CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro della GENESI

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2011 20:27
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19/04/2011 20:05
 
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11.4 I due patti

Dal punto di vista della dottrina, invece, siamo autorizzati a considerare Agar e il suo figlio come una figura del patto delle opere e di tutti quelli che per esso sono nati alla servitù. «Poiché sta scritto che Abramo ebbe due figliuoli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera; ma quello della schiava nacque secondo la carne; mentre quello della donna libera, nacque in virtù della promessa. Le quali cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono due patti; l’uno del monte Sinai, genera per la schiavitù, ed è Agar...» (Gal. 4:22-25).

In questo passo importante, «la carne» è messa in contrasto con «la promessa», e impariamo così qual è il pensiero di Dio, non soltanto sul significato della parola «carne» ma anche riguardo allo sforzo che fece Abramo per ottenere la progenie promessa per mezzo di Agar, invece di confidare nella «promessa» di Dio.

I due patti sono raffigurati da Agar e da Sarai e sono diametralmente opposti l’uno all’altro. L’uno partorisce per la servitù in quanto solleva la questione della capacità dell’uomo a fare o non fare, e fa dipendere la vita da questa capacità: «Chi avrà fatto queste cose, vivrà per mezzo di esse». È il patto di Agar. Ma il patto di Sara rivela Dio come l’Iddio della promessa, promessa interamente indipendente dall’uomo e fondata sul volere e sul potere di Dio per adempierla. Dio non mette nessun «se» alle sue promesse; le fa senza condizione ed è deciso di adempierle; e la fede fa assegnamento su Lui, in perfetta libertà di cuore.

Nessuno sforzo è necessario da parte della natura per l’adempimento delle promesse di Dio, ed è proprio a questo riguardo che Abramo e Sarai fallirono, tentando di raggiungere uno scopo che era loro stato assolutamente assicurato dalla promessa di Dio.

Così fa l’incredulità. Per la sua inquieta attività, solleva delle nuvole che avviluppano l’anima e impediscono ai raggi della gloria di Dio di raggiungerla. «E non fece quivi molte opere potenti a cagione della loro incredulità» (Matteo 13:58).

Uno dei caratteri distintivi della fede è quello di lasciare sempre a Dio il campo libero per la manifestazione di Se stesso, e, certamente, quando Dio si manifesta, il posto che si addice all’uomo è quello d’un felice adoratore.

L’errore nel quale i Galati si erano lasciati trascinare, consisteva nell’aggiungere qualcosa, che era della natura, a quello che Cristo aveva già compiuto sulla croce. L’Evangelo che Paolo aveva loro annunziato e che i Galati avevano ricevuto era la semplice presentazione della grazia di Dio, assoluta, senza riserva e senza condizione. Gesù Cristo crocifisso era stato «ritratto al vivo» davanti a loro (Gal. 3:1). Non si trattava solo d’una promessa di Dio, ma di una promessa divinamente e gloriosamente compiuta. Un Cristo crocifisso regolava tutto, riguardo ai diritti di Dio come ai bisogni dell’uomo; ma falsi dottori sconvolgevano, o cercavano di sconvolgere, tutto l’Evangelo di Cristo dicendo: «se voi non siete circoncisi secondo il rito di Mosè, non potete essere salvati» (Atti 15:1); e così, secondo la dichiarazione dell’apostolo stesso, «annullavano» la grazia di Dio, e Cristo «era morto invano» (Gal. 2:21).

O Cristo è un Salvatore perfetto, o non è affatto Salvatore. Dal momento che uno dice: «Se non siete questo o quello, non potete essere salvati», si sovverte totalmente l’Evangelo di Cristo, giacché questo evangelo fa conoscere Dio che scende fino a noi, tali quali siamo, peccatori colpevoli, miserabili e perduti per nostra colpa, e viene a noi con una piena remissione di tutti i nostri peccati e una piena liberazione del nostro stato di perdizione in virtù dell’opera compiuta da Lui stesso sulla croce. Perciò se qualcuno dice: «Dovete essere questo o quello per essere salvati», esso spoglia la croce di tutta la sua gloria e ci toglie tutta la nostra pace; poiché, se la salvezza dipende da ciò che siamo o da ciò che facciamo, siamo inevitabilmente perduti. Ma, Dio ne sia benedetto, non è così. Il grande principio fondamentale dell’Evangelo, è che Dio è tutto e l’uomo è nulla; non è un miscuglio di Dio e dell’uomo; tutto è di Dio. La pace che dà l’Evangelo non si basa in parte sull’opera di Cristo e in parte sull’opera dell’uomo, ma interamente e unicamente sull’opera di Cristo, perché quest’opera è perfetta per sempre e rende perfetti, com’essa è, tutti quelli che mettono la loro fiducia in essa.

