliarono l’odio dei suoi fratelli. Giuseppe era l’oggetto dell’amore del padre, era chiamato a un destino glorioso, e poiché il cuore dei fratelli non era in comunione con quello del padre ed era estraneo a tutto ciò che attendeva Giuseppe, essi lo odiavano. Non condividevano l’amore del padre per Giuseppe e non volevano sottomettersi al pensiero che egli dovesse essere innalzato. In questo, i fratelli di Giuseppe rappresentano i Giudei ai giorni di Cristo. «È venuto in casa sua e i suoi non l’hanno ricevuto» (Giov. 1:11); «Non aveva forma né bellezza da attirare i nostri sguardi, né apparenza, da farcelo desiderare» (Isaia 53:2). Non vollero riconoscerlo né come figlio di Dio né come re di Israele. I loro occhi non erano aperti per contemplare «la sua gloria, gloria come quella dell’Unigenito venuto d’appresso al Padre» (Giov. 1:14). Non l’hanno voluto; non solo: l’hanno odiato!

Ma Giuseppe, sebbene non fosse ricevuto dai suoi fratelli, rimane fermo nella propria testimonianza. «Or Giuseppe ebbe, un sogno, e lo raccontò ai suoi fratelli; e questi l’odiarono più che mai... ebbe ancora un altro sogno e lo raccontò ai suoi fratelli». Non faceva altro che rendere una semplice testimonianza, basata su una rivelazione divina, ma che lo avrebbe fatto scendere nella cisterna. Se avesse taciuto, se avesse lasciato smussarsi il filo tagliente e la potenza della sua testimonianza, sarebbe stato risparmiato, senza dubbio: ma egli dice ai suoi fratelli tutta la verità e perciò l’odiarono!

La stessa cosa avvenne al grande «antitipo» di Giuseppe. Cristo testimoniò della verità (Giov. 18:37): fece «la bella confessione» (1 Tim. 6:13); non nascose nulla della verità e la manifestò nel suo parlare, perché egli stesso era la verità; e l’uomo rispose alla sua testimonianza con la croce, la spugna imbevuta d’aceto e la lancia del soldato. La testimonianza di Cristo era connessa alla gloria più piena, più ricca, più perfetta. Venne non solo come «la verità» ma anche come l’espressione perfetta di tutto l’amore del cuore del Padre. «La grazia e la verità son venute per mezzo di Gesù Cristo» (Giov. 1:17). Egli era la rivelazione perfetta, all’uomo, di ciò che Dio era. Per questo l’uomo è senza scusa (Giov. 15:22-25).

Egli venne a manifestare Dio all’uomo; e l’uomo odiò Dio di un odio perfetto. Vediamo questo alla croce; e la fossa in cui Giuseppe è stato gettato dai suoi fratelli ce ne dà già una commovente immagine.

«Essi lo scorsero da lontano; e prima ch’egli fosse loro vicino, macchinarono d’ucciderlo. E dissero l’uno all’altro: ecco cotesto sognatore che viene! Ora dunque venite, uccidiamolo, e gettiamolo in una di queste cisterne; diremo poi che una mala bestia l’ha divorato, e vedremo che ne sarà de’ suoi sogni» (37:18-20).

Queste parole ci ricordano in modo commovente la parabola dei vignaiuoli del cap. 21 dell’Evangelo secondo Matteo. «Finalmente mandò loro il suo figliuolo, dicendo: avranno rispetto al mio figliuolo. Ma i lavoratori, veduto il figliuolo dissero tra di loro: costui è l’erede, venite, uccidiamolo, e facciam nostra la sua eredità. E presolo, lo cacciarono fuori della vigna, e l’uccisero». Dio mandò il suo figliuolo nel mondo dicendo: «Avranno rispetto al mio figliuolo», ma, ahimè! il cuore dell’uomo non ebbe alcun rispetto per il «diletto» del Padre. Lo gettarono fuori! La terra e il cielo erano, e sono tuttora, divisi e opposti a causa di Cristo; l’uomo l’ha crocifisso, ma Dio l’ha risuscitato dai morti; l’uomo l’ha posto su una croce fra due ladroni, Dio l’ha fatto sedere alla propria destra nei cieli; l’uomo gli ha assegnato l’ultimo posto sulla terra, Dio gli ha offerto la posizione più elevata nei cieli e l’ha rivestito della più splendida maestà.

