CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro della GENESI

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2011 20:27
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19/04/2011 20:03
 
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10.5 Le sofferenze prima dell’entrata in possesso dell’eredità

Ma questo capitolo ci presenta anche un soggetto molto importante, cioè la qualità di erede. Essendo la questione della figliolanza e della giustizia regolata divinamente e senza condizione, il Signore dice ad Abramo: «Io sono l’Eterno che ti ho fatto uscire da Ur de’ Caldei per darti questo paese perché tu lo possegga» (vers. 7). Qui è presentata e trattata la grande questione dell’eredità, come pure la via particolare che gli eredi eletti dovranno percorrere per giungere all’eredità promessa. «Se siamo figliuoli, siamo anche eredi, eredi di Dio e coeredi di Cristo, se pur soffriamo con Lui affinché siamo anche glorificati con lui» (Rom. 8:17). La strada che conduce al regno, passa anche per la sofferenza, l’afflizione e la tribolazione; ma, grazie a Dio, per fede possiamo dire: «Le sofferenze del tempo presente non sono punto da paragonare con la gloria che ha da essere manifestata a nostro riguardo» (Rom. 8:18). E ancora: «La nostra momentanea leggera afflizione ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria» (2 Cor. 4:17); e infine: «Ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l’afflizione produce pazienza, la pazienza esperienza, e la esperienza speranza» (Rom. 5:3-4).

È un grande onore e un reale privilegio per noi che ci sia dato di poter bere al calice del nostro benedetto Salvatore ed essere battezzati del suo battesimo, seguendo in una felice comunione con Lui la via che conduce direttamente alla nostra gloriosa eredità. L’Erede e i coeredi giungono a questa eredità per il sentiero della sofferenza.

Tuttavia, ricordiamoci che le sofferenze alle quali partecipano i coeredi sono esenti da ogni elemento «penale». Non hanno da soffrire sotto la mano della giustizia infinita a causa del peccato; queste sofferenze, Cristo, la santa vittima, le ha pienamente subite ed esaurite sulla croce per noi: allora egli chinò il suo capo santo sotto i colpi della giustizia divina: «Poiché anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati» (1 Pietro 3:18). Questo «una volta» fu alla croce, e non altrove. Cristo non ha mai sofferto per il peccato prima, e non ne potrà mai più soffrire. Ha sofferto una volta sola alla fine dei secoli per annullare il peccato col suo sacrificio (Ebrei 9:26), «è stato offerto una volta sola per portare i peccati» (Ebrei 9:28).

Vi sono due modi di considerare il Cristo sofferente: come colpito dall’Eterno e come rigettato dagli uomini; sotto il primo aspetto, egli soffre solo, sotto il secondo abbiamo il privilegio e l’onore di essergli associati. Colpito da parte dell’Eterno per il peccato, Cristo ha sofferto tutto solo poiché chi avrebbe potuto soffrire con lui? Solo Egli portò tutta l’ira di Dio. Scese, solo, «al torrente perenne nel luogo dove non si lavora e non si semina» (Deut. 21:4) e regolò quivi per sempre la questione dei nostri peccati. Di questa parte delle sofferenze di Cristo siamo debitori di tutto per l’eternità; non abbiamo partecipato ad esse in nessun modo. Cristo ha combattuto e riportato la vittora da Sè, solo, ma condivide il bottino con noi; era solo «nella fossa di perdizione, nel pantano fangoso» (Salmo 40:2), ma dal momento che pone il piede sulla rocca eterna della risurrezione, egli ci associa a Sè. Era solo quando gettò «il gran grido» sulla croce (Marco 15:37), ma ha dei compagni, quando canta «il cantico nuovo» (Salmo 40:2-3).

Ora si tratta di sapere se rifiuteremo di soffrire con lui da parte degli uomini, dopo che Egli ha sofferto per noi da parte di Dio. Che qui si tratti di una domanda è cosa evidente, dal momento che lo Spirito Santo impiega costantemente la parola «se» in rapporto con questo soggetto. «Se pur soffriamo con lui» (Romani 5:17): «Se soffriamo, con Lui regneremo» (2 Tim. 2:12). Non è sollevata alcuna questione quando si tratta della qualità di figli; non perveniamo all’alta dignità di figli per mezzo della sofferenza, ma per la potenza vivificante dello Spirito Santo fondata sull’opera compiuta da Cristo, secondo il consiglio eterno di Dio. Nulla può toccare questa posizione. Non diventiamo membri della famiglia per mezzo della sofferenza, e l’apostolo Paolo non scrive ai Tessalonicesi: «Affinché siate stimati degni della famiglia di Dio per la quale voi soffrite» (2 Tess. 1:5). I Tessalonicesi facevano già parte della famiglia, ma erano destinati al regno, ed è attraverso la sofferenza, che passa la via che vi conduce; oltre a ciò, la misura delle loro sofferenze per il regno era in rapporto col grado della loro devozione e della loro conformità al Re. Più gli saranno simili, più soffriranno con lui; e più la nostra comunione con Lui nelle sue sofferenze sarà profonda, più lo sarà la nostra comunione con Lui nella gloria.

