CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro della GENESI

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2011 20:27
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19/04/2011 20:18
 
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22.3 Sapere aspettare il tempo fissato da Dio

Non c’è posizione più benedetta di quella di un’anima che, con la semplicità di un bimbo, vive in una intera dipendenza da Dio, perfettamente soddisfatta di aspettare il suo tempo. Una tale posizione implica delle prove, è vero; ma l’anima rinnovata impara le lezioni più profonde e fa le più dolci esperienze mentre attende, facendo affidamento nel Signore. E più sarà forte la tentazione di sottrarsi al governo di Dio, più abbondante sarà la benedizione, se sappiamo rimanere in questa beata posizione.

È qualcosa di infinitamente dolce dipendere da qualcuno per il quale benedire è una gioia. Coloro che in una certa misura, hanno gustato la realtà di questa meravigliosa posizione, possono, essi soli, apprezzarla e l’unico che l’ha occupata in modo perfetto e senza interruzione è il Signore Gesù. Egli è stato sempre dipendente da Dio e ha rigettato in modo assoluto ogni proposta del nemico per farlo uscire da quella dipendenza. Il suo parlare era: «Io confido in te; — a te fui affidato fin dalla mia nascita» (Salmi 16:1; 22:10). E quando il diavolo lo tentò e volle indurlo a servirsi di un mezzo straordinario per soddisfare la sua fame, Egli rispose: «Sta scritto: non di pane soltanto vivrà l’uomo, ma d’ogni parola che procede dalla bocca di Dio» (Matteo 3:4). Quando Satana lo tentò, volendo che si gettasse giù dal pinnacolo del tempio, la sua risposta fu: «È altresì scritto: non tentare il Signore Iddio tuo» (Matteo 3:7). Quando Satana volle ch’Egli prendesse i regni del mondo dalla mano d’un altro, non da Dio, e adorasse un altro, non Dio, Egli rispose ancora: «Sta scritto: adora il Signore Iddio tuo e a lui solo rendi il culto» (Matteo 4:10). In una parola, nulla potè sedurlo, lui, l’uomo perfetto, né indurlo a sottrarsi dalla dipendenza assoluta da Dio. Sicuramente, era nei disegni di Dio di nutrire e sostenere il proprio figliuolo; era nei suoi disegni ch’egli venisse ed entrasse «subito nel suo tempio» (Malachia 3:1); e così pure egli gli destinava i regni del mondo: ma era precisamente quella la ragione per la quale il Signore Gesù volle, semplicemente e con perseveranza, confidare in Dio per il compimento dei suoi piani, al momento e nel modo voluti da lui.

Non cerca di fare la propria volontà; Egli s’abbandona completamente a Dio. Non mangerà se non quando Dio gli darà del pane; non entrerà nel tempio se non quando sarà Dio a mandarlo e salirà sul trono solo quando Dio lo vorrà. «Siedi alla mia destra, finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi» (Salmo 110:1).

Questo completo assoggettarsi del Figlio al Padre è inesprimibilmente ammirevole. Benché perfettamente uguale a Dio, Egli prese, come uomo, la posizione della dipendenza; trovava sempre il suo piacere nella volontà del Padre; avendo sempre il grande e immutabile scopo di glorificare il Padre. E quando finalmente tutto fu compiuto, quando ebbe portato a termine perfettamente l’opera che il Padre gli aveva dato da fare, Egli rimise il suo spirito nelle mani del Padre mentre la sua carne riposava nella speranza della gloria e dell’esaltazione promesse.

È dunque ben a proposito ciò che l’apostolo dice: «Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato in Cristo Gesù; il quale, essendo in forma di Dio, non reputò rapina l’essere uguale a Dio, ma annichilì se stesso prendendo forma di servo e divenendo simile agli uomini; ed essendo trovato nell’esteriore come un uomo abbassò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte e alla morte della croce. Ed è perciò che Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra d’ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto la terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre» (Filipp. 2:5-11).

22.4 Gli espedienti di Giacobbe

Quanto poco, all’inizio della sua carriera, Giacobbe conosceva questo sentimento benedetto! Quanto poco era disposto a rimettersi in Dio per la scelta del tempo e dei mezzi! Egli preferiva raggiungere la benedizione e l’eredità con ogni sorta di inganni e di frodi, piuttosto che con la semplice dipendenza e sottomissione a quel Dio che l’aveva eletto per grazia, per farlo erede delle promesse, e che con la sua saggezza e la sua forza onnipotente, avrebbe infallibilmente compiuto in suo favore tutto ciò che gli aveva promesso.

Ma, ahimè, sappiamo fin troppo bene quanto il cuore sia opposto a questa dipendenza e a questa sottomissione. Preferisce tutto, a questa posizione di paziente attesa.