28.2 Le sofferenze e la gloria

Troviamo tutto questo nella storia di Giuseppe. «Giuseppe è un ramo d’albero fruttifero; un ramo d’albero fruttifero vicino a una sorgente; i suoi rami si stendono sopra il muro. Gli arcieri l’hanno provocato, gli han lanciato dei dardi, l’hanno perseguitato, ma l’arco suo è rimasto saldo; le sue braccia e le sue mani sono state rinforzate dalle mani del potente di Giacobbe, da colui che è il pastore e la roccia d’Israele, dall’Iddio di tuo padre che t’aiuterà, e dall’Altissimo che ti benedirà con benedizioni del cielo di sopra, con benedizioni dell’abisso che giace di sotto, con benedizioni delle mammelle e del seno materno. Le benedizioni di tuo padre sorpassano le benedizioni dei miei progenitori, fino a raggiunger la cima delle colline eterne. Esse saranno sul capo di Giuseppe, sulla fronte del principe dei suoi fratelli» (49:22-26).

Questi versetti dipingono in modo ammirevole il quadro «delle sofferenze di Cristo, e delle glorie che dovevano seguire» (1 Pietro 1:11). «Gli arcieri» hanno agito contro di lui, ma Dio è stato più forte di loro. Hanno tirato contro il vero Giuseppe e l’hanno gravemente ferito nella casa dei suoi amici, ma «le sue braccia e le sue mani sono state rinforzate» nella potenza della risurrezione; ora la fede lo riconosce come il fondamento su cui poggiano tutti i disegni di Dio per la benedizione e la gloria della Chiesa, di Israele, e dell’intera creazione. Se consideriamo Giuseppe nella cisterna e in prigione, poi come vicerè d’Egitto, vediamo la differenza che c’è tra i pensieri di Dio e quelli degli uomini; la stessa differenza la constatiamo quando guardiamo la «croce» e poi il «trono della Maestà nei cieli».

È stata la venuta di Cristo a mettere a nudo ciò che l’uomo realmente provava per Dio. «S’io non fossi venuto e non avessi loro parlato non avrebbero colpa» (Giov. 15:22). Non che gli uomini non sarebbero stati peccatori ma «non avrebbero avuto colpa». È detto pure, in un altro passo, «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato» (Giov. 9:41). Dio, nella persona del Figlio, è venuto vicinissimo all’uomo, per cui questi ha potuto dire: «Ecco l’erede», ed ha aggiunto: «Venite, uccidiamolo». Per questo «non hanno scusa del loro peccato» (Giov. 15:22). Chi dice di vedere, non ha scusa. La gravità consiste non nell’essere ciechi, se si confessa di esserlo, ma nel fare professione di vedere. In un tempo di professione esteriore come il nostro, questo principio è ancor più serio.

Gli occhi di chi sa di essere cieco possono essere aperti da Gesù; ma che fare a colui che crede di vedere, e in realtà non vede?

29. Capitolo 38: Giuda e sua famiglia

Questo capitolo ci mostra una di quelle notevoli circostanze nelle quali la grazia di Dio trionfa gloriosamente sul peccato dell’uomo.

«È ben noto che il nostro Signore è sorto dalla tribù di Giuda» (Ebrei 7:14). In che modo? «Giuda generò Fares e Zara da Tamar» (Matteo 1:3).

Questo fatto merita tutta l’attenzione dei nostri cuori. Nella sua infinita grazia, Dio si eleva al di sopra del peccato e della follia dell’uomo, per compiere i disegni del suo amore e della sua misericordia. Così, poco dopo, in questo stesso Evangelo, leggiamo «Davide generò Salomone da quella ch’era stata moglie d’Uria». È degno di Dio agire così. Lo Spirito ci fa seguire la genealogia di Cristo secondo la carne e mette in questo elenco i nomi di Tamar e Bath-Sheba! È evidente che là non v’è nulla di umano. Alla fine di questo capitolo di Matteo arriviamo a Dio manifestato in carne, rivelato come tale dalla penna dello Spirito Santo. L’uomo non avrebbe mai potuto inventare una simile genealogia. Da un punto all’altro essa è divina e nessun uomo spirituale può leggerla senza trovare, nel suo contesto, una manifestazione della grazia di Dio e della divina ispirazione di quest’Evangelo (confr. 2 Samuele 11 e Genesi 38 con Matteo 1).

