CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro della GENESI

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2011 20:27
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19/04/2011 19:56
 
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7.3 Dispersione e riunione

Ma come tutto è diverso quando è Dio che unisce gli uomini fra loro! Vediamo al cap. 2 del libro degli Atti, l’Iddio benedetto scendere nella sua infinita grazia, scendere fino all’uomo, in mezzo alle circostanze in cui il peccato l’ha posto. I messaggeri della grazia, per la potenza dello Spirito Santo, sono dotati per annunciare la buona novella nella lingua di tutti coloro a cui s’indirizzavano, poiché Dio desiderava raggiungere il cuore di tutti gli uomini col dolce messaggio della grazia. Non così fu promulgata la legge sulla montagna in fiamme: quando Dio dichiarava ciò che l’uomo doveva essere, parlava una sola lingua; ma quando rivela ciò che Egli è in Se stesso, si esprime in più linguaggi. La grazia rovescia le barriere che l’orgoglio e la follia dell’uomo hanno innalzate affinché ogni uomo possa comprendere il buon annunzio della salvezza, «le cose magnifiche di Dio» (Atti 2:11). Perché questo? Per associare gli uomini secondo i principi divini, attorno a Dio come centro, con lo scopo di dar loro un medesimo linguaggio, un medesimo centro, un medesimo oggetto, una medesima speranza, una medesima vita; in vista di radunarli in modo tale che non siano mai più dispersi e confusi; vuole dare loro un nome e una dimora che duri eternamente, ed edificar loro una città e una torre che non solo giungano fino al cielo, ma le cui fondamenta imperiture siano poste nei cieli dalla onnipotente mano di Dio stesso; riunirli intorno alla gloriosa persona di Cristo risuscitato e glorificato, affinché tutti insieme lo magnifichino e l’adorino.

Legga il mio lettore il versetto 9 del cap. 7 dell’Apocalisse; vi troverà una gran folla «di tutte le nazioni e tribù e popoli e lingue che sta davanti all’Agnello» e tutti, a gran voce, gridano: «La salvezza appartiene all’Iddio nostro».

Nelle tre parti della Scrittura che ci hanno occupato c’è un parallelismo istruttivo e interessante. Al cap. 11 della Genesi, le diverse lingue sono l’espressione del giudizio di Dio; al cap. 2 degli Atti, sono il dono della sua grazia e al cap. 7 dell’Apocalisse sono tutte riunite attorno all’Agnello per dargli gloria. L’associazione di Dio finisce nella gloria, quella degli uomini nella confusione. La prima è introdotta per mezzo dello Spirito Santo, e ha per oggetto l’esaltazione di Cristo, la seconda lo è per mezzo della energia profana dell’uomo scaduto e ha per oggetto la propria esaltazione.

Ci faccia Iddio considerare e comprendere tutte queste cose nella potenza della fede, poiché è soltanto così che le nostre anime possono trarre del profitto. Le dottrine più interessanti, come pure la conoscenza più approfondita delle Scritture, possono lasciare il cuore sterile e freddo: è Cristo che bisogna cercare e trovare nella Scrittura; e quando l’abbiamo trovato, dobbiamo nutrirci di Lui per la fede, affinché ne riceviamo la freschezza, l’unzione, la potenza di vita di cui abbiamo tanto bisogno in questi giorni di freddo formalismo.

Di quale profitto può essere una fredda ortodossia priva di un Cristo vivente, conosciuto in tutta la potenza e l’eccellenza della sua persona? La sana dottrina è, indubbiamente, d’immensa importanza, e ogni fedele servitore di Cristo si sentirà imperiosamente chiamato ad «attenersi al modello delle sane parole» che Paolo raccomandava a Timoteo di custodire (2 Tim. 11:13). Ma, dopo tutto, è un Cristo vivente che è l’anima e la vita, l’essenza e la sostanza della sana dottrina. Ci sia dato, nella potenza dello Spirito Santo, di vedere più bellezza e più eccellenza in Cristo, per essere liberati dallo spirito e dai principi di Babilonia!


8. Capitolo 12: Abramo

8.1 L’appello di Dio

La storia di sette uomini occupa gran parte del libro della Genesi: sono Abele, Enoc, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe. Sono persuaso che la storia di ciascuno di essi rappresenti una verità particolare. Così, per esempio, in Abele troviamo, in figura, la rivelazione della verità fondamentale che l’uomo può avvicinarsi a Dio per mezzo dell’espiazione. Enoc ci fa vedere quale è la parte e la speranza della famiglia celeste, mentre Noè c’insegna quale è il destino della famiglia terrestre; Enoc fu trasportato in cielo prima del giudizio, Noè invece fu portato sulla terra restaurata attraverso il giudizio. Ognuno di questi uomini ci raffigura una verità distinta, e di conseguenza, una fase distinta della fede. Il lettore può proseguire lo studio di questo soggetto in tutta la sua estensione nel cap. 11 dell’epistola agli Ebrei, e questo lavoro sarà per lui profittevole e del massimo interesse.

