CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro della GENESI

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2011 20:27
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19/04/2011 20:20
 
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24. Capitoli da 29 a 31: Giacobbe a casa di Labano

24.1 Alla scuola di Dio

«Poi Giacobbe si mise in cammino e andò nel paese degli Orientali».

Come abbiamo visto nel cap. 28, Giacobbe non sa afferrare il vero carattere di Dio e riceve l’abbondanza della grazia di Bethel con un «se», accompagnato da un miserabile baratto per del pane e degli abiti; ed ora dobbiamo seguire Giacobbe in una successione ininterrotta di compromessi.

«Quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà» (Gal. 6:7). È impossibile sfuggire a questo principio. Giacobbe non aveva ancora trovato il proprio livello davanti a Dio e bisogna che Dio si serva delle circostanze per castigarlo e umiliarlo. È qui il segreto di tanti dispiaceri e di tante prove che abbiamo in questo mondo. I nostri cuori non sono mai stati rotti davanti a Dio, realmente; non ci siamo mai giudicati, non siamo mai stati spogliati di noi stessi. Ne deriva che siamo sempre daccapo come delle persone che urtano la testa contro un muro. Nessuno può realmente godere di Dio se non ha posto fine al proprio «io», per la semplice ragione che Dio incomincia a manifestarsi proprio là, dove ha termine la carne. Se dunque non l’ho fatta finita con la mia carne, per mezzo di una profonda e positiva esperienza, è moralmente impossibile che io abbia un’intelligenza, sia pure imperfetta, del carattere di Dio. Bisogna che in un modo o nell’altro impari a conoscere cosa vale la natura; e, per portarmi a questa conoscenza, il Signore si serve di svariati mezzi, che di per se stessi non sarebbero’efficaci se non fosse lui ad adoperarli, per rivelare ai nostri occhi il vero carattere di tutto ciò che si trova nei nostri cuori. Non avviene forse sovente che il Signore venga vicino a noi e ci parli in un orecchio senza che discerniamo la sua voce e che sappiamo prendere il posto che ci compete davanti a lui?

«L’Eterno è in questo luogo e io non lo sapevo... Com’è tremendo questo luogo!». Da tutto ciò Giacobbe non ricevette alcuna istruzione, tanto che fu necessaria una disciplina di trent’anni e una dura scuola, che neanche bastò a vincerlo completamente.

24.2 L’ingannatore a casa dell’ingannatore

Tuttavia egli entra in un’atmosfera perfettamente adatta al suo stato morale. L’affarista Giacobbe incontra Labano, affarista e commerciante, e li vediamo gareggiare in inganni e astuzie per imbrogliarsi a vicenda. Per Labano non c’è da stupirsi, perché non era stato a Bethel; non aveva visto il cielo aperto e la scala che toccava cielo e terra; non aveva udito le gloriose promesse dalla bocca dell’Eterno che gli assicurava il possesso della terra di Canaan e una progenie tanto numerosa da non potersi contare. Labano, l’uomo del mondo, non ha altra risorsa che i propri bassi sentimenti e la propria cupidigia. E si serve di quello. Come si potrebbe far uscire la purezza dall’impurità? Ma nulla è più umiliante di vedere Giacobbe, dopo tutto ciò che ha visto e udito a Bethel, lottare con un uomo del mondo e sforzarsi di accumulare dei beni con dei mezzi simili a quelli adoperati da lui.

Ahimè! non è punto raro vedere dei credenti dimenticare la loro sorte elevata e la loro eredità celeste a tal punto da scendere in campo coi figliuoli di questo mondo e qui lottare con essi per le ricchezze e gli onori di una terra colpita dalla maledizione del peccato. Tutto questo è talmente vero che, in un gran numero di persone, è difficile scoprire qualche traccia di quel principio di cui parla Giovanni; «quello che vince il mondo» (1 Giov. 5:4).

Considerando e giudicando Giacobbe e Labano dal punto di vista dei loro caratteri naturali, sarebbe difficile trovare fra i due una benché minima differenza. Bisognerebbe essere dietro al sipario ed entrare nei pensieri di Dio riguardo ai due, per vedere a qual punto differiscono. Ma è Dio che ha posto una differenza fra loro, non Giacobbe; la stessa cosa avviene oggi. Benché possa essere difficile da scoprirsi, esiste un’immensa differenza fra i figliuoli della luce e quelli delle tenebre: una differenza basata sul fatto solenne che i primi sono «vasi di misericordia che Dio aveva già innanzi preparati per la gloria», mentre gli altri sono «vasi d’ira preparati per la perdizione» (non da Dio ma dal peccato) (Rom. 9:22-23) (*). I Giacobbe e i Labano differiscono essenzialmente e differiranno sempre, benché i primi possano venir meno in modo spaventoso alla realizzazione e alla manifestazione del loro vero e glorioso carattere.

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(*) Ogni uomo spirituale noterà, con profondo interesse, con quanta cura lo Spirito di Dio, in Rom. 9 e altrove nelle Scritture, ci mette in guardia contro la deduzione orribile che lo spirito umano fa, troppo sovente, dalla dottrina dell’elezione di Dio. Quando parla dei «vasi d’ira» si limita a dire che erano, o sono, tutti «preparati per la perdizione»; non dice che è Dio che li ha preparati. D’altro canto, quando fa allusione ai «vasi di misericordia» dice che è Dio che li «aveva già innanzi preparati per la gloria». Questa distinzione è importantissima.