Pedro

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30. Capitoli da 39 a 45: Giuseppe in Egitto

30.1 Gli atti degli uomini e i disegni di Dio

Leggendo queste parti così interessanti del libro di Dio, «si scopre una mirabile concatenazione di avvenimenti provvidenziali che tendono tutti a un grande fine principale, cioè l’esaltazione dell’uomo che è stato nella cisterna e che, nello stesso tempo, raggiungono fini subordinati «affinché i pensieri di molti cuori siano rivelati» (Luca 2:35); Giuseppe doveva essere esaltato. «Poi chiamò la fame sul paese e fece mancare del tutto il sostegno del pane. Mandò dinanzi a loro un uomo. Giuseppe fu venduto come schiavo. I suoi piedi furono serrati nei ceppi, ei fu messo in catene di ferro, fino al tempo che avvenne quello che aveva detto, e la parola dell’Eterno, nella prova, gli rese giustizia. Il re mandò a farlo sciogliere, il dominatore dei popoli lo mise in libertà; lo costituì signore della sua casa e governatore di tutti i suoi beni per incatenare i principi a suo talento e insegnare ai suoi anziani la sapienza» (Salmo 105:16-22).

Lo scopo principale di tutte queste dispensazioni, bisogna che lo notiamo, era di esaltare colui che gli uomini avevano rigettato e di far sentire a questi stessi uomini il peccato da essi commesso rigettandolo. E tutto ciò si realizza meravigliosamente. Le circostanze meno importanti come le più solenni, quelle che paiono le più favorevoli come quelle che sembrano le più avverse, servono per l’adempimento dei disegni di Dio. Satana, al cap. 39, si serve della moglie di Potifarre per cacciare Giuseppe in prigione; al cap. 40 si serve della negligenza e dell’ingratitudine del gran coppiere per farlo rimanere là. Ma tutto è inutile. Dio era dietro la scena e dirigeva con la propria mano tutte le sequenze di questa vesta concatenazione di circostanze e, al momento giusto, fa apparire l’uomo dei suoi consigli e lo stabilisce in una posizione elevata.

È la prerogativa di Dio essere sempre al di sopra di tutto; egli può stabilire che ogni cosa serva per il compimento dei suoi disegni grandi e impenetrabili. Come siamo felici di poter seguire così, in ogni frangente, la mano e i disegni del nostro Padre; e com’è dolce sapere che egli dispone sovranamente di tutti gli strumenti, angeli, uomini, demoni; li tiene tutti sotto la sua potente mano e li adopera tutti, a suo piacimento, per l’esecuzione dei suoi piani.

Tutto questo ci è presentato in modo particolare nei capitoli che stiamo meditando. Dio visita la casa di un ufficiale pagano, quella di un re pagano; non solo questo, ma visita il re sul proprio letto e fa persino concorrere le visioni della sua mente all’attuazione dei suoi sovrani consigli. Ma Dio non adopera soltanto gli individui e le loro circostanze; l’Egitto e tutti i paesi circostanti sono chiamati a comparire sulla scena; in poche parole la terra tutta è stata preparata dalla mano di Dio per essere il teatro della manifestazione della gloria e della grandezza «di colui ch’è principe tra i suoi fratelli» (Deut. 33:16). Tali sono le vie di Dio; ed è un esercizio benedetto ed edificante, per un figliuolo di Dio, seguire così l’opera meravigliosa del suo Padre celeste.

Fermatevi un istante nella prigione del capitano delle guardie, vedrete un uomo «nei ceppi» (Salmo 105:18), accusato del più orribile dei misfatti, disprezzato e rigettato dalla società, poi contemplatelo innalzato, in un momento, alla più alta carica! Chi potrebbe negare la presenza di Dio in tutto ciò?