Occupiamoci ora di Abramo.

Paragonando i versetti 1 del cap. 12 e 31 del cap. 11 con i vers. 2-4 del cap. 7 del libro degli Atti, scopriamo una verità di immenso valore pratico per l’anima. «Or l’Eterno disse ad Abramo: Vattene dal tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò» (vers. 1). Tale è la comunicazione che Dio fece ad Abramo, comunicazione chiaramente definita, e per la quale Dio voleva agire sul cuore e sulla coscienza di colui a cui era indirizzata. «L’Iddio di gloria apparve ad Abramo nostro padre, mentr’egli era in Mesopotamia prima che abitasse in Caran... e di là, dopo che suo padre fu morto, lo fece venire in questo paese, che ora voi abitate» (Atti 7:2-4). Il risultato di questa comunicazione si trova al versetto 31 del cap. 11 della Genesi: «E Terah prese Abramo, suo figliuolo, e Lot, figliuolo di Haran, cioè figliuolo del suo figliuolo, e Sarai sua nuora, moglie d’Abramo suo figliuolo, e uscirono insieme da Ur dei Caldei, per andare nel paese di Canaan; e, giunti a Caran, dimorarono quivi... e Terah morì in Caran». Da questi passi, presi insieme, impariamo che i legami naturali impedirono ad Abramo di rispondere pienamente all’appello di Dio. Per quanto chiamato ad andarsene in Canaan, si fermò in Caran finché la morte non ruppe i legami naturali che lo trattenevano presso il padre; solo allora proseguì, senza più lasciarsi fermare, e arrivò nel luogo ove «l’Iddio di gloria» l’aveva chiamato.

Tutto questo è molto significativo. Le influenze della natura, sono sempre contrarie alla piena realizzazione e alla potenza pratica della «vocazione di Dio». Siamo purtroppo propensi ad accontentarci d’una parte inferiore a quella che l’appello di Dio pone davanti a noi. Ci vuole una fede semplice e integra perché l’anima possa innalzarsi all’altezza dei pensieri di Dio e prendere possesso delle cose che Egli ci rivela.

La preghiera dell’apostolo Paolo, che troviamo in Efesi 1:15-22, ci insegna in che misura egli si rendeva conto delle difficoltà contro le quali la Chiesa avrebbe dovuto lottare per afferrare «la speranza alla quale li aveva chiamati» e quale fosse «la ricchezza della gloria della sua eredità nei santi». È evidente che non possiamo camminare «in modo degno» di questa vocazione se non la comprendiamo. Dobbiamo sapere dove siamo chiamati prima di poterci recare là. Se Abramo fosse stato penetrato dalla potenza di questa verità, cioè che era in Canaan che «Dio lo chiamava», che là era la sua eredità, non si sarebbe fermato in Caran. La stessa cosa è per noi. Se lo Spirito Santo ci fa comprendere che la vocazione alla quale siamo stati chiamati è una vocazione celeste, che la nostra dimora, la nostra parte, la nostra speranza, la nostra eredità sono «ove Cristo è seduto alla destra di Dio», non cercheremo mai di farci una posizione in questo mondo, né ricercheremo la reputazione, né ci accumuleremo tesori sulla terra. La chiamata celeste non è un vano dogma o una teoria senza potenza: se non è una realtà divina, non è assolutamente nulla. La chiamata di Abramo era forse una semplice speculazione dello spirito, sulla quale egli poteva ragionare o discutere, pur rimanendo in Caran? No di certo: era una verità divina, potente, pratica. Abramo era chiamato in Canaan ed era impossibile che Dio potesse approvarlo mentre restava in Caran. E come lo era per Abramo, così ancora è per noi: se desideriamo avere l’approvazione e godere la presenza di Dio, dobbiamo tendere ad arrivare in esperienza, in pratica e in carattere morale, a ciò a cui Dio ci chiama, cioè a una piena comunione col suo unigenito Figliuolo: comunione con lui nella sua reiezione quaggiù, comunione con lui nella sua accettazione nel cielo.

Ma come per Abramo fu la morte a rompere il legame che lo tratteneva a Caran, così per noi è la morte che rompe il legame col quale la natura ci lega al presente secolo. Dobbiamo realizzare che siamo morti in Cristo nostro capo e nostro rappresentante; che il nostro posto, nella natura e nel mondo, è fra le cose che erano: che la croce di Cristo è per noi ciò che fu il Mar Rosso per Israele, quello che ci separa per sempre dal paese della morte e del giudizio. È soltanto così che potremo camminare in qualche misura «in modo degno della vocazione che ci è stata rivolta» (Efesi 4:1), vocazione elevata, santa, celeste: la «vocazione di Dio in Cristo Gesù».

Pedro

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