CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro della GENESI

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2011 20:27
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19/04/2011 20:21
 
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24.3 La conoscenza della grazia e la conoscenza di noi stessi

Seguendo ora Giacobbe e osservandone il carattere da un punto all’altro della sua straordinaria storia, possiamo contemplare le meraviglie della grazia di Dio. Nessuno, all’infuori di Dio, avrebbe potuto sopportare un Giacobbe e nessuno, all’infuori di lui, avrebbe voluto occuparsene. La grazia ci raggiunge nella più infima delle condizioni. Prende l’uomo così com’è e agisce nei suoi riguardi con la piena intelligenza di chi egli è. È importantissimo capire bene, fin dal principio, questo carattere della grazia, per essere in grado di sopportare, con fermezza, le scoperte che facciamo della nostra indegnità e che così spesso minano la fiducia dei figliuoli di Dio e ne turbano la pace.

Molte persone non si rendono conto, alla prima, della completa rovina della vecchia natura così come appare alla luce della presenza di Dio, benché i loro cuori siano realmente stati attirati dalla grazia e le loro coscienze rese tranquille dall’applicazione del sangue di Cristo. E la conseguenza è che, man mano che progrediscono nella vita cristiana e fanno delle scoperte più profonde del male che è in loro, mancando di questa conoscenza della grazia di Dio e del valore del sangue di Cristo, finiscono per dubitare di essere realmente figli di Dio. Questi cristiani sono così staccati da Cristo e abbandonati a loro stessi; allora, ricorrono agli ordinamenti per mantenere il tono della loro pietà, oppure ricadono in uno stato di completa mondanità. Tale e la sorte di colui il cui cuore non è stato «reso saldo dalla grazia» (Ebrei 13:9).

Questo fatto rende lo studio della storia di Giacobbe di profondo interesse e di grande utilità. Chi legge i tre capitoli che stiamo meditando, non può fare a meno di essere colpito dalla grazia meravigliosa che ha potuto interessarsi di un essere come Giacobbe e dire ancora, dopo aver scoperto tutto ciò che vi era in lui: «Egli non scorge iniquità in Giacobbe, non vede perversità in Israele» (Numeri 23:21). Dio non dice che non v’è iniquità in Giacobbe e ingiustizia in Israele: una tale asserzione non sarebbe vera e non darebbe al cuore quella certezza che, al di sopra di ogni cosa, Dio vuole infondere. Dire a un povero peccatore che in lui non v’è alcun peccato, non gli darebbe la minima sicurezza: egli sa, anche troppo bene, che vi è del peccato in lui. Ma se Dio gli dice che in lui non vede peccato a motivo del perfetto sacrificio di Cristo, la pace entrerà certamente nel suo cuore e nella sua coscienza.

Se Dio avesse prescelto Esaù, non avremmo assistito al medesimo spiegamento di grazia, per il fatto che Esaù non ci appare sotto una luce così sfavorevole come Giacobbe. Più l’uomo si abbassa ai suoi propri occhi, più la grazia di Dio si eleva ed è magnificata. Nella misura con la quale, a mia valutazione, il mio debito si moltiplica da cinquanta a cinquecento denari, l’apprezzamento che faccio della grazia aumenta proporzionalmente e così pure l’esperienza che ho di quell’amore che, quando non avevamo «di che pagare», rimise «il nostro debito» (Luca 7:42). Con ragione, dunque, l’apostolo dice: «È bene che il cuore sia reso saldo dalla grazia e non da pratiche relative a vivande, dalle quali non ritrassero alcun giovamento quelli che le osservarono» (Ebrei 13:9).

25. Capitoli da 32 a 34: Di ritorno in Canaan

25.1 Gli arrangiamenti umani e la preghiera

«Giacobbe continuò il suo cammino, e gli si fecero incontro degli angeli di Dio».

Nonostante tutto, la grazia di Dio accompagna Giacobbe. Nulla potrebbe far mutare l’amore di Dio; egli ama d’un amore immutabile. Chi è amato da lui, lo è fino alla fine; il suo amore è come lui, «lo stesso ieri, oggi e in eterno» (Ebrei 13:8).

