CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro della GENESI

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2011 20:27
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19/04/2011 20:22
 
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25.2 Giacobbe a Peniel

Nel capitolo di cui ci stiamo occupando, Giacobbe è condotto a questo. Dopo aver preso tutte le sue precauzioni la Parola ci dice: «Giacobbe rimase solo, e un uomo lottò con lui fino all’apparir dell’alba» (v. 24). Incomincia qui una nuova fase della storia di questo uomo notevole.

Per arrivare ad una esatta cognizione di noi stessi e delle nostre vie, è necessario che ci siamo trovati soli con Dio. Per conoscere il vero valore della nostra natura e delle sue invenzioni, bisogna che le pesiamo con la bilancia del santuario. Poco importa ciò che pensiamo di noi stessa o ciò che gli uomini possono pensare; l’importante è sapere ciò che ne pensa Dio; e, per saperlo, bisogna che siamo lasciati «soli», lontani dal mondo e dal nostro «io», lontani da qualunque pensiero, dai ragionamenti, dalle emozioni della natura, «soli» con Dio. «Giacobbe rimase solo, e un uomo lottò con lui». La Scrittura non ci dice, notiamolo bene, che Giacobbe lottò con un uomo, ma che un uomo lottò con lui. Sovente questo fatto è stato, erroneamente, presentato come un esempio dell’energia con la quale Giacobbe pregava. Dire che io lotto con un uomo o che un uomo lotta con me, sono due idee differenti; nel primo caso sono io che voglio ottenere qualcosa da un altro, nel secondo caso, invece, è un altro che vuole ottenere qualcosa da me. Dio lotta con Giacobbe per fargli sentire che non è altro che una debole e miserabile creatura; poi, vedendo che Giacobbe sostiene il combattimento contro di lui con tanta ostinazione, «gli toccò la commessura dell’anca e la commessura dell’anca di Giacobbe fu slogata».

Bisogna che la sentenza di morte sia scritta su ogni carne: bisogna aver afferrato la portata della croce di Cristo prima di poter camminare con Dio con fermezza e gioia. Abbiamo seguito Giacobbe attraverso tutti i sotterfugi e le attività del suo straordinario carattere; l’abbiamo visto arrangiarsi, fare dei piani per tutti i vent’anni in cui ha soggiornato presso Labano, ma soltanto quando è lasciato solo, si fa una giusta idea di quanto è debole e impotente. Essendo allora minata la sede della sua forza, impara a dire «non ti lascerò». Noti il lettore, che Giacobbe parla così soltanto quando l’articolazione dell’anca gli è stata lussata. Questo semplice fatto ci dà la chiave di tutta la scena. Se Dio lotta con Giacobbe è perché il suo scopo è di condurlo a questo punto. Per quanto nella preghiera abbia manifestato una certa potenza, vediamo che, subito dopo le parole di supplica rivolte a Dio, Giacobbe mette a nudo il segreto della sua fiducia, dicendo «io lo placherò col dono». Avrebbe parlato così se avesse compreso il significato della preghiera e cos’è la vera dipendenza da Dio? Certamente no. Iddio e la creatura debbono occupare, distintamente, ciascuno il proprio posto, e ciò si realizzerà nell’anima di chi conosce la santa realtà di una vita di fede. Ma, ahimè, è proprio a questo riguardo che pecchiamo, se si può su questo argomento, parlare degli altri! Nascondiamo la vera incredulità dei nostri cuori scaltri sotto la formula plausibile, apparentemente pia, che bisogna darsi da fare e ci illudiamo di rimetterci a Dio per la benedizione dei nostri mezzi. Ma, in realtà, è su questi che noi ci appoggiamo, non su Dio. Ci sia dato di capire quanto è falsa una simile via e di attaccarci a Dio solo, con più semplicità, affinché la nostra vita porti il carattere di un’elevata spiritualità che ci pone al di sopra delle circostanze che attraversiamo.