Vi è una differenza fra la casa del Padre e il regno del Figlio; nella prima si tratta di una posizione conferita, nel secondo si tratta di capacità. Tutti i miei figliuoli possono essere seduti alla mia tavola; ma il godimento che avranno nella mia compagnia e nella mia conversazione, dipenderà solo dalla loro capacità. Uno di essi può essere seduto sulle mie ginocchia nel pieno godimento della sua relazione di figlio, senza che sia capace, tuttavia, di comprendere una sola delle mie parole; un altro, forse, darà prova di una rara intelligenza senza per questo essere più felice del piccolo che sta sulle mie ginocchia. Ma il servizio dei miei figliuoli verso me, e la loro identificazione pubblica con me, sono due cose ben distinte. Il paragone di cui mi son servito non è che una debolissima immagine atta a mettere in rilievo la doppia idea della capacità nel regno del Figlio e della posizione conferita nella casa del Padre.

Ricordiamoci, tuttavia, che soffrire con Cristo non è il giogo d’uno schiavo, ma un privilegio e una dedizione volontaria; non una legge di ferro, ma un favore della grazia. «Poiché a voi è stato dato, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in Lui, ma anche di soffrire per Lui» (Filipp. 1:29). Inoltre il vero segreto delle sofferenze per Cristo sta nel fatto che le nostre affezioni siano concentrate su lui. Più ameremo Gesù, più ci terremo vicini a Lui; più ci terremo vicini a Lui, più l’imiteremo fedelmente; e più l’imiteremo fedelmente, più soffriremo con Lui.

Tutto dipende dunque dall’amore per Cristo; ed è una verità fondamentale che «noi l’amiamo perché Egli ci ha amati il primo» (1 Giov. 4:19).

Guardiamoci su questo punto come su tutti gli altri da uno spirito legale; non creda qualcuno di soffrire per Cristo sotto il giogo del legalismo. Ahimè! ci sarebbe da temere che un tale non conosca né Cristo, né la posizione benedetta di figliuolo e che non sia ancora fermo nella grazia, ma cerchi di entrare nella famiglia per mezzo delle opere della legge, piuttosto che pervenire al regno per il sentiero della sofferenza. D’altra parte, guardiamoci di indietreggiare di fronte al calice e al battesimo del nostro Maestro; non facciamo professione di godere i benefici che la croce ci assicura, mentre rifiutiamo di partecipare alla reiezione che questa croce implica. Siamo pur convinti che il sentiero che conduce al regno non è rischiarato dal sole del favore del mondo e che non è cosparso dalle rose della sua felicità. Quando un credente riesce, nel mondo, c’è da temere che non cammini in comunione con Cristo. «Se uno mi serve, mi segua; e là dove sono io, quivi sarà anche il mio servitore» (Giov. 12:26). Qual era lo scopo della carriera terrestre di Cristo? Ha Egli cercato di ottenere dell’influenza e una posizione elevata nel mondo? No, ma ha trovato il suo posto sulla croce fra due briganti condannati a morte. Qualcuno potrà dire: ma in questo c’era la mano di Dio; ciò è vero, ma anche quella dell’uomo! Ed è quest’ultima verità che comporta necessariamente la nostra reiezione da parte del mondo, se camminiamo con Cristo.

La nostra associazione con Cristo ci apre il cielo e ci rigetta fuori del mondo; e se professiamo di essere del cielo senza che il mondo ci rigetti, significa che c’è qualcosa di falso nella posizione che abbiamo preso. Se Cristo fosse sulla terra ancora oggi, quale sarebbe il suo cammino? A che tenderebbe, dove terminerebbe? Iddio ci dia di rispondere a queste domande alla luce della sua Parola più penetrante di qualunque spada a due tagli e che ci pone, quali siamo, sotto lo sguardo dell’Onnipotente; e che lo Spirito Santo ci renda fedeli al nostro Signore assente, crocifisso e rigettato. Chi cammina secondo lo Spirito sarà ripieno di Cristo, ed essendo ripieno di Lui, sarà occupato non della sofferenza ma di Colui per il quale soffre. Se lo sguardo è fissato su Cristo, le sofferenze non saranno per nulla da paragonare alla gioia presente e alla gloria avvenire.