«E Faraone disse a Giuseppe: giacché Iddio t’ha fatto conoscere tutto questo, non v’è alcuno che sia intelligente e savio al pari di te. Tu sarai sopra la mia casa, e tutto il mio popolo obbedirà ai tuoi ordini; per il trono soltanto, io sarò più grande di te. E Faraone disse a Giuseppe: vedi, io ti stabilisco su tutto il paese d’Egitto. E Faraone si tolse l’anello di mano e lo mise alla mano di Giuseppe; lo fece vestire di abiti di lino fino, e gli mise al collo una collana d’oro. Lo fece montare sul suo secondo carro e davanti a lui si gridava: In ginocchio! Così Faraone lo costituì su tutto il paese d’Egitto. E Faraone disse a Giuseppe: lo son Faraone! e senza te nessuno alzerà la mano o il piede in tutto il paese d’Egitto» (cap. 41:39-44). Questo innalzamento di Giuseppe non era una cosa comune! Lo svolgersi degli avvenimenti che concorrono ad effettuarlo dimostra chiaramente che tutto era diretto dalla mano di Dio.

30.2 Giuseppe, meravigliosa figura di Cristo

Nello stesso tempo, le differenti circostanze per le quali Giuseppe passa, sono per noi un’eccezionale figura delle sofferenze e della gloria del Signore Gesù. Giuseppe è tratto dalla fossa e dalla prigione, dove l’avevano messo l’invidia dei suoi fratelli e il falso giudizio dei gentili, per essere stabilito governatore su tutto il paese d’Egitto, e, più ancora, per diventare lo strumento della benedizione a Israele e il sostegno della vita sua e di tutto il mondo.

Tutto ciò è figurativo riguardo a Cristo e, in verità, non potrebbe esservi un tipo più perfetto. Un uomo spinto dalla mano dell’uomo nel luogo della morte, poi risuscitato dalla mano di Dio ed elevato in dignità e in gloria. «Uomini Israeliti, udite queste parole: Gesù il Nazareno, uomo che Dio ha accreditato fra voi mediante opere potenti e prodigi, e segni che Dio fece per mezzo di lui fra voi, come voi stessi ben sapete, quest’uomo, allorché vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e per la prescienza di Dio, voi, per man d’iniqui, inchiodandolo sulla croce lo uccideste; ma Dio lo risuscitò, avendo sciolti gli angosciosi legami della morte, perché non era possibile ch’egli fosse da essa ritenuto» (Atti 2:22-24).

Oltre i punti che abbiamo segnalato, vi sono, nella storia di Giuseppe, altri due avvenimenti che rendono l’allegoria ammirevolmente perfetta: il suo matrimonio con una donna straniera al cap. 41 e l’intervista coi suoi fratelli al cap. 45. Tali avvenimenti si succedono con quest’ordine: Giuseppe si presenta ai fratelli come mandato dal padre; lo rigettano e, per quanto sta a loro, lo fanno scendere nel sepolcro. Dio lo trae dalla fossa e lo eleva alla più alta dignità; nella sua posizione elevata, sposa una donna e, quando i fratelli secondo la carne, prostrati davanti a lui, sono completamente umiliati, egli si fa riconoscere, li tranquillizza e li introduce nella benedizione; poi diventa il canale della benedizione per loro e per il mondo intero.