Sotto la legge, Dio, per così dire, stava a vedere ciò che l’uomo avrebbe potuto fare, mentre nell’Evangelo vediamo Dio che opera e l’uomo che se ne sta tranquillo «per vedere la liberazione dell’Eterno» (2 Cron. 20:17). Stando così le cose: l’apostolo ispirato non esita a dire ai Galati: «Voi che volete essere giustificati per la legge, avete rinunziato a Cristo, siete scaduti dalla grazia» (Gal. 5:4). Se l’uomo ha qualcosa da fare nell’opera della salvezza, Dio è escluso; e se Dio è escluso, la salvezza è impossibile, poiché è impossibile che l’uomo possa operare la propria salvezza per mezzo della cosa stessa che lo dichiara perduto. Se dunque la salvezza è una questione di grazia, bisogna che tutto sia grazia. Non può essere metà grazia e metà legge; i due patti sono perfettamente distinti. Deve essere Sara o Agar; se è Agar, Dio resta fuori, se è Sara, l’uomo rimane fuori ed è così dal principio alla fine.

La legge s’indirizza all’uomo; lo mette alla prova; manifesta quale è veramente il suo valore, dimostra che egli è scaduto, lo pone e lo tiene sotto maledizione fin tanto che egli ha da fare con essa, cioè fin tanto che vive. «La legge signoreggia l’uomo per tutto il tempo che egli vive» (Rom. 7:1), ma quando è morto la sua autorità cessa nei suoi confronti (ved. Rom. 7:1 a 6; Gal. 2:19; Coloss. 2:20; 3:3). L’Evangelo invece, affermando che l’uomo è perduto, scaduto e morto, rivela Dio come Salvatore di quelli che sono perduti, Colui che perdona i colpevole e che vivifica i morti; non ci presenta Dio che esige qualcosa dall’uomo (poiché che cosa ci si potrebbe aspettare da un uomo morto e fallito?) ma Dio che manifesta la sua libera grazia in redenzione.

La differenza fra i due patti, quello della legge e quello della grazia, è dunque immensa, e fa comprendere la forza straordinaria del linguaggio dell’apostolo nell’epistola ai Galati: «Io mi meraviglio»; — «O Galati insensati, chi vi ha ammaliati?»; — «Io temo per voi»; — «sono perplesso riguardo a voi». — «O fossero pur recisi coloro che vi turbano!».

Tale è il linguaggio dello Spirito Santo che conosce il valore di Cristo, d’una salvezza perfetta e che sa quanto la conoscenza dell’uno e dell’altra è necessaria a un peccatore perduto. Non ritroviamo questo linguaggio in nessun’altra epistola, nemmeno in quella ai Corinzi, benché vi fossero fra loro dei disordini da reprimere. Ogni sbaglio, ogni errore dell’uomo possono essere corretti introducendo la grazia di Dio; ma i Galati, come Abramo nel nostro capitolo, si allontanavano da Dio e ritornavano alla carne. Che rimedio trovare per un caso simile? Come correggere un errore che consiste nell’abbandonare quello che solo può portare rimedio a tutto? Scadere nella grazia, vuol dire ritornare alla legge dalla quale non si può raccogliere che la «maledizione».

Voglia Iddio raffermarci nella sua meravigliosa grazia!


12. Capitolo 17: Abramo diventa Abrahamo — Sarai diventa Sara

12.1 L’alleanza di Dio con Abrahamo

Questo capitolo ci fa vedere come Iddio rimedia al fallo di Abramo. «Quando Abramo fu d’età di novantanove anni l’Eterno gli apparve e gli disse: Io sono l’Iddio onnipotente; cammina alla mia presenza e sii integro» (*). Questo passo ha un significato di grande importanza. È evidente che allorquando Abramo acconsentì all’espediente di Sarai riguardo ad Agar non camminava nella presenza dell’Iddio Onnipotente. Solo la fede ci rende capaci di vivere liberamente davanti alla faccia dell’Onnipotente, mentre l’incredulità introduce sempre l’io, le circostanze, le cose secondarie, e ci priva così della gioia, della pace, della serenità e della santa dipendenza, che sono la parte di chi si appoggia unicamente sul braccio dell’Onnipotente.

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(*) Quando Abrahamo è chiamato ad essere «perfetto» (questa è l’esatta traduzione del termine reso con «integro» nella versione italiana) non significa che egli dovesse essere perfetto in se stesso, cosa che è ed è sempre stata impossibile, ma semplicemente perfetto quanto all’oggetto delle sue affezioni; la sua speranza doveva essere perfettamente e completamente rivolta sull’«Iddio onnipotente».