Quanto scarso effetto il «campo di Dio» abbia avuto su Giacobbe, possiamo rilevarlo da ciò che questo capitolo ci riferisce di lui. «Giacobbe mandò davanti a sè dei messi a Esaù suo fratello nel paese di Seir, nella campagna di Edom» (v. 3). Certamente non si sente a suo agio pensando di incontrarsi con Esaù e il motivo c’era: aveva agito molto male nei suoi confronti e la sua coscienza non era tranquilla. Ma, invece di abbandonarsi nelle braccia di Dia interamente, egli ricorre di nuovo, per distogliere l’ira di Esaù, ai suoi abituali espedienti. Cerca di lusingare Esaù, invece di appoggiarsi a Dio. «E dette loro quest’ordine: direte così ad Esaù, mio signore: così dice il tuo servo Giacobbe: Io ho soggiornato presso Labano, e vi sono rimasto fino ad ora» (v. 4). Tutto questo rivela un’anima lontana dall’avere il suo centro in Dio. «Mio signore» e «tuo servo» non sono espressioni di fratello a fratello, né di persona che ha il sentimento della dignità che la presenza di Dio conferisce. È il linguaggio di Giacobbe, di Giacobbe che ha una cattiva coscienza.

«E i messi tornarono a Giacobbe, dicendo: siamo andati dal tuo fratello Esaù ed eccolo che ti viene incontro con quattrocento uomini. Allora Giacobbe fu preso da gran paura e angosciato» (v. 6-7). Cosa farà quindi? S’abbandonerà a Dio? No; incomincia ad escogitare degli accomodamenti. «Divise in due schiere la gente che era con lui, i greggi, gli armenti, i cammelli, e disse: se Esaù viene contro una delle schiere e l’abbatte, la schiera che rimane potrà salvarsi». Il primo pensiero di Giacobbe è sempre di fare dei piani. In questo c’è un’immagine veritiera del povero cuore dell’uomo. È vero che dopo aver organizzato il suo piano, si rivolge all’Eterno e grida a lui perché lo liberi, ma appena finito di pregare torna a volgersi ai propri espedienti. Ora, pregare e fare dei piani sono due cose che non vanno d’accordo: quando io metto in opera i miei disegni, finisco col riposare più o meno su di essi; quando prego, devo confidare esclusivamente in Dio. Quando i miei sguardi sono assorbiti dai miei propri piani, non sono preparato a vedere Dio intervenire in mio favore; allora, la preghiera non è l’espressione dello stato in cui mi trovo, ma il cieco compimento di qualcosa che credo sia necessario fare, o, fors’anche, la richiesta a Dio di santificare i miei disegni. Ma Dio non vuole che io gli chieda di santificare e di benedire i miei mezzi, bensi che io rimetta tutto nelle sue mani affinché sia lui ad intervenire in mio favore. Indubbiamente, quando la fede lascia agire Dio, Egli adopererà i propri mezzi; ma ciò è ben diverso dal riconoscere e benedire i piani e gli arrangiamenti dell’incredulità e dell’impazienza. La differenza non è mai troppo compresa.

Sebbene Giacobbe abbia chiesto a Dio che lo liberasse da suo fratello Esaù, appare evidente che non aveva fiducia nel suo intervento poiché cerca di «placarlo con un dono». La sua fiducia si basa sul dono e non su Dio soltanto. «Il cuore è ingannevole più d’ogni altra cosa e insanabilmente maligno» (Geremia 17:9). È sovente difficile scoprire quale sia il vero fondamento della nostra fiducia. Spesso immaginiamo, e cerchiamo di pesuadercene, di appoggiarci su Dio quando, invece, abbiamo posto la fiducia in qualche sistema di nostra invenzione. Chi avesse udito Giacobbe pregare così: «Liberami dalle mani di mio fratello, dalle mani di Esaù: perché io ho paura di lui e temo che venga e mi dia addosso non risparmiando né madre né bambini», come avrebbe immaginato che Giacobbe potesse dire ancora «io lo placherò col dono che mi precede»? Aveva forse dimenticato la preghiera che aveva fatto? Faceva del dono un dio? Riponeva la fiducia negli animali piuttosto che in Dio a cui, proprio allora, aveva affidato la sua sorte? Queste domande vengono spontanee, per tutto ciò che ci è riferito qui di Giacobbe, e possiamo leggerne la risposta nello specchio del nostro cuore. Sarà lui ad insegnarci, non meno della storia di Giacobbe, come siamo disposti ad appoggiarci di più sui piani elaborati dalla nostra sapienza che su Dio; ma, in questo modo, non si ricava mai nulla di buono. Siamo spesso contentissimi di noi stessi quando i nostri espedienti sono stati accompagnati da preghiera o abbiamo adoperato tutti i mezzi consentiti, e chiesto a Dio di benedirli; ma in tali casi, le nostre preghiere non valgono molto di più dei nostri piani, dato che ci basiamo su essi piuttosto che su Dio. Bisogna che arriviamo al punto di porre fine a tutto ciò che è il prodotto dei nostro «io», perché Dio possa manifestarsi; e, perché possiamo farla finita con i nostri piani, bisogna che questo sia prima avvenuto con noi stessi, bisogna che impariamo a riconoscere che «ogni carne è come l’erba e tutta la sua grazia è come il fiore del campo» (Isaia 40:6).

Pedro

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