Se il mio lettore consulta Matteo 25:34-41, vi troverà un esempio altrettanto notevole della medesima dottrina. Quando il Re si rivolge a quelli che gli stanno a destra dice: «Venite, voi, i benedetti del Padre mio, eredate il regno che vi è stato preparato fin dalla fondazione del mondo» (v. 34); ma quando parla a quelli della sinistra dice: «andate via da me, maledetti». Non dice maledetti dal Padre mio; poi aggiunge «nel fuoco eterno preparato — non per voi, ma — per il diavolo e per i suoi angeli» (v. 41). In poche parole, è evidente che Iddio ha «preparato» un regno di gloria e dei vasi di misericordia che ereditino questo regno, e che non ha preparato il «fuoco eterno» per degli uomini ma per il diavolo e i suoi angeli; e non è lui che ha preparato i vasi d’ira, ma questi si sono preparati da loro stessi. Se dunque la parola di Dio stabilisce chiaramente l’elezione, respinge, con altrettanta cura, l’idea della «riprovazione». Vedendosi in cielo, ogni beato avrà da rendere grazie a Dio solo; e chiunque si troverà nell’inferno non potrà accusare altri che se stesso.
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Quanto a Giacobbe, tutta la sua fatica e il suo lavoro, come pure quel miserevole baratto del capitolo precedente, risultano dall’ignoranza della grazia e dall’incapacità di confidare ciecamente nella promessa di Dio. Colui che, dopo aver ricevuto da Dio la promessa, senza riserve, di dargli la terra di Canaan, poteva dire «se mi dà pane da mangiare e vesti da coprirmi», non aveva certo che una ben debole idea di Dio e di ciò che era la sua promessa. Vediamo così l’uomo sforzarsi a fare i propri interessi nel modo che gli risulta più vantaggioso. È sempre così quando la grazia non è compresa. La professione che possiamo fare dei principi della grazia non è la misura dell’esperienza che abbiamo della potenza di essa. Chi crederebbe che la visione non abbia rivelato a Giacobbe ciò che la grazia era? Eppure la rivelazione di Dio a Bethel e la condotta di Giacobbe a Charan sono tanto differenti! Tuttavia, quest’ultima non era che l’espressione di come egli aveva compreso la prima. Il carattere e la condotta di un uomo sono l’esatta misura dell’esperienza e della convinzione dell’anima sua qualunque sia, del resto, la professione che egli fa. Giacobbe non era ancora stato costretto a vedersi, tale qual era, davanti a Dio; di conseguenza ignorava la grazia, e manifestò la propria ignoranza mettendosi allo stesso livello di Labano e adottandone i principi e le vie.

Non si può fare a meno d’essere sorpresi dal fatto che Giacobbe fu condotto dalla provvidenza di Dio in una sfera particolarmente adatta a manifestare il suo carattere negli aspetti più salienti, per il fatto che non aveva imparato a conoscere e a giudicare davanti a Dio il suo carattere naturale. Giacobbe andò, così, a Charan, il paese di Labano e di Rebecca, proprio alla scuola da cui erano usciti i principi che egli, con tanta abilità, metteva in pratica e che, in quella famiglia, erano insegnati, applicati e mantenuti. Per sapere chi è Dio bisognava andare a Bethel; per sapere chi era l’uomo, bisognava andare a Charan: ora Giacobbe, non avendo potuto afferrare la rivelazione che Dio gli aveva fatto di sè a Bethel, dovette andare a Charan perché si manifestasse chi egli era: e là, ahimè, quanti sforzi dovette fare per riuscire, quanti sotterfugi, quanti inganni, quanti artifici. Non un briciolo di santa e gloriosa fiducia in Dio, di semplicità, di pazienza, di fede. Dio era con Giacobbe, è vero, poiché nulla può impedire alla grazia di risplendere.

Giacobbe riconosce, un poco almeno, la presenza e la fedeltà di Dio, ma non può stare senza fare i suoi piani e i suoi progetti. Non può lasciare a Dio il compito di decidere per lui ciò che riguarda le sue mogli e i suoi impegni; cerca di aggiustare ogni cosa con i suoi inganni e i suoi espedienti. In poche parole, dal principio alla fine, Giacobbe è il «soppiantatore» (*). Dove trovare un esempio di astuzia più clamoroso di quello che ci è riferito al cap. 30:37-42? È quello un perfetto ritratto di Giacobbe. Invece di lasciare a Dio l’incarico di moltiplicare le pecore macchiate e vaiolate e gli agnelli neri, cosa che Dio avrebbe fatto sicuramente, se avesse confidato in lui, Giacobbe, per raggiungere il suo scopo, si serve di un mezzo che solo un cervello come il suo avrebbe potuto escogitare. Nei vent’anni di soggiorno in casa di Labano agisce nello stesso modo e, alla fine, fugge, mostrandosi così, in tutto, coerente con se stesso.

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(*) Il nome «Giacobbe» significa «soppiantatore».

Pedro

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