Il termine «perfetto» è adoperato nel Nuovo Testamento in almeno quattro diversi significati. In Matt. 5:48 leggiamo: «Voi dunque siate perfetti, com’è perfetto il Padre vostro celeste». Impariamo dal contesto che «perfetto» si riferisce qui al principio che deve regolare il nostro cammino, poiché poco più su, nello stesso capitolo, leggiamo: «Anche i vostri nemici... affinché siate figliuoli del vostro Padre che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Vuole dunque dire: agire verso tutti, anche verso chi ci ingiuria e ci fa del male, in base a un principio di grazia. Un cristiano che sporga querela o faccia causa per difendere i propri diritti, non è «perfetto come il suo Padre», poiché suo Padre agisce in grazia e non in giustizia come lui. Non si tratta di sapere se è giusto o non sporgere querela o entrare in causa con quelli del mondo (per quanto riguarda i fratelli 1 Cor. 6 è categorico); vogliamo solo rilevare che un cristiano che agisce così si troverebbe in aperta opposizione col carattere del suo Padre, poiché suo Padre non è in «causa» col mondo: non siede attualmente su un trono di giudizio, ma su un trono di misericordia e di grazia. Egli spande benedizioni su coloro che già sarebbero condannati se fossero chiamati in giudizio.

È dunque evidente che un cristiano che citasse un uomo in tribunale non sarebbe «perfetto» come il suo Padre che è nel cielo.

La parabola alla fine di Matteo 18 ci insegna che quei che vogliono mantenere i propri diritti, non conoscono né il vero carattere né gli effetti della grazia. Quel servo non era ingiusto reclamando ciò che gli spettava, ma era spietato. Differiva completamente dal suo signore. Diecimila talenti gli erano stati condonati, e tuttavia era capace a strangolare il suo conservo per cento miseri denari! Con che risultato? Fu consegnato in mano agli aguzzini; aveva perso il sentimento benedetto della grazia e dovette raccogliere i frutti amari della sua insistenza nel difendere i propri diritti, quando egli stesso era un oggetto della grazia. Notate ch’egli è chiamato «malvagio servitore» non perché aveva un debito di diecimila talenti, ma perché non aveva condonato i «cento denari»! C’era grazia sufficiente nel padrone per rimettere diecimila talenti, ma il servitore non ne aveva abbastanza per rimettere i cento denari. Questa parabola è un richiamo solenne per tutti i cristiani che citano in tribunale; benché nella conclusione sia detto: «Così vi farà anche il Padre mio celeste se ognun di voi non perdona di cuore al proprio fratello», il principio, tuttavia, ha un’applicazione generale e ci dimostra che colui che ha fatto ricorso alla giustizia ha perduto il sentimento della grazia.

Il cap. 9 agli Ebrei ci presenta un’altra accezione del termine «perfetto» e qui ancora è il contesto a stabilirne il senso. Si tratta della perfezione «quanto alla coscienza» (v. 9) e l’uso di quella parola è di grande importanza. L’adoratore, sotto la legge, non poteva mai avere una coscienza perfetta, per il semplice motivo che non possedeva mai un sacrificio perfetto. Il sangue d’un toro o d’un becco non poteva togliere i peccati e il valore ch’esso aveva era per un tempo e non per l’eternità: non poteva, dunque, rendere perfetta la coscienza. Ma, il più debole credente ha il privilegio d’avere una coscienza perfetta. E perché? È forse migliore dell’adoratare sotto la legge? Certamente no, ma possiede un sacrificio migliore. Se il sacrificio di Cristo è perfetto, se lo è per sempre, la coscienza del credente è perfetta, per sempre (Ebrei 9: 9-14, 25-26; 10:14). Il cristiano che non ha una coscienza perfetta, disonora il sacrificio di Cristo; è come se dicesse che quel sacrificio non ha abolito il peccato e che i suoi effetti sono temporali, non eterni; non è forse abbassare il sacrificio di Cristo al livello di quelli dell’economia mosaica? È necessario distinguere bene la perfezione nella carne e quella nella coscienza. Pretendere di avere la prima, vuol dire esaltare l’io; rigettare l’ultima è disonorare Cristo. Il figliuolo di Dio in Cristo, dovrebbe avere una coscienza perfetta: mentre Paolo non possedeva e non riusciva a possedere la perfezione nella carne. La carne non è mai presentata nella Scrittura come qualcosa che debba essere perfezionata, bensì crocifissa. La differenza è enorme. Il cristiano ha del peccato in sè ma non su di sè. Perché? Perché Cristo, che in se stesso non ebbe mai il peccato, lo ebbe su di sè quando fu inchiodato alla croce.

Per finire, al cap. 3 dell’epistola ai Filippesi, troviamo un altro significato del termine «perfetto». L’apostolo dice: «Non ch’io abbia già attenuto il premio o che sia già arrivato alla perfezione», e subito dopo: «Sia questo dunque il sentimento di quanti siamo perfetti» (la versione italiana traduce, inesattamente, «maturi»). Nel primo passo, «la perfezione» si riferisce alla piena ed eterna conformità dell’apostolo con Cristo nella gloria, nel secondo, al fatto che Cristo è l’oggetto esclusivo dei nostri cuori.
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Ponderiamolo bene: Dio non può essere per le nostre anime quella costante realtà che dovrebbe essere e sarebbe per noi se non camminiamo con una fede più semplice e una dipendenza più completa da Lui.

