CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro della GENESI

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2011 20:27
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19/04/2011 20:16
 
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20. Capitolo 25: Fine della vita di Abrahamo

20.1 Il secondo matrimonio di Abrahamo

Questo capitolo ci parla del secondo matrimonio di Abramo, avvenimento che non è senza interesse per l’uomo spirituale, se lo si considera in rapporto col contenuto del capitolo precedente.

Gli scritti profetici del Nuovo Testamento, ci insegnano che la progenie di Abrahamo riapparirà sulla scena dopo il rapimento della Sposa di Cristo. Così, dopo il matrimonio di Isacco, lo Spirito Santo ci occupa della storia della progenie di Abrahamo, in connessione con un nuovo matrimonio, e, in seguito, di alcuni incidenti della vita del patriarca e della sua progenie secondo la carne.

Il libro della Genesi, come già abbiamo detto, racchiude, in embrione, i grandi principi elementari della storia delle relazioni di Dio con l’uomo, di cui i libri seguenti, e il Nuovo Testamento in particolare, contengono lo sviluppo. È vero che nella Genesi questi principi sono presentati in figura, mentre nel Nuovo Testamento sono sviluppati in modo didattico: ma le figure sono molto interessanti e riescono a far penetrare potentemente la verità nel cuore.

20.2 Esaù sprezza la sua primogenitura

La fine di questo capitolo 25 ci rivela alcuni principi importanti e di carattere molto pratico. Il carattere e la vita di Giacobbe passeranno presto sotto i nostri occhi; ma prima di procedere, fermiamoci un poco sulla vita di Esaù, in merito a quel che riguarda il diritto di primogenitura e a tutto quello che implicava questo diritto. Il cuore naturale non attribuisce alcun valore alle cose di Dio; dato che non conosce Dio, le cose di Dio sono per lui qualcosa di molto annebbiato senza valore e senza potenza. Ecco perché le cose presenti hanno tanto peso nella valutazione degli uomini ed esercitano su di loro una così grande influenza! L’uomo apprezza ciò che vede perché è condotto dalla vista e non dalla fede. Per lui il presente è tutto, il futuro invece è una cosa incerta e senza influenza. Così era Esaù. Ascoltiamo il suo insidioso ragionamento: «Ecco io sto per morire, che mi giova la primogenitura?». Strano ragionamento infatti! Il presente mi sfugge, perciò io disprezzo e mi disinteresso dell’avvenire! Il tempo sparisce, davanti ai miei occhi, perciò rinuncio a qualsiasi parte nell’eternità! «Così Esaù sprezzò la primogenitura»; così gl’Israeliti «sprezzarono il paese desiderabile»; così sprezzarono Cristo; così ancora gli invitati alle nozze sprezzarono l’invito (Salmo 106:24; Zaccaria 11:13; Matteo 22:5). L’uomo non ha gusto per le cose di Dio; una «minestra di lenticchie» vale di più, per lui, che il diritto al paese di Canaan. La ragione per la quale Esaù non si preoccupava del suo diritto di primogenitura era precisamente quella che avrebbe dovuto indurlo ad attribuirle il massimo valore.

Più vedo l’incertezza e la vanità delle cose presenti e più darò importanza all’avvenire di Dio. Così ragiona la fede. «Poiché dunque tutte queste cose hanno da dissolversi, quali non dovete voi essere, per santità di condotta e per pietà, aspettando e affrettando la venuta del giorno di Dio, a cagione del quale i cieli infocati si dissolveranno e gli elementi infiammati si struggeranno? Ma, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, nei quali abita la giustizia» (2 Pietro 3:11-13). Ecco il pensiero di Dio e, pertanto, il pensiero della fede. Le cose presenti hanno da dissolversi: sprezzeremo noi quelle che non si vedono e che sono eterne? No, certamente. Il giorno presente è come un’ombra che fugge. Quale è la nostra risorsa? La Scrittura ce lo dice: «Aspettando e affrettando la venuta del giorno di Dio». Ogni altro ragionamento è quello d’un profano, come Esaù che per una sola pietanza vendette la sua primogenitura (Ebrei 12:16).

Ci dia il Signore di giudicare ogni cosa come Lui giudica; solo la fede ce ne rende capaci.

21. Capitolo 26: Isacco a Gherar poi a Beer Sheba

Il primo versetto di questo capitolo si riallaccia al cap. 12. «Or ci fu la carestia nel paese, oltre la prima carestia che c’era stata nel tempo di Abrahamo». Le prove che i credenti incontrano durante la loro carriera quaggiù, sono tutte press’a poco della stessa natura, e tendono sempre a manifestare fino a che punto il loro cuore ha trovato il suo tutto in Dio. È cosa difficile camminare con Dio in una intimità di comunione tale che l’anima sia del tutto indipendente dagli uomini e dalle cose. Gli Egitto e i Gherar che sono alla nostra destra e alla nostra sinistra, ci offrono potenti tentazioni sia per allontanarci dal retto cammino, sia per trattenerci al disotto della nostra posizione come servitori dell’Iddio vivente e vero.

