CRISTIANI   Nelle mani del Padre

Noi crediamo unicamente in Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio,
unica VIA, VERITA' e VITA e nostro unico SALVATORE.

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Note sul libro della GENESI

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2011 20:27
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19/04/2011 20:23
 
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  26. Capitolo 35: Giacobbe a Bethel

«Iddio disse a Giacobbe: levati, vattene a Bethel, dimora quivi». Queste parole confermano ciò di cui ci siamo ora occupati. Quando c’è una caduta o un declino spirituale, il Signore chiama l’anima a ritornare a lui; «Ricordati dunque donde sei caduto, e ravvediti e fa le opere di prima» (Apoc. 2:5). Bisogna che l’anima ritorni al punto più elevato della sua posizione, che sia ricondotta alla misura divina. Il Signore non dice «ricordati dove sei», ma «ricordati dell’alta posizione da cui sei caduto». Solo così si impara come ci si è sviati, come si è caduti in basso e come si può ritornare sui propri passi; e quando siamo così ricondotti alla gloriosa e santa misura di Dio, allora soltanto possiamo giudicare la gravità del male della nostra condizione scaduta. Che quantità spaventosa di male si era accumulata sulla famiglia di Giacobbe, senza che fosse giudicato, prima che l’anima di Giacobbe fosse risvegliata da questo appello: «sali a Bethel»! Non era certo a Sichem, in quell’atmosfera impregnata di elementi impuri, che Giacobbe poteva scoprire tutto quel male e discernere di quello il vero carattere. Ma, dal momento che Dio lo chiama a recarsi a Bethel, «Giacobbe disse alla sua famiglia e a tutti quelli ch’erano con lui: Togliete gli dèi stranieri che sono fra voi, purificatevi, e cambiatevi i vestiti; e leviamoci, andiamo a Bethel, ed io farò quivi un altare all’Iddio che mi esaudì nel giorno della mia angoscia, e che è stato con me nel viaggio che ho fatto» (v. 2-3).

Il solo ricordo della casa di Dio fa vibrare l’anima del patriarca e gli fa ripassare nella mente, in un attimo, la storia di vent’anni densi di vicissitudini. A Bethel, non a Sichem, aveva appreso chi era Dio; per questo bisogna che ritorni a Bethel e che edifichi là un altare, su un principio e con un nome assolutamente diversi da quello di Sichem. Quest’ultimo era connesso a ogni sorta di impurità e di idolatria. Giacobbe poteva parlare di Dio, dell’Iddio di Israele, in mezzo a cose incompatibili con la santità della casa di Dio.

È importante afferrare questo. Non vi è nulla che possa conservarci in una vita di separazione dal male, con fermezza e intelligenza, come la coscienza di ciò che è la «casa di Dio» e di ciò che si confà a questa casa. Se guardo a Dio solo in vista di me stesso non avrò mai una piena e divina intelligenza di ciò che deriva da un giusto apprezzamento della relazione esistente fra Dio e la sua casa. Vi sono persone che non fanno molto caso a trovarsi associate con qualcosa di impuro nel culto che rendono a Dio, ammesso che siano sincere e diritte di cuore. In altri termini, credono di poter adorare a Sichem e pensano che un altare chiamato «Dio, l’Iddio di Israele» vada bene e sia altrettanto elevato, come uno chiamato «Dio di Bethel». È questo un deplorevole errore e il lettore spirituale scoprirà subito l’immensa differenza morale che c’è fra la condizione di Giacobbe a Sichem e la sua condizione a Bethel. Ebbene, la stessa differenza esiste fra i due altari. Le nostre idee riguardo al culto risentono necessariamente del nostro stato spirituale e quel culto sarà povero e limitato, oppure intelligente ed elevato, in proporzione al modo con cui avremo saputo comprendere il carattere di Dio e alla relazione nella quale ci troviamo con lui. Il nome del nostro altare e il carattere del nostro culto esprimono ambedue la stessa idea. Il culto reso all’Iddio di Bethel è più elevato di quello reso all’Iddio di Israele, perché il primo è connesso ad un’idea di Dio più elevata del secondo, dove Dio, anziché essere riconosciuto come Dio della sua casa, figura come l’Iddio di un solo individuo.

Indubbiamente, quel nome di «Dio di Israele» è l’espressione di una meravigliosa grazia e l’anima non può che sentirsi felice quando considera il carattere di un tale Dio che entra in relazione con ciascuna delle pietre della sua casa, ciascuno dei membri del suo corpo, individualmente. Ogni pietra dell’edificio di Dio è una «pietra vivente» in quanto legata all’«Iddio vivente» e avente comunione con l’«Iddio vivente» per mezzo dello «Spirito della vita». Ma, per quanto tutto questo sia vero, Dio è anche, e soprattutto, l’Iddio della sua casa: e quando, con un’intelligenza spirituale più sviluppata, siamo resi capaci di considerarlo come tale, tutto il nostro culto ne riceve un carattere più elevato.

L’appello rivolto a Giacobbe perché ritorni a Bethel racchiude anche un altro insegnamento. Dio gli dice: «Levati, vattene a Bethel, dimora quivi, e fa’ un altare all’Iddio che ti apparve, quando fuggivi dinanzi al tuo fratello Esaù» (v. 1). Molto spesso è utile che ci sia fatto ricordare ciò che eravamo nel periodo della nostra vita in cui ci siamo trovati al livello più basso, come all’ultimo gradino di una scala. È così che Samuele ricorda a Saul il tempo in cui egli «si reputava piccolo» (Sam. 15:17); ed è necessario per tutti noi il ricordo di quando eravamo «piccoli ai nostri propri occhi». In quella posizione, il cuore riposa realmente in Dio. Più tardi crediamo di essere qualcosa e bisogna che il Signore ci faccia di nuovo sentire che non siamo nulla. All’inizio di una carriera di servizio o di testimonianza, quale sentimento ha l’anima della propria debolezza e incapacità e, di conseguenza, quale bisogno di appoggiarsi su Dio! Quante ferventi preghiere fa salire a lui per ottenere forza e soccorso! Poi, quando abbiamo lavorato per molto tempo, acquistiamo un’opinione migliore di noi stessi: pensiamo di poter camminare da soli o, almeno, non abbiamo più la stessa sensazione della nostra debolezza e non dipendiamo più, come prima, da Dio: allora il nostro servizio diventa povero, vuoto, verboso, privo di unzione e di potenza; non sgorga più dalla sorgente inesauribile dello Spirito, ma dai nostri miserabili pensieri.

Nei versetti 9-15 Dio rinnova la promessa a Giacobbe e gli conferma il nuovo nome di «principe», datogli da lui stesso in luogo di quello di «soppiantatore», e Giacobbe chiama ancora una volta quel luogo col nome di «Bethel».

Il versetto 18 ci dà un interessante esempio della differenza che c’è fra il giudizio della fede e quello della natura umana. Quest’ultima vede le cose attraverso la nebbia che la circonda, mentre la fede le vede alla luce della presenza e dei pensieri di Dio. E Rachele «come stava per rendere l’anima (perché morì) pose nome al bimbo Ben-oni, ma il padre lo chiamò Beniamino». La natura umana gli pone nome «figlio del mio dolore», ma la fede lo chiama «figlio della mia destra».

È sempre così: i pensieri della natura differiscono sempre da quelli della fede e noi dovremmo desiderare ardentemente che i nostri cuori siano diretti da questi.

Pedro

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