25.3 Giacobbe diventa Israele

Non è facile arrivare a riconoscere la nullità della creatura, a tal punto da poter dire «non ti lascerò andare prima che tu m’abbia benedetto» (v. 26). Dire questo con sincerità di cuore e vivere nella potenza del significato di quelle parole, è il segreto della vera forza. Giacobbe parlò così soltanto quando l’articolazione della sua anca fu lussata, non prima. Lottò a lungo prima di cedere, poiché era forte la sua fiducia nella carne. Ma Dio può piegare fin nella polvere il carattere più ostinato; può colpire le risorse della forza naturale e imprimervi la sentenza di morte; fino a quel momento non esiste potenza né presso Dio né presso gli uomini. Bisogna essere prima «deboli» per essere poi «forti». La «potenza di Cristo» si poserà su me in proporzione alla conoscenza che ho delle mie debolezze (2 Cor. 12:9). Dio non può apporre il suggello dell’approvazione sulla forza della natura dell’uomo o sulla sua saggezza o sulla sua gloria; bisogna che tutte queste cose «diminuiscano» perché «egli cresca». La natura non servirà mai da piedistallo per la potenza della grazia di Cristo; se ciò fosse possibile, la carne avrebbe di che gloriarsi davanti a Dio, ma sappiamo che questo non avverrà mai.

Ora, dal momento che la manifestazione della gloria, del nome o del carattere di Dio, è legata all’annientamento della natura, è evidente che l’anima non può gioire di questa manifestazione prima che la natura sia stata realmente messa da parte. È per questo che Giacobbe, benché invitato a dire il proprio nome, che significa «soppiantatore», non ottiene nessuna rivelazione circa il nome di chi ha lottato con lui e che l’ha abbattuto fin nella polvere. Egli riceve per sè il nome di «Israele», «principe», ed è già un notevole progresso; ma quando dice «deh, palesami il tuo nome», riceve la risposta: «perché mi chiedi il mio nome?». Dio rifiuta di rivelargli il suo nome, benché abbia indotto Giacobbe a dirgli la verità riguardo a se stesso e lo abbia, di conseguenza, benedetto. Quanti casi analoghi sono racchiusi negli annali della famiglia di Dio! L’«io» è messo a nudo in tutta la sua morale mostruosità; e ciò che Dio è, non è compreso praticamente neppure quando è venuto così vicino a noi e ci ha benedetti nella misura in cui ci siamo resi conto di ciò che siamo.

Giacobbe riceve il nuovo nome di «Israele» quando la giuntura dell’anca è stata colpita. Diviene un potente «principe» quando ha imparato e riconosciuto di non essere altro che un debole uomo. L’Eterno gli risponde, tuttavia, «perché mi chiedi il mio nome» e non gli rivela il nome di colui che aveva messo a nudo il vero nome e la vera condizione di Giacobbe.

Impariamo da questo che essere benedetti da Dio e ricevere, per mezzo dello Spirito, la rivelazione del suo carattere sono due cose diverse. «E lo benedisse quivi» ma non gli rivelò il suo nome.

C’è sempre una benedizione nell’essere spinti a conoscersi; questo ci pone su un cammino in cui siamo resi capaci di discernere più chiaramente ciò che Dio è per noi in ogni minimo particolare. Avvenne così a Giacobbe. Da quando l’articolazione della sua anca è stata colpita, egli si trovò in una condizione alla quale solo Dio poteva bastare. Un misero zoppo poteva fare ben poco; era vantaggioso per lui rimettersi in qualcuno che era onnipotente.

Per finire questo capitolo, si può notare che il libro di Giobbe è, in un certo senso, un commento di questa scena della storia di Giacobbe. Da un capo all’altro dei primi trentun capitoli Giobbe lotta coi suoi amici e difende la propria tesi contro tutti i loro argomenti; ma al cap. 32, Dio, servendosi di Elihu, entra in lotta con lui; e al cap. 38 l’affronta direttamente nella piena manifestazione della sua grandezza e della sua gloria e gli trae di bocca quelle ben note parole: «Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l’occhio mio t’ha veduto. Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere» (Giobbe 42:5-6).

Dio gli aveva colpito l’articolazione dell’anca! E notate l’espressione: «l’occhio mio t’ha veduto». Giobbe non dice soltanto «ho visto me stesso» ma «ho visto te!» Soltanto la visione di ciò che Dio è può produrre un reale pentimento e l’orrore di se stesso. Avverrà così al popolo d’Israele, la cui storia ha una grande analogia con quella di Giobbe, quand’essi «riguarderanno a Colui che hanno trafitto e ne faran cordoglio», allora Dio li benedirà e li ristorerà pienamente; ed essi comprenderanno il significato di questa parola: «È la tua perdizione, o Israele, l’essere contro di me, contro il tuo aiuto» (Osea 13:9).

Pedro

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