«E Isacco andò da Abimelec, re dei Filistei a Gherar». Vi è, fra l’Egitto e Gherar, una differenza rilevante. L’Egitto è l’espressione del mondo con le sue risorse naturali e la sua indipendenza da Dio. Esso era più lontano da Canaan che Gherar e, moralmente, esprime uno stato d’animo più lontano da Dio. È fatto menzione di Gherar, in questi termini, al cap. 10 v. 19: «E i confini dei Cananei andarono da Sidon in direzione di Gherar, fino a Gaza; in direzione di Sodoma, Gomorra, Arma e Seboim fino a Lesha». Apprendiamo così che da Gherar a Gerusalemme vi era la distanza di tre giorni di cammino. Gherar era dunque vicina, in paragone all’Egitto, ma era nei limiti di pericolosissime influenze. Abrahamo vi trovò delle difficoltà e del travaglio; lo stesso fu di Isacco. Abrahamo rinnegò sua moglie, Isacco fece altrettanto. È solenne vedere il padre e il figlio cadere, l’uno dopo l’altro, nello stesso peccato, e cadervi nello stesso luogo. Questo fatto dimostra che l’influenza di quel luogo era nefasta. Se Isacco non si fosse recato da Abimelec, re di Gherar, non si sarebbe trovato nella situazione di rinnegare sua moglie, ma il più piccolo allontanamento dalla retta via è accompagnato da debolezza spirituale. È quando si scaldava vicino al fuoco, nel palazzo del sommo sacerdote, che Pietro rinnegò il suo Maestro.

Quanto a Isacco, e evidente che non era felice in Gherar. È vero che l’Eterno gli disse: «Soggiorna in questo paese», ma non accade forse sovente che l’Eterno dia ai suoi degli ordini moralmente adatti allo stato nel quale Egli li vede, e atti a condurli nel vero sentimento di questo stato? L’Eterno ordinò a Mosè (Numeri 13) di mandare degli uomini a esplorare il paese di Canaan; ma se lo stato del popolo non fosse stato molto basso, questo procedimento non sarebbe stato necessario. Sappiamo che la fede non ha bisogno di esplorare ciò che la promessa di Dio le assicura. Nello stesso modo (Numeri 11:16) l’Eterno ordina a Mosè di scegliere e di radunare settanta uomini d’infra gli anziani d’Israele perché portino con lui il carico del popolo; ma se Mosè avesse pienamente compreso la sua alta posizione e la gioia che ci era connessa, questo comandamento non sarebbe stato necessario. Ne è lo stesso riguardo l’ordine che diede l’Eterno a Samuele di stabilire un re sul popolo d’Israele (1 Samuele 8). Il popolo non avrebbe dovuto aver bisogno d’un re. È dunque necessario, per valutare giustamente un ordine dato, sia a un individuo sia a un popolo, prendere in considerazione lo stato di questo individuo o di questo popolo.

Ma forse si dirà: se Isacco era in una falsa posizione in Gherar, perché è detto: «Isacco seminò in quella terra e in quell’anno raccolse il centuplo; e l’Eterno lo benedisse» (vers. 12)? Rispondiamo che la prosperità non prova che ci troviamo nella posizione voluta da Dio; come già abbiamo avuto occasione di dirlo, vi è una grande differenza fra la benedizione del Signore e la sua presenza. Non poche persone godono della prima e non dell’ultima; tuttavia il cuore è indotto a prendere l’una per l’altra, a confondere la benedizione con la presenza di Dio, o, per lo meno. a persuadersi che l’una deve necessariamente accompagnare l’altra. È un grande errore. Non è raro vedere delle persone circondate dalle benedizioni di Dio, ma che non godono della sua presenza e nemmeno la desiderano. È importante discernere questo. Uno può diventar grande oltre misura, fino ad essere padrone di greggi di pecore, di mandrie di buoi e di numerosa servitù (vers. 13 a 15) pur senza godere pienamente e liberamente della presenza di Dio. Greggi di pecore e mandrie di buoi, non sono la presenza del Signore: questi beni potevano suscitare l’invidia dei Filistei, ma non era in quello che consisteva la presenza del Signore. Isacco avrebbe potuto godere della più felice comunione con Dio, senza che i Filistei lo avessero notato, per la semplice ragione che non erano in grado né di comprenderne né di apprezzarne il valore.

Tuttavia, più tardi, Isacco si allontanò dai Filistei e salì a Beer Sheba. «E l’Eterno gli apparve in quella stessa notte e gli disse: Io sono l’Iddio d’Abrahamo tuo padre; non temere, poiché io sono teco e ti benedirò» (vers. 24). Non era più soltanto la benedizione del Signore, ma il Signore stesso che era con lui. E perché? Perché Isacco se n’era andato lasciando dietro di se i Filistei con tutta la loro invidia, i loro contrasti e le loro contestazioni, per recarsi a Beer Sceba. Là l’Eterno poteva manifestarsi al suo servitore, mentre non poteva accompagnarlo con la sua presenza in Gherar, benché, con mano liberale, avesse sparso su lui le sue benedizioni mentre era in quel luogo. Per godere della presenza di Dio, bisogna essere dove Egli è, e non è fra le dispute e le contestazioni d’un mondo empio che lo troveremo, di modo che più il credente si farà premura di lasciare queste cose e meglio sarà per lui. Tale fu l’esperienza d’Isacco. Finché stette fra i Filistei, non ebbe alcuna influenza salutare sopra essi, né trovò riposo per l’anima sua. Il vero mezzo per essere utili agli uomini di questo mondo, è di esserne separati, nella potenza della comunione con Dio, mostrando loro il modello d’una «via più eccellente».

Il progresso spirituale fatto da Isacco si manifesta nel suo cammino. «Di là egli sali a Beer Sceba. E l’Eterno gli apparve, ed egli edificò quivi un altare, invocò il nome dell’Eterno e vi piantò la sua tenda. E i servi di Isacco scavarono quivi un pozzo». Notiamo, in tutto ciò, un felice progresso. Dal momento che Isacco ebbe fatto il primo passo nella via diritta, va di forza in forza, entra nella gioia della presenza di Dio e gusta le dolcezze di un vero culto; dimostra di essere straniero e pellegrino, trova pace e riposo e un pozzo incontrastato che i Filisei non potevano turare perché non erano presenti. Questi felici risultati per Isacco, produssero anche un salutare effetto sugli altri. «E Abimelec andò a lui da Gherar con Auzath e con Picol capo del suo esercito. E Isacco disse loro: Perché venite da me, giacché mi odiate e m’avete mandato via dal vostro paese? E quelli risposero: Noi abbiamo chiaramente veduto che l’Eterno è teco; e abbiamo detto: si faccia ora un giuramento fra noi, fra noi e te, e facciam lega teco. Giura che non ci farai alcun male, così come noi non t’abbiamo toccato, e non t’abbiamo fatto altro che del bene, e t’abbiam lasciato andare in pace». Per poter agire sul cuore e sulla coscienza della gente del mondo, bisogna vivere in una separazione completa da loro, pur usando, a loro riguardo, una grazia perfetta. Fintanto che Isacco dimorò in Gherar, non vi fu tra lui e loro altro che dispute e contestazioni; Isacco non raccolse che dispiaceri e non fece alcun bene a quelli che lo circondavano. Ma dal momento che li ebbe lasciati, i loro cuori furono toccati; ed essi lo seguirono e vollero concludere un’alleanza con lui.

La storia dei figli di Dio ci offre numerosi esempi dello stesso genere. Ciò che deve anzitutto preoccuparci, è di sapere che siamo nella posizione nella quale Dio ci vuole, e che siamo in regola con lui, non soltanto nella nostra posizione, ma nella condizione morale dell’anima nostra. Se siamo in regola con Dio, possiamo sperare di agire sugli altri in modo salutare. Dal momento che Isacco salì a Beer Sceba e prese la posizione di adoratore, l’anima sua fu ristorata e Dio si servì di lui per agire su quelli che lo circondavano. La povertà spirituale ci priva di molte benedizioni e ci fa venir meno alla nostra testimonianza e al nostro servizio. Ma nemmeno dobbiamo, quando ci troviamo in una falsa posizione, fermarci, come accade sovente, per domandarci: dove troveremo qualcosa di migliore? Il comandamento di Dio è: «Cessate dal fare il male»; poi quando abbiamo ubbidito a questo, Dio ce ne fa udire un altro: «Imparate a fare il bene» (Isaia 1:17). Siamo in errore se pretendiamo d’imparare a fare il bene prima di cessare di fare il male. «Risvegliati, o tu che che dormi, e risorgi da’ morti, e Cristo t’inonderà di luce» (Efesini 5:14).

Lettore, se fate ciò che sapete essere male, o se praticate in qualche modo quello che sapete essere contrario alla Scrittura, ascoltate la parola del Signore: «Cessate di far male»; e siate pur certi che se ubbidite a questa parola, non sarete per molto tempo nell’ignoranza riguardo al cammino che dovete seguire. Solo l’incredulità ci porta a credere che non possiamo cessare di fare il male prima di aver trovato qualche bene da fare. Ci dia il Signore un occhio semplice e uno spirito docile.

Pedro

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