30.3 Una moglie, compagna della sua gloria

Non saranno superflue alcune osservazioni sul matrimonio di Giuseppe e il ristoramento dei suoi fratelli. La moglie straniera è la figura della Chiesa. Cristo si presenta ai Giudei e, rigettato, si stabilisce negli alti cieli da dove manda lo Spirito Santo per radunare una Chiesa prescelta, composta di Giudei e Gentili destinati ad essere uniti a lui nella gloria celeste. Abbiamo già parlato della dottrina della Chiesa quando ci siamo occupati del cap. 24; ma troviamo qui qualche nuovo particolare sullo stesso soggetto. La sposa egiziana di Giuseppe era intimamente associata a lui nella gloria (*); essendo una con lui, aveva parte a tutto ciò ch’era suo; inoltre, per la sua prossimità e intimità con lui, occupava un posto notevole presso colui ch’essa sola conosceva. È la stessa cosa dell’Assemblea, la sposa dell’Agnello; essa è unita a Cristo per partecipare al suo rigettamento e alla sua gloria. È la posizione di Cristo che dà il carattere alla posizione della Chiesa ed è questa posizione che dovrebbe sempre caratterizzare il cammino della Chiesa. Se siamo uniti a Cristo, lo siamo come elevati in gloria, non nell’umiliazione quaggiù: «Talche, d’ora in poi, noi non conosciamo più alcuno secondo la carne; e se anche abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora però non lo conosciamo più così» (2 Cor. 5:16) . Il centro del radunamento dell’Assemblea è Cristo: «E io, quando sarò innalzato dalla terra, trarrò tutti a me» (Giov. 12:32). La piena comprensione di questo principio ha un’importanza pratica più grande di quanto possa sembrare alla prima. Lo scopo di Satana, così come la tendenza dei nostri cuori, è di farci rimanere indietro rispetto alle vie che Dio ha in ogni cosa e soprattutto per quanto riguarda il centro della nostra unità come cristiani. Molti credono che sia il sangue di Cristo a costituire il centro dell’unità dei santi. Il sangue infinitamente prezioso di Cristo è ciò che ci fa, individualmente, adoratori alla presenza di Dio. È il sangue che costituisce il fondamento divino della nostra comunione con Dio. Ma quando si tratta del nostro centro di unità come Assemblea (Chiesa), non bisogna perdere di vista che lo Spirito Santo ci raduna attorno alla persona di un Cristo crocifisso e glorificato; questa grande verità imprime il suo santo e glorioso carattere alla nostra unità come cristiani. Se ci poniamo su un terreno meno elevato, cadiamo inevitabilmente in una setta; se ci raduna un ordinamento, sia pure importante, o una verità, sia pure fondata, abbiamo per centro qualcosa che è meno di Cristo.

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(*) La moglie di Giuseppe raffigura la Chiesa unita a Cristo nella sua gloria; la moglie di Mosè raffigura la Chiesa unita a lui nel rigettamento.
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È dunque molto importante valutare le conseguenze pratiche che ne derivano: noi siamo riuniti intorno a un capo risuscitato e glorificato nei cieli. Se Cristo fosse sulla terra, saremmo radunati attorno a lui quaggiù; ma poiché Egli siede nei cieli, l’Assemblea trae il proprio carattere dalla posizione del suo «Capo» lassù. Per questo Cristo poteva dire: «Essi non sono del mondo come io non sono del mondo» e ancora: «E per loro io santifico me stesso, affinché anch’essi siano santificati in verità» (Giov. 17:16-19). Così pure nella prima epistola di Pietro (2:4-5) è scritto: «Accostandovi a lui, pietra vivente, riprovata bensì dagli uomini ma innanzi a Dio eletta e preziosa, anche voi, come pietre viventi, siete edificati qual casa spirituale, per essere un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali accettevoli a Dio per mezzo di Gesù Cristo». Se siamo riuniti attorno a Cristo, bisogna che lo siamo attorno a lui tale qual egli è là dove si trova; e più entriamo, per mezzo dell’insegnamento dello Spirito, nella conoscenza di queste cose, meglio comprenderemo quale è il cammino che si addice.

Non è nella cisterna e nemmeno nella prigione che la sposa di Giuseppe gli era unita, ma nella dignità e nella gloria della sua posizione in Egitto; per quanto la riguarda, ci è facile discernere la differenza che c’è fra le due posizioni. Più avanti leggiamo: «Prima che venisse il primo anno della carestia, nacquero a Giuseppe due figliuoli». Doveva venire un tempo di prova ma, prima, ci mostra il frutto della sua unione; sono chiamati all’esistenza i figli che Dio gli aveva dati. La stessa cosa avverrà alla Chiesa: tutti i membri che la compongono saranno chiamati, il corpo sarà completato e riunito alla testa nei cieli prima della «grande afflizione» o «tribolazione» (Matteo 24:21) che verrà su tutto il mondo abitato.

Pedro

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