«Cammina alla mia presenza». La vera potenza consiste nel camminare nella presenza dell’Iddio Forte. Camminare così, significa non aver nulla davanti al cuore all’infuori che Lui. Se ci riposiamo sulla creatura, non camminiamo davanti a Dio ma davanti agli uomini. Perciò è importante sapere dinanzi a chi si cammina e con quali propositi. A chi guardo, e su chi m’appoggio in questo momento? È Dio stesso che riempie interamente il mio avvenire? Fino a che punto gli uomini e le cose vi trovano posto? Il solo modo per elevarsi al disopra del mondo è camminare per fede, poiché la fede riempie la scena di Dio, e lo fa in modo tale che non vi rimane posto né per la creatura né per il mondo. Se Iddio riempie tutto il moi campo visuale, ogni altro oggetto sparisce, e posso dire col salmista: «Anima mia, acquietati in Dio solo, poiché da lui viene la mia speranza. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza, egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso» (Salmo 62:5-6). L’uomo non parla così; non già che voglia escludere interamente Dio (a meno che non sia sotto l’influenza diretta d’uno scetticismo audace ed empio), ma il suo sguardo e la sua aspettativa saranno sempre rivolti a più oggetti; non può dire «Egli solo»

È da notare che Dio non condivide la sua gloria con la creatura, né nei particolari della nostra vita giornaliera, né nella questione della salvezza. Dal principio alla fine deve essere Lui solo e soltanto lui. Non basta che dipendiamo da lui a parole, mentre in effetti il cuore riposa sulla creatura. Dio porterà tutto alla luce, proverà il cuore e porrà la fede nella fornace.

«Cammina alla mia presenza e sii integro». Tale è la via che conduce al vero scopo. Quando, per mezzo della grazia, l’anima cessa di confidarsi nella creatura, solo allora è nella disposizione voluta perché Dio possa agire; e quando Dio agisce, tutto va bene. Non lascia nulla di incompleto; regola perfettamente tutto ciò che riguarda quelli che mettono in Lui la loro fiducia. Quando la sovrana sapienza, l’onnipotenza e l’amore infinito di Dio operano insieme, il credente può godere d’un dolce riposo. A meno che potessimo trovare una circostanza troppo grande o troppo piccola per «l’Iddio Onnipotente», allora avremmo motivo per preoccuparci!

Questa è una verità benedetta e atta a porre tutti quelli che credono nella beata posizione nella quale troviamo Abramo in questo capitolo. Dal momento che Dio gli ebbe detto esplicitamente «abbandonami tutto ed io provvederò a tutto, al di là dei tuoi più cari desideri e delle tue più care speranze la progenie», l’eredità e tutto ciò che ne deriva furono perfettamente ed eternamente assicurate secondo il patto dell’Iddio Onnipossente.

Allora «Abramo cadde sulla sua faccia» (vers. 3). Beata posizione! La sola che si addica a un peccatore debole, a un uomo nudo e da nulla, davanti all’Iddio vivente, creatore dei cieli e della terra, possessore di ogni cosa, «l’Iddio Onnipotente».

«E Dio gli parlò». Quando l’uomo è nella polvere, Dio può parlargli in grazia. La posizione che Abramo prende qui, è l’espressione dell’abbassamento completo nella presenza di Dio: sta davanti a Lui nel sentimento della propria debolezza e della propria nullità e questo abbassamento è il sicuro precursore della rivelazione di Dio stesso all’anima sua. Quando la creatura prende questo posto davanti a Lui, Egli può manifestare ciò che è, in tutta la gloria della sua persona. Dio non darà la sua gloria ad un altro. Egli può rivelarsi e permettere all’uomo di adorare in presenza di questa rivelazione, ma finché l’uomo non prende il posto che gli compete, Dio non può mettere in evidenza quello ch’Egli è.

Che differenza nella posizione di Abramo in questi due capitoli! In uno, è la natura che gli è davanti, nell’altro è la presenza dell’Iddio Onnipotente. Là egli agisce, qui adora; là fa ricorso ai propri espedienti e a quelli di Sarai, qui si abbandona con tutto quello che lo riguarda nelle mani di Dio e gli permette di agire, in lui, per lui e per mezzo di lui. Perciò Dio può dire: «Io farò», «Io ti stabilirò », «Io ti darò», «Io ti benedirò». In una parola, Dio solo e la sua opera sono in causa e in questo sta il vero riposo del cuore che ha imparato a conoscersi un poco.

Pedro

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