CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro della GENESI

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2011 20:27
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19/04/2011 20:19
 
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23.3 La grazia sovrana di Dio

Il profeta Osea ci trasporta ai tempi in cui le cose rappresentate dalla scala di Giacobbe avranno il loro adempimento: «... e in quel giorno io farò per loro un patto con le bestie dei campi, con gli uccelli del cielo e coi rettili del suolo; e spezzerò e allontanerò dal paese l’arco, la spada, la guerra e farò ch’essi riposino al sicuro. E io ti fidanzerò a me per l’eternità; ti fidanzerò a me in giustizia, in equità, in benignità e in compassione. Ti fidanzerò a me in fedeltà e tu conoscerai l’Eterno. E in quel giorno avverrà che io ti risponderò, dice l’Eterno: risponderò al cielo ed esso risponderà alla terra; e la terra risponderà al grano, al vino, all’olio e questi risponderanno ad Jizreel. Io lo seminerò per me in questa terra e avrò compassione di Lo-ruhama; e dirò a Lo-ammi: Tu sei il popolo mio! ed egli mi risponderà: Mio Dio» (Osea 2:18-23).

Le parole del Signore stesso racchiudono un’allusione alla visione di Giacobbe (Giov. 1:51): «... In verità, in verità, vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figliuol dell’uomo».

Questa visione di Giacobbe è una meravigliosa rivelazione della grazia di Dio verso Israele. Abbiamo visto quali fossero il vero carattere e lo stato morale di Giacobbe e l’uno e l’altro comprovano, con chiara evidenza, che tutto doveva essere grazia verso di lui se doveva essere benedetto. Né il suo carattere, né la sua nascita, gli davano diritto a qualcosa. Esaù, in virtù della sua nascita e del suo carattere, avrebbe potuto pretendere qualcosa, a condizione, però, che fosse messo da parte il supremo diritto di Dio. Giacobbe non aveva diritto a nulla. Allo stesso modo che Esaù non poteva rivendicare i propri diritti, se non a scapito della sovranità di Dio, Giacobbe non poteva averne, se non da questa stessa sovranità; e, peccatore com’era, non poteva basarsi su altro che sulla sola, sovrana e pura grazia di Dio.

23.4 Una coscienza a disagio

La rivelazione del Signore al servitore ch’Egli s’è scelto ricorda, o semplicemente annunzia, a Giacobbe ciò che lui, l’Eterno, avrebbe ancora compiuto: «Io sono l’Eterno... Io ti darò la terra... Io ti guarderò... Io ti ricondurrò... Io non ti abbandonerò prima d’avere fatto quello che t’ho detto» (vers. 13-15). Tutto è da Dio, senza alcuna condizione.

Quando è la grazia che agisce non v’è, e non può esservi, il «se», né il «ma»! Non si trova la grazia dove c’è un se. Dio può, è vero, porre l’uomo in una posizione di responsabilità, nella quale, necessariamente, bisogna ch’egli si rivolga a lui con il «se». Ma Giacobbe, addormentato su di un guanciale di pietra, ben lontano dal trovarsi in una posizione di responsabilità, si trova, invece, nella nudità e nella debolezza più complete; e proprio per questo, Giacobbe si trovava in una posizione in cui poteva ricevere una rivelazione della più perfetta, la più ricca, la più incondizionata grazia.

Non possiamo fare altro che apprezzare il godimento infinito che si prova ad essere in una posizione tale da non avere nulla su cui appoggiarci se non Dio solo, e nella quale ogni vera benedizione ed ogni gioia reale si basino, per noi, sui diritti supremi di Dio e sulla sua fedeltà. In base a questo principio sarebbe dunque, per noi, una perdita irreparabile l’avere qualcosa davanti a noi su cui poter riposare, ammesso d’avere a che fare con Dio sul principio della nostra responsabilità; tutto sarebbe inevitabilmente perduto per noi.