10.6 La visione d’Abramo

Diamo ora un rapido sguardo sulla visione significativa di Abramo riferita negli ultimi versetti di questo capitolo. «E, sul tramontar del sole, un profondo sonno cadde su Abramo ed ecco, uno spavento, una oscurità profonda, cadde su lui. E l’Eterno disse ad Abramo: Sappi per certo che i tuoi discendenti dimoreranno come stranieri in un paese che non sarà loro, e vi saranno schiavi e saranno oppressi per quattrocento anni, ma io giudicherò la gente di cui saranno stati servi; e, dopo queste cose, se ne partiranno con grandi ricchezze... Or, come il sole si fu caricato e venne la notte oscura, ecco una fornace fumante e una fiamma di fuoco passare in mezzo agli animali divisi».

Si può dire che tutta la storia d’Israele sia riassunta in queste due figure: «la fornace fumante» e la «fiamma di fuoco». La prima rappresenta le diverse epoche nelle quali gli Israeliti sono stati messi alla prova e hanno sofferto: la lunga schiavitù in Egitto, il tempo della loro soggezione ai re di Canaan, quello della loro cattività in Babilonia, e infine il tempo della loro dispersione (*). Si può considrare Israele come un popolo che passa attraverso la fornace fumante in tutti questi differenti periodi (ved. Deut. 4:20, 1 Re 8:51, Isaia 48:10).

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(*) e delle persecuzioni subite nell’ultima guerra mondiale. (aggiunta dal traduttore italiano).
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La fiamma di fuoco, o torcia di fuoco, è l’immagine delle fasi della storia d’Israele, nelle quali l’Eterno appare in grazia per soccorrere i suoi: tale è la sua liberazione dall’Egitto per mano di Mosè; la liberazione dalla potenza dei re di Canaan durante il ministerio dei Giudici, il ritorno da Babilonia, in virtù del decreto di Ciro; e infine, la liberazione finale del popolo quando Dio apparirà nella sua gloria.

Non si giunge all’eredità se non passando attraverso la fornace fumante, e più il fumo della fornace è denso, più sarà brillante la fiamma della salvezza divina.

L’applicazione di questo principio non è limitato solo al popolo di Dio nel suo insieme, ma riguarda anche ognuno di quelli che lo compongono. Tutti quelli che sono pervenuti a una posizione eminente come servitori, sono passati attraverso la fornace fumante, prima di essere chiamati a godere della fiamma di fuoco. Uno spavento e una oscurità profonda cadde su Abramo; Giacobbe dovette subire vent’anni di duro servizio in casa di Labano; Giuseppe trovò la fornace fumante nell’afflizione delle prigioni di Egitto; Mosé passò 40 anni nel deserto.

La Scrittura ci fa vedere l’applicazione di questo principio ai diaconi (o «servitori») e ai vescovi (o «sorveglianti»): «siano questi prima provati, poi assumano l’ufficio di diacono se sono irreprensibili» (1 Tim. 3:10). «Il sorvegliante non sia novizio, affinché divenuto gonfio d’orgoglio, non cada nella condanna del Diavolo» (1 Tim. 3:6).

Essere un figlio di Dio è una cosa, essere un servitore di Cristo è un’altra, completamente diversa. Se metto mio figlio a lavorare il giardino, farà forse più male che bene. Perché? Forse perché non è un mio figliuolo diletto? No, ma perché non è un servitore esercitato. In questo sta tutta la differenza. Una relazione e un impiego sono due cose distinte; non che ogni figlio di Dio non abbia qualche cosa da fare, da soffrire o da imparare; ma rimane pur sempre vero che il servizio pubblico e la disciplina rimangono intimamente legati nelle vie di Dio. Chi è chiamato ad un servizio pubblico deve avere quella disposizione umile, quel giudizio maturo, quello spirito sottomesso e mortificato, quella volontà rotta, quel tono dolce, che sono i belli e sicuri risultati della disciplina segreta di Dio. In genere, si vedrà che quelli che si mettono avanti senza avere, almeno in una certa misura, le qualità morali menzionate, tosto o tardi falliscono allo scopo.

Signore Gesù, tieni i tuoi deboli servitori vicini a Te e nella tua mano potente.

Pedro

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