L’uomo naturale che non avesse Dio per risorsa, cadrebbe infallibilmente nella disperazione. Basta questo fatto per insegnarci il vero, carattere della natura umana: per conoscerla non è necessario addentrarsi in quei luoghi dove regnano liberamente il vizio e la criminalità. Basta, per metterla alla prova, porla per un certo tempo in una posizione di dipendenza: si vedrà molto presto come essa si comporta. Non conoscendo Dio, non può confidare in lui: in questo sta il segreto della sua miseria e della sua degradazione morale. Essa ignora completamente il vero Dio e, di conseguenza, non può essere che una cosa miserabile e inutile. La conoscenza di Dio è sorgente di vita; anzi, di più: è la vita stessa. E cos’è l’uomo, cosa può essere, finché non ha la vita?

In Rebecca e in Giacobbe il carattere naturale prende il sopravvento su quello di Isacco e Esaù. La condotta di Rebecca e di Giacobbe non è diversa: in essi non v’è alcuna dipendenza da Dio né fiducia in Lui. Era facile ingannare Isacco dal momento che i suoi occhi erano velati: e Rebecca e Giacobbe si propongono di fare così, invece di guardare a Dio che avrebbe reso completamente vana la deliberazione, che Isacco aveva presa, di benedire colui che Dio non voleva benedire; quel piano di Isacco che aveva la sua origine nel suo carattere naturale tanto poco piacevole, poiché «Isacco amava Esaù» non perché era il primogenito, ma perché «la selvaggina era la sua carne». Come è umiliante tutto ciò!

Quando vogliamo sottrarre a Dio le nostre persone, le nostre circostanze o il nostro destino, attiriamo sempre su noi stessi nient’altro che il tormento. Quando siamo nella prova non dimentichiamo mai che ciò di cui abbiamo bisogno non è di vedere cambiate le nostre circostanze, ma di riportare la vittoria su noi stessi. È ciò che avvenne a Giacobbe, come vedremo in seguito.

Qualcuno ha fatto notare che «se si considera la vita di Giacobbe da quando ha ottenuto con inganno la benedizione di suo padre, si vede che d’allora ha avuto assai poca felicità in questo mondo». Suo fratello concepì il progetto di ucciderlo e l’obbligò a fuggire dalla casa paterna. Labano, suo zio, lo ingannò, come egli aveva ingannato il padre, e lo trattò con durezza; dopo ventun anni di servitù fu costretto a lasciare clandestinamente lo zio, non senza correre il rischio di essere ricondotto da dove era fuggito o ucciso dal fratello irritato. E, appena liberato da queste paure, fu ricolmo d’amarezza per la condotta vergognosa e criminale di suo figlio Ruben; dopo ciò ebbe a deplorare il tradimento e la crudeltà di Simeone e di Levi verso gli abitanti di Sichem, e dovette soffrire per la morte della moglie tanto amata; poi, i suoi figli lo ingannarono ed eccolo ridotto a portare lutto per la falsa morte di Giuseppe; infine, per colmo di tutte queste sventure, la fame lo obbligò a scendere in Egitto dove morì, in terra straniera.

Sono queste le vie della provvidenza, sempre giuste, meravigliose e piene di istruzione. E questo è Giacobbe! Ma qui c’è solo un aspetto della sua vita, quello tetro. Ce n’è un altro, Dio ne sia benedetto, poiché Dio aveva a che fare con Giacobbe, e come vedremo, in ogni avvenimento della vita del patriarca, nel quale egli ha dovuto raccogliere i frutti delle proprie macchinazioni e della sua falsità, l’Iddio di Giacobbe trasse il bene dal male e fece abbondare la grazia al di sopra del peccato e della follia del suo povero servo.

22.5 L’atteggiamento d’Isacco

È molto interessante vedere, al principio di questo capitolo, come, nonostante la debolezza estrema della carne, Isacco conservi, per fede, la dignità di cui Dio l’aveva rivestito. Egli pronuncia la benedizione nel sentimento completo del potere che gli è stato conferito per benedire, e dice: «L’ho benedetto, e benedetto ei sarà... Ecco, io l’ho costituito tuo padrone, e gli ho dato tutti i tuoi fratelli per servi e l’ho provvisto di frumento e di vino; che potrei dunque fare per te, figliuol mio?». Parla come un uomo che, per fede, ha tutti i tesori della terra a sua disposizione; non c’è in lui della falsa umiltà; egli non scende dalla posizione elevata che occupa per colpa delle manifestazioni del suo carattere naturale. Sta per commettere un doloroso errore, è vero, e per agire in diretta opposizione col consiglio di Dio: tuttavia conosce Dio e prende il posto che gli appartiene, dispensando benedizioni in tutta la dignità e l’energia della fede. «L’ho benedetto: e benedetto ei sarà... l’ho provvisto di frumento e di vino».

È la caratteristica della fede di elevarsi al di sopra di tutti i nostri sbagli e delle loro conseguenze, per farci occupare il posto che la grazia di Dio ci ha assegnato.

Pedro

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