Giacobbe era così cattivo che solo Dio poteva essere sufficiente a ciò che il suo stato richiedeva. E, facciamo attenzione, fu per non aver riconosciuto questa verità che Giacobbe si immerse in tanti dispiaceri e calamità.

La rivelazione che l’Eterno fa di se stesso è una cosa; attenersi a questa rivelazione è un’altra. L’Eterno si rivela a Giacobbe nella sua grazia infinita, ma Giacobbe non si è neppure ancora risvegliato dal sonno che già lo vediamo mettere in evidenza il suo vero carattere, dimostrando così di conoscere assai poco, in pratica, l’Iddio benedetto che si era appena rivelato a lui in un modo così meraviglioso. «Ed ebbe paura e disse: com’è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo» (v. 17).

Il cuore di Giacobbe non era a suo agio alla presenza di Dio. Poiché è soltanto quando il cuore è compietamente rotto e l’uomo spogliato di se stesso che si è a proprio agio con Dio; Dio prende piacere nel cuore contrito, sia benedetto il suo nome! E il cuore contrito è felice presso Dio. Ma il cuore di Giacobbe non era ancora in una tale posizione e Giacobbe non aveva ancora imparato a riposarsi, come un bambino, sull’amore perfetto di Colui che ha potuto dire: «Ho amato Giacobbe» (vedi Mal. 1:2; Rom. 9:13). «L’amore perfetto caccia via la paura». Dove questo amore non è completamente conosciuto e realizzato, c’è sempre del dubbio e del disagio.

La casa e la presenza di Dio non incutono alcuna paura all’anima che conosce l’amore di Dio come si è manifestato nel sacrificio di Cristo. Una tale anima è piuttosto portata a dire: «O Eterno, io amo il soggiorno della tua casa e il luogo dove risiede la tua gloria» (Salmo 26:8). E ancora: «Oh quanto sono amabili le tue dimore, o Eterno degli eserciti! L’anima mia langue e vien meno bramando i cortili dell’Eterno» (Salmo 84:1). Quando il cuore è saldo nella conoscenza di Dio, si ama la casa di Dio, qualunque ne sia il carattere; sia essa Bethel o il tempio di Gerusalemme o la Chiesa che è ora formata da tutti i veri credenti, entrati «a far parte dell’edificio che ha da servire di dimora a Dio per lo Spirito» (Efesi 2:22).

In ogni caso, la conoscenza che Giacobbe aveva di Dio e della Sua casa era ben limitata, a questo momento della sua storia; ne abbiamo una nuova prova nel compromesso che vuol fare con Dio, negli ultimi versetti del cap. 28.

«E Giacobbe fece un voto dicendo: se Dio è meco, se mi guarda durante questo viaggio che fo, se mi dà pane da mangiare e vesti da coprirmi e se ritorno sano e salvo alla casa del padre mio, l’Eterno sarà il mio Dio; e questa pietra che ho eretta in monumento, sarà la casa di Dio; e di tutto quello che tu darai a me, io, certamente, darò a te la decima». Giacobbe dice «se Dio è meco» quando il Signore, proprio allora, gli aveva detto espressamente «io sono con te e ti guarderò ovunque tu andrai e ti ricondurrò in questo paese...». A dispetto di una tale testimonianza, il povero cuore di Giacobbe non è capace di elevarsi oltre il «se» e di avere, della bontà di Dio, un concetto più alto di quello in rapporto al «pane da mangiare» e «alle vesti per coprirsi».

Questi erano i pensieri di un uomo che proprio allora aveva avuto la visione magnifica della scala dalla terra al cielo e sulla quale c’era l’Eterno che gli prometteva una innumerevole progenie e un’eredità eterna. Evidentemente, Giacobbe era incapace di penetrare nella realtà e nella pienezza dei pensieri di Dio; misurava Dio col suo metro e sbagliava completamente nell’idea che si faceva di Dio. In poche parole, Giacobbe non aveva ancora finito con se stesso e, di conseguenza, non aveva ancora incominciato con Dio